Catechesi 79-2005 26108

Mercoledì, 26 ottobre 1988

26108

1. Riprendiamo alcuni concetti, che la tradizione dei Padri ha tratto dalle fonti bibliche nel tentativo di spiegare le “imperscrutabili ricchezze” (
Ep 3,8) della redenzione.

Vi abbiamo già accennato nelle ultime catechesi, ma meritano di essere illustrati in modo più particolareggiato per la loro importanza teologica e spirituale.

2. Quando Gesù dice: “Il Figlio dell’uomo . . . non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,45), riassume in queste parole l’obiettivo essenziale della sua missione messianica: “dare la propria vita in riscatto”. È una missione redentrice. Lo è per l’umanità intera, perché dire “in riscatto per molti”, secondo il modo semitico di esprimere i pensieri, non esclude nessuno. Alla luce di tale valore redentivo era stata già vista la missione del Messia nel libro del profeta Isaia e particolarmente nei “canti del servo di Jahvé”: “Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui, per le sue piaghe noi siamo stati guariti” (Is 53,4-5).

3. Queste parole profetiche ci fanno comprendere meglio che cosa Gesù voglia dire quando parla del Figlio dell’uomo venuto “per dare la propria vita in riscatto per molti”. Egli intende dire che ha dato la propria vita “a nome” e in sostituzione dell’intera umanità per liberare tutti dal peccato. Questa “sostituzione” esclude qualsiasi partecipazione al peccato da parte del Redentore. Egli fu assolutamente innocente e santo. “Tu solus sanctus”! Dire che una persona ha subito un castigo al posto di un’altra implica evidentemente che essa non ha commesso la colpa. Nella sua sostituzione redentrice (“substitutio”) Cristo proprio a ragione della sua innocenza e santità “vale certamente quanto tutti” come scrive san Cirillo Alessandrino (S. Cyrilli Alexandrini “In Isaiam” 5, 1: PG 70,1176 “In 2 Cor” 5, 21: PG 74,945). Proprio perché era colui che “non commise peccato” (1P 2,22), egli poté prendere su di sé ciò che è effetto del peccato, cioé la sofferenza e la morte, dando al sacrificio della propria vita un reale valore e un perfetto significato redentivo.

4. Ciò che conferisce alla sostituzione il suo valore redentivo non è il fatto materiale che un innocente abbia subito il castigo meritato dai colpevoli e che così la giustizia sia stata in qualche modo soddisfatta (in realtà, in tale caso si dovrebbe parlare piuttosto di grave ingiustizia). Il valore redentivo viene invece dal fatto che Gesù innocente si è fatto per puro amore, solidale con i colpevoli ed ha trasformato così, dall’interno, la loro situazione. Infatti, quando una situazione catastrofica come quella provocata dal peccato viene assunta a favore dei peccatori per puro amore, allora questa situazione non sta più sotto il segno dell’opposizione a Dio, ma, al contrario, sotto quello della docilità all’amore che viene da Dio (cf. Ga 1,4), e diventa quindi sorgente di benedizione (Ga 3,13-14). Cristo, offrendo se stesso “in riscatto per molti”, ha attuato fino in fondo la sua solidarietà con l’uomo, con ogni uomo, con ogni peccatore. Lo manifesta l’Apostolo quando scrive: “L’amore di Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti” (2Co 5,14). Cristo dunque divenne solidale con ogni uomo nella morte, che è un effetto del peccato. Ma questa solidarietà non era in lui in nessun modo effetto del peccato; era invece un atto gratuito di purissimo amore. L’amore “indusse” Cristo a “dare la vita”, accettando la morte sulla croce. La sua solidarietà con l’uomo nella morte consiste, quindi, nel fatto che non soltanto egli è morto così come muore l’uomo - così come muore ogni uomo - ma che è morto per ogni uomo. In tal modo questa “sostituzione” significa la “sovrabbondanza” dell’amore, che permette di superare tutte le “carenze” o insufficienze dell’amore umano, tutte le negazioni e contrarietà collegate con il peccato dell’uomo in ogni dimensione interiore e storica - nella quale questo peccato ha gravato sul rapporto dell’uomo con Dio.

5. Tuttavia a questo punto andiamo oltre la misura puramente umana del “riscatto” che Cristo ha offerto “per tutti”. Nessun uomo, fosse pure il più santo, era in grado di prendere su di sé i peccati di tutti gli uomini e offrirsi in sacrificio “per tutti”. Solo Gesù Cristo ne era capace, perché, pur essendo vero uomo, era Dio-Figlio, della stessa sostanza del Padre. Il sacrificio della sua vita umana ha avuto per questo motivo un valore infinito. La sussistenza in Cristo della persona divina del Figlio, la quale supera e nello stesso tempo abbraccia tutte le persone umane, rende possibile il suo sacrifico redentivo “per tutti”. “Gesù Cristo valeva tutti noi” scrive san Cirillo Alessandrino (cf. S. Cyrilli Alexandrini “In Isaiam” 5, 1: PG 70,1176). La stessa trascendenza divina della persona di Cristo fa sì che egli possa “rappresentare” dinanzi al Padre tutti gli uomini. In questo senso si spiega il carattere “sostitutivo” della redenzione compiuta da Cristo: a nome di tutti e per tutti. “Sua sanctissima passione in ligno crucis nobis iustificationem meruit”, insegna il Concilio di Trento (Conc. Trid. Decretum “De Iustificatione”, cap. 7: Denz.-Schönm. DS 1529), sottolineando il valore meritorio del sacrificio di Cristo.

6. Qui va notato che questo merito è universale, cioè valevole per tutti gli uomini e per ciascun uomo, perché è fondato su di una rappresentatività universale, messa in luce dai testi che abbiamo visto sulla sostituzione di Cristo a tutti gli altri uomini nel sacrificio. Egli che “valeva quanto noi tutti”, come ha detto san Cirillo Alessandrino, poteva ben da solo soffrire per tutti (cf. S. Cyrilli Alexandrini “In Isaiam” 5, 1: PG 70,1176 “In 2 Cor” 5,21: PG 74,945). Tutto ciò era compreso nel disegno salvifico di Dio e nella vocazione messianica di Cristo.

7. Si tratta di una verità di fede, fondata su chiare e inequivocabili parole di Gesù, da lui ripetute anche al momento dell’istituzione dell’Eucaristia. Ce le trasmette san Paolo in un testo che viene considerato come il più antico su questo punto: “Questo è il mio corpo, che è (dato) per voi . . . Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue” (1Co 11,23). Con questo testo concordano i sinottici che parlano del corpo che “è dato” e del sangue che sarà “versato . . . in remissione dei peccati” (cf. Mc 14,22-24 Mt 26,26-28 Lc 22,19-20). Anche nella preghiera sacerdotale dell’ultima cena, Gesù dice: “Per loro io consacro me stesso, perché siano anche essi consacrati nella verità” (Jn 17,19). L’eco e in certo modo la precisazione del significato di queste parole di Gesù si trova nella prima lettera di san Giovanni: “Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati, non soltanto per i nostri peccati, ma anche per quelli di tutto il mondo” (1Jn 2,2). Come si vede san Giovanni ci offre l’interpretazione autentica degli altri testi sul valore sostitutivo del sacrificio di Cristo, nel senso della universalità della redenzione.

8. Questa verità della nostra fede non esclude, ma esige la partecipazione dell’uomo, di ogni uomo, al sacrificio di Cristo, la collaborazione con il Redentore. Se, come abbiamo detto sopra, nessun uomo poteva compiere la redenzione, offrendo un sacrificio sostitutivo “per i peccati di tutto il mondo” (cf. 1Jn 2,2), è altrettanto vero che ciascuno è chiamato a partecipare al sacrificio di Cristo, a collaborare con lui nell’opera della redenzione da lui compiuta. Lo dice esplicitamente l’apostolo Paolo quando scrive ai Colossesi: “Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo quello che manca ai patimenti di Cristo nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24). Lo stesso Apostolo scrive pure: “Sono stato crocifisso con Cristo” (Ga 2,20). Queste affermazioni non partono solo da un’esperienza e da un’interpretazione personale di Paolo, ma esprimono la verità sull’uomo, redento senza dubbio a prezzo della croce di Cristo, eppur contemporaneamente chiamato a “completare quel che manca nella propria carne” alle sofferenze di lui per la redenzione del mondo. Tutto ciò si situa nella logica dell’alleanza tra Dio e l’uomo e suppone in quest’ultimo la fede come via fondamentale della sua partecipazione alla salvezza derivante dal sacrificio di Gesù sulla croce.

9. Cristo stesso ha chiamato e chiama costantemente i suoi discepoli a questa partecipazione: “Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mc 8,34). Più di una volta egli parla anche delle persecuzioni che attendono i suoi discepoli: “Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me perseguiteranno anche voi” (Jn 15,20). “Voi piangerete e vi rattristerete, ma il mondo si rallegrerà. Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia” (Jn 16,20). Questi e altri testi del nuovo testamento hanno giustamente fondato la Tradizione teologica, spirituale, ascetica che fin dai tempi più antichi ha sostenuto la necessità e mostrato le vie della sequela di Cristo nella passione, non solo come imitazione delle sue virtù, ma anche come cooperazione alla redenzione universale con la partecipazione al suo sacrificio.

10. Ed ecco uno dei capisaldi della specifica spiritualità cristiana che siamo chiamati a riattivare nella nostra vita in forza dello stesso Battesimo che, al dire di san Paolo (cf. Rm 6,3-4), attua sacramentalmente la nostra morte e sepoltura immergendoci nel sacrificio salvifico di Cristo: se Cristo ha redento l’umanità, accettando la croce e la morte “per tutti”, questa solidarietà di Cristo con ogni uomo contiene in sé la chiamata alla cooperazione solidale con lui nell’opera della redenzione. Tale è l’eloquenza del Vangelo. Tale è soprattutto l’eloquenza della croce. Tale è l’importanza del Battesimo, che, come vedremo a suo tempo, già attua in sé la partecipazione dell’uomo, di ogni uomo, all’opera salvifica, nella quale è associato a Cristo da una stessa vocazione divina.

Ai pellegrini di lingua francese e al coro di Corfù in Grecia


Ai fedeli di espressione inglese



Ai pellegrini di lingua tedesca

A numerosi gruppi di lingua spagnola


Ai pellegrini provenienti dal Brasile

Ad un pellegrinaggio ungherese

È PRESENTE nell’odierna udienza generale un gruppo di pellegrini ungheresi, proveniente dalla città di Budapest, diocesi di Estergom.

Ai pellegrini di espressione polacca


Ai numerosi pellegrinaggi italiani

SOPRATTUTTO VOGLIO rivolgere il mio cordiale, cordialissimo saluto al Cardinale Giovanni Colombo, Arcivescovo emerito di Milano, oggi presente tra noi. Saluto poi i gruppi di lingua italiana, sempre numerosi.
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SALUTO IL CARDINALE Franjo Kuharic e i membri della Comunità Croata, i quali, insieme con i rappresentanti dell’Accademia Sistina e i cittadini di Grottammare sono venuti per ricordare il quarto centenario del pontificato di Sisto V, il Papa che ricostruì “ab imis” la bella chiesa di San Girolamo dei Croati in Via di Ripetta. Mi compiaccio per il loro proposito di studiare la vita di quel Pontefice, e la sua opera nel campo religioso, politico, sociale, culturale.
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SALUTO POI I FEDELI della parrocchia romana di S. Lucia, guidata dal parroco, nel 50° anniversario della fondazione della parrocchia.

Sono presenti, con loro, gli alunni della Scuola delle Suore Orsoline dell’Immacolata. Grazie, carissimi, per questa visita, che mi ricorda l’incontro pastorale avuto con voi nello scorso mese di gennaio.
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IL MIO PENSIERO va poi ai fedeli e agli sbandieratori della parrocchia di Nostra Signora della Misericordia di Manciano, in diocesi di Arezzo, come pure ai giovani che si recheranno nella parrocchia amica dei Santi Angeli Custodi di Valencia in Venezuela, e benedico volentieri l’immagine della Vergine che essi recheranno a quella comunità particolarmente povera.
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BENEDICO ALTRESÌ la statua lignea di San Massimiliano Kolbe portata dai fedeli di Alatri, come anche il simulacro della Vergine Immacolata, recato dai fedeli di San Nicolò in Tortorici (Messina).
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SALUTO, INFINE, gli studenti premiati per la loro applicazione dalla Federazione dei Maestri del Lavoro e dalla Federazione dei Cavalieri del Lavoro. Insieme con loro saluto anche gli Avieri della caserma Romagnoli di Roma, accompagnati dal loro cappellano militare.

A tutti l’augurio di ogni bene e la mia Benedizione Apostolica.

Ai giovani, agli ammalati, agli sposi novelli

A VOI, CARISSIMI Giovani, Ammalati e Sposi Novelli, rivolgo in modo particolare il mio saluto cordiale e affettuoso.

Sono molto lieto della vostra presenza, che è segno di viva fede e di sentita comunione ecclesiale, e vi ringrazio.

In questo mercoledì, che è l’ultimo del mese di Ottobre, dedicato in modo speciale alla devozione del Rosario, tutti esorto a continuare con amore e fedeltà nella pia pratica mariana, che eleva la nostra esistenza, illuminandola e rasserenandola. E poiché questo mese è caratterizzato anche dal pensiero e dall’impegno per le Missioni, vi chiedo di pregare per il grande e inderogabile compito dell’evangelizzazione, convinti che la Chiesa è per sua stessa natura “missionaria”, e che ogni cristiano deve essere apostolo e testimone della propria fede in Cristo Rivelatore e Redentore! La Benedizione Apostolica accompagni tutti voi, carissimi Giovani, carissimi Ammalati, come anche voi carissimi Sposi Novelli nella vostra vita matrimoniale e familiare.

L’invito ad offrire aiuto ai fratelli e alle sorelle dell’America Centrale e Meridionale e dell’arcipelago delle Filippine vittime di terribili uragani è rivolto dal Papa a tutti i cattolici, durante l’udienza generale di questa mattina. Esprimendo “fiducia nel senso di solidarietà della comunità internazionale” e la propria vicinanza alle popolazioni tanto duramente provate, il Santo Padre pronuncia le seguenti parole.

Notizie allarmanti sono giunte dall’America Centrale e Meridionale, ove un terribile uragano sta ancora infuriando. Anche in Asia l’arcipelago delle Filippine è stato investito da una tempesta ciclonica di forte intensità. Nell’un caso e nell’altro si parla di numerose vittime e di gravissimi danni.

Mentre invito tutti i presenti ad unirsi a me nella preghiera per quelle popolazioni tanto duramente provate, esprimo fiducia nel senso di solidarietà della comunità internazionale, che non mancherà di intervenire con tempestive forme di aiuto presso i governi dei Paesi colpiti. Esorto, al tempo stesso, i fedeli cattolici ad offrire il proprio contributo attraverso i loro Organismi caritativi, in favore di quei fratelli e sorelle in difficoltà, ai quali in questo momento mi sento particolarmente vicino.




Mercoledì, 2 novembre 1988

2118

Cari fratelli e sorelle.

1. La ricorrenza liturgica di oggi, 2 novembre, ci orienta verso pensieri di eternità. Essa ci apre dinanzi la prospettiva di quel “nuovo cielo” e di quella “nuova terra” (
Ap 21,1), che saranno la “dimora di Dio con gli uomini” (Ap 21,3). Allora Dio “tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate” (Ap 21,4).

Questa prospettiva è già realtà vissuta per l’immensa schiera dei santi che in cielo godono della visione beatificante di Dio. Ci siamo soffermati ieri a contemplarne la gloria, rallegrandoci nella speranza di poter un giorno condividere con loro la stessa gioia, memori della promessa di Gesù: “Nella casa del Padre mio vi sono molti posti . . . Vado a preparavi un posto” (Jn 14,2).

Radica in questa certezza la serenità del cristiano di fronte alla morte. Essa non deriva da una specie di insensibilità o di apatica rassegnazione al dato di fatto, ma dalla convinzione che la morte non ha nel destino umano - contrariamente a quanto sembra - l’ultima parola. La morte può e deve essere vinta dalla vita. La prospettiva ultima, la speranza per il cristiano che vive in grazia di Dio non è la morte, ma la vita. E la vita eterna, come dice la Scrittura: vale a dire una partecipazione piena e indefettibile, oltre i confini della vita presente ed oltre la morte, alla vita stessa infinita di Dio.

2. L’odierna Commemorazione di Tutti i Fedeli Defunti ci porta logicamente a meditare la morte, su questo fatto, misterioso e sconvolgente, che tutti ben conosciamo, ma che a volte forse ci sforziamo di rimuovere dall’orizzonte della nostra coscienza come un pensiero importuno e fastidioso, credendo di condurre in tal modo una vita più serena. Capita così che persino in certe circostanze - per esempio certe malattie gravi - per le quali il pensiero della morte viene spontaneo, si cerchi invece di allontanarlo da noi o dagli altri, credendo così forse di essere pietosi e delicati. Dovremmo forse chiederci, anche noi cristiani, se e come e quanto sappiamo pensare alla morte. E come sappiamo parlare della morte.

Eppure, una delle verità fondamentali del nostro Credo non è forse una certa concezione della morte? Non offre forse la nostra fede una luce decisiva - ed estremamente consolante - circa il significato e - potremmo dire - il valore della morte? Infatti, è proprio così, cari fratelli e sorelle: per noi cristiani, la morte è un valore. È, sì, vero che la morte, per noi cristiani, è e resta un fatto negativo, al quale la nostra natura si ribella; eppure, come sappiamo, Cristo ha saputo fare della morte un atto di offerta, un atto di amore, un atto di riscatto e di liberazione dal peccato e dalla morte stessa. Accettando cristianamente la morte noi vinciamo - e per sempre - la morte.

3. Che cosa chiediamo, cari fratelli, per i nostri defunti? Che cosa speriamo? La loro liberazione da ogni male, sia della colpa come della sofferenza. È la speranza ispirata dalla indistruttibile parola di Cristo e dal trascendente messaggio della Sacra Scrittura. Il cristianesimo è vittoria finale e certa su ogni forma di male: sul peccato, innanzitutto, e, “nell’ultimo giorno”, sulla morte e su ogni sofferenza.

Quaggiù la nostra liberazione inizia con la libertà dal peccato, che è la cosa fondamentale e la condizione per tutto il resto. La sofferenza rimane, come mezzo di espiazione e di riscatto. Ma, se moriamo in grazia di Dio, sappiamo con certezza di entrare nella vita e nella beatitudine e che la nostra anima riassumerà, un giorno, quel corpo che è stato disfatto dalla morte, perché anch’esso partecipi, in qualche modo, della beata visione del paradiso.

4. “Il Signore è mia luce e mia salvezza,
di chi avrò paura?
Il Signore è difesa della mia vita,
di chi avrò timore?
Una cosa ho chiesto al Signore,
questa solo io cerco:
abitare nella casa del Signore
tutti i giorni della mia vita” (Ps 27,1 Ps 27,4 [26], 1. 4).

La vita di quaggiù non è un cammino verso la morte, ma verso la vita, verso la luce, verso il Signore. La morte a cominciare da quella del peccato, può e deve essere vinta.

Preghiamo per i nostri fratelli e le nostre sorelle che ci hanno preceduto nel cammino di quaggiù, combattendo la “buona battaglia” della fede, e chiediamo per loro: “L’eterno riposo dona loro, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua”.

Così li ricordiamo perché siano nel riposo, siano nella pace. Perché possano godere i frutti delle loro fatiche e delle loro rinunce. Perché le loro sofferenze non siano state vane. Perché godano ciò che hanno desiderato: “Abitare nella casa del Signore tutti i giorni della vita”.

Con la mia benedizione.

Ai fedeli di lingua francese


Ai pellegrini di espressione inglese

Ai gruppi di fedeli di espressione spagnola

Ai pellegrini di espressione polacca

Ai numerosi gruppi italiani

DESIDERO ORA rivolgere un cordiale saluto e benvenuto ai partecipanti al Convegno internazionale di musica religiosa popolare, provenienti da dieci nazioni per confrontarsi e riflettere sulle diverse esperienze musicali-religiose del Popolo di Dio in rapporto all’evangelizzazione, alla liturgia ed alle comunicazioni di massa.

Carissimi, mi compiaccio molto per questa iniziativa e mi auguro che essa possa produrre ricchi risultati per quanto concerne una migliore comprensione dell’arte musicale come mezzo di elevazione dello spirito e come strumento privilegiato della stessa lode divina e dell’annuncio del messaggio della salvezza.
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UN SALUTO CORDIALE rivolgo anche al gruppo di Religiose Missionarie del Sacro Cuore di Gesù, provenienti da diverse Nazioni extraeuropee, le quali hanno terminato un corso improntato alla spiritualità della Fondatrice, la Madre Cabrini, splendido esempio di santità femminile per il nostro tempo. Mi congratulo, care Sorelle per il vostro incontro, e mi auguro che possiate tornare nelle vostre Comunità e tra la vostra gente con un nuovo e più convinto fervore missionario.
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UN CARO SALUTO anche ai componenti il corpo musicale “Città di Mariano Comense”, in provincia di Como, giunti insieme con i familiari per allietare il nostro incontro con alcuni brani musicali. Vi ringrazio, cari fratelli, per la vostra presenza e mi congratulo con voi per la vostra attività artistica, alla quale auguro sempre confortanti successi.

A tutti imparto di gran cuore la mia Benedizione.

Ai giovani, agli ammalati, agli sposi novelli

Desidero ora rivolgere un caro saluto ai gruppi dei giovani, dei malati e degli sposi novelli

L’ODIERNA RICORRENZA liturgica offre a ciascuno di voi, per motivi diversi, salutari spunti di riflessione e di profitto spirituale. Per voi giovani, il pensiero dei cari defunti dà alla vostra giovinezza un significato profondo e sostanzioso, la allontana da quella frivolezza che è un pericolo della vostra età, e le dà il suo vero valore, che è quello di essere preparazione serena e responsabile al compimento di quella vocazione alla vita eterna, alla quale da Dio tutti siete chiamati. A voi, cari malati, il pensiero dei fratelli defunti ricorda la speranza consolante della vittoria sulla sofferenza. Per voi, infine, cari sposi novelli, ricordare i vostri cari defunti significa ricordare che il vostro amore non può chiudersi nell’ambito delle gioie o degli interessi di quaggiù, ma che esso è fatto per generare una vita umana che deve aprirsi alla vita eterna.

Con affetto sono vicino a tutti voi, e tutti vi benedico di cuore.




Mercoledì, 9 novembre 1988

9118

“Se il chicco di grano . . . muore, produce molto frutto” (
Jn 12,24).

1. La redenzione compiuta da Cristo a prezzo della passione e della morte di croce, è un avvenimento decisivo e determinante nella storia dell’umanità, non soltanto perché compie il supremo disegno divino di giustizia e di misericordia, ma anche perché svela alla coscienza dell’uomo un nuovo significato della sofferenza. Sappiamo che non c’è problema che gravi più di questo sull’uomo, anche e soprattutto nel suo rapporto con Dio. Sappiamo che dalla soluzione del problema della sofferenza è condizionato il valore dell’esistenza dell’uomo sulla terra. Sappiamo che in certa misura esso coincide col problema del male, la cui presenza nel mondo è così difficile accettare.

La croce di Cristo - la passione - getta su questo problema una luce completamente nuova, conferendo un altro senso alla sofferenza umana in generale.

2. Nell’antico testamento la sofferenza viene, tutto sommato, considerata come pena che l’uomo deve subire, da parte di Dio giusto, per i suoi peccati. Tuttavia, rimanendo nell’ambito di un tale orizzonte di pensiero, fondato su di una iniziale rivelazione divina, l’uomo si trova in difficoltà nel render ragione della sofferenza di chi non ha colpa, diciamo pure dell’innocente. Problema tremendo, la cui espressione “classica” si trova nel libro di Giobbe. Va aggiunto però che nel libro di Isaia il problema è già visto in una luce nuova, quando la figura del servo di Jahvè sembra costituire una preparazione particolarmente significativa ed efficace in rapporto al mistero pasquale, nel cui centro verrà a trovar posto, accanto all’“uomo dei dolori” Cristo, l’uomo sofferente di tutti i tempi e di tutti i popoli.

Il Cristo che soffre è, come ha cantato un moderno poeta, “il santo che soffre”, l’innocente che soffre, e proprio per questo la sua sofferenza ha una profondità ben maggiore in rapporto a quella di tutti gli altri uomini, anche di tutti i Giobbe, ossia di tutti coloro che nel mondo soffrono senza propria colpa. Perché Cristo è l’unico che veramente è senza peccato, e che, anzi, non può neppur peccare.

È quindi colui - l’unico - che assolutamente non merita la sofferenza. Eppure è anche colui che l’ha accettata nel modo più pieno e risoluto, l’ha accettata volontariamente e con amore. Ciò significa quel suo desiderio, e quasi quella sua tensione interiore di bere totalmente il calice del dolore (cf. Jn 18,11), e questo “per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo”, come spiega l’apostolo Giovanni (1Jn 2,2). In tale desiderio, che si comunica anche ad un’anima senza colpa, si trova la radice della redenzione del mondo mediante la croce. La potenza redentrice della sofferenza sta nell’amore.

3. E così, ad opera di Cristo, cambia radicalmente il senso della sofferenza. Non è più sufficiente vedere in essa una punizione per i peccati. È necessario scorgervi la potenza redentrice, salvifica dell’amore. Il male della sofferenza, nel mistero della redenzione di Cristo, viene superato e, in ogni caso, trasformato: esso diventa la forza per la liberazione dal male, per la vittoria del bene. Ogni sofferenza umana, unita a quella di Cristo, completa “quello che manca ai patimenti di Cristo nella persona che soffre, a favore del suo corpo” (cf. Col 1,24): e il corpo è la Chiesa quale universale comunità salvifica.

4. Nel suo insegnamento che si suol dire pre-pasquale, Gesù fece conoscere più di una volta che il concetto della sofferenza, intesa esclusivamente come pena per il peccato, è insufficiente e perfino improprio. Così, quando gli riferirono circa alcuni galilei “il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici”, Gesù pose la questione: “Credete che quei galilei fossero più peccatori di tutti i galilei, per aver subito tale sorte? . . . O quei diciotto sopra i quali rovinò la torre di Siloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme?” (Lc 13,1-2 Lc 13,4). Gesù qui mette chiaramente in questione un tale modo di pensare, diffuso e comunemente accettato in quel tempo, e fa comprendere che la “disgrazia” che porta sofferenza non può essere intesa esclusivamente come una punizione per i peccati personali. “No, vi dico” - dichiara Gesù, e aggiunge: “Ma se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo” (Lc 13,3-4). Nel contesto, confrontando queste parole con quelle precedenti, è facile scoprire che Gesù intende sottolineare la necessità di evitare il peccato, perché questo è il vero male, il male in se stesso e, stante la solidarietà che lega fra loro gli esseri umani, la radice ultima di ogni sofferenza. Non basta evitare il peccato soltanto per paura della punizione che può derivarne a chi lo commette. Occorre veramente “convertirsi” al bene, così che la legge della solidarietà possa invertire la sua efficacia e sviluppare, grazie alla comunione con la sofferenza di Cristo, un influsso positivo sugli altri membri della famiglia umana.

5. In tale senso suonano le parole pronunziate da Gesù mentre guariva un cieco nato. Quando i discepoli gli chiesero: “Rabbi, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?”, Gesù rispose: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio” (Jn 9,1-3). Dando la vista al cieco, Gesù fece conoscere le “opere di Dio”, che dovevano rivelarsi in quell’uomo handicappato, a vantaggio di lui e di quanti sarebbero venuti a conoscenza dell’evento. La guarigione miracolosa del cieco fu un “segno” che condusse il guarito a credere in Cristo e introdusse nell’animo di altri un salutare germe di inquietudine (cf. Jn 9,16). Nella professione di fede del miracolato si manifestò l’essenziale “opera di Dio”, il dono salvifico che egli ricevette insieme al dono di vedere: “Tu credi nel Figlio dell’uomo? . . . E chi è, Signore, perché io creda in lui? . . . Tu l’hai visto: colui che parla con te è proprio lui . . . Io credo Signore!” (Jn 9,35-38).

6. Sullo sfondo di quest’avvenimento intravediamo qualche aspetto della verità del dolore alla luce della croce. In realtà, un giudizio che veda la sofferenza esclusivamente come punizione del peccato, va contro l’amore dell’uomo. È quanto appare già nel caso degli interlocutori di Giobbe, che lo accusano sulla base di argomenti desunti da una concezione della giustizia priva di ogni apertura sull’amore (cf. Gb Jb 4 ss). Lo si vede ancor meglio nel caso del cieco nato: “Chi ha peccato, lui, o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?” (Jn 9,2). È come un puntare il dito contro qualcuno. È un sentenziare che passa dalla sofferenza vista come tormento fisico, a quella intesa come castigo per il peccato: qualcuno in quel caso deve aver peccato, l’interessato o i suoi genitori. È una stigmatizzazione morale: soffre, perciò deve essere stato colpevole!

Per porre fine a questo modo meschino e ingiusto di pensare, era necessario che si rivelasse nella sua radicalità il mistero della sofferenza dell’Innocente, del Santo, dell’“Uomo dei dolori”! Da quando Cristo ha scelto la croce ed è morto Sul Golgota, tutti coloro che soffrono, particolarmente quelli che soffrono senza colpa, possono incontrarsi col volto del “Santo che soffre”, e trovare nella sua passione la piena verità sulla sofferenza, il suo senso pieno, la sua importanza.

7. Alla luce di questa verità, tutti quelli che soffrono possono sentirsi chiamati a partecipare all’opera della redenzione compiuta per mezzo della croce. Partecipare alla croce di Cristo vuol dire credere nella potenza salvifica del sacrificio che ogni credente può offrire insieme al Redentore. Allora la sofferenza viene liberata dall’ombra dell’assurdità che sembra ricoprirla, e acquista una dimensione profonda, rivela il suo significato e valore creativo. Allora si direbbe che cambia lo scenario dell’esistenza, da cui si allontana sempre più la potenza distruttiva del male, proprio perché la sofferenza porta i suoi frutti copiosi. Gesù stesso ce lo rivela e promette, quando dice: “È giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Jn 12,23-24). Dalla croce alla gloria!

8. Un altro aspetto della verità della sofferenza occorre mettere in luce con l’aiuto del Vangelo. Ci dice Matteo che “Gesù andava attorno . . . predicando il vangelo del Regno e curando ogni malattia e infermità” (Mt 9,35). A sua volta Luca narra che quando interrogarono Gesù sul giusto significato del comandamento dell’amore, egli rispose con la parabola del buon samaritano (cf. Lc 10,30-37). Da questi testi si deduce che, secondo Gesù, la sofferenza deve incitare in modo particolare all’amore del prossimo e all’impegno nel rendergli i servizi necessari. Un tale amore e tali servizi, svolti in ogni forma possibile, costituiscono un fondamentale valore morale, che “accompagna” la sofferenza. E anzi Gesù, parlando dell’ultimo giudizio, ha messo in particolare rilievo il concetto che ogni opera di amore compiuta a favore dell’uomo sofferente è rivolta al Redentore stesso: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi” (Mt 25,35-36). Su queste parole si basa tutta l’etica cristiana dei servizi, anche sociali, e la definitiva valorizzazione della sofferenza accettata alla luce della croce.

Non potrebbe trarsi di qui la risposta che anche oggi l’umanità attende? Essa si può ricevere soltanto da Cristo crocifisso, “il santo che soffre”, il quale può penetrare nel cuore stesso dei più tormentosi problemi umani, perché sta già accanto a tutti coloro che soffrono e chiedono a lui l’infusione di una nuova speranza.

Ai fedeli di espressione francese

Chers Frères et Soeurs,

Ai pellegrini di lingua inglese


Ai numerosi fedeli tedeschi

Ai fedeli di lingua spagnola

Ai connazionali polacchi

Ai pellegrini italiani

VADA ORA un particolare saluto ai pellegrini di lingua italiana presenti all’Udienza. Desidero ricordare in special modo le Religiose della Congregazione delle Suore della Provvidenza, convenute a Roma per un corso di formazione permanente.

Questa sosta nella Città degli Apostoli Pietro e Paolo - centro della comunione cattolica, come la Festività odierna della Dedicazione della Basilica Lateranense sottolinea - valga ad approfondire in voi, care Sorelle, e in tutti i presenti il senso vivo dell’universalità ed unità della Chiesa, spingendovi ad un rinnovato proposito di adesione senza riserve alla fede trasmessa dagli Apostoli e qui illustrata dalla testimonianza di tanti Martiri e Santi. A tutti la mia Benedizione.

Ai giovani, agli ammalati, agli sposi novelli

MI RIVOLGO ora, ai giovani, agli sposi novelli e agli ammalati presenti, tra i quali un gruppo di laringectoniffiti dell’Ospedale di Lucca. A questi soprattutto assicuro la mia preghiera e la mia benevolenza.

Oggi è il giorno in cui ricordiamo la Festività Liturgica della Dedicazione della Basilica di S. Giovanni in Laterano cattedrale di Roma, alla quale sono spiritualmente unite le cattedrali di tutte le diocesi; desidero perciò invitarvi a sentirvi sempre parte viva delle vostre comunità cristiane, mantenendo sempre profondi vincoli di comunione con i Sacerdoti delle vostre Chiese e favorendo l’unione delle vostre diocesi con il Vescovo di Roma. A tale scopo il Signore vi aiuti con la sua grazia e vi conceda i doni richiesti dal vostro stato di vita e dalle situazioni in cui siete immersi. Vi benedico di cuore.





Catechesi 79-2005 26108