Catechesi 79-2005 7793

Sabato, 17 luglio 1993


1. Nei Vangeli, quando Gesù chiamò i suoi primi Apostoli per fare di essi dei “pescatori di uomini” (Mt 4,19 Mc 1,17 cf. Lc 5,10), essi “lasciarono tutto e lo seguirono” (Lc 5,11 cf. Mt 4,20 Mt 4,22 Mc 1,18 Mc 1,20). Un giorno fu lo stesso Pietro a ricordare questo aspetto della vocazione apostolica, dicendo a Gesù: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito” (Mt 19,27 Mc 10,28 cf. Lc 18,28).Gesù allora elencò tutti i distacchi necessari “a causa mia – disse – e a causa del Vangelo” (Mc 10,29). Non si trattava soltanto di rinunciare a dei beni materiali, come la “casa” o i “campi”, ma anche di separarsi dalle persone più care: “fratelli o sorelle o padre o madre o figli”, – così dicono Matteo e Marco – “moglie o fratelli o genitori o figli”, – così dice Luca (18, 29).

Osserviamo qui la diversità delle vocazioni. Non da tutti i suoi discepoli Gesù esigeva la rinuncia radicale alla vita in famiglia, benché da tutti esigesse il primo posto nel cuore quando diceva: “Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me” (Mt 10,37). L’esigenza di rinuncia effettiva è propria della vita apostolica oppure della vita di consacrazione speciale. Chiamati da Gesù, “Giacomo di Zebedeo e Giovanni suo fratello” non lasciarono solo la barca in cui “riassettavano le reti”, ma anche il loro padre, con il quale si trovavano (Mt 4,22 cfr Mc 1,20).

Queste constatazioni ci aiutano a capire il perché della legislazione ecclesiastica circa il celibato sacerdotale. La Chiesa, infatti, ha ritenuto e ritiene che esso rientri nella logica della consacrazione sacerdotale e della conseguente appartenenza totale a Cristo in vista dell’attuazione consapevole del suo mandato di vita spirituale e di evangelizzazione.

2. Infatti, nel Vangelo secondo Matteo, un po’ prima del brano sulla separazione dalle persone care, che abbiamo appena citato, Gesù esprime in forte linguaggio semitico un’altra rinuncia richiesta “a causa del Regno dei cieli”, la rinuncia, cioè, al matrimonio. “Vi sono, dice, degli eunuchi che si sono resi tali a causa del Regno dei cieli” (Mt 19,12). Essi si sono, cioè, impegnati al celibato per mettersi interamente al servizio del “Vangelo del Regno” (cfr Mt 4,23 Mt 9,35 Mt 24,34).

Nella sua Prima Lettera ai Corinzi, l’Apostolo Paolo afferma di aver preso risolutamente questo cammino e dimostra la coerenza della propria decisione dichiarando: “Chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore. Chi è sposato, invece, si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso!” (1Co 7,32-34). Certo, non conviene che “si trovi diviso” colui che è stato chiamato a occuparsi, come Sacerdote, delle cose del Signore. Come dice il Concilio, l’impegno del celibato, derivante da una tradizione che si ricollega a Cristo, è “particolarmente confacente alla vita sacerdotale. È infatti segno e allo stesso tempo stimolo della carità pastorale, e fonte di fecondità spirituale nel mondo” (Presbyterorum Ordinis PO 16).

È ben vero che nelle Chiese orientali molti Presbiteri sono legittimamente coniugati secondo il diritto canonico che li concerne. Anche in quelle Chiese, tuttavia, i Vescovi vivono nel celibato, e così pure un certo numero di Sacerdoti. La differenza di disciplina, legata a condizioni di tempo e di luogo valutate dalla Chiesa, si spiega col fatto che la perfetta continenza, come dice il Concilio, “non è richiesta dalla natura stessa del sacerdozio” (PO 16). Essa non appartiene all’essenza del sacerdozio come Ordine, e quindi non è imposta in modo assoluto in tutte le Chiese. Non sussistono, tuttavia, dubbi circa la sua convenienza e anzi congruenza con le esigenze dell’Ordine sacro. Rientra, come s’è detto, nella logica della consacrazione.

3. L’ideale concreto di questa condizione di vita consacrata è Gesù, modello di tutti, ma specialmente dei Sacerdoti. Egli visse da celibe, e per questo poté dedicare tutte le sue forze alla predicazione del Regno di Dio e al servizio degli uomini, con un cuore aperto all’intera umanità, come capostipite di una nuova generazione spirituale. La sua scelta fu veramente “per il Regno dei Cieli” (cfr Mt 19,12).

Con il suo esempio, Gesù indicava un orientamento, che è stato seguito. Stando ai Vangeli, sembra che i Dodici, destinati ad essere i primi partecipi del suo sacerdozio, abbiano rinunciato, per seguirlo, a vivere in famiglia. I Vangeli non parlano mai di mogli o di figli a proposito dei Dodici, anche se ci lasciano sapere che Pietro, prima di essere chiamato da Gesù era un uomo sposato (cfr Mt 8,14 Mc 1,30 Lc 4,38).

4. Gesù non ha promulgato una legge, ma proposto un ideale del celibato, per il nuovo sacerdozio che istituiva. Questo ideale si è affermato sempre più nella Chiesa. Si può capire che nella prima fase di propagazione e di sviluppo del Cristianesimo un gran numero di Sacerdoti fosse composto da uomini sposati, scelti e ordinati sulla scia della tradizione giudaica. Sappiamo che nelle Lettere a Timoteo (1Tm 3,2-33) e a Tito (Tt 1,6) viene richiesto che, tra le qualità degli uomini prescelti come Presbiteri, ci sia quella di essere buoni padri di famiglia, sposati a una sola donna (cioè fedeli alle loro mogli). È una fase di Chiesa in via di organizzazione e, si può dire, di sperimentazione di ciò che, come disciplina degli stati di vita, corrisponda meglio all’ideale e ai “consigli” proposti dal Signore. In base all’esperienza e alla riflessione si è progressivamente affermata la disciplina del celibato fino a generalizzarsi nella Chiesa occidentale in forza della legislazione canonica. Non era solo la conseguenza di un fatto giuridico e disciplinare: era la maturazione di una coscienza ecclesiale sulla opportunità del celibato sacerdotale per ragioni non solo storiche e pratiche, ma anche derivanti dalla congruenza sempre meglio scoperta tra il celibato e le esigenze del sacerdozio.

5. Il Concilio Vaticano II enuncia i motivi di tale “intima convenienza” del celibato con il sacerdozio: “Con la verginità o il celibato osservato per il Regno dei cieli, i Presbiteri si consacrano a Cristo con un nuovo ed eccelso titolo, aderiscono più facilmente a Lui con un amore non diviso, si dedicano più liberamente in Lui e per Lui al servizio di Dio e degli uomini, servono con maggiore efficacia il suo Regno e la sua opera di rigenerazione divina, e in tal modo si dispongono meglio a ricevere una più ampia paternità in Cristo”. Essi “evocando così quell’arcano sposalizio istituito da Dio, e che si manifesterà pienamente nel futuro, per il quale la Chiesa ha come suo unico Sposo Cristo... diventano segno vivente di quel mondo futuro, presente già attraverso la fede e la carità, nel quale i figli della risurrezione non si uniscono in matrimonio” (PO 16 cf. Pastores dabo vobis PDV 29 PDV 50 CCC PDV 1579).

Sono ragioni di nobile elevatezza spirituale, che possiamo riassumere nei seguenti elementi essenziali: l’adesione più piena a Cristo, amato e servito con un cuore non diviso (cf. 1Co 7,32-33); la disponibilità più ampia al servizio del Regno di Cristo e, all’adempimento dei propri compiti nella Chiesa; la scelta più esclusiva di una fecondità spirituale (cf. 1Co 4,15); la pratica di una vita simile a quella definitiva nell’al di là, e perciò più esemplare per la vita nell’al di qua. Ciò vale per tutti i tempi, anche per il nostro, come ragione e criterio supremo di ogni giudizio e di ogni scelta in armonia con l’invito di “lasciare tutto”, rivolto da Gesù ai discepoli e specialmente agli Apostoli. Per questo il Sinodo dei Vescovi del 1971 ha confermato: “La legge del celibato sacerdotale, vigente nella Chiesa latina, deve essere integralmente conservata” (Ench. Vat., IV, 1219).

6. È vero che oggi la pratica del celibato trova ostacoli, a volte anche gravi, nelle condizioni soggettive e oggettive in cui i Sacerdoti vengono a trovarsi. Il Sinodo dei Vescovi le ha considerate, ma ha ritenuto che anche le odierne difficoltà siano superabili, se si promuovono “le condizioni opportune, e cioè: l’incremento della vita interiore con l’aiuto della preghiera, dell’abnegazione, dell’ardente carità verso Dio e verso il prossimo, e con gli altri sussidi della vita spirituale; l’equilibrio umano attraverso un ordinato inserimento nella compagine delle relazioni sociali; i fraterni rapporti e i contatti con gli altri Presbiteri e col Vescovo. attuando meglio, a tale scopo, le strutture pastorali, e anche con l’aiuto della comunità dei fedeli” (Ench. Vat. IV, 1216).

È una sorta di sfida che la Chiesa lancia alla mentalità, alle tendenze, alle mentalità, alle tendenze, alle malie del secolo, con una sempre nuova volontà di coerenza e di fedeltà all’ideale evangelico. Per questo, pur ammettendo che il Sommo Pontefice possa valutare e disporre il da farsi in taluni casi, il Sinodo ha riaffermato che nella Chiesa latina “l’ordinazione presbiterale di uomini sposati non è ammessa neppure in casi particolari” (Ivi, IV, 1220). La Chiesa ritiene che la coscienza di consacrazione totale, maturata nei secoli, abbia tuttora ragione di sussistere e di perfezionarsi sempre più.

La Chiesa sa pure, e lo ricorda ai Presbiteri e a tutti i fedeli col Concilio, che “il dono del celibato, così confacente al sacerdozio della Nuova Legge, viene concesso in grande misura dal Padre, a condizione che tutti coloro che partecipano del Sacerdozio di Cristo col sacramento dell’Ordine, anzi la Chiesa intera, lo richiedano con umiltà e insistenza” (PO 16).

Ma forse, ancor prima, è necessario chiedere la grazia di capire il celibato sacerdotale, che senza dubbio include un certo mistero: quello della richiesta di audacia e di fiducia nell’attaccamento assoluto alla persona e all’opera redentiva di Cristo, con un radicalismo di rinunce che agli occhi umani può apparire sconvolgente. Gesù stesso, nel suggerirlo, avverte che non tutti possono capirlo (cf. Mt 19,10-12). Beati coloro che ricevono la grazia di capirlo, e rimangono fedeli su questa via!

Ai fedeli di lingua francese

Ai pellegrini di lingua inglese

Ai fedeli di lingua tedesca

Ai fedeli di lingua spagnola

Ai pellegrini di lingua portoghese

Ai pellegrini polacchi

Ad alcuni fedeli croati

Saluto cordialmente i cari pellegrini croati, che sono venuti a pregare sulle tombe dei SS. Apostoli Pietro e Paolo per la pace in Croazia e in Bosnia ed Erzegovina. Esaudisca il Signore le vostre preghiere ed illumini le menti dei responsabili delle nazioni, affinché agiscano secondo i criteri della giustizia, per ridare la vera pace e la libertà ai popoli dei Balcani. A tutti imparto la benedizione apostolica. Siano lodati Gesù e Maria!

Ai fedeli di lingua italiana

Rivolgo ora un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana, in particolare al Presidente, al Magistrato ed ai membri del Consiglio di Amministrazione dell’Arciconfraternita della Misericordia di Viareggio, che sono venuti per far benedire la prima pietra per la costruzione del nuovo “Centro di Prevenzione e Cura Oncologica”. Con loro è presente anche il gruppo di giovani studenti del Liceo Classico di Leopoli, accompagnati dal Signor Cardinale Myroslav Ivan Lubachivsky. Essi frequentano in questo mese di luglio un corso di lingua italiana offerto e realizzato da tale Arciconfraternita. Sono presenti, inoltre, i ragazzi dell’Istituto “Elisabetta De Sortis”, assistiti dai membri del Pio sodalizio e dalle Suore della Congregazione Santa Marta. Partecipano, infine, a questa Udienza gli organizzatori ed i giovani partecipanti alle Olimpiadi Internazionali della Chimica, che quest’anno celebrano il loro 25° anniversario di istituzione. Carissimi, vi esprimo di cuore la mia gratitudine per la vostra presenza e vi auguro che questo incontro aiuti a rafforzare in voi i generosi propositi di testimonianza di fede e di solidarietà cristiana.

Ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli

Ed ora un particolare saluto a tutti i giovani, ammalati e sposi novelli.

Cari giovani, in questo periodo estivo vi esorto a far maturare sempre più la vostra amicizia con Dio, per essere veri testimoni di luce, speranza e pace in questa società.

Invito anche voi, ammalati, a tradurre nella vostra esistenza i profondi sentimenti di Cristo, per poter trovare conforto nel Signore sofferente, che continua la sua opera di redenzione nella vita di ogni uomo.

A voi, sposi novelli, esprimo l’auspicio di scoprire il mistero di Dio che si dona per la salvezza di tutti, affinché il vostro amore sia sempre più vero, duraturo e solidale verso gli altri.

A tutti la mia benedizione.



Mercoledì, 21 luglio 1993

21793

1. Tra le richieste di rinunzia, fatte da Gesù ai suoi discepoli, vi è quella che riguarda i beni terreni, ed in particolare la ricchezza (cf.
Mt 19,21 Mc 10,21 Lc 12,33 Lc 18,22). È una richiesta rivolta a tutti i cristiani per ciò che riguarda lo spirito di povertà, cioè il distacco interiore dai beni terreni, distacco che rende generosi nel condividerli con altri. La povertà è un impegno di vita ispirato dalla fede in Cristo e dall’amore per Lui. È uno spirito. che esige anche una pratica, in una misura di rinuncia ai beni corrispondente alla condizione di ciascuno sia nella vita civile, sia nello stato in cui viene a trovarsi nella Chiesa in forza della vocazione cristiana, sia come singolo che come membro di un determinato ceto di persone. Per tutti vale lo spirito di povertà; per ciascuno è necessaria una certa pratica conforme al Vangelo.

2. La povertà richiesta da Gesù agli Apostoli è un filone di spiritualità che non poteva esaurirsi con loro, né ridursi a gruppi particolari: lo spirito di povertà è necessario per tutti, in ogni luogo e in ogni tempo; venirvi meno sarebbe tradire il Vangelo. La fedeltà allo spirito non comporta però, né per i cristiani in generale né per i sacerdoti, la pratica di una povertà radicale con la rinuncia ad ogni proprietà, o addirittura con l’abolizione di questo diritto dell’uomo. Il magistero della Chiesa ha più volte condannato coloro che sostenevano questa necessità (cf. Denz. DS 760 DS 930-931 DS 1097), cercando di condurre su una via di moderazione il pensiero e la prassi. E però confortante constatare che, nella evoluzione dei tempi e sotto l’influsso di tanti Santi antichi e moderni, è maturata sempre più nel clero la coscienza di una chiamata alla povertà evangelica, sia come spirito sia come pratica, in correlazione con le esigenze della consacrazione sacerdotale. Le situazioni sociali ed economiche in cui è venuto a trovarsi il clero in quasi tutti i Paesi del mondo hanno contribuito a rendere effettiva la condizione di povertà reale delle persone e delle istituzioni, anche quando queste per la loro stessa natura hanno bisogno di molti mezzi per poter adempiere i loro compiti. In molti casi è una condizione difficile e affliggente, che la Chiesa cerca di superare in vari modi, e principalmente appellandosi alla carità dei fedeli per avere da loro il contributo necessario per provvedere al culto, alle opere di carità, al mantenimento dei pastori d’anime, alle iniziative missionarie. Ma l’acquisizione di un nuovo senso della povertà è una benedizione per la vita sacerdotale, come per quella di tutti i cristiani, perché permette di meglio adeguarsi ai consigli e alle proposte di Gesù.

3. La povertà evangelica – è opportuno chiarirlo – non comporta disprezzo per i beni terreni, messi da Dio a disposizione dell’uomo per la sua vita e per la sua collaborazione al disegno della creazione. Secondo il Concilio Vaticano II, il Presbitero – come ogni altro cristiano –, avendo una missione di lode e di azione di grazie, deve riconoscere e magnificare la generosità del Padre celeste che si rivela nei beni creati (Presbyterorum Ordinis PO 17).

Tuttavia, aggiunge il Concilio, i Presbiteri, pur vivendo in mezzo al mondo devono avere sempre presente che, come ha detto il Signore, non appartengono al mondo (cf. Jn 17,14-16), e devono perciò liberarsi da ogni disordinato attaccamento, per acquistare “la discrezione spirituale che consente di mettersi nel giusto rapporto con il mondo e le realtà terrestri” (Ivi; cf. Pastores dabo vobis PDV 30). Occorre riconoscere che si tratta di un problema delicato. Da una parte, “la missione della Chiesa si svolge in mezzo al mondo, e i beni creati sono del tutto necessari per lo sviluppo personale dell’uomo”. Gesù non ha vietato ai suoi Apostoli di accettare i beni necessari per la loro esistenza terrena. Anzi egli ha affermato il loro diritto in proposito quando ha detto in un discorso di missione: “Mangiate e bevete di quello che hanno, perché l’operaio è degno della sua mercede” (Lc 10,7 cf. Mt 10,10). San Paolo rammenta ai Corinzi che “il Signore ha disposto che quelli che annunziano il Vangelo vivano del Vangelo” (1Co 9,14). Egli stesso prescrive con insistenza che “chi viene istruito nella dottrina faccia parte di quanto possiede a chi lo istruisce” (Ga 6,6). È giusto dunque che i Presbiteri abbiano dei beni terreni e ne usino “per quei fini ai quali possono essere destinati, d’accordo con la dottrina di Cristo Signore e gli orientamenti della Chiesa” (PO 17). Il Concilio non ha mancato di proporre, al riguardo, concrete indicazioni.

Anzitutto, l’amministrazione dei beni ecclesiastici propriamente detti deve essere assicurata “a norma delle leggi ecclesiastiche, e possibilmente con l’aiuto di esperti laici”. Tali beni devono essere sempre impiegati per “l’ordinamento del culto divino, il dignitoso mantenimento del clero, il sostenimento delle opere di apostolato e di carità, specialmente per i poveri” (PO 17).

I beni procurati dall’esercizio di qualche ufficio ecclesiastico devono essere impiegati prima di tutto “per il proprio onesto mantenimento e per l’assolvimento dei doveri del proprio stato; il rimanente sarà bene destinarlo per il bene della Chiesa e per le opere di carità”. Questo va particolarmente sottolineato: l’ufficio ecclesiastico non può essere per i Presbiteri – e neppure per i Vescovi – occasione di arricchimento personale né di profitti per la propria famiglia. “I sacerdoti, quindi, senza affezionarsi in modo alcuno alle ricchezze, debbono evitare ogni bramosia e astenersi da qualsiasi tipo di commercio” (PO 17). In ogni caso si dovrà tener presente che tutto, nell’uso dei beni, deve svolgersi alla luce del Vangelo.

4. Lo stesso si deve dire circa l’impegno del Presbitero nelle attività profane, ossia attinenti la trattazione di affari terreni fuori dell’ambito religioso e sacro. Il Sinodo dei Vescovi del 1971 ha dichiarato che, “come norma ordinaria, si deve attribuire tempo pieno al ministero sacerdotale... Per nulla, infatti, è da considerare quale fine principale la partecipazione alle attività secolari degli uomini, né può essa bastare ad esprimere la specifica responsabilità dei Presbiteri” (Ench. Vat., IV, 1191).Era una presa di posizione di fronte alla tendenza, apparsa qua e là, alla secolarizzazione dell’attività del Sacerdote, nel senso che egli potesse impegnarsi, come i laici, nell’esercizio di un mestiere o d’una professione secolare.

È vero che ci sono circostanze in cui il solo modo efficace di ricollegare con la Chiesa un ambiente di lavoro che ignora Cristo può essere la presenza di Sacerdoti che esercitano un mestiere in tale ambiente, facendosi, ad esempio, operai con gli operai. La generosità di questi Sacerdoti è degna di elogio. Occorre tuttavia osservare che, assumendo compiti e posti profani e laicali, il Sacerdote rischia di ridurre ad un ruolo secondario o addirittura di elidere il proprio ministero sacro. In ragione di questo rischio, che aveva avuto riscontro nell’esperienza, già il Concilio aveva sottolineato la necessità dell’approvazione dell’autorità competente per esercitare un mestiere manuale, condividendo la condizioni di vita degli operai (cf. PO PO 8). Il Sinodo del 1971 diede, come regola da seguire, la convenienza, o meno, di un certo impegno di lavoro profano con le finalità del sacerdozio “a giudizio del Vescovo locale col suo presbiterio, e dopo aver consultato – in quanto è necessario – la Conferenza episcopale” (Ench. Vat., IV, 1192).

D’altronde è chiaro che si possono dare oggi, come in passato, casi speciali nei quali qualche Presbitero, particolarmente dotato e preparato, può svolgere un’attività in campi di lavoro o di cultura non direttamente ecclesiali. Si dovrà tuttavia fare il possibile perché restino casi eccezionali. E anche allora il criterio fissato dal Sinodo sarà sempre da applicare se si vorrà essere fedeli al Vangelo e alla Chiesa.

5. Concluderemo questa catechesi col rivolgerci ancora una volta alla figura di Gesù Cristo, Sacerdote Sommo, Pastore buono e supremo esemplare dei Sacerdoti. Egli è il modello della spoliazione dei beni terreni per il presbitero che vuole conformarsi all’esigenza della povertà evangelica. Gesù infatti è nato e vissuto nella povertà. Ammoniva San Paolo: “Da ricco che era, si è fatto povero per voi” (2Co 8,9). Gesù stesso, ad uno che voleva seguirlo, disse di sé: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli dell’aria i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Lc 9,57). Queste parole manifestano un distacco completo da tutte le comodità terrene. Non se ne deve concludere, tuttavia, che Gesù vivesse nella miseria. Altri passi dei Vangeli riferiscono che egli riceveva ed accettava inviti a casa di gente ricca (cf. Mt 9,10-11 Mc 2,15-16 Lc 5,29 Lc 7,36 Lc 19,5-6), aveva collaboratrici che lo sostenevano nelle necessità economiche (Lc 8,2-3 cf. Mt 27,55 Mc 15,40 Lc 23,55-56) ed era in grado di fare l’elemosina ai poveri (cf. Jn 13,29). Non vi è dubbio tuttavia sulla vita e sullo spirito di povertà che Lo contraddistinguevano.

Lo stesso spirito di povertà dovrà animare il comportamento del Sacerdote, connotandone l’atteggiamento, la vita e la stessa figura di pastore e uomo di Dio. Esso si tradurrà in disinteresse e distacco nei riguardi del denaro, nella rinuncia ad ogni avidità di possesso dei beni terreni, in uno stile di vita semplice, nella scelta di un’abitazione modesta e accessibile a tutti, nel rifiuto di tutto quello che è o anche solo appare come lussuoso, in una tendenza crescente alla gratuità della dedizione al servizio di Dio e dei fedeli.

6. Aggiungiamo infine che, essendo chiamati da Gesù e secondo il suo esempio, ad “evangelizzare i poveri”, “i Presbiteri – come pure i Vescovi – cercheranno di evitare tutto ciò che possa in qualsiasi modo indurre i poveri ad allontanarsi” (PO 17). Nutrendo invece in loro stessi lo spirito evangelico di povertà, essi si troveranno in condizione di mostrare la propria opzione preferenziale per i poveri, traducendola in condivisione, in opere personali e comunitarie di aiuto anche materiale ai bisognosi. È una testimonianza al Cristo Povero che viene oggi da tanti sacerdoti, poveri e amici dei poveri. È una grande fiamma d’amore accesa nella vita del clero e della Chiesa. Se mai il clero poté apparire talvolta in alcuni luoghi tra le categorie dei ricchi, oggi esso si sente onorato, con tutta la Chiesa, di trovarsi in prima fila tra i “nuovi poveri”. È un grande progresso nella sequela di Cristo sulla via del Vangelo.

Ai fedeli di lingua francese

Ai pellegrini di lingua inglese

Ai pellegrini giapponesi

Sia lodato Gesù Cristo!

Dilettissimi pellegrini provenienti da ogni parte del Giappone.

Si sente dire in questi giorni che il Giappone sta attraversando momenti particolarmente difficili.

Vorrei esortarvi tutti a comportarvi in questa circostanza in modo evangelico, come luce del mondo e sale della terra.

Con questo auspicio vi benedico di cuore.

Sia lodato Gesù Cristo!

Ai pellegrini di lingua tedesca

Ai visitatori di lingua spagnola

Ai fedeli brasiliani e portoghesi


Ai pellegrini di lingua italiana

Rivolgo ora un cordiale benvenuto a tutti i pellegrini di lingua italiana. Saluto con particolare affetto i Seminaristi dell’Accademia Teologica Ortodossa di San Pietroburgo, venuti in Italia per un’esperienza di incontro e di dialogo con i loro coetanei dell’Opera “Giorgio La Pira” di Firenze. Auspico, carissimi, che l’opportuna iniziativa a cui partecipate offra un valido contributo all’attuale cammino di ricerca per una rinnovata intesa fra Oriente ed Occidente, di cui il grande Sindaco di Firenze fu un illuminato maestro.

Il mio pensiero va poi alle Suore di Sant’Anna, che partecipano ad un corso di Formazione permanente per approfondire, alla luce delle Costituzioni rinnovate, il carisma che fu affidato dal Signore ai Fondatori del loro Istituto.

Accolgo con gioia il gruppo di ragazzi di Tisno, località della Diocesi di Sibenik sulla costa dalmata, ospiti presso la Parrocchia di San Francesco d’Assisi in Roma per un periodo di vacanza lontano dai pericoli della guerra in corso nei Balcani.

Saluto, infine, il Gruppo internazionale di giovani che, insieme con il responsabile, Sacerdote Jean Pierre Robin, stanno compiendo un pellegrinaggio da Assisi a Roma. Carissimi, la riscoperta delle tradizionali vie della preghiera sia la vostra impegnativa preparazione alla “Giornata Mondiale della Gioventù”, ormai prossima.

Ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli

Il mio saluto cordiale e affettuoso giunga ora ai giovani, ai malati e agli sposi novelli, che partecipano all’udienza.

La Chiesa celebra oggi la memoria liturgica di San Lorenzo da Brindisi, frate cappuccino e celebre predicatore, il quale, nella sua vita, ha sempre esortato tutti alla conoscenza personale e all’approfondimento della dottrina cattolica.

San Lorenzo, che appartiene alla gloriosa schiera dei “Dottori della Chiesa”, illumini e aiuti voi, giovani, ad essere sempre dottrinalmente preparati negli ambienti in cui vivete; voi, malati, a comprendere sempre meglio il valore redentivo della sofferenza nel progetto salvifico della divina Provvidenza, voi, sposi novelli, a fondare la vostra famiglia sulla roccia stabile della Verità.

A tutti la mia benedizione.

Appello per la pace in Bosnia ed Erzegovina

Le notizie che provengono dalle care terre di Bosnia ed Erzegovina mi riempiono di grande tristezza. Nonostante varie iniziative tendenti a creare condizioni di pace, si intensificano i combattimenti, aumenta il numero delle vittime innocenti e dei profughi, la popolazione di intere regioni è priva delle condizioni minime di sussistenza; è senza cibo, acqua, luce, senza medicamenti di prima necessità. Di fronte al continuo deterioramento della situazione, resasi ormai insopportabile, l’Arcivescovo di Sarajevo, Mons. Vinko Puljic, mi ha inviato un commovente appello, supplicando di fare il possibile affinché sia fermata la feroce guerra in corso che, tra l’altro, rischia di sradicare la presenza dei cattolici dalla sua Arcidiocesi come pura dalla diocesi di Banja Luka.

Forte della speranza che non muore mai, nel nome del Signore rivolgo ancora una volta un pressante appello a tutti. Ai belligeranti: cessate la guerra! Essa degrada l’uomo e lo spinge a comportamenti indegni ed inconfessabili. I problemi a lunga scadenza si risolvono solamente con la forza del dialogo tra tutte le parti in causa, nel rispetto dei diritti di ogni persona e di ogni popolo, nella giustizia e nella pace.

Supplico pure i responsabili politici, a livello internazionale: Aiutate i popoli della Bosnia ed Erzegovina a fermare la guerra e ad instaurare una vera pace, fondamentale condizione per la necessaria ricostruzione spirituale e materiale del Paese!

Invito tutti a intensificare la preghiera per quelle care popolazioni: Che la Vergine Santissima, Regina della Pace, interceda per tutti noi feriti da tanta crudeltà, e ci implori dal Suo Figlio l’auspicata pace per la Bosnia ed Erzegovina, per la regione dei Balcani e per tutto il mondo.




Mercoledì, 28 luglio 1993

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1. Il discorso sul distacco del Presbitero dai beni terreni si collega con quello del suo rapporto con la questione politica. Oggi più che mai si assiste a un intreccio continuo dell’economia e della politica, sia nell’ambito vasto dei problemi di interesse nazionale sia nei campi più ristretti della vita familiare e personale. Così avviene nelle votazioni per eleggere i propri rappresentanti al parlamento e i pubblici amministratori, nelle adesioni alle liste di candidati proposti ai cittadini, nelle scelte dei partiti, negli stessi pronunciamenti su persone, programmi e bilanci relativi alla gestione della cosa pubblica. Sarebbe un errore far dipendere la politica esclusivamente o principalmente dal suo contesto economico. Ma gli stessi superiori progetti di servizio alla persona umana e al bene comune ne sono condizionati e non possono non comprendere nei loro contenuti anche le questioni riguardanti il possesso, l’uso, la distribuzione, la circolazione dei beni terreni.

2. Sono tutti punti che includono una dimensione etica, alla quale sono interessati anche i Presbiteri proprio in vista del servizio da rendere all’uomo e alla società, secondo la missione ricevuta da Cristo. Egli infatti ha enunciato una dottrina e formulato dei precetti che rischiarano la vita non solo delle singole persone, ma anche della società. In particolare, Gesù ha formulato il precetto del mutuo amore. Esso implica il rispetto di ogni persona e dei suoi diritti; implica le regole della giustizia sociale che mirano a riconoscere ad ogni persona ciò che le spetta e a ripartire armoniosamente tra le persone, le famiglie, i gruppi, i beni terreni. Gesù, inoltre, ha sottolineato l’universalismo dell’amore, al di sopra delle differenze tra le razze e le nazioni che compongono l’umanità. Si direbbe che, definendo se stesso “Figlio dell’uomo”, abbia voluto dichiarare, anche con questa presentazione della propria identità messianica, la destinazione della sua opera ad ogni uomo, senza discriminazioni tra categorie, lingue, culture, gruppi etnici e sociali. Annunciando la pace per i suoi discepoli e per tutti gli uomini, Gesù ne ha posto il fondamento nel precetto dell’amore fraterno, della solidarietà, dell’aiuto reciproco a raggio universale. È chiaro che per Lui era ed è questo lo scopo e il principio di una buona politica.

Tuttavia, Gesù non ha mai voluto impegnarsi in un movimento politico, sfuggendo ad ogni tentativo fatto per coinvolgerlo in questioni e affari terreni (cf.
Jn 6,15). Il Regno che è venuto a fondare non è di questo mondo (cf. Jn 18,36). Per questo, a coloro che avrebbero voluto fargli prendere posizione nei riguardi del potere civile, Egli ha detto: “Rendete a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio” (Mt 22,21). Egli non ha mai promesso alla nazione ebraica, alla quale apparteneva e che amava, la liberazione politica, che molti attendevano dal Messia. Gesù asseriva di essere venuto come Figlio di Dio per offrire all’umanità, sottoposta alla schiavitù del peccato, la liberazione spirituale e la vocazione al Regno di Dio (cf. Jn 8,34-36); e di essere venuto per servire, non per essere servito (cf. Mt 20,28); e che anche i suoi seguaci, specialmente gli Apostoli, non dovevano pensare al potere terreno e al dominio sui popoli, come i principi della terra, ma essere umili servi di tutti (cf. Mt 20,20-28), come il loro “Signore e Maestro” (Jn 13,13-14).

Certamente, questa liberazione spirituale portata da Gesù doveva avere delle decisive conseguenze in tutti i settori della vita individuale e sociale, aprendo un’era di nuova valutazione dell’uomo-persona e dei rapporti tra gli uomini secondo giustizia. Ma l’impegno diretto del Figlio di Dio non era in questo senso.

3. È facile capire che questo stato di povertà e di libertà conviene massimamente al Sacerdote, che è il portavoce di Cristo nel proclamare la redenzione umana e il suo ministro nell’applicarne i frutti in ogni campo e ad ogni livello della vita. Come diceva il Sinodo dei Vescovi del 1971, “i Presbiteri, unitamente a tutta quanta la Chiesa, sono obbligati a scegliere, nella misura massima delle loro forze, una ben determinata linea di azione, quando si tratta di difendere i diritti fondamentali dell’uomo, di promuovere integralmente lo sviluppo delle persone, di favorire la causa della pace e della giustizia, con mezzi – beninteso – che siano sempre in accordo col Vangelo. Tutto ciò ha valore nell’ambito non soltanto individuale, ma anche sociale; di conseguenza, i Presbiteri aiutino i laici nello sforzo di formare rettamente la loro coscienza” (Ench. Vat., IV, 1194).

Questo testo del Sinodo, che esprime l’unione dei Presbiteri a tutti i membri della Chiesa nel servizio della giustizia e della pace, lascia percepire che la posizione dei Presbiteri in ordine all’azione sociale e politica non è identica a quella del laico. Questo viene detto più chiaramente nel Catechismo della Chiesa Cattolica, dove leggiamo: “Non spetta ai Pastori della Chiesa intervenire direttamente nell’azione politica e nell’organizzazione sociale. Questo compito fa parte della vocazione dei fedeli laici, i quali operano di propria iniziativa insieme con i loro concittadini”.

Il laico cristiano è chiamato a impegnarsi direttamente in questa azione, per contribuire a far sì che nella società regnino sempre di più i principi del Vangelo. Il Sacerdote è più direttamente impegnato, al seguito di Cristo, allo sviluppo del Regno di Dio. Come Gesù, egli deve rinunciare ad impegnarsi in forme di politica attiva, specialmente quando essa è di parte, come quasi inevitabilmente avviene, per rimanere l’uomo di tutti in chiave di fraternità e – per quanto è accettato – di paternità spirituale.

Naturalmente si possono dare casi eccezionali di persone, gruppi e situazioni in cui può apparire opportuno o addirittura necessario svolgere una funzione di aiuto e di supplenza in rapporto alle istituzioni pubbliche carenti e disorientate, per sostenere la causa della giustizia e della pace. Le stesse istituzioni ecclesiastiche, anche di vertice, hanno svolto nella storia questa funzione, con tutti i vantaggi, ma anche con tutti gli oneri e le difficoltà che ne derivano. Provvidenzialmente lo sviluppo politico, costituzionale e dottrinale moderno va in un altro senso. La società civile si è data progressivamente istituzioni e mezzi per adempiere i propri compiti in modo autonomo (cf. Gaudium et Spes GS 40 GS 76).

Alla Chiesa resta perciò il compito che è propriamente suo: annunciare il Vangelo, limitandosi ad offrire la propria collaborazione in tutto ciò che porta al bene comune, senza ambire né accettare di assumere funzioni di ordine politico.

4. In questa luce si può meglio capire quanto venne determinato dal Sinodo dei Vescovi del 1971 circa il comportamento del Sacerdote in relazione alla vita politica. Egli conserva certamente il diritto di avere un’opinione politica personale e di esercitare secondo coscienza il suo diritto di voto. Come dice il Sinodo, “in quelle circostanze nelle quali siano legittime diverse scelte politiche o sociali, i Presbiteri – come tutti i cittadini – hanno il diritto di fare le proprie scelte. Dato però che le scelte politiche, di per sé, sono contingenti e non interpretano mai in forma del tutto adeguata e perenne il Vangelo, il Presbitero, che è testimone delle realtà future, deve mantenere una certa distanza da qualsiasi incarico o passione politica” (Ench. Vat., IV, 1195). In particolare, terrà presente che un partito politico non può mai essere identificato con la verità del Vangelo, né può – dunque – formare oggetto di un’adesione assoluta, a differenza del Vangelo. Il Presbitero terrà, quindi, conto di questa relatività anche qualora dei cittadini di fede cristiana costituissero lodevolmente partiti espressamente ispirati al Vangelo e non mancherà di impegnarsi a far sì che la luce di Cristo illumini anche gli altri partiti e gruppi sociali.

Occorre aggiungere che il diritto del Presbitero a manifestare le proprie scelte personali è limitato dalle esigenze del suo ministero sacerdotale. Anche questa limitazione può essere una dimensione della povertà che è chiamato a praticare sull’esempio di Cristo. Egli infatti può talvolta essere obbligato ad astenersi dall’esercizio del proprio diritto per poter essere segno valido di unità e quindi annunciare il Vangelo nella sua pienezza. Ancor più dovrà evitare di presentare la propria scelta come la sola legittima e, nell’ambito della comunità cristiana, dovrà avere rispetto per la maturità dei laici (cf. Ivi, IV, 1196), e anzi impegnarsi nell’aiutarli a raggiungerla, con la formazione della loro coscienza (cf. Ivi, IV, 1194). Farà il possibile per evitare di crearsi dei nemici con prese di posizione in campo politico che gli alienino la fiducia e provochino l’allontanamento dei fedeli affidati alla sua missione pastorale.

5. Il Sinodo dei Vescovi del 1971 sottolinea soprattutto la necessità per il Presbitero di astenersi da ogni impegno di militante nella politica: “L’assumere una funzione direttiva (leadership)o il militare attivamente in favore di qualche partito politico dev’essere escluso da ogni Presbitero, a meno che, in circostanze concrete eccezionali, ciò non sia realmente richiesto dal bene della comunità (agendo) comunque col consenso del Vescovo, dopo aver consultato il Consiglio presbiterale, e – se necessario – la Conferenza Episcopale” (Ivi, IV, 1197). Dunque vi è la possibilità di deroghe alla norma comune; esse però si possono giustificare solo in circostanze di fatto eccezionali e devono aver la debita autorizzazione.

Ai Presbiteri che, nella generosità del loro servizio all’ideale evangelico, sentono la tendenza a impegnarsi nell’attività politica per contribuire più efficacemente a risanare la vita politica, eliminando le ingiustizie, gli sfruttamenti, le oppressioni di ogni specie, la Chiesa ricorda che, su tale strada, è facile esser coinvolti in lotte partigiane, col rischio di collaborare non all’avvento del mondo più giusto a cui aspirano, ma a forme nuove e peggiori di sfruttamento della povera gente. Essi devono in ogni caso sapere che per tale impegno di azione e militanza politica non hanno né la missione né il carisma dall’alto.

Prego pertanto, ed invito a pregare perché cresca sempre più nei Presbiteri la fede nella propria missione pastorale anche per il bene della società nella quale essi vivono. Sappiano essi riconoscerne l’importanza anche nel nostro tempo, e capire quella dichiarazione del Sinodo dei Vescovi del 1971, secondo cui “dev’essere tenuta sempre presente la priorità della missione specifica, che impegna l’intera esistenza dei Presbiteri, in modo che essi – facendo, con grande fiducia, la rinnovata esperienza delle cose che sono di Dio – possano efficacemente e gioiosamente annunciarle agli uomini, che appunto le aspettano” (Ivi, IV, 1198).

Sì, mi auguro e prego perché sia dato sempre più ai miei fratelli Sacerdoti, di oggi e di domani, questo dono di intelligenza spirituale, che li porti a capire e a seguire anche nella dimensione politica la via della povertà insegnata da Gesù.

Ai pellegrini di espressione francese

Ai fedeli di lingua inglese

Ai pellegrini giapponesi

Sia lodato Gesù Cristo!

Carissimi pellegrini giapponesi del YUB (Movimento del Buon Pastore) e della Delegazione dell’Isola–Amakusa.

A voi tutti che percorrete le vie del mondo sia per visitare i luoghi sacri al Signore o per continuare la tradizione dei vostri antenati, auguro di cuore che possiate conseguire la meta dell’anima che è Dio, sotto la guida della Beata Vergine Maria. Con questo auspicio vi imparto la mia Benedizione Apostolica.

Sia lodato Gesù Cristo!

Ai fedeli di lingua tedesca

Ai visitatori di lingua spagnola

Ai pellegrini di lingua portoghese

Ai fedeli di lingua italiana

Rivolgo ora un cordiale saluto al Gruppo di Rettori e Formatori di Seminario che prendono parte ad un Corso internazionale di formazione e di aggiornamento organizzato dall’“Accademia Regina Apostolorum” dei Legionari di Cristo. Vi esorto, cari Fratelli, ad essere sempre fedeli testimoni del Regno di Dio, comunicando a quanti sono affidati alle vostre cure il coraggio e l’entusiasmo di servire la causa del Vangelo in questi nostri tempi ricchi di sfide apostoliche.

Ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli

Saluto, inoltre, voi, giovani, malati e sposi novelli, presenti all’odierno appuntamento.

Negli ultimi giorni di luglio la liturgia ricorda la festa di alcuni Santi particolarmente cari alla pietà popolare: San Gioacchino e Sant’Anna, i Genitori della Madre del Signore, e Sant’Ignazio di Loyola, Fondatore della Compagnia di Gesù.

Possa il loro esempio di fedele adesione alla volontà di Dio aiutarvi a seguire sempre docilmente la via del Vangelo.

La loro intercessione vi sostenga, cari giovani, nella quotidiana ricerca dell’autentica santità conforti il vostro soffrire, cari malati, e vi faccia meglio comprendere il valore redentivo della sofferenza; renda voi, cari sposi novelli, sempre aperti ai doni di grazia e di santificazione che il Signore elargisce generosamente.

A tutti la mia benedizione apostolica.

Profondo dolore per le vittime dei vili attentati compiuti nella notte a Milano e a Roma viene espresso da Giovanni Paolo II durante l’udienza generale di questa mattina. Queste le parole del Papa.

Nel salutare i pellegrini di lingua italiana desidero esprimere il mio profondo dolore per le vittime innocenti dei vili attentati che, la notte scorsa, hanno colpito Milano e il cuore della Roma cristiana. Questi efferati crimini, per nessuna ragione giustificabili, sono sempre motivo di vergogna per chi li pianifica e per chi li esegue. Non è col disprezzo per Dio e per l’uomo che si costruisce una società umana e civile.

Preghiamo insieme per le famiglie in lutto, per i feriti e per tutti coloro che sono stati colpiti da questi tragici eventi. Preghiamo per l’avvenire dell’Italia. Voglia il Signore ispirare ai cittadini di questo Paese sentimenti di pace e di responsabile fraternità. In quest’ora di prova, di gran cuore, imparto una speciale benedizione al diletto popolo italiano.





Catechesi 79-2005 7793