Catechesi 79-2005 41089

Mercoledì, 4 ottobre 1989

41089

“Donaci la pace, Signore, in te speriamo” (Psalmus Responsorius, Rit.).

1. Questa invocazione, che non solo nel presente incontro di preghiera, ma molte volte - e soprattutto dal Libano - è stata con profonda speranza elevata al Dio di ogni bontà, riceve dal Redentore una nuova forza: “Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore”. “Vi lascio la pace, vi do la mia pace” (cf.
Jn 14,27).

Nella serena fiducia che il Signore adempie le sue promesse in modo sempre superiore alle nostre attese, desidero con voi, cari fratelli e sorelle, supplicarlo, perché ricolmi noi credenti, come tutti i cittadini del mondo, nostri fratelli in umanità, ed i responsabili del destino delle nazioni e, in special modo, i fratelli Libanesi con la benedizione di pace, di amore e di grazia.

I nostri fratelli del Libano vivono da molti anni in una tempesta di violenze e di paure. Ho ancora presenti le invocazioni dai rifugi sotterranei di Beirut, come pure quel grido di aiuto dei giovani libanesi sul monte del Gozo, in Spagna, davanti a centinaia di migliaia di loro coetanei.

La grazia del Signore, insieme a quegli appelli, farà ascoltare l’imperativo che viene dalla coscienza: non possiamo rimanere indifferenti ed inattivi! Dio ha inscritto nel cuore di ciascuno di noi una legge che ci pone al servizio della causa dell’uomo e della sua pacifica e dignitosa convivenza sociale, nella libertà e verità.

2. La preghiera è il ricorso che Dio ci offre. Uniti ai nostri fratelli libanesi, cristiani e musulmani, con impegno ed umiltà facciamo uso di questa preghiera e domandiamo: “Santissimo Padre nostro: creatore e redentore, consolatore e salvatore nostro” (S. Francesco, Parafrasi del Padre Nostro, in Fonti Francescane, p. 141) sii “vicino agli oppressi e umiliati” “per rianimare il lor cuore” (Is 57,14).

È di conforto per tutti il sapere che Dio è veramente accanto all’uomo. Dice infatti il Signore: “Al tempo della misericordia ti ho ascoltato, nel giorno della salvezza ti ho aiutato . . . per far risorgere il paese” (Is 49,8).

È pure confortante sapere che anche l’uomo ha la capacità di stare accanto al fratello, di sentire il suo grido di aiuto, e di soccorso.

Sono certo che Dio onnipotente ascolta le nostre suppliche e spero anche fermamente che i responsabili delle nazioni sapranno rispondere adeguatamente all’appello dei Libanesi e di tutti i credenti che, con noi, non hanno altri argomenti che la preghiera fervente e il sincero desiderio di offrire un concreto contributo, affinché il dramma del Libano abbia fine al più presto.

3. Cari fratelli e sorelle, siate certi che Dio non è indifferente al dolore e alla violenza, da cui gli uomini sono troppo spesso provati.

Quale provvido Padre, egli non li abbandona, li esorta a lasciare le tenebre e a seguire la sua guida, che conduce dove la vita è nella luce e dove il timore viene allontanato (cf. Is 49,9-10). L’Autore della pace unisce al dono della salvezza quello della grazia, che consente di edificare una società armoniosa, mediante la pratica del diritto e della giustizia (cf. Is 11,3-5).

Il Dio di ogni misericordia non ha esitato ad offrire il proprio Figlio per riconciliare gli uomini con Dio e tra loro.

Con il Redentore chiediamo all’Onnipotente di trasformare il cuore di ogni essere umano, rendendolo capace di accogliere in sé la carità divina e, con essa il frutto del perdono.

Il perdono! I Libanesi hanno bisogno della pace e la desiderano ardentemente. Essi attendono un aiuto concreto per avere questa pace. Hanno bisogno di essere liberi per poter decidere il futuro del loro Paese.

Ma essi hanno anche un grande bisogno di poter tornare ad amare intensamente il loro Paese e tutti i loro concittadini e, soprattutto, di avere il coraggio e la forza del perdono.

Le sofferenze che hanno sopportato sono state spesso causa e conseguenza di incomprensioni, di odi e di vendette e hanno generato sfiducia e sospetti.

Un sincero dialogo, che favorisca la pace e l’intesa nazionale, esige il rispetto degli uni verso gli altri, fino al perdono. Esso richiede che siano soppresse le tentazioni dell’arroganza, della sete di dominio e del fanatismo.

4. Cristo il servo mansueto inviato come alleanza del popolo santo e luce delle nazioni (cf. Is 49,8-9), ci insegna quanto sia grande e benefica la forza, che viene messa a disposizione della carità. In questo modo, il cuore umano diviene abitazione della misericordia e della verità; e l’esistenza quotidiana si svolge nella giustizia e nella pace (cf. Ps 85,11-12) così i conflitti e la loro carica disgregatrice si dissolvono e l’animo di ognuno si apre alla verità e alla sapienza di Dio, conformandosi al suo sapiente disegno sul mondo.

5. Al tempo stesso, vi chiedo di guardare a san Francesco d’Assisi, sotto il cui patrocinio ho voluto porre la giornata universale di preghiera per la pace nel Libano. Questo santo, proprio in ragione della sua particolare configurazione al Redentore, fu capace di abbracciare ogni fratello, anche quello dalle apparenze ributtanti. Dovunque egli si recava, ristabiliva la pace; e tutte le persone, che lo incontravano e ricevevano il suo ministero di carità, riscoprivano la propria dignità di figli di Dio.

Amici del Libano, Libanesi tutti - cristiani e musulmani -, la dignità di creature di Dio che ci accomuna e il nostro essere cittadini del mondo sono per noi un imperativo ad impegnarci: il Libano deve vivere nella pace e libero da ogni occupazione; i Libanesi di ogni fede religiosa devono nutrire la più viva speranza che potranno dialogare con i propri concittadini e decidere insieme circa le proprie sorti, affinché siano conformi alle loro legittime e giuste aspirazioni.

6. Preghiamo oggi con san Francesco, perché i nostri fratelli libanesi possano vivere in una terra non più tormentata da violenti conflitti. E poiché la misericordia e il perdono sono la misura della carità del Padre celeste, chiediamogli di rimettere a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, e, come pregava san Francesco, “quello che non sappiamo pienamente perdonare, tu, Signore, fa’ che pienamente perdoniamo, sì che, per amor tuo, amiamo veramente i nemici, e devotamente intercediamo presso di te, non rendendo a nessuno male per male e impegnandoci in te ad essere di giovamento a tutti” (S. Francesco, Parafrasi del Padre Nostro, in Fonti Francescane, p. 142).

La Vergine Maria, che fu la prima dimora della divina carità, presenti a Dio la nostra supplica; maternamente la sostenga con la sua preghiera, ottenendo per tutti i Libanesi, che la invocano come “Nostra Signora del Libano”, la libertà da ogni tribolazione ed il dono di poter percorrere insieme le vie della giustizia e della pace.

Ai fedeli di espressione linguistica francese


Ai gruppi di lingua inglese

Ai numerosi fedeli provenienti dai paesi di lingua tedesca

Ai polacchi presenti

Ai fedeli provenienti da aree di espressione linguistica spagnola

Ai gruppi di pellegrini provenienti da Paesi di lingua portoghese

Ad alcuni gruppi di pellegrini italiani

Al termine di questa speciale Liturgia, che ho voluto celebrare non solo per richiamare ancora una volta ai figli della Chiesa il gravissimo problema del Libano, ma anche e soprattutto per implorare dal Signore il dono della pace a quell’amato Paese, desidero rivolgere il mio ringraziamento ai Signori Cardinali della Curia Romana, al carissimo mio Vicario di Roma e Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, a tutti i Vescovi italiani qui presenti, al Corpo Diplomatico e a tutti gli altri membri dell’Episcopato mondiale della Chiesa cattolica che oggi hanno pregato con noi. Ringrazio i gruppi di lingua italiana per la risposta pronta e generosa che hanno dato a questo mio invito. Saluto in particolare le aderenti alla “Federcasalinghe”, qui convenute così numerose.

Voglia il Signore accogliere la nostra invocazione di accordare quanto Gli abbiamo chiesto in comunione di preghiera.



Mercoledì, 18 ottobre 1989

18109

1. “Christus Pax nostra”. Sotto questo tema si è riunito a Seoul, capitale della Corea del Sud il Congresso Eucaristico Internazionale, che, nella serie degli altri Congressi Internazionali è stato il quarantaquattresimo (gli ultimi ebbero luogo, rispettivamente, a Filadelfia, a Lourdes e a Nairobi). La scelta della città di Seoul è collegata con i significativi progressi compiuti dall’evangelizzazione in quella Nazione, che si manifestano, in particolare, nel numero delle conversioni e delle vocazioni ecclesiastiche, maschili e femminili. Al tempo stesso, prosegue la veloce ricostruzione del Paese dopo le distruzioni della non lontana guerra, che ha diviso la nazione coreana in due Stati separati l’uno dall’altro da una frontiera ben sorvegliata e da due diversi sistemi politici ed economici.

Su un tale sfondo il motto del Congresso: “Christus Pax nostra” ha assunto un’eloquenza particolare. Infatti l’Eucaristia è il sacramento di quella pace, che “è data da Cristo”. E benché il mondo di per sé non sia in grado di “dare” una tale pace, tuttavia nelle sue multiformi aspirazioni alla pace sulla terra può e deve risalire a Cristo, che ci ha riconciliato con il Padre - e l’umanità deve attingere a questa riconciliazione. La teologia della pace, così intesa, collegata con l’Eucaristia ha costituito la tematica del congresso, svoltosi in quella città dal 5 all’8 ottobre.

La domenica 8 ottobre le folle dei partecipanti al congresso si sono riunite nella stessa piazza, in cui nell’anno 1984 ebbe luogo la canonizzazione dei martiri della Chiesa in Corea. Proprio in tale luogo mi è stato dato di compiere il ministero della “Statio orbis” eucaristica insieme a Cardinali e Vescovi provenienti da diverse parti del mondo. Il congresso ha riunito soprattutto i pellegrini della stessa Corea e dei paesi dell’Estremo Oriente.

Nel pomeriggio della vigilia era stata celebrata la liturgia eucaristica, destinata in modo speciale alla gioventù.

2. “Laetentur insulae multae” (
Ps 97,1). Occorrerebbe far riferimento a queste parole, parlando dell’ulteriore tappa del pellegrinaggio d’ottobre in Estremo Oriente. L’Indonesia è un enorme arcipelago, composto da oltre tredicimila isole, di cui soltanto una parte è abitata. Alcune di queste isole hanno accolto la buona Novella da tempo. L’Islam comparve prestissimo in talune zone dell’attuale Indonesia. Nel grande arcipelago si distinguono isole come Giava, Sumatra, Borneo, Celebes. In queste isole esistevano diversi regni. Tale divisione politica facilitò la colonizzazione, compiuta qui principalmente dall’Olanda, che per circa quattrocento anni ha dominato le isole dell’arcipelago.

Alla conclusione dell’ultima guerra mondiale, le aspirazioni e la lotta del popolo hanno reso possibile l’indipendenza dell’Indonesia, e la fondazione dello Stato che abbraccia l’intero arcipelago. Attualmente, esso è un grande Paese di circa centoottanta milioni di abitanti, che ha saputo creare un proprio modello di convivenza, rispettosa del pluralismo etnico, culturale ed anche religioso dei suoi cittadini. Espressione di tale modello è il sistema filosofico del “Pancasila”, cioè dei cinque principi che costituiscono come le colonne della cultura e della società indonesiana. Tra questi principi è messa in rilievo in primo luogo la religione monoteistica, poi l’umanitarismo, come caratteristica delle iniziative che tendono a favorire la convivenza pacifica di tutti i cittadini.

3. I cristiani in Indonesia hanno gli stessi diritti che i musulmani, benché questi siano molto più numerosi. In tali condizioni la missione della Chiesa e la sua attività si sviluppano in modo armonioso. L’Episcopato indonesiano è composto da circa quaranta Vescovi, tra i quali alcuni appartengono al clero missionario, ma la maggioranza è di origine indonesiana.

Nel corso di cinque giorni mi è stato dato di raggiungere alcune delle città principali. Non è stato invece possibile mettere nel programma la visita alle comunità cristiane che vivono in vaste isole come il Borneo (Kalimantan) oppure Celebes (Sulawesi). Le tappe della visita sono state: Jakarta - Yogyakarta nell’isola di Giava - Maumere nell’isola Flores - e Medan nell’isola di Sumatra. In ciascuno di questi luoghi il momento centrale dell’incontro è stata la santa Messa. Nella liturgia eucaristica si è manifestata la grande ricchezza del canto e dei gesti sacri, che esprimono la pietà del popolo.

L’incontro con la popolazione della diocesi di Dili, nell’isola di Timor, ha avuto un’importanza particolare a motivo della appartenenza alla Chiesa cattolica di gran parte degli abitanti. Era, perciò, opportuno che una sosta tra i membri della comunità cattolica di quest’isola, che tanto ha sofferto negli ultimi anni, fosse contemplata nel pellegrinaggio papale.

4. Durante questo viaggio ha avuto anche luogo l’incontro con i rappresentanti delle religioni dell’Indonesia: musulmani, induisti e buddisti. Benché i cristiani (cattolici e protestanti) costituiscano una minoranza della popolazione, è motivo di soddisfazione constatare che la Chiesa cattolica dimostra in diversi campi un grande dinamismo. Ne rende testimonianza il crescente numero dei battezzati ed anche la quantità delle vocazioni maschili e femminili. A Maumere ho incontrato circa seicento seminaristi, provenienti solo dalla Piccola Sonda. Gli otto seminari maggiori del Paese ospitano oltre duemila alunni.

Un tratto particolare, che merita di essere sottolineato, è il dinamismo apostolico dei laici. Mi è stato dato di visitare l’Università Cattolica Atma Jaya a Jakarta, che in se stessa è significativa dell’alta qualità dell’impegno del laicato. Nell’intera Indonesia vi sono attualmente dieci Università Cattoliche. Inoltre esiste tutta una serie di altri campi, nei quali si sviluppano attivamente l’apostolato dei laici e la cooperazione con i pastori della Chiesa.

5. “Laetentur insulae multae”. Nel primo anno del mio servizio alla Sede di Pietro mi fu dato di compiere la beatificazione del padre Jacques-Désiré Laval, missionario del XIX secolo, che è stato un vero apostolo delle isole Mauritius. Come tale è rimasto nella memoria degli abitanti, dei quali soltanto una parte sono cattolici. L’eredità spirituale del beato Laval plasma ancora oggi la vita della Chiesa e della società nelle isole Mauritius. E la visita l’ha manifestato in un modo particolare. Questa è stata la terza tappa del viaggio: Seoul - Indonesia - Mauritius. Il programma della visita rifletteva i frutti della vita e dell’attività della Chiesa, della quale è Vescovo da vent’anni il cardinale Jean Margéot. La bellezza della liturgia eucaristica celebrata nella capitale Port Louis, e anche nell’isola Rodrigues, l’incontro con la gioventù, con il clero, con il laicato, e infine, alla partenza, con i bambini - tutto questo ha mostrato una particolare vitalità della Chiesa. Molto solido e coerente è il lavoro collegato con la formazione ad una paternità e maternità responsabili; esso abbraccia pure notevoli cerchie di non cristiani (induisti e musulmani). Veramente si può dire che l’eroica missione del padre Laval permane e si sviluppa nelle generazioni attuali.

6. Concludendo questa catechesi, desidero ancora esprimere la mia gratitudine a tutti coloro che hanno collaborato alla realizzazione di questo viaggio importante. La mia riconoscenza va, innanzitutto, ai rappresentanti della Chiesa: Cardinali, Vescovi, sacerdoti, alle famiglie religiose maschili e femminili e a tutto il laicato. Essa va pure, con particolare deferenza, ai governanti degli Stati e alle persone e istituzioni che da essi dipendono e che hanno contribuito in modo rilevante, in ciascuno dei Paesi visitati, al sereno svolgimento della visita.

Dico quindi a tutti: “Dio vi ricompensi”; e, al di là degli uomini, ringrazio soprattutto Dio stesso e la sua benevola provvidenza.

Ai fedeli di lingua tedesca


Ai connazionali polacchi

Ai fedeli di lingua francese

Ai numerosi fedeli di lingua inglese

Ad un gruppo di pellegrini provenienti dal Giappone

Sia lodato Gesù Cristo!

SALUTO I DIETTISSIMI pellegrini che provengono da ogni parte del Giappone.

Siamo nel mese del Rosario. Vi invito a recitare questa preghiera, che è una potente arma spirituale per invocare l’aiuto materno della Madonna sopra i vostri connazionali, che sono alla ricerca del vero Dio.

Vi benedico di cuore ed estendo la mia benedizione apostolica anche al vostri cari.

Sia lodato Gesù Cristo!

Ai numerosissimi fedeli di lingua spagnola

Ai fedeli di espressione linguistica portoghese

Ai pellegrini ungheresi

ORA DESIDERO salutare nella loro lingua centocinquanta pellegrini ungheresi, presenti all’udienza generale odierna.

Ai numerosi fedeli italiani

Sono lieto di porgere il mio saluto a voi, Fratelli Religiosi delle Province Italiane dei Frati Minori Conventuali, che siete giunti a Roma per un Convegno sulla fisionomia e lo scopo della vostra specifica vocazione nella Chiesa. Con voi saluto i Direttori dei Seminari ed i Maestri dei Noviziati dell’Opera Don Orione, qui convenuti per approfondire il Magistero della Chiesa circa la formazione dei giovani loro affidati. Esorto ciascuno di voi ad essere perseveranti nell’importante compito, che svolgete, ed invoco lo Spirito del Signore, perché operi nei vostri cuori e vi renda sempre più generosi nel manifestare la sua carità e la sua salvezza agli uomini del nostro tempo.
* * *


Rivolgo una parola cordiale a voi, Religiose delle Piccole Sorelle dei Poveri, ed auspico che la familiarità con Cristo, approfondita nel prezioso periodo degli Esercizi Spirituali, sia sorgente di pace per voi e per tutte le persone, che nella solitudine ed infermità della loro età avanzata, ricevono da voi cure e conforto.
* * *


Saluto i membri dell’Associazione Artigiani di Asti, cui rivolgo la mia parola di apprezzamento per lo spirito di dedizione, che anima il loro lavoro: saluto inoltre i Soci del Lions Club di Orvieto, che hanno voluto partecipare a questa Udienza per dare un coronamento spirituale ad un importante anniversario della loro vita associativa. Li affido alla protezione della Vergine Maria, chiedendo per tutti la gioia vera che proviene dall’amore di Cristo.

Ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli

Il mio saluto cordiale e affettuoso si rivolge ora ai giovani, ai malati ed agli sposi novelli, che partecipano a questa Udienza Generale.

Carissimi, vi sono riconoscente per la vostra presenza, che è un atto di profonda e convinta fede cristiana, ed anche un gesto di amore e di devozione verso il Papa. Oggi la Liturgia ci fa celebrare la festa di San Luca, discepolo di San Paolo e autore del terzo Vangelo e degli Atti degli Apostoli. Colgo volentieri l’occasione per esortarvi a leggere e a meditare gli scritti di San Luca, storico meticoloso e appassionato, “scriba mansuetudinis Christi” come lo definì Dante Alighieri, per comprenderli e viverli profondamente. Invocate anche con fervore l’intercessione del Santo Evangelista, affinché illumini le menti di voi giovani: conforti voi malati, nelle vostre sofferenze; sorregga le nuove famiglie iniziate da voi, sposi novelli.

E vi accompagni sempre la mia Benedizione!




Mercoledì, 25 ottobre 1989

25109

1. Leggiamo negli Atti degli Apostoli che discesa dello Spirito Santo, quando gli apostoli cominciarono a parlare nelle varie lingue “tutti erano stupiti e perplessi, chiedendosi l’un l’altro: “Che significa questo”?” (
Ac 2,12). Gli Atti permettono ai lettori di scoprire il significato di quel fatto straordinario, perché hanno già descritto ciò che avvenne nel Cenacolo, quando gli apostoli e i discepoli di Cristo - uomini e donne - riuniti insieme a Maria, sua madre, furono “pieni di Spirito Santo” (Ac 2,4). In questo evento lo Spirito-paraclito in se stesso rimane invisibile. È invece visibile il comportamento di coloro nei quali e attraverso i quali lo Spirito agisce. Difatti, dal momento in cui gli apostoli escono dal Cenacolo, il loro insolito comportamento viene notato dalla folla che accorre e si riunisce lì intorno. Tutti, dunque, si domandano: “Che significa questo?”. L’autore degli Atti non manca di aggiungere che tra i testimoni dell’evento vi erano pure alcuni che si beffavano del comportamento degli apostoli, insinuando che probabilmente “si erano ubriacati di mosto” (Ac 2,13).

In quella situazione diveniva indispensabile una parola di spiegazione. Ci voleva una parola che chiarisse il giusto senso dell’accaduto: una parola che, anche a coloro che si erano radunati all’esterno del Cenacolo, facesse conoscere l’azione dello Spirito Santo, sperimentata da quelli che vi erano riuniti nell’ora della discesa dello Spirito Santo.

2. Fu l’occasione propizia per il primo discorso di Pietro, che ispirato dallo Spirito Santo, parlando anche a nome e in comunione con gli altri, esercitò per la prima volta la sua funzione di araldo del Vangelo, di predicatore della verità divina, di testimone della Parola, e diede inizio, si può dire, alla missione dei Papi e dei Vescovi che, durante i secoli, sarebbero succeduti a lui e agli altri apostoli. “Allora Pietro levatosi in piedi con gli altri Undici, parlò a voce alta così” (Ac 2,14).

In questo intervento di Pietro appare qual era fin dall’inizio la struttura apostolica della Chiesa. Gli undici condividono con Pietro la stessa missione, la vocazione a rendere con autorità la stessa testimonianza. Pietro parla come il primo tra loro in forza del mandato ricevuto direttamente da Cristo. Nessuno mette in dubbio il compito e il diritto che proprio lui ha di parlare per primo e in nome degli altri. Già in quel fatto si manifesta l’azione dello Spirito Santo, il quale - secondo il Concilio Vaticano II - “guida la Chiesa . . . la unifica . . . e dirige con diversi doni gerarchici e carismatici” (Lumen Gentium LG 4).

3. Quell’intervento di Pietro a Gerusalemme, in comunione con gli altri undici, indica altresì che il primo tra i doveri pastorali è l’annuncio della Parola: l’evangelizzazione. È ciò che insegna anche il Concilio Vaticano II: “I Vescovi . . . sono gli araldi della fede che portano a Cristo nuovi discepoli, sono dottori autentici, cioè rivestiti dell’autorità di Cristo, che predicano al popolo loro affidato la fede da credere e da applicare nella pratica della vita, e la illustrano alla luce dello Spirito Santo, traendo fuori dal tesoro della Rivelazione cose nuove e vecchie (Mt 13,52), la fanno fruttificare e vegliano per tenere lontano dal loro gregge gli errori che lo minacciano (cf. 2Tm 4,1-4)” (Lumen Gentium LG 25). Anche “i Presbìteri, nella loro qualità di cooperatori dei Vescovi, hanno anzitutto il dovere di annunciare a tutti il Vangelo di Dio, seguendo il mandato del Signore: “Andate nel mondo intero e predicate il Vangelo a ogni creatura” (Mc 16,15) e possono così costituire e incrementare il Popolo di Dio” (Presbyterorum Ordinis PO 4).

4. Inoltre, si può ancora osservare che, stando a quella pagina degli Atti, per l’evangelizzazione non bastano i soli “interventi” erompenti da un trasporto carismatico. Essi provengono dallo Spirito Santo e, sotto alcuni aspetti, danno la prima testimonianza del suo operare, come si è visto nella “glossolalia” del giorno della Pentecoste. Tuttavia è indispensabile anche una evangelizzazione autorevole, motivata e quando occorre “sistematica”, come avviene già nei tempi apostolici e nella prima comunità di Gerusalemme col kerigma e la catechesi, che - sotto l’azione dello Spirito - permettono alle menti di scoprire nella sua unità e “comprendere” nel suo significato il piano divino di salvezza. È proprio ciò che avvenne nel giorno di Pentecoste. Occorreva che alle persone di diverse nazioni radunate fuori del Cenacolo fosse manifestato e spiegato l’evento appena verificatosi; occorreva istruirle sul piano salvifico di Dio, espresso in ciò che era accaduto.

5. Il discorso di Pietro è importante anche da questo punto di vista. Proprio per questo, prima di passare all’esame del suo contenuto, fermiamoci un momento sulla figura di colui che parla.

Pietro, già nel periodo prepasquale, aveva fatto due volte la professione di fede in Cristo.

Una volta, dopo l’annuncio eucaristico nei pressi di Cafarnao, a Gesù, che, vedendo allontanarsi molti suoi discepoli, aveva domandato agli apostoli: “Forse anche voi volete andarvene?” (Jn 6,67), Pietro aveva risposto con quelle parole di fede ispirate dall’Alto: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Jn 6,68-69).

Un’altra volta, la professione di fede di Pietro avvenne nei pressi di Cesarea di Filippo, quando Gesù chiese agli apostoli: “Voi chi dite che io sia?”. Secondo Matteo, “Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»” (Mt 16,15-16).

Ora, nel giorno di Pentecoste, Pietro, ormai affrancato dalla crisi di paura che nei giorni della Passione lo aveva portato al rinnegamento, professa quella stessa fede in Cristo, rafforzata dall’evento pasquale, e proclama apertamente dinanzi a tutta quella gente che Cristo era risorto! (cf. Ac 2,24 ss.).

6. Inoltre, prendendo la parola in quel modo, Pietro manifesta la consapevolezza sua e degli altri undici che il responsabile principale della testimonianza e dell’insegnamento della fede in Cristo è lui, anche se gli undici ne condividono come lui il compito e la responsabilità. Pietro è cosciente di quello che fa quando, con quel suo primo “discorso”, esercita la missione di docente, che gli deriva dal suo “ufficio” apostolico.

D’altra parte, il discorso di Pietro è, in certo modo, un prolungamento dell’insegnamento di Gesù stesso: come Cristo esortava alla fede coloro che l’ascoltavano, così anche Pietro, pur svolgendo Gesù il suo ministero nel periodo pre-pasquale, si può dire nella prospettiva della sua Risurrezione, mentre Pietro parla e agisce alla luce della Pasqua ormai avvenuta, che ha confermato la verità della missione e del Vangelo di Cristo. Egli parla e agisce sotto l’influsso dello Spirito Santo - lo Spirito della verità - richiamando alle opere e alle parole di Cristo, che gettano luce sull’evento stesso della Pentecoste.

7. E infine: leggiamo nel testo degli Atti degli Apostoli che “Pietro . . . parlò a voce alta” (2, 14). L’autore qui sembra voler alludere non soltanto alla forza della voce di Pietro, ma anche e soprattutto alla forza di convinzione e all’autorità con cui prese la parola. Succedeva qualcosa di simile a ciòche i Vangeli narrano di Gesù, cioè che quando ammaestrava gli ascoltatori “. . . erano stupiti del suo insegnamento, perché insegnava loro come uno che ha autorità” (Mc 1,22 cf. etiam Mt 7,29), “perché parlava con autorità” (Lc 4,32).

Il giorno di Pentecoste Pietro e gli altri apostoli, avendo ricevuto lo Spirito della verità, potevano con la sua forza parlare sull’esempio di Cristo. Fin dal primo discorso, Pietro esprimeva nelle sue parole l’autorità della stessa verità rivelata.

Ai numerosi gruppi di lingua tedesca

Ai fedeli di lingua francese

Ai fedeli di espressione inglese

Ai fedeli provenienti da aree di lingua spagnola

Ai fedeli di lingua portoghese


Ai connazionali polacchi

Ai pellegrini di lingua italiana

Giunga ora la mia parola di benvenuto e di cordiale saluto a voi, Responsabili Maggiori del Movimento dei Focolari, che siete convenuti da tutti i Continenti per l’annuale incontro, nel quale siete soliti riflettere sull’attività svolta e sulla strada da percorrere in futuro.

In questo cammino di annuncio missionario e di approfondimento della dottrina e della pratica cristiana, vi sono vicino con la preghiera perché la grazia del Signore vi renda lievito di verità e di carità in mezzo ai fratelli e alle sorelle, a cui portate la vostra testimonianza cristiana.

Ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli

Rivolgo pure un saluto cordiale ai giovani, agli ammalati ed alle nuove coppie di sposi.

Carissimi, vorrei attirare la vostra attenzione sulla figura e la missione di San Giuseppe, del quale ho scritto nella Esortazione Apostolica, che proprio ieri è stata resa pubblica.

San Giuseppe ha sperimentato “sia l’amore della verità che l’esigenza dell’amore”: vi auguro che possiate crescere ogni giorno, come San Giuseppe, nella contemplazione della Verità divina che irradia dall’umanità di Cristo.

Contemplazione e servizio ai fratelli sono - alla radice - puro amore, capace di “custodire” e rendere sempre più bella la Chiesa del nostro tempo.

Che San Giuseppe vi ottenga di vivere nella gioiosa fedeltà, nella perseveranza di fronte alle prove e nell’amore evangelico.

Con la mia Benedizione.



Mercoledì, 8 novembre 1989

8119

1. Prima di tornare al Padre, Gesù aveva promesso agli apostoli: “Riceverete forza dallo Spirito Santo, che scenderà su di voi, e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Galilea e la Samaria e fino agli estremi con fini della terra” (
Ac 1,8). Come ho scritto nell’enciclica Dominum et Vivificantem, “il giorno della Pentecoste tale annuncio si avvera in tutta esattezza. Agendo sotto l’influsso dello Spirito Santo, ricevuto dagli apostoli durante la preghiera nel Cenacolo, davanti ad una moltitudine di gente di diverse lingue, radunata per la festa, Pietro si presenta e parla. Proclama ciò che certamente non avrebbe avuto coraggio di dire in precedenza” (Dominum et Vivificantem DEV 30). È la prima testimonianza data pubblicamente e quasi si direbbe solennemente a Cristo risorto, a Cristo vittorioso. È anche l’inizio del kerigma apostolico.

2. Già nell’ultima catechesi ne abbiamo parlato, esaminandolo dal punto di vista del soggetto docente: “Pietro con gli altri Undici” (cf. Ac 2,14). Oggi vogliamo analizzare quel primo kerigma nel suo contenuto, come modello o schema dei molti altri “annunci” che seguiranno negli Atti degli Apostoli - e poi nella storia della Chiesa.

Pietro si rivolge a coloro che si sono riuniti nei pressi del Cenacolo, apostrofandoli: “Uomini di Giudea, e voi tutti che vi trovate a Gerusalemme” (Ac 2,14). Sono gli stessi che hanno assistito al fenomeno della glossolalia, sentendo ciascuno nella propria lingua la lode, pronunciata dagli apostoli, delle “grandi opere di Dio” (cf. Ac 2,11). Nel suo discorso, Pietro comincia col prendere la difesa o almeno col precisare la condizione di coloro che “battezzati in Spirito Santo” (Ac 2,4), per il comportamento insolito tenuto sono sospettati di ubriachezza. E fin dalle prime parole dà la risposta: “Questi uomini non sono ubriachi come voi sospettate, essendo appena le nove del mattino. Accade invece quello che predisse il profeta Gioele” (Ac 2,15-16).

3. Negli Atti è riportato ampiamente il passo del profeta: “Negli ultimi giorni, dice il Signore, io effonderò il mio Spirito sopra ogni persona; i vostri figli e le vostre figlie profeteranno” (Ac 2,17). Questa “effusione di Spirito” riguarda sia i giovani che gli anziani, gli schiavi e le schiave - avrà dunque carattere universale. E verrà confermata da segni: “Farò prodigi in alto nel cielo e segni in basso sulla terra” (Ac 2,19). Questi saranno i segni del “giorno del Signore” che si sta avvicinando (cf. Ac 2,20): “Allora chiunque invocherà il nome del Signore, sarà salvato” (Ac 2,21).

4. Nell’intenzione dell’oratore, il testo di Gioele serve a spiegare in modo adatto il significato dell’evento, di cui i presenti hanno visto i segni: “l’effusione dello Spirito Santo”. Si tratta di una azione soprannaturale di Dio congiunta ai segni tipici della venuta di Dio, predetta dai profeti e identificata dal nuovo testamento con la venuta stessa di Cristo. Questo è il contesto in cui l’Apostolo riversa il contenuto essenziale del suo discorso, che è il nucleo stesso del kerigma apostolico: “Uomini d’Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nazaret - uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso operò fra di voi per opera sua, come voi ben sapete -, dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso. Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere” (Ac 2,22-24).

Forse non tutti i presenti al discorso di Pietro, venuti da molte regioni per la Pasqua e la Pentecoste, avevano partecipato agli avvenimenti di Gerusalemme che si erano conclusi con la crocifissione di Cristo. Ma l’Apostolo si rivolge anche a loro come a “uomini d’Israele”, appartenenti cioè a un mondo antico nel quale, ormai, per tutti erano brillati i segni della nuova venuta del Signore.

5. I segni e i miracoli ai quali faceva riferimento Pietro, certamente erano ancora nel ricordo dei gerosolimitani, ma anche di molti altri suoi uditori, che dovevano aver sentito almeno parlare di Gesù di Nazaret. Ad ogni modo, dopo aver ricordato tutto ciò che Cristo aveva operato, l’Apostolo passa al fatto della sua morte di Croce e parla direttamente della responsabilità di coloro che avevano consegnato Gesù a morte. Aggiunge però che Cristo “fu consegnato . . . secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio” (cf. Ac 2,23). Pietro dunque introduce coloro che l’ascoltano nella visione del piano salvifico di Dio che si è compiuto proprio per mezzo della morte di Cristo. E si affretta a dare la conferma decisiva dell’azione di Dio mediante e al di sopra di ciò che hanno fatto gli uomini. Tale conferma è la Risurrezione di Cristo: “Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere” (Ac 2,24).

È il punto culminante del kerigma apostolico su Cristo salvatore e vincitore.

6. Ma a questo punto l’Apostolo ricorre nuovamente all’antico testamento. Riporta infatti il Salmo messianico (Ps 16,8-11).

“Contemplavo sempre il Signore innanzi a me, / poiché egli sta alla mia destra, / perché io non vacilli. / Per questo si rallegrò il mio cuore / ed esultò la mia lingua; / ed anche la mia carne riposerà nella speranza / perché tu non abbandonerai l’anima mia negli inferi / né permetterai che il tuo Santo veda la corruzione. / Mi hai fatto conoscere le vie della vita, / mi colmerai di gioia con la tua presenza” (Ac 2,25-28).

È un legittimo adattamento del Salmo davidico, che l’autore degli Atti cita secondo la versione greca dei settanta, che accentua l’aspirazione dell’anima ebraica a sfuggire alla morte, nel senso della speranza di liberazione anche dalla morte già avvenuta.

7. A Pietro, senza dubbio, preme sottolineare che le parole del Salmo non riguardano Davide, la cui tomba - egli osserva - “è ancora oggi in mezzo a noi”. Riguardano, invece, il suo discendente, Gesù Cristo: Davide “previde la risurrezione del Messia e ne parlò” (Ac 2,31). Si sono dunque adempiute le parole profetiche: “Questo Gesù Dio l’ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire . . . Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso” (Ac 2,32-33 Ac 2,36).

8. Il giorno prima della sua Passione Gesù aveva detto agli apostoli nel Cenacolo, parlando dello Spirito Santo: “Egli mi renderà testimonianza, e . . . anche voi mi renderete testimonianza” (Jn 15,26-27). Come ho scritto nell’enciclica Dominum et Vivificantem, “nel primo discorso di Pietro a Gerusalemme tale “testimonianza” trova il suo chiaro inizio: è la testimonianza intorno a Cristo crocifisso e risorto. Quella dello Spirito-paraclito e degli apostoli” (Dominum et Vivificantem DEV 30).

In questa testimonianza Pietro vuole richiamare i suoi uditori al mistero di Cristo risorto, ma vuole anche spiegare i fatti, ai quali hanno assistito nella Pentecoste, mostrandoli come segni della venuta dello Spirito Santo. Il Paraclito è venuto veramente in virtù della Pasqua di Cristo. È venuto e ha trasformato quegli uomini di Galilea, ai quali è stata affidata la testimonianza su Cristo. È venuto perché inviato da Cristo, “innalzato alla destra del Padre” (cf. Ac 2,33), cioè esaltato per la sua vittoria sulla morte. La sua venuta è dunque una conferma della potenza divina del Risorto. “Sappia dunque tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso”, conclude Pietro (Ac 2,36). Anche Paolo scrivendo ai Romani proclamerà: “Gesù è Signore!” (Rm 10,9).

Ai fedeli di lingua francese

Ai diversi gruppi di espressione inglese

A rappresentanti del Buddhismo Shingon e dello Shintoismo

SALUTO IL VENERABILE Gimyo Inaba, il Venerabile Yukitaka Yamamoto e le illustri personalità del Buddhismo Shingon e dello Shintoismo che li accompagnano.

Tre anni fa, ad Assisi, i massimi rappresentanti delle religioni hanno posto le basi di un’azione comune che favorisca la pace nel mondo. Mi rallegro per quanto anche voi fate per un più fruttuoso dialogo tra le religioni. Auspico che questo dialogo si approfondisca sempre più per il vero bene di tutta l’umanità.

Vi ringrazio per questa vostra visita ed auguro ogni bene a voi e a tutte le persone che rappresentate.

Ai diversi gruppi di espressione linguistica tedesca

Ai fedeli provenienti da Paesi di espressione spagnola


A giocatori e dirigenti della squadra di calcio sovietica del Dniepr

Sono lieto di salutare la squadra sovietica di calcio dello “Dniepr”.

IL SIGNORE VOGLIA che la vostra attività sportiva giovi ad elevare gli spiriti di bontà, di fraternità e di sostegno morale all’uomo.

Ai suoi connazionali polacchi


Ai giovani, agli ammalati e sposi novelli

SALUTO ORA i giovani, gli ammalati, gli sposi novelli, qui convenuti per questa Udienza alla vigilia della Festa della Dedicazione della Basilica Lateranense: Cattedrale di Roma.

Carissimi, questa ricorrenza vi aiuti a riscoprire il significato della vostra appartenenza alla Chiesa Universale e alle singole Chiese locali, e a realizzarne le intime esigenze di comunione e di amore.

A voi, giovani, auguro di essere sempre pronti ad offrire il vostro specifico contributo perché i vostri gruppi siano centri di autentica comunione. Invito voi, ammalati, a pregare affinché le comunità di cui fate parte siano testimonianze credibili della presenza del Regno di Dio nel mondo. Auguro a voi, sposi novelli, di essere pronti a rendere le vostre famiglie delle pietre vive per la costruzione dell’edificio della Chiesa domestica.

A tutti imparto la mia Benedizione.





Catechesi 79-2005 41089