Catechesi 79-2005 16118

Mercoledì, 16 novembre 1988

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1. Tutto ciò che Gesù ha insegnato e fatto durante la sua vita mortale raggiunge il culmine della verità e della santità sulla croce. Le parole che Gesù allora pronunciò costituiscono il suo supremo e definitivo messaggio e, nello stesso tempo, la conferma di una vita santa, conclusa col dono totale di se stesso, in ubbidienza al Padre, per la salvezza del mondo. Quelle parole, raccolte da sua Madre e dai discepoli presenti sul Calvario, sono state consegnate alle prime comunità cristiane e a tutte le generazioni future, perché illuminassero il significato dell’opera redentrice di Gesù e ispirassero i suoi seguaci durante la loro vita e nel momento della morte. Meditiamo anche noi quelle parole, come hanno fatto tanti cristiani, in tutti i tempi.

2. La prima scoperta che facciamo rileggendole, è che si trova in esse un messaggio di perdono. “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (
Lc 23,34): secondo la narrazione di Luca, questa è la prima parola pronunciata da Gesù sulla croce. Chiediamoci subito: non è forse la parola che avevamo bisogno di sentir pronunciare su di noi?

Ma in quelle condizioni di ambiente, dopo quegli avvenimenti, dinanzi a quegli uomini rei di averne chiesto la condanna e di avere tanto infierito contro di lui, chi avrebbe immaginato che quella parola sarebbe uscita dalle labbra di Gesù? Eppure il Vangelo ci dà questa certezza: dall’alto della croce è risonata la parola “perdono”!

3. Cogliamo gli aspetti fondamentali di quel messaggio di perdono.

Gesù non solo perdona, ma chiede il perdono del Padre per coloro che lo hanno messo a morte, e quindi anche per noi tutti. È il segno della sincerità totale del perdono di Cristo e dell’amore da cui deriva. È un fatto nuovo nella storia, anche in quella dell’alleanza. Nell’antico testamento leggiamo tanti testi dei salmisti che avevano chiesto la vendetta o il castigo del Signore per i loro nemici: testi che nella preghiera cristiana, anche liturgica, si ripetono non senza sentire il bisogno di interpretarli adeguandoli all’insegnamento e all’esempio di Gesù, che ha amato anche i nemici. Lo stesso può dirsi di certe espressioni del profeta Geremia (Jr 11,20 Jr 20,12 Jr 15,15), e dei martiri giudei nel libro dei Maccabei (cf. 2M 7,9 2M 7,14 2M 7,17 2M 7,19). Gesù ribalta quella posizione al cospetto di Dio e pronuncia tutt’altre parole. Egli aveva ricordato a chi gli rimproverava la sua frequentazione dei “peccatori”, che già nell’antico testamento, secondo la parola ispirata, Dio “vuole misericordia” (cf. Mt 9,13).

4. Si noti inoltre che Gesù perdona immediatamente, anche se l’ostilità degli avversari continua a manifestarsi. Il perdono è la sua sola risposta alla loro ostilità. E il suo perdono è rivolto a tutti coloro che, umanamente parlando, sono responsabili della sua morte, non soltanto agli esecutori, i soldati, ma a tutti coloro, vicini e lontani, palesi e nascosti, che sono all’origine del procedimento che ha portato alla sua condanna e alla sua crocifissione. Per tutti loro chiede perdono e così li difende davanti al Padre, sicché l’apostolo Giovanni, dopo aver raccomandato ai cristiani di non peccare, può aggiungere: “Ma se qualcuno pecca, noi abbiamo come intercessore presso il Padre Gesù Cristo, il giusto. Egli è la propiziazione per i nostri peccati, e non solo per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo” (1Jn 2,1-2). In questa linea è anche l’apostolo Pietro, il quale, nel discorso al popolo di Gerusalemme, estende a tutti la scusa dell’“ignoranza” (Ac 3,17 cf. Ac 23,34) e l’offerta del perdono (Ac 3,19). È consolante per noi tutti sapere che secondo la lettera agli Ebrei Cristo crocifisso, eterno sacerdote, rimane per sempre colui che intercede in favore dei peccatori che mediante lui si avvicinano a Dio (cf. He 7,25).

Egli è l’Intercessore, e anche l’Avvocato, il “Paraclito” (cf. 1Jn 2,1), che sulla croce, invece di denunciare la colpevolezza dei suoi crocifissori, l’attenua dicendo che non si rendono conto di quello che fanno. È benevolenza di giudizio; ma anche conformità alla verità reale, quella che lui solo può vedere in quei suoi avversari e in tutti i peccatori: molti possono essere meno colpevoli di quanto appaia o si pensi, e proprio per questo Gesù ha insegnato a “non giudicare” (cf. Mt 7,11): ora, sul Calvario, egli si fa intercessore e difensore dei peccatori davanti al Padre.

5. Questo perdono dalla croce è l’immagine e il principio di quel perdono, che Cristo vuole portare a tutta l’umanità mediante il suo sacrificio. Per meritare questo perdono e, in positivo, la grazia che purifica e dà la vita divina, Gesù, ha fatto l’offerta eroica di se stesso per tutta l’umanità. Tutti gli uomini, ciascuno nella concretezza del suo io, del suo bene e del suo male, sono dunque compresi potenzialmente e, anzi, si direbbe intenzionalmente nella preghiera di Gesù al Padre: “Perdona loro”. Anche per noi vale certamente quella richiesta di clemenza, e quasi di comprensione celeste: “perché non sanno quello che fanno”. Forse nessun peccatore sfugge del tutto a quell’assenza di conoscenza e quindi al raggio di quella implorazione di perdono che emana dal cuore tenerissimo del Cristo morente sulla croce. Questo, tuttavia, non deve spingere nessuno a prendersi gioco della ricchezza di bontà, di tolleranza e di pazienza di Dio, fino a non riconoscere che tale bontà lo invita alla conversione (cf. Rm 2,4). Con la durezza del suo cuore impenitente egli accumulerebbe collera su di sé per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio (cf. Rm 2,5). Eppure anche per lui il Cristo morente chiede al Padre perdono, fosse pur necessario un miracolo per la sua conversione. Nemmeno lui, infatti, sa quello che fa!

6. È interessante costatare che, già nell’ambito delle prime comunità cristiane, il messaggio del perdono è stato accolto e seguito dai primi martiri della fede, che hanno ripetuto la preghiera di Gesù al Padre quasi con le stesse sue parole. Così fece il protomartire santo Stefano, il quale, secondo gli Atti degli Apostoli, al momento della sua morte chiese: “Signore, non imputare loro questo peccato” (Ac 7,60). Anche san Giacomo, al dire di Eusebio di Cesarea, riprese i termini di Gesù per una domanda di perdono, durante il suo martirio (Eusebii Caesariensis “Historia Eccles.”, II, 23, 16). Del resto, ciò costituiva l’applicazione dell’insegnamento del Maestro, che aveva raccomandato: “Pregate per i vostri persecutori” (Mt 5,44). All’insegnamento Gesù aveva unito l’esempio nel momento supremo della sua vita, e i suoi primi seguaci si conformavano a lui nel perdonare e nel chiedere il perdono divino per i loro persecutori.

7. Ma essi avevano presente anche un altro fatto concreto avvenuto sul Calvario, e che s’integra nel messaggio della croce come messaggio di perdono. Dice Gesù a un malfattore crocifisso con lui: “In verità ti dico: oggi sarai con me nel paradiso” (Lc 23,43). È un fatto impressionante, nel quale vediamo in azione tutte le dimensioni dell’opera salvifica, che si concretizza nel perdono. Quel malfattore aveva riconosciuto la sua colpevolezza, ammonendo il suo complice e compagno di supplizio, che scherniva Gesù: “Noi siamo in croce giustamente, perché riceviamo la giusta pena per le nostre azioni”; e aveva chiesto a Gesù di poter partecipare al regno, da lui annunciato: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno” (Lc 23,42). Egli trovava ingiusta la condanna di Gesù: “Non ha fatto niente di male”. Non condivideva quindi le imprecazioni del suo compagno di pena (“Salva te stesso,e noi” [ Lc 23, 39]), e degli altri che, come i capi del popolo, dicevano: “Ha salvato gli altri, salvi se stesso se è il Cristo di Dio, l’eletto” (Lc 23,35), né gli insulti dei soldati: “Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso” (Lc 23,37).

Il malfattore pertanto, chiedendo a Gesù di ricordarsi di lui, professa la sua fede nel Redentore; nel momento di morire, non solo accetta la sua morte come giusta pena del male compiuto, ma si rivolge a Gesù per dirgli che ripone in lui tutta la sua speranza.

Questa è la spiegazione più ovvia di quell’episodio narrato da Luca, nel quale l’elemento psicologico - cioè la trasformazione dei sentimenti del malfattore -, se ha come causa immediata l’impressione ricevuta dall’esempio di Gesù innocente che soffre e muore perdonando, ha però la sua vera radice misteriosa nella grazia del Redentore, che “converte” quest’uomo e gli accorda il perdono divino. La risposta di Gesù, infatti, è immediata. Egli promette al malfattore, pentito e “convertito”, il paradiso, in sua compagnia, per il giorno stesso. Si tratta dunque di un perdono integrale: colui che aveva commesso crimini e rapine - e dunque peccati - diventa un santo all’ultimo momento della sua vita.

Si direbbe che in quel testo di Luca è documentata la prima canonizzazione della storia, compiuta da Gesù in favore di un malfattore che si rivolge a lui in quel momento drammatico. Ciò mostra che gli uomini possono ottenere, grazie alla croce di Cristo, il perdono di tutte le colpe e anche di tutta una vita cattiva, e che possono ottenerlo anche all’ultimo istante, se si arrendono alla grazia del Redentore che li converte e salva.

Le parole di Gesù al malfattore pentito contengono anche la promessa della felicità perfetta: “Oggi sarai con me in paradiso”. Il sacrificio redentore ottiene, infatti, per gli uomini la beatitudine eterna. È un dono di salvezza proporzionato certamente al valore del sacrificio, nonostante la sproporzione che sembra esistere tra la semplice domanda del malfattore e la grandezza della ricompensa. Il superamento di questa sproporzione è operato dal sacrificio di Cristo, che ha meritato la beatitudine celeste col valore infinito della sua vita e della sua morte.

L’episodio narrato da Luca ci ricorda che il “paradiso” è offerto a tutta l’umanità, a ogni uomo che, come il malfattore pentito, cede alla grazia e pone la sua speranza in Cristo. Un momento di conversione autentica, un “momento di grazia”, che possiamo dire con san Tommaso, “vale più di tutto l’universo” (S. Thomae “Summa Theologiae”, I-II 113,9, ad 2), può dunque saldare i conti di tutta una vita, può attuare nell’uomo - in qualsiasi uomo - ciò che Gesù assicura al suo compagno di supplizio: “Oggi sarai con me in paradiso”.

Ai fedeli di lingua francese

Ai numerosi fedeli e visitatori di lingua inglese

Ai fedeli di lingua tedesca

Ai fedeli di lingua castigliana


Ai fedeli portoghesi

Ai fedeli polacchi

Ai pellegrini italiani

SALUTO ORA tutti i pellegrini di lingua italiana, sempre molto numerosi, e tra tutti ricordo in particolare i membri dell’Associazione Eucaristica Riparatrice del terz’Ordine Francescano della Provincia picena dei frati Cappuccini.

La loro presenza mi offre l’opportunità di esortare tutti a considerare sempre l’Eucaristia il centro della vita cristiana, la fonte ed il culmine dell’ascesi e l’alimento del servizio ecclesiale. A tutti la mia Benedizione Apostolica.

Ai giovani, agli ammalati, agli sposi novelli

ESSENDO VICINA la festa di Gesù Cristo Re, che sarà celebrata domenica prossima, desidero rivolgere il mio affettuoso saluto ai giovani, agli ammalati agli sposi novelli nella luce di tale evento liturgico.

Voi giovani, lasciatevi conquistare da Cristo, e la vostra vita diventerà sempre più luminosa, e così ricca da poter donare luce agli altri.

Voi, malati, ricordando che con l’amore di Cristo la malattia diventa sopportabile e la sofferenza più lieve, offrite a Lui i vostri dolori, che in tal modo diventano sorgente di grazia.

E voi, novelli sposi, pregate che Cristo Signore regni nella vostra casa affinché il regno di Dio si dilati sulla terra.

A tutti la mia particolare Benedizione nel nome del Signore.




Mercoledì, 23 novembre 1988

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1. Il messaggio della croce comprende alcune parole supreme di amore, che Gesù rivolge a sua madre e al discepolo prediletto Giovanni, presenti al suo supplizio sul Calvario.

Ecco, san Giovanni nel suo Vangelo ricorda che “stava presso la croce di Gesù sua madre” (
Jn 19,25). Era la presenza di una donna - ormai vedova da anni, come tutto fa pensare - che stava per perdere anche suo figlio. Tutte le fibre del suo essere erano scosse da ciò che aveva visto nei giorni culminanti nella passione, da ciò che sentiva e presentiva, ora, accanto al patibolo. Come impedirle di soffrire e di piangere? La tradizione cristiana ha percepito la drammatica esperienza di quella donna piena di dignità e di decoro, ma col cuore affranto, e ha sostato a contemplarla con intima partecipazione al suo dolore:
“Stabat mater dolorosa
iuxta crucem lacrimosa
dum pendebat filius”.

Non si tratta solo di una questione “della carne e del sangue”, nè di un affetto senza dubbio nobilissimo, ma semplicemente umano. La presenza di Maria presso la croce mostra il suo impegno di partecipazione totale al sacrificio redentivo di suo Figlio. Maria ha voluto partecipare fino in fondo alle sofferenze di Gesù, perché non ha respinto la spada annunciatale da Simeone (cf. Lc 2,35), e ha invece accettato, con Cristo, il disegno misterioso del Padre. Essa era la prima partecipe di quel sacrificio, e sarebbe rimasta per sempre il modello perfetto di tutti coloro che avrebbero accettato di associarsi senza riserva all’offerta redentiva.

2. D’altra parte la compassione materna, in cui si esprimeva quella presenza, contribuiva a rendere più denso e più profondo il dramma di quella morte in croce, così vicino al dramma di tante famiglie, di tante madri e di tanti figli, ricongiunti dalla morte dopo lunghi periodi di separazione per ragioni di lavoro, di malattia, di violenza ad opera di singoli o di gruppi.

Gesù, che vede sua madre accanto alla croce, la ripensa sulla scia dei ricordi di Nazaret, di Cana, di Gerusalemme; forse rivive i momenti del transito di Giuseppe, e poi del suo distacco da lei, e della solitudine nella quale è vissuta negli ultimi anni, una solitudine che ora sta per accentuarsi. Maria, a sua volta, considera tutte le cose che per anni e anni “ha conservato nel suo cuore” (cf. Lc 2,19 Lc 2,51), e adesso più che mai le comprende in ordine alla croce. Il dolore e la fede si fondono nella sua anima. Ed ecco, ad un tratto s’avvede che dall’alto della croce Gesù la guarda e le parla.

3. “Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco il tuo figlio»” (Jn 19,26). È un atto di tenerezza e di pietà filiale. Gesù non vuole che sua madre resti sola. Al suo posto le lascia come figlio il discepolo che Maria conosce come il prediletto. Gesù affida così a Maria una nuova maternità, e le chiede di trattare Giovanni come suo figlio. Ma quella solennità dell’affidamento (“Donna, ecco il tuo figlio”), quel suo collocarsi al cuore stesso del dramma della croce, quella sobrietà ed essenzialità di parole che si direbbero proprie di una formula quasi sacramentale, fanno pensare che, al di sopra delle relazioni familiari, il fatto vada considerato nella prospettiva dell’opera della salvezza, dove la donna-Maria è stata impegnata col Figlio dell’uomo nella missione redentrice. A conclusione di quell’opera, Gesù chiede a Maria di accettare definitivamente l’offerta che egli fa di se stesso quale vittima di espiazione, considerando ormai Giovanni come suo figlio. È a prezzo del suo sacrificio materno che essa riceve quella nuova maternità.

4. Ma quel gesto filiale, pieno di valore messianico, va ben al di là della persona del discepolo prediletto, designato come figlio di Maria. Gesù vuol dare a Maria una figliolanza ben più numerosa, vuole istituire per Maria una maternità che abbraccia ogni suo seguace e discepolo di allora e di tutti i tempi. Il gesto di Gesù ha dunque un valore simbolico. Non è solo un gesto d’ordine familiare, come di un figlio che prende a cuore la sorte di sua madre, ma è il gesto del Redentore del mondo che assegna a Maria, come “donna”, un ruolo di nuova maternità per rapporto a tutti gli uomini, chiamati a riunirsi nella Chiesa. In quel momento, dunque, Maria è costituita, e quasi si direbbe “consacrata”, come Madre della Chiesa dall’alto della croce.

5. In questo dono fatto a Giovanni e, in lui, ai seguaci di Cristo e a tutti gli uomini, vi è come un completamento del dono che Gesù fa di se stesso all’umanità con la sua morte in croce. Maria costituisce con lui come un “tutt’uno”, non solo perché sono madre e figlio “secondo la carne”, ma perché nell’eterno disegno di Dio sono contemplati, predestinati, collocati insieme al centro della storia della salvezza; sicché Gesù sente di dover coinvolgere sua madre non solo nella propria oblazione al Padre, ma anche nella donazione di sé agli uomini; e Maria, a sua volta, è in perfetta sintonia con il Figlio in quest’atto di oblazione e di donazione, come per un prolungamento del “fiat” dell’annunciazione.

D’altra parte Gesù, nella sua passione, si è visto spogliato di tutto. Sul Calvario gli rimane la madre; e con gesto di supremo distacco dona anche lei al mondo intero, prima di portare a termine la sua missione col sacrificio della vita. Gesù è cosciente che è giunto il momento della consumazione, come dice l’evangelista: “Dopo questo, sapendo che ogni cosa era stata ormai compiuta . . .” (Jn 19,28). E vuole che tra le cose “compiute” ci sia anche questo dono della Madre alla Chiesa e al mondo.

6. Si tratta certamente di una maternità spirituale, che si attua, secondo la Tradizione cristiana e la dottrina della Chiesa, nell’ordine della grazia. “Madre nell’ordine della grazia”, la chiama il Concilio Vaticano II (Lumen Gentium LG 61). È quindi una maternità essenzialmente “soprannaturale”, che si iscrive nella sfera dove opera la grazia, generatrice di vita divina nell’uomo. È dunque oggetto di fede, come lo è la stessa grazia, a cui è correlata, ma non esclude e anzi comporta tutta una fioritura di pensieri, di affetti teneri e soavi, di sentimenti vivissimi di speranza, fiducia, amore, che fanno parte del dono di Cristo.

Gesù, che aveva sperimentato e apprezzato l’amore materno di Maria nella propria vita, ha voluto che anche i suoi discepoli potessero a loro volta godere di questo amore materno come componente del rapporto con lui in tutto lo sviluppo della loro vita spirituale. Si tratta di sentire Maria come madre e di trattarla come madre, consentendole di formarci alla vera docilità verso Dio, alla vera unione con Cristo, alla vera carità verso il prossimo.

7. Si può dire che anche questo aspetto del rapporto con Maria è compreso nel messaggio della croce. Dice infatti l’evangelista che Gesù “poi disse al discepolo: «Ecco la tua madre»!” (Jn 19,27). Rivolgendosi al discepolo, Gesù gli chiede espressamente di comportarsi con Maria come figlio verso la madre. All’amore materno di Maria dovrà rispondere un amore filiale. Poiché il discepolo sostituisce Gesù presso Maria, è invitato ad amarla veramente come la propria madre.

È come se Gesù gli dicesse: “Amala come io l’ho amata”. E poiché, nel discepolo, Gesù vede tutti gli uomini, ai quali lascia quel testamento d’amore, vale per tutti la richiesta di amare Maria come madre. In concreto Gesù fonda con quelle sue parole il culto mariano della Chiesa, alla quale fa capire, attraverso Giovanni, la sua volontà che Maria riceva da parte di ogni discepolo, di cui ella è madre per istituzione di Gesù stesso, un sincero amore filiale. L’importanza del culto mariano sempre voluto dalla Chiesa, si deduce dalle parole pronunciate da Gesù nell’ora stessa della sua morte.

8. L’evangelista conclude dicendo che “da quell’ora il discepolo la prese nella sua casa” (Jn 19,27). Ciò significa che il discepolo ha risposto immediatamente alla volontà di Gesù: da quel momento, accogliendo Maria nella sua casa, le ha mostrato il suo affetto filiale, l’ha circondata di ogni cura, ha fatto in modo che potesse godere di raccoglimento e di pace in attesa di ricongiungersi a suo Figlio, e svolgere il suo ruolo nella Chiesa nascente, sia nelle Pentecoste sia negli anni successivi.

Quel gesto di Giovanni era l’esecuzione del testamento di Gesù nei confronti di Maria: ma aveva un valore simbolico per ogni discepolo di Cristo, invitato ormai ad accogliere Maria presso di sé, e farle posto nella propria vita. Perché, in forza delle parole di Gesù morente, ogni vita cristiana deve offrire uno “spazio” a Maria, non può non includere la sua presenza.

Allora possiamo concludere questa riflessione e catechesi sul messaggio della croce, con l’invito che rivolgo a ciascuno, di chiedersi come accoglie Maria nella sua casa, nella sua vita; e con una esortazione ad apprezzare sempre di più il dono che il Cristo crocifisso ci ha fatto, lasciandoci come madre la sua stessa Madre.

Ai fedeli di lingua francese

Ai gruppi di espressione inglese

Ai gruppi di lingua spagnola

Ai numerosi gruppi di pellegrini di espressione polacca

Ai gruppi di lingua italiana

DESIDERO ORA rivolgere un caro saluto a tutti i gruppi di lingua italiana. Comincio con i sacerdoti dell’Arcidiocesi di Bologna, che festeggiano il XXV anniversario dell’Ordinazione sacerdotale. A voi, cari fratelli che compite una tappa significativa del vostro cammino spirituale, l’augurio che la grazia del Signore vi conceda di operare sempre più generosamente nella vigna del Signore, portando abbondanti frutti che rimangano.

UN SALUTO CORDIALE anche ai membri del Consiglio direttivo dell’Associazione Nazionale Famiglie di Fanciulli e Adulti Subnormali. Vi esprimo le mie vive congratulazioni per la vostra benefica attività, con l’auspicio che essa possa sempre meglio corrispondere alle sue nobili finalità, ed incontrare la comprensione e la solidarietà della società civile e della comunità cristiana. A tutti voi la mia benedizione.
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SALUTO CORDIALMENTE il gruppo delle Religiose della Federazione Italiana Ospedaliere, partecipanti ad un convegno di spiritualità, organizzato dalla Firos, in corso al Centro “Mondo migliore” di Rocca di Papa. Auguro a tutte voi, care Sorelle, di trarre uno stimolo da questi giorni per una comunione sempre più viva col Signore, e perché la vostra testimonianza di anime consacrate possa riuscire feconda ed efficace.
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UN CARO SALUTO, poi, al gruppo di persone provenienti da diversi Paesi ed appartenenti a vari centri culturali, le quali hanno organizzato una manifestazione in onore dello scultore Giacomo Manzù. Mi auguro che l’iniziativa serva a far conoscere e gustare la buona arte che, quando è tale, eleva lo spirito a Dio.
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RIVOLGO INFINE un particolare saluto ai pellegrini di Torre del Greco (Arcidiocesi di Napoli), giunti col Parroco della Basilica Pontificia di Santa Croce, Monsignor Onofrio Langella, e i suoi collaboratori, per ricordare il 25° anniversario della Beatificazione di Vincenzo Romano, primo Parroco di quella città per oltre 35 anni, durante un periodo storico, tra la fine del 700 e l’inizio dell’800, segnato da eventi politici singolari e difficili e da calamità naturali e condizioni di povertà per la popolazione napoletana.

Egli è stato certamente un eroe della carità ed un pastore generoso. Al riguardo vorrei ricordare due specifiche “raccomandazioni” ricorrenti nel suo ministero: l’invito alla pratica coerente della fede ed alla frequenza assidua alla Santa Messa.

Auspico che la comunità di Torre del Greco sappia testimoniare ancor oggi la sua fede e la sua carità, attingendo dalla Messa compresa e vissuta la forza per il suo cammino cristiano.

A tutti la mia Benedizione Apostolica.

Ai giovani, agli ammalati, agli sposi novelli

RIVOLGO ORA la mia parola ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli presenti a questa Udienza. Carissimi! La prossima domenica segnerà l’inizio dell’Avvento, il periodo di preparazione al Natale di Gesù. Occorre risvegliare l’impegno interiore per predisporre l’animo al grande evento. Durante le prossime settimane, ogni cristiano è invitato a prepararsi per accogliere convenientemente Gesù che viene come Salvatore, per poterlo incontrare un giorno nella gioia, quando verrà come giudice!

Vi esorto con l’apostolo Paolo: “Il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione, e tutto quello che è vostro, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo. Colui che vi chiama è fedele e farà tutto questo!”.

La mia benedizione vi sia di conforto e vi accompagni sempre!




Mercoledì, 30 novembre 1988

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1. Stando ai sinottici, Gesù sulla croce gridò due volte (cf.
Mt 27,46-50 Mc 15,34-37); del secondo grido solo Luca (Lc 23,46) esplicita il contenuto. Nel primo grido si esprimono la profondità e l’intensità della sofferenza di Gesù, la sua partecipazione interiore, il suo spirito di oblazione, e forse anche la lettura profetico-messianica che egli fa del suo dramma sulla traccia di un salmo biblico. Certo il primo grido manifesta i sentimenti di desolazione e di abbandono provati da Gesù con le prime parole del salmo 22 [21]: “Alle tre Gesù gridò con voce forte: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»” (Mc 15,34 cf. Mt 27,46).

Marco riporta le parole in aramaico. Si può supporre che quel grido sia parso talmente caratteristico che i testimoni auricolari del fatto, quando narrarono il dramma del Calvario, abbiano trovato opportuno ripetere le parole stesse di Gesù in aramaico, la lingua parlata da lui e dalla maggior parte degli israeliti suoi contemporanei. A Marco, esse potrebbero essere state riferite da Pietro, come avvenne per la parola “Abbà” = Padre (cf. Mc 14,36) nella preghiera del Getsemani.

2. Che in quel suo primo grido Gesù usi le parole iniziali del salmo 22[21] è significativo per varie ragioni. Nello spirito di Gesù, che era solito pregare seguendo i testi sacri del suo popolo, dovevano essersi depositate molte di quelle parole e frasi che particolarmente lo impressionavano, perché meglio esprimevano il bisogno e l’angoscia dell’uomo dinanzi a Dio e in qualche modo alludevano alla condizione di colui che avrebbe preso su di sé tutta la nostra iniquità (cf. Is 53,11).

Perciò nell’ora del calvario fu spontaneo per Gesù appropriarsi di quella domanda che il salmista fa a Dio sentendosi spossato dalla sofferenza. Ma sulla sua bocca il “perché” rivolto a Dio era anche più efficace nell’esprimere un dolente stupore per quella sofferenza che non aveva una spiegazione semplicemente umana, ma costituiva un mistero di cui solo il Padre possedeva la chiave. Per questo, pur nascendo dalla memoria del salmo letto o recitato nella sinagoga, la domanda racchiudeva un significato teologico in relazione al sacrificio, mediante il quale Cristo doveva, in piena solidarietà con l’uomo peccatore, sperimentare in sé l’abbandono di Dio. Sotto l’influsso di questa tremenda esperienza interiore, Gesù morente trova la forza per esplodere in quel grido!

E in quella esperienza, in quel grido, in quel “perché” rivolto al cielo, Gesù stabilisce anche un modo nuovo di solidarietà con noi, che siamo portati così spesso a levare occhi e bocca al cielo, per esprimere il nostro lamento e qualcuno persino la sua disperazione.

3. Ma sentendo Gesù pronunciare il suo “perché”, impariamo che, sì, anche gli uomini che soffrono possono pronunciarlo, ma in quelle stesse disposizioni di fiducia e di abbandono filiale, di cui Gesù ci è maestro e modello. Nel “perché” di Gesù, non c’è alcun sentimento o risentimento che porti alla rivolta, o che indulga alla disperazione; non c’è l’ombra di un rimprovero rivolto al Padre, ma l’espressione dell’esperienza di fragilità, di solitudine, di abbandono a se stesso, fatta da Gesù al posto nostro; da lui che diventa così il primo degli “umiliati ed offesi”, il primo degli abbandonati, il primo dei “desamparados” (come li chiamano gli spagnoli), ma che nello stesso tempo ci dice che su tutti questi poveri figli d’Eva veglia l’occhio benigno della Provvidenza soccorritrice.

4. In realtà, se Gesù prova il sentimento di essere abbandonato dal Padre, egli però sa di non esserlo affatto. Egli stesso ha detto: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Jn 10,30), e parlando della passione futura: “Io non sono solo perché il Padre è con me” (Jn 16,32). Sulla cima del suo spirito Gesù ha netta la visione di Dio e la certezza della unione col Padre. Ma nelle zone a confine con la sensibilità e quindi più soggette alle impressioni, emozioni e ripercussioni delle esperienze dolorose interne ed esterne, l’anima umana di Gesù è ridotta ad un deserto, ed egli non sente più la “presenza” del Padre, ma fa la tragica esperienza della più completa desolazione.

5. Qui si può tracciare un quadro sommario di quella situazione psicologica di Gesù per rapporto a Dio.

Gli avvenimenti esterni sembrano manifestare l’assenza del Padre, che lascia crocifiggere suo Figlio, pur disponendo di “legioni d’angeli” (cf. Mt 26,53), senza intervenire per impedire la sua condanna a morte e il suo supplizio. Nell’Orto degli Ulivi Simon Pietro aveva sfoderato a sua difesa una spada, bloccato subito da Gesù stesso (cf. Jn 18,10 s); nel pretorio, Pilato aveva ripetutamente tentato manovre diversive per salvarlo (cf. Jn 18,31-38 s;19, 4-6, 12-15); ma il Padre, ora, tace. Quel silenzio di Dio grava sul morente come la pena più pesante, tanto più che gli avversari di Gesù considerano quel silenzio come una sua riprovazione: “Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora, se gli vuol bene, giacché ha detto: sono Figlio di Dio!” (Mt 27,43).

Nella sfera dei sentimenti e degli affetti, questo senso dell’assenza e dell’abbandono di Dio è stata la pena più pesante per l’anima di Gesù, che attingeva la sua forza e la sua gioia dall’unione con il Padre. Questa pena rese più dure tutte le altre sofferenze. Quella mancanza di conforto interiore è stata il suo maggiore supplizio.

6. Ma Gesù sapeva che con questa fase estrema della sua immolazione, giunta alle più intime fibre del cuore, egli completava l’opera di riparazione che era lo scopo del suo sacrificio per la riparazione dei peccati. Se il peccato è separazione da Dio, Gesù doveva provare nella crisi della sua unione con il Padre, una sofferenza proporzionata a quella separazione.

D’altra parte citando l’inizio del salmo 22 (21), che forse continuò a dire mentalmente durante la passione, Gesù non ne ignorava la conclusione, che si trasforma in un inno di liberazione e in un annuncio di salvezza dato a tutti da Dio. L’esperienza dell’abbandono è dunque una pena passeggera, che cede il posto alla liberazione personale e alla salvezza universale. Nell’anima afflitta di Gesù tale prospettiva ha certo alimentato la speranza, tanto più che egli ha sempre presentato la sua morte come un passaggio alla risurrezione, come la sua vera glorificazione. E a questo pensiero la sua anima riprende vigore e gioia sentendo che è vicina, proprio al culmine del dramma della croce, l’ora della vittoria.

7. Tuttavia poco dopo, forse per influsso del salmo 22 (21), che riaffiora nella sua memoria, Gesù esce in queste altre parole: “Ho sete” (Jn 19,28).

È ben comprensibile che con queste parole Gesù alluda alla sete fisica, al grande tormento che fa parte della pena della crocifissione, come spiegano gli studiosi di queste materie.

Si può anche aggiungere che nel manifestare la sua sete Gesù ha dato prova di umiltà, esprimendo una elementare necessità fisica, come avrebbe fatto chiunque. Anche in questo Gesù si fa e si mostra solidale con tutti coloro che, viventi o morenti, sani o malati, piccoli o grandi, hanno bisogno e chiedono almeno un po’ d’acqua . . . (cf. Mt 10,42). Per noi è bello pensare che ogni soccorso prestato a un morente, è prestato a Gesù crocifisso!

8. Ma non possiamo ignorare l’annotazione dell’evangelista, il quale scrive che Gesù uscì in tale espressione - “Ho sete” - “per adempiere la Scrittura” (Jn 19,28). Anche in tali parole di Gesù vi è un’altra dimensione, oltre quella fisico-psicologica. Il riferimento è ancora al salmo 22 (21): “È arido come un coccio il mio palato, la mia lingua si è incollata alla gola, su polvere di morte mi hai deposto” (Ps 22 [21], 16). Anche nel salmo 69 (68), 22 si legge: “Quando avevo sete mi hanno dato aceto”.

Nelle parole del salmista si tratta ancora di sete fisica, ma sulle labbra di Gesù essa rientra nella prospettiva messianica della sofferenza della croce. Nella sua sete il Cristo morente cerca ben altra bevanda che l’acqua o l’aceto: come quando al pozzo di Sicar aveva chiesto alla samaritana: “Dammi da bere” (Jn 4,7). La sete fisica, allora, era stato simbolo e tramite di un’altra sete: quella della conversione di quella donna. Ora, sulla croce, Gesù ha sete di un’umanità nuova, quale dovrà sorgere dal suo sacrificio, in adempimento delle Scritture. Per questo l’evangelista lega il “grido della sete” di Gesù alle Scritture. La sete della croce, sulla bocca del Cristo morente, è l’ultima espressione di quel desiderio del battesimo da ricevere e del fuoco da accendere sulla terra, che era stato da lui manifestato in vita. “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! C’è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto!” (Lc 12,49-50). Ora quel desiderio sta per compiersi, e con quelle sue parole Gesù conferma l’ardente amore con cui ha voluto ricevere quel supremo “battesimo” per aprire a noi tutti la fonte dell’acqua che veramente disseta e salva (cf. Jn 4,13-14).

Ai fedeli di lingua francese


Ai pellegrini di lingua inglese

A due gruppi giunti dal Giappone

Sia lodato Gesù Cristo!

SALUTO IL COMPLESSO musicale di Ubukata e i membri della religione “Tenri” di Ghifu.

Tanto la musica quanto la religione non hanno confini. Perciò, auguro a voi, cari giapponesi, che - con le melodie del “koto”, l’arpa giapponese, e con le vostre preghiere ferventi - possiate offrire un valido contributo per la pace nel mondo.

Plaudo, quindi, alle vostre attività costruttrici di pace e imparto di cuore a voi la mia Benedizione Apostolica.

Sia lodato Gesù Cristo!

Ai pellegrini di espressione tedesca

Ai pellegrini di lingua spagnola


Ai fedeli polacchi

Ai gruppi italiani

DESIDERO ORA RIVOLGERE una parola di saluto e di benvenuto al gruppo di pellegrini della Diocesi di San Benedetto del Tronto, accompagnati dal loro Vescovo, Monsignor Giuseppe Chiaretti, e venuti alla Sede di Pietro per ricordare il cinquantesimo anniversario di fondazione dell’UNITALSI. Per tale occasione, viene inaugurata la costruzione di un “Centro Servizi per Disabili”, di cui mi è stato chiesto di benedire la prima pietra. Esprimo voti che tale istituzione sociale e caritativa possa adempiere con successo i nobili compiti che si è prefissa.
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UN CORDIALE SALUTO anche ai membri del comitato direttivo della “Gregorian University Foundation”, un’associazione statunitense di amici e benefattori degli Istituti Pontifici Romani della Compagnia di Gesù. Mi congratulo, cari Signori, per l’aiuto che date per la promozione della cultura religiosa e per l’evangelizzazione del mondo moderno mediante un’accurata formazione umana e spirituale. Il Signore vi ricompensi del bene che fate!
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UN SALUTO ANCHE ai numerosi militari presenti: agli Allievi Ufficiali della Scuola del Genio in Roma-Cecchignola; ai militari della Scuola delle Trasmissioni in Roma; ai militari dell’undicesimo Battaglione Carri “Medaglia d’oro Calzecchi” di Ozzano dell’Emilia. Vi sono anche i partecipanti al Convegno di Formazione degli Operatori Sociali della Polizia di Stato. A tutti voi, che in vari modi siete al servizio dell’ordine pubblico, della sicurezza e del bene comune del Paese, il mio cordiale augurio che il Signore vi assista nel coscienzioso e coraggioso adempimento del dovere.
* * *


UN SALUTO, INFINE, alla delegazione di minatori della Miniera “Bois du Cazier” a Marcinelle, in Belgio, dove, come si ricorderà, nel 1956, per un grave infortunio, trovarono la morte 262 lavoratori. Mi avete chiesto, cari fratelli, di benedire un quadro di San Camillo da tenere in miniera e la cosiddetta “Lampada del ricordo”. Molto volentieri accolgo la vostra richiesta, mentre benedico tutti.

A giovani, agli ammalati, agli sposi novelli

RIVOLGO ORA il mio affettuoso saluto ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli, presenti a questa Udienza.

Miei cari, a voi, in particolare, consegno una delle esigenze caratteristiche dell’Avvento che stiamo vivendo: la saggezza nell’agire. Ci dice San Paolo: “Vigilate attentamente sulla vostra condotta, comportatevi non da stolti, ma da uomini saggi, profittando del tempo presente”. L’oggi della vostra vita è dono e responsabilità.

L’Avvento vi aiuti a prenderne coscienza sempre più chiara. Fate che l’ascolto costante e personale della Parola di Dio porti nuova luce alle vostre intelligenze, nuovo calore al vostro cuore. Aprite itinerari di speranza in mezzo alla società in cui vivete, seminate germi di comunione nel tempo che vi è donato. Maria, sede della sapienza cristiana, vi porti più intimamente e più rapidamente al Figlio suo, Redentore degli uomini.

A tutti la mia Benedizione.

Il Santo Padre ha poi pronunziato le seguenti parole:

Oggi, 30 novembre, la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa celebrano la festa di sant’Andrea apostolo, fratello di san Pietro.

Come già negli anni scorsi, una delegazione della Chiesa cattolica, guidata dal Cardinale Giovanni Willebrands, Presidente del Segretariato per l’Unione dei Cristiani, si è recata al Patriarcato ecumenico, in Istanbul, per partecipare alla celebrazione della festa di sant’Andrea, che ha luogo al Fanar. Nel 1979 io stesso vi presi parte e conservo di quella visita un vivo ricordo. Per il tramite del Cardinale Willebrands ho inviato a Sua Santità il Patriarca Dimitrios I un messaggio di fraternità e di comunione. Proprio un anno fa, egli fece visita a questa Chiesa di Roma, partecipando nella Basilica di san Pietro alla celebrazione in onore di sant’Andrea. Come è noto, ogni anno il Patriarcato ecumenico invia a sua volta una speciale delegazione per le celebrazioni romane di san Pietro.

Affido alla vostra preghiera questa importante circostanza. Preghiamo perché questo incontro ecumenico, che si svolge nel segno della fraternità e della carità, rechi quei frutti che tutti noi ci attendiamo; affretti quella sospirata piena unità, per la quale il Signore ha pregato. La santa Madre di Dio, verso la quale la Chiesa ortodossa nutre una tenera devozione, avvalori questi nostri ardenti voti ed interponga la sua mediazione.




Catechesi 79-2005 16118