Catechesi 2005-2013 31007

Mercoledì, 3 ottobre 2007: San Cirillo di Alessandria

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Cari fratelli e sorelle,

anche oggi, continuando il nostro itinerario che sta seguendo le tracce dei Padri della Chiesa, incontriamo una grande figura: san Cirillo di Alessandria. Legato alla controversia cristologica che portò al Concilio di Efeso del 431 e ultimo rappresentante di rilievo della tradizione alessandrina, nell’Oriente greco Cirillo fu più tardi definito «custode dell’esattezza» – da intendersi come custode della vera fede – e addirittura «sigillo dei Padri». Queste antiche espressioni esprimono bene un dato di fatto che è caratteristico di Cirillo, e cioè il costante riferimento del Vescovo di Alessandria agli autori ecclesiastici precedenti (tra questi, soprattutto Atanasio) con lo scopo di mostrare la continuità della propria teologia con la Tradizione. Egli si inserisce volutamente, esplicitamente nella Tradizione della Chiesa, nella quale riconosce la garanzia della continuità con gli Apostoli e con Cristo stesso. Venerato come Santo sia in Oriente che in Occidente, nel 1882 san Cirillo fu proclamato Dottore della Chiesa dal Papa Leone XIII, il quale contemporaneamente attribuì lo stesso titolo anche ad un altro importante esponente della patristica greca, san Cirillo di Gerusalemme. Si rivelavano così l’attenzione e l’amore per le tradizioni cristiane orientali di quel Papa, che in seguito volle proclamare Dottore della Chiesa pure san Giovanni Damasceno, mostrando anche in questo modo la sua convinzione circa l’importanza di quelle tradizioni nell’espressione della dottrina dell’unica Chiesa di Cristo.

Le notizie sulla vita di Cirillo prima della sua elezione all’importante sede di Alessandria sono pochissime. Nipote di Teofilo, che dal 385 come Vescovo resse con mano ferma e grande prestigio la Diocesi alessandrina, Cirillo nacque probabilmente nella stessa metropoli egiziana tra il 370 e il 380. Venne presto avviato alla vita ecclesiastica e ricevette una buona educazione, sia culturale che teologica. Nel 403 era a Costantinopoli al seguito del suo potente zio, e qui partecipò al Sinodo detto della Quercia, che depose il Vescovo della città, Giovanni (detto più tardi Crisostomo), segnando così il trionfo della sede alessandrina su quella, tradizionalmente rivale, di Costantinopoli, dove risiedeva l’imperatore. Alla morte dello zio Teofilo, l’ancora giovane Cirillo nel 412 fu eletto Vescovo dell’influente Chiesa di Alessandria, che governò con grande energia per trentadue anni, mirando sempre ad affermarne il primato in tutto l’Oriente, forte anche dei tradizionali legami con Roma.

Qualche anno dopo, nel 417 o nel 418, il Vescovo di Alessandria si dimostrò realista nel ricomporre la rottura della comunione con Costantinopoli, che era in atto ormai dal 406 in conseguenza della deposizione del Crisostomo. Ma il vecchio contrasto con la sede costantinopolitana si riaccese una decina di anni più tardi, quando nel 428 vi fu eletto Nestorio, un autorevole e severo monaco di formazione antiochena. Il nuovo Vescovo di Costantinopoli, infatti, suscitò presto opposizioni perché nella sua predicazione preferiva per Maria il titolo di «Madre di Cristo» (Christotókos), in luogo di quello – già molto caro alla devozione popolare – di «Madre di Dio» (Theotókos). Motivo di questa scelta del Vescovo Nestorio era la sua adesione alla cristologia di tipo antiocheno che, per salvaguardare l’importanza dell’umanità di Cristo, finiva per affermarne la divisione dalla divinità. E così non era più vera l’unione tra Dio e l’uomo in Cristo e, naturalmente, non si poteva più parlare di «Madre di Dio».

La reazione di Cirillo – allora massimo esponente della cristologia alessandrina, che intendeva invece sottolineare fortemente l’unità della persona di Cristo – fu quasi immediata, e si dispiegò con ogni mezzo già dal 429, rivolgendosi anche con alcune lettere allo stesso Nestorio. Nella seconda che Cirillo gli indirizzò, nel febbraio del 430, leggiamo una chiara affermazione del dovere dei Pastori di preservare la fede del Popolo di Dio. Questo era il suo criterio, valido peraltro anche oggi: la fede del Popolo di Dio è espressione della Tradizione, è garanzia della sana dottrina. Così scrive a Nestorio: «Bisogna esporre al popolo l’insegnamento e l’interpretazione della fede nel modo più irreprensibile e ricordare che chi scandalizza anche uno solo dei piccoli che credono in Cristo subirà un castigo intollerabile».

Nella stessa lettera a Nestorio – lettera che più tardi, nel 451, sarebbe stata approvata dal Concilio di Calcedonia, il quarto ecumenico – Cirillo descrive con chiarezza la sua fede cristologica: «Affermiamo così che sono diverse le nature che si sono unite in vera unità, ma da ambedue è risultato un solo Cristo e Figlio, non perché a causa dell’unità sia stata eliminata la differenza delle nature, ma piuttosto perché divinità e umanità, riunite in unione indicibile e inenarrabile, hanno prodotto per noi il solo Signore e Cristo e Figlio». E questo è importante: realmente la vera umanità e la vera divinità si uniscono in una sola Persona, il Nostro Signore Gesù Cristo. Perciò, continua il Vescovo di Alessandria, «professeremo un solo Cristo e Signore, non nel senso che adoriamo l’uomo insieme col Logos, per non insinuare l’idea della separazione col dire “insieme”, ma nel senso che adoriamo uno solo e lo stesso, perché non è estraneo al Logos il suo corpo, col quale siede anche accanto a suo Padre, non quasi che gli seggano accanto due figli, bensì uno solo unito con la propria carne».

E presto il Vescovo di Alessandria, grazie ad accorte alleanze, ottenne che Nestorio fosse ripetutamente condannato: da parte della sede romana, quindi con una serie di dodici anatematismi da lui stesso composti e, infine, dal Concilio tenutosi a Efeso nel 431, il terzo ecumenico. L’assemblea, svoltasi con alterne e tumultuose vicende, si concluse con il primo grande trionfo della devozione a Maria e con l’esilio del Vescovo costantinopolitano che non voleva riconoscere alla Vergine il titolo di «Madre di Dio», a causa di una cristologia sbagliata, che apportava divisione in Cristo stesso. Dopo avere così prevalso sul rivale e sulla sua dottrina, Cirillo seppe però giungere, già nel 433, a una formula teologica di riconciliazione con gli antiocheni. E anche questo è significativo: da una parte c’è la chiarezza della dottrina di fede, ma dall’altra anche la ricerca intensa dell’unità e della riconciliazione. Negli anni seguenti si dedicò in ogni modo a difendere e a chiarire la sua posizione teologica fino alla morte, sopraggiunta il 27 giugno del 444.

Gli scritti di Cirillo – davvero molto numerosi e diffusi con larghezza anche in diverse traduzioni latine e orientali già durante la sua vita, a testimonianza del loro immediato successo – sono di primaria importanza per la storia del cristianesimo. Importanti sono i suoi commenti a molti libri veterotestamentari e del Nuovo Testamento, tra cui l’intero Pentateuco, Isaia, i Salmi e i Vangeli di Luca e di Giovanni. Rilevanti sono pure le molte opere dottrinali, in cui ricorrente è la difesa della fede trinitaria contro le tesi ariane e contro quelle di Nestorio. Base dell’insegnamento di Cirillo è la Tradizione ecclesiastica, e in particolare, come ho accennato, gli scritti di Atanasio, il suo grande predecessore sulla sede alessandrina. Tra gli altri scritti di Cirillo vanno infine ricordati i libri Contro Giuliano, ultima grande risposta alle polemiche anticristiane, dettata dal Vescovo di Alessandria probabilmente negli ultimi anni della sua vita per replicare all’opera Contro i Galilei composta molti anni prima, nel 363, dall’imperatore che fu detto l’Apostata per avere abbandonato il cristianesimo nel quale era stato educato.

La fede cristiana è innanzitutto incontro con Gesù, «una Persona che dà alla vita un nuovo orizzonte» (Enc. Deus caritas est ). Di Gesù Cristo, Verbo di Dio incarnato, san Cirillo di Alessandria è stato un instancabile e fermo testimone, sottolineandone soprattutto l’unità, come egli ripete nel 433 nella prima lettera al Vescovo Succenso: «Uno solo è il Figlio, uno solo il Signore Gesù Cristo, sia prima dell’incarnazione sia dopo l’incarnazione. Infatti non era un Figlio il Logos nato da Dio Padre, e un altro quello nato dalla santa Vergine; ma crediamo che proprio Colui che è prima dei tempi è nato anche secondo la carne da una donna». Questa affermazione, al di là del suo significato dottrinale, mostra che la fede in Gesù Logos nato dal Padre è anche ben radicata nella storia perché, come afferma san Cirillo, questo stesso Gesù è venuto nel tempo con la nascita da Maria, la Theotókos, e sarà, secondo la sua promessa, sempre con noi. E questo è importante: Dio è eterno, è nato da una donna e rimane con noi ogni giorno. In questa fiducia viviamo, in questa fiducia troviamo la strada della nostra vita.

Saluti:

Saluto in lingua ceca:

Un cordiale saluto ai pellegrini della Parrocchia del Sacro Cuore di Gesù, di Hodslavice, che celebrano il primo centenario di consacrazione della loro Chiesa parrocchiale. Volentieri vi benedico tutti. Sia lodato Gesù Cristo!

Saluto in lingua croata:

Di cuore saluto i pellegrini croati, in modo speciale il coro dei giovani “Panis Angelicus” di Zagabria. Guardando sempre al Cristo che vi ama infinitamente, rendete grazie a Dio con la vostra voce e con la vostra vita. Siano lodati Gesù e Maria!

Saluto in lingua polacca:

Saluto cordialmente i pellegrini polacchi. Domani nella liturgia ricorre la memoria di san Francesco d’Assisi, il quale, imitando Cristo, ha rinunziato ai beni terreni. Egli ci ha così insegnato che dobbiamo essere semplici, umili e puri, perché lasciando questo mondo riceviamo la ricompensa per amore. Impariamo da san Francesco il comportamento del radicalismo evangelico. Benedico di cuore voi tutti qui presenti e i vostri cari.

Saluto in lingua ungherese:

Con affetto saluto i pellegrini ungheresi provenienti dall’Ungheria, specialmente il gruppo del liceo francescano di Esztergom. Nel mese del Rosario vi raccomando questa antica preghiera cristiana. Dio benedica voi e le vostre famiglie! Sia lodato Gesù Cristo!

* * *


Rivolgo ora un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana, in particolare alle Suore capitolari dell’Istituto Santa Caterina vergine e martire, augurando loro di continuare con fervore la loro testimonianza evangelica nella Chiesa e nel mondo. Sono lieto di accogliere i Seminaristi del Pontificio Collegio Maria Mater Ecclesiae, di Roma. Cari amici, vi auguro di rispondere con generosa fedeltà alla chiamata del Signore per prepararvi ad essere guide sicure del Popolo di Dio e generosi testimoni del Vangelo.

Il mio pensiero si rivolge infine ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Il luminoso esempio di san Francesco d’Assisi, di cui celebreremo domani la memoria, solleciti voi, cari giovani, a vivere sempre in piena fedeltà al Vangelo. Aiuti voi, cari ammalati, ad affrontare la sofferenza con coraggio, cercando in Cristo crocifisso serenità e conforto. Conduca voi, cari sposi novelli, a un amore sempre più profondo verso Dio e tra di voi, perché possiate sperimentare la gioia che scaturisce dal vostro reciproco dono aperto alla vita.


Piazza San Pietro

Mercoledì, 10 ottobre 2007: Sant’Ilario di Poitiers

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Cari fratelli e sorelle,

oggi vorrei parlare di un grande Padre della Chiesa di Occidente, sant’Ilario di Poitiers, una delle grandi figure di Vescovi del IV secolo. Nel confronto con gli ariani, che consideravano il Figlio di Dio Gesù una creatura, sia pure eccellente, ma solo creatura, Ilario ha consacrato tutta la sua vita alla difesa della fede nella divinità di Gesù Cristo, Figlio di Dio e Dio come il Padre, che lo ha generato fin dall’eternità.

Non disponiamo di dati sicuri sulla maggior parte della vita di Ilario. Le fonti antiche dicono che nacque a Poitiers, probabilmente verso l’anno 310. Di famiglia agiata, ricevette una solida formazione letteraria, ben riconoscibile nei suoi scritti. Non sembra che sia cresciuto in un ambiente cristiano. Egli stesso ci parla di un cammino di ricerca della verità, che lo condusse man mano al riconoscimento del Dio creatore e del Dio incarnato, morto per darci la vita eterna. Battezzato verso il 345, fu eletto Vescovo della sua città natale intorno al 353-354. Negli anni successivi Ilario scrisse la sua prima opera, il Commento al Vangelo di Matteo.Si tratta del più antico commento in lingua latina che ci sia pervenuto di questo Vangelo. Nel 356 Ilario assiste come Vescovo al sinodo di Béziers, nel sud della Francia, il «sinodo dei falsi apostoli», come egli stesso lo chiama, dal momento che l’assemblea fu dominata dai Vescovi filoariani, che negavano la divinità di Gesù Cristo. Questi «falsi apostoli» chiesero all’imperatore Costanzo la condanna all’esilio del Vescovo di Poitiers. Così Ilario fu costretto a lasciare la Gallia durante l’estate del 356.

Esiliato in Frigia, nell’attuale Turchia, Ilario si trovò a contatto con un contesto religioso totalmente dominato dall’arianesimo. Anche lì la sua sollecitudine di Pastore lo spinse a lavorare strenuamente per il ristabilimento dell’unità della Chiesa, sulla base della retta fede formulata dal Concilio di Nicea. A questo scopo egli avviò la stesura della sua opera dogmatica più importante e conosciuta: La Trinità. In essa Ilario espone il suo personale cammino verso la conoscenza di Dio e si preoccupa di mostrare che la Scrittura attesta chiaramente la divinità del Figlio e la sua uguaglianza con il Padre, non soltanto nel Nuovo Testamento, ma anche in molte pagine dell’Antico, in cui già appare il mistero di Cristo. Di fronte agli ariani egli insiste sulla verità dei nomi di Padre e di Figlio e sviluppa tutta la sua teologia trinitaria partendo dalla formula del Battesimo donataci dal Signore stesso: «Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo».

Il Padre e il Figlio sono della stessa natura. E se alcuni passi del Nuovo Testamento potrebbero far pensare che il Figlio sia inferiore al Padre, Ilario offre regole precise per evitare interpretazioni fuorvianti: alcuni testi della Scrittura parlano di Gesù come Dio, altri invece mettono in risalto la sua umanità. Alcuni si riferiscono a Lui nella sua preesistenza presso il Padre; altri prendono in considerazione lo stato di abbassamento (kénosis), la sua discesa fino alla morte; altri, infine, lo contemplano nella gloria della risurrezione. Negli anni del suo esilio Ilario scrisse anche il Libro dei Sinodi, nel quale riproduce e commenta per i suoi confratelli Vescovi della Gallia le confessioni di fede e altri documenti dei sinodi riuniti in Oriente intorno alla metà del IV secolo. Sempre fermo nell’opposizione agli ariani radicali, sant’Ilario mostra uno spirito conciliante nei confronti di coloro che accettavano di confessare che il Figlio era somigliante al Padre nell’essenza, naturalmente cercando di condurli verso la piena fede, secondo la quale non vi è soltanto una somiglianza, ma una vera uguaglianza del Padre e del Figlio nella divinità. Anche questo mi sembra caratteristico: lo spirito di conciliazione che cerca di comprendere quelli che ancora non sono arrivati e li aiuta, con grande intelligenza teologica, a giungere alla piena fede nella divinità vera del Signore Gesù Cristo.

Nel 360 o nel 361 Ilario poté finalmente tornare dall’esilio in patria e subito riprese l’attività pastorale nella sua Chiesa, ma l’influsso del suo magistero si estese di fatto ben oltre i confini di essa. Un sinodo celebrato a Parigi nel 360 o nel 361 riprende il linguaggio del Concilio di Nicea. Alcuni autori antichi pensano che questa svolta antiariana dell’episcopato della Gallia sia stata in larga parte dovuta alla fortezza e alla mansuetudine del Vescovo di Poitiers. Questo era appunto il suo dono: coniugare fortezza nella fede e mansuetudine nel rapporto interpersonale. Negli ultimi anni di vita egli compose ancora i Trattati sui Salmi, un commento a cinquantotto Salmi, interpretati secondo il principio evidenziato nell’introduzione dell’opera: «Non c’è dubbio che tutte le cose che si dicono nei Salmi si devono intendere secondo l’annunzio evangelico, in modo che, qualunque sia la voce con cui lo spirito profetico ha parlato, tutto sia comunque riferito alla conoscenza della venuta del Signore nostro Gesù Cristo, alla sua incarnazione, passione e regno, e alla gloria e potenza della nostra risurrezione» (Istruzione sui
Ps 5). Egli vede in tutti i Salmi questa trasparenza del mistero di Cristo e del suo Corpo, che è la Chiesa. In diverse occasioni Ilario si incontrò con san Martino: proprio vicino a Poitiers il futuro Vescovo di Tours fondò un monastero, che esiste ancor oggi. Ilario morì nel 367. La sua memoria liturgica si celebra il 13 gennaio. Nel 1851 il beato Pio IX lo proclamò Dottore della Chiesa.

Per riassumere l’essenziale della sua dottrina, vorrei dire che Ilario trova il punto di partenza della sua riflessione teologica nella fede battesimale. Nel De Trinitate Ilario scrive: Gesù «ha comandato di battezzare nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo (cfr Mt 28,19), cioè nella confessione dell’Autore, dell’Unigenito e del Dono. Uno solo è l’Autore di tutte le cose, perché uno solo è Dio Padre, dal quale tutto procede. E uno solo il Signore nostro Gesù Cristo, mediante il quale tutto fu fatto (1Co 8,6), e uno solo è lo Spirito (Ep 4,4), dono in tutti ... In nulla potrà essere trovata mancante una pienezza così grande, in cui convergono nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo l’immensità nell’Eterno, la rivelazione nell’Immagine, la gioia nel Dono» (2,1). Dio Padre, essendo tutto amore, è capace di comunicare in pienezza la sua divinità al Figlio. Trovo particolarmente bella la seguente formula di sant’Ilario: «Dio non sa essere altro se non amore, non sa essere altro se non Padre. E chi ama non è invidioso, e chi è Padre lo è nella sua totalità. Questo nome non ammette compromessi, quasi che Dio sia padre in certi aspetti, e in altri non lo sia» (ibid.,9,61).

Per questo il Figlio è pienamente Dio senza alcuna mancanza o diminuzione: «Colui che viene dal perfetto è perfetto, perché chi ha tutto, gli ha dato tutto» (ibid., 2,8). Soltanto in Cristo, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, trova salvezza l’umanità. Assumendo la natura umana, Egli ha unito a sé ogni uomo, «si è fatto la carne di tutti noi» (Trattato sui Ps 54,9); «ha assunto in sé la natura di ogni carne e, divenuto per mezzo di essa la vite vera, ha in sé la radice di ogni tralcio» (ibid., 51,16). Proprio per questo il cammino verso Cristo è aperto a tutti – perché egli ha attirato tutti nel suo essere uomo –, anche se è richiesta sempre la conversione personale: «Mediante la relazione con la sua carne, l’accesso a Cristo è aperto a tutti, a patto che si spoglino dell’uomo vecchio (cfr Ep 4,22) e lo inchiodino alla sua croce (cfr Col 2,14); a patto che abbandonino le opere di prima e si convertano, per essere sepolti con Lui nel suo Battesimo, in vista della vita (cfr Col 1,12 Rm 6,4)» (ibid., 91,9).

La fedeltà a Dio è un dono della sua grazia. Perciò sant’Ilario chiede, alla fine del suo trattato sulla Trinità, di potersi mantenere sempre fedele alla fede del Battesimo. E’ una caratteristica di questo libro: la riflessione si trasforma in preghiera e la preghiera ritorna riflessione. Tutto il libro è un dialogo con Dio.

Vorrei concludere l’odierna catechesi con una di queste preghiere, che diviene così anche preghiera nostra: «Fa’, o Signore – recita Ilario in modo ispirato – che io mi mantenga sempre fedele a ciò che ho professato nel Simbolo della mia rigenerazione, quando sono stato battezzato nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo. Che io adori te, nostro Padre, e insieme con te il tuo Figlio; che io meriti il tuo Spirito Santo, il quale procede da te mediante il tuo Unigenito... Amen» (La Trinità 12,57).

Saluti:

A minha saudação amiga para todos os peregrinos de língua portuguesa, nomeadamente o grupo de São Salvador da Bahia e as Irmãs de Santa Elizabete de Fortaleza: Viestes a Roma venerar as memórias dos Apóstolos e dos Mártires meditando sobre o fim glorioso do seu combate por Cristo, a fim de receberdes a mesma força do Espírito para idênticas batalhas em prol do Evangelho no meio onde o Pai do Céu vos colocou. Sobre vós, vossas famílias e comunidades, desça a minha Bênção Apostólica.

Saluto in lingua ceca:

Do il mio cordiale benvenuto ai pellegrini di Dalecín e dintorni! In questo mese di ottobre, dedicato al Santo Rosario, vi esorto a riscoprire la comunione con la Vergine Maria, per mezzo di questa nobile preghiera. Con tali voti, volentieri vi benedico. Sia lodato Gesù Cristo!

Saluto in lingua croata:

Con gioia saluto i pellegrini croati, particolarmente il coro della cattedrale di Ðakovo, i fedeli della Missione Cattolica Croata nella Svizzera ed il gruppo di Mostar. La preghiera del santo rosario vi rinsaldi ancor di più nella fede, nella speranza e nell’amore. Siano lodati Gesù e Maria!

Saluto in lingua polacca:

Saluto i polacchi qui presenti. Ilario di Poitiers ci invita a fortificare la nostra fede in Dio Padre, Figlio e Spirito Santo. La fede è una grazia, e la ravviva la preghiera e la testimonianza. Spero che la visita alle tombe degli Apostoli sia per tutti un fruttuoso tempo di rinnovamento della fede. Dio vi benedica.

Saluto in lingua slovacca:

Con affetto do un benvenuto ai pellegrini slovacchi provenienti da Spiš. Fratelli e sorelle, la preghiera del Rosario è preghiera di comunione. Create e rafforzate anche voi questa comunione della preghiera con Cristo e la sua Madre e con i fratelli. Vi aiuti in ciò la Madonna del Rosario. Con questo augurio benedico voi ed i vostri cari. Sia lodato Gesù Cristo!

Saluto in lingua ungherese:

Saluto cordialmente i pellegrini ungheresi, in particolare quelli provenienti da Hercegszántó e Székelyudvarhely. L’altro giorno avete celebrato la festa della Magna Domina Hungarorum. Chiedendo la Sua intercessione, di cuore imparto a voi ed alle vostre famiglie la benedizione apostolica! Sia lodato Gesù Cristo!

* * *


Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto le Figlie di San Giuseppe che in questi giorni hanno celebrato il loro Capitolo Generale. Care sorelle, sull'esempio del vostro fondatore, il Beato Clemente Marchisio, diffondete con rinnovato ardore l'amore per l'Eucaristia, sacramento e vincolo di perfetta carità. Saluto i rappresentanti della Famiglia Domenicana, giunti così numerosi in occasione dell'Ottavo centenario della fondazione del primo monastero domenicano da parte di S. Domenico. Cari amici, formulo voti che questa significativa circostanza contribuisca ad infondere in voi rinnovato fervore spirituale per una generosa testimonianza cristiana. Saluto inoltre la Delegazione del Centro sportivo Italiano e dell'Associazione Calcio Ancona e li incoraggio ad operare affinché il gioco del calcio diventi sempre più strumento di educazione ai valori etici e spirituali della vita. Saluto altresì i fedeli provenienti da San Salvatore Telesino ed invoco su tutti la continua assistenza del Signore.

Saluto infine i giovani, i malati e gli sposi novelli. Domani ricorre la memoria liturgica del Beato Giovanni XXIII. La sua indimenticabile testimonianza evangelica sostenga voi, cari giovani, nell'impegno di quotidiana fedeltà a Cristo; incoraggi voi, cari ammalati, specialmente voi cari piccoli amici dell'Istituto per la cura dei tumori di Milano, a seguire pazientemente Gesù nel cammino della prova e della sofferenza; aiuti voi, cari sposi novelli, a fare della vostra famiglia il luogo del costante incontro con l'Amore di Dio e dei fratelli.

APPELLO


E’ in corso a Ravenna in questi giorni la decima Sessione Plenaria della Commissione Mista Internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa nel suo insieme, che affronta un tema teologico di particolare interesse ecumenico: “Conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa – Comunione ecclesiale, conciliarità e autorità”. Vi chiedo di unirvi alla mia preghiera affinché questo importante incontro aiuti a camminare verso la piena comunione tra cattolici e ortodossi, e si possa giungere presto a condividere lo stesso Calice del Signore.


Piazza San Pietro

Mercoledì, 17 ottobre 2007: Sant’Eusebio di Vercelli

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Cari fratelli e sorelle,

questa mattina vi invito a riflettere su sant’Eusebio di Vercelli, il primo Vescovo dell’Italia settentrionale di cui abbiamo notizie sicure. Nato in Sardegna all’inizio del IV secolo, ancora in tenera età si trasferì a Roma con la sua famiglia. Più tardi venne istituito lettore: entrò così a far parte del clero dell’Urbe, in un tempo in cui la Chiesa era gravemente provata dall’eresia ariana. La grande stima che crebbe attorno a Eusebio spiega la sua elezione nel 345 alla cattedra episcopale di Vercelli. Il nuovo Vescovo iniziò subito un’intensa opera di evangelizzazione in un territorio ancora in gran parte pagano, specialmente nelle zone rurali. Ispirato da sant’Atanasio – che aveva scritto la Vita di sant’Antonio, iniziatore del monachesimo in Oriente –, fondò a Vercelli una comunità sacerdotale, simile a una comunità monastica. Questo cenobio diede al clero dell’Italia settentrionale una significativa impronta di santità apostolica e suscitò figure di Vescovi importanti, come Limenio e Onorato, successori di Eusebio a Vercelli, Gaudenzio a Novara, Esuperanzio a Tortona, Eustasio ad Aosta, Eulogio a Ivrea, Massimo a Torino, tutti venerati dalla Chiesa come Santi.

Solidamente formato nella fede nicena, Eusebio difese con tutte le forze la piena divinità di Gesù Cristo, definito dal Credo di Nicea «della stessa sostanza» del Padre. A tale scopo si alleò con i grandi Padri del IV secolo – soprattutto con sant’Atanasio, l’alfiere dell’ortodossia nicena – contro la politica filoariana dell’imperatore. Per l’imperatore la più semplice fede ariana appariva politicamente più utile come ideologia dell’Impero. Per lui non contava la verità, ma l’opportunità politica: voleva strumentalizzare la religione come legame dell’unità dell’Impero. Ma questi grandi Padri resistettero difendendo la verità contro la dominazione della politica. Per questo motivo Eusebio fu condannato all’esilio come tanti altri Vescovi di Oriente e di Occidente: come lo stesso Atanasio, come Ilario di Poiters – di cui abbiamo parlato la volta scorsa –, come Osio di Cordova. A Scitopoli in Palestina, dove fu confinato fra il 355 e il 360, Eusebio scrisse una pagina stupenda della sua vita. Anche qui fondò un cenobio con un piccolo gruppo di discepoli, e da qui curò la corrispondenza con i suoi fedeli del Piemonte, come dimostra soprattutto la seconda delle tre Lettere eusebiane riconosciute autentiche. Successivamente, dopo il 360, fu esiliato in Cappadocia e nella Tebaide, dove subì gravi maltrattamenti fisici. Nel 361, morto Costanzo II, gli succedette l’imperatore Giuliano, detto l’Apostata, che non si interessava al cristianesimo come religione dell’Impero, ma voleva semplicemente restaurare il paganesimo. Egli mise fine all’esilio di questi Vescovi e consentì così anche ad Eusebio di riprendere possesso della sua sede. Nel 362 fu invitato da Atanasio a partecipare al Concilio di Alessandria, che decise di perdonare i Vescovi ariani purché ritornassero allo stato laicale. Eusebio poté esercitare ancora per una decina d’anni, fino alla morte, il ministero episcopale, realizzando con la sua città un rapporto esemplare, che non mancò di ispirare il servizio pastorale di altri Vescovi dell’Italia settentrionale, dei quali ci occuperemo nelle prossime catechesi, come sant’Ambrogio di Milano e san Massimo di Torino.

Il rapporto tra il Vescovo di Vercelli e la sua città è illuminato soprattutto da due testimonianze epistolari. La prima si trova nella Lettera già citata, che Eusebio scrisse dall’esilio di Scitopoli «ai dilettissimi fratelli e ai presbiteri tanto desiderati, nonché ai santi popoli saldi nella fede di Vercelli, Novara, Ivrea e Tortona» (Ep. seconda). Queste espressioni iniziali, che segnalano la commozione del buon Pastore di fronte al suo gregge, trovano ampio riscontro alla fine della Lettera, nei saluti calorosissimi del padre a tutti e a ciascuno dei suoi figli di Vercelli, con espressioni traboccanti di affetto e di amore. E’ da notare anzitutto il rapporto esplicito che lega il Vescovo alle sanctae plebes non solo di Vercellae/Vercelli – la prima e, per qualche anno ancora, l’unica Diocesi del Piemonte –, ma anche di Novaria/Novara, Eporedia/Ivrea e Dertona/Tortona, cioè di quelle comunità cristiane che, all’interno della stessa Diocesi, avevano raggiunto una certa consistenza e autonomia. Un altro elemento interessante è fornito dal commiato con cui si conclude la Lettera: Eusebio chiede ai suoi figli e alle sue figlie di salutare «anche quelli che sono fuori della Chiesa e che si degnano di nutrire per noi sentimenti d’amore: etiam hos, qui foris sunt et nos dignantur diligere». Segno evidente che il rapporto del Vescovo con la sua città non era limitato alla popolazione cristiana, ma si estendeva anche a coloro che – al di fuori della Chiesa – ne riconoscevano in qualche modo l’autorità spirituale e amavano quest’uomo esemplare.

La seconda testimonianza del singolare rapporto del Vescovo con la sua città proviene dalla Lettera che sant’Ambrogio di Milano scrisse ai Vercellesi intorno al 394, più di vent’anni dopo la morte di Eusebio (Ep. fuori collezione 14). La Chiesa di Vercelli stava attraversando un momento difficile: era divisa e senza Pastore. Con franchezza Ambrogio dichiara di esitare a riconoscere in quei Vercellesi «la discendenza dei santi padri, che approvarono Eusebio non appena l’ebbero visto, senza averlo mai conosciuto prima di allora, dimenticando persino i propri concittadini». Nella stessa Lettera il Vescovo di Milano attesta nel modo più chiaro la sua stima nei confronti di Eusebio: «Un così grande uomo», scrive in modo perentorio, «ben meritò di essere eletto da tutta la Chiesa». L’ammirazione di Ambrogio per Eusebio si fondava soprattutto sul fatto che il Vescovo di Vercelli governava la diocesi con la testimonianza della sua vita: «Con l’austerità del digiuno governava la sua Chiesa». Di fatto anche Ambrogio era affascinato – come egli stesso riconosce – dall’ideale monastico della contemplazione di Dio, che Eusebio aveva perseguito sulle orme del profeta Elia. Per primo – annota Ambrogio – il Vescovo di Vercelli raccolse il proprio clero in vita communis e lo educò all’«osservanza delle regole monastiche, pur vivendo in mezzo alla città». Il Vescovo e il suo clero dovevano condividere i problemi dei concittadini, e lo hanno fatto in modo credibile proprio coltivando al tempo stesso una cittadinanza diversa, quella del cielo (cfr
He 13,14). E così hanno realmente costruito una vera cittadinanza, una vera solidarietà comune tra i cittadini di Vercelli.

Così Eusebio, mentre faceva sua la causa della sancta plebs di Vercelli, viveva in mezzo alla città come un monaco, aprendo la città verso Dio. Questo tratto, quindi, nulla tolse al suo esemplare dinamismo pastorale. Sembra fra l’altro che egli abbia istituito a Vercelli le pievi per un servizio ecclesiale ordinato e stabile, e che abbia promosso i Santuari mariani per la conversione delle popolazioni rurali pagane. Piuttosto, questo «tratto monastico" conferiva una dimensione peculiare al rapporto del Vescovo con la sua città. Come già gli Apostoli, per i quali Gesù pregava nella sua Ultima Cena, i Pastori e i fedeli della Chiesa «sono nel mondo» (Jn 17,11), ma non sono «del mondo». Perciò i Pastori – ricordava Eusebio – devono esortare i fedeli a non considerare le città del mondo come la loro dimora stabile, ma a cercare la Città futura, la definitiva Gerusalemme del cielo. Questa «riserva escatologica» consente ai Pastori e ai fedeli di salvare la scala giusta dei valori, senza mai piegarsi alle mode del momento e alle pretese ingiuste del potere politico in carica. La scala autentica dei valori – sembra dire la vita intera di Eusebio – non viene dagli imperatori di ieri e di oggi, ma viene da Gesù Cristo, l’Uomo perfetto, uguale al Padre nella divinità, eppure uomo come noi. Riferendosi a questa scala di valori, Eusebio non si stanca di «raccomandare caldamente» ai suoi fedeli di «custodire con ogni cura la fede, di mantenere la concordia, di essere assidui nell’orazione» (Ep. seconda).

Cari amici, anch’io vi raccomando con tutto il cuore questi valori perenni, mentre vi saluto e vi benedico con le parole stesse, con cui il santo Vescovo Eusebio concludeva la sua seconda Lettera: «Mi rivolgo a tutti voi, miei fratelli e sante sorelle, figli e figlie, fedeli dei due sessi e di ogni età, perché vogliate ... portare il nostro saluto anche a quelli che sono fuori dalla Chiesa, e che si degnano di nutrire per noi sentimenti d’amore» (ibid.).

Saluti:

Saluto in lingua croata:

Con gioia saluto i pellegrini croati, particolarmente il coro della cattedrale di Varaždin ed i fedeli della parrocchia di Santo Stefano di Split. Il Signore vi benedica abbondantemente e vi accompagni sempre con il suo aiuto. Siategli fedeli e riconoscenti. Siano lodati Gesù e Maria!

Saluto in lingua polacca:

Saluto i polacchi qui presenti, e in particolare i fedeli provenienti dall’Arcidiocesi di Katowice, giunti in occasione del 750° anniversario della morte di S. Giacinto. Il Santo, chiamato Lux ex Silesiae vi guidi sul cammino verso Cristo. Ieri abbiamo ricordato l’anniversario dell’elezione del mio predecessore Giovanni Paolo II. Ringraziamo Dio per i frutti del Suo Pontificato e stiamo saldi nella fede e nell’amore di cui è stato grande testimone. Dio vi benedica!

Saluto in lingua slovena:

Rivolgo un cordiale saluto ai fedeli della Slovenia! Da varie parti della vostra patria siete venuti in pellegrinaggio nella Città Eterna, in cui SS. Pietro e Paolo offrirono per il Signore la loro vita. L’esempio e l’intercessione di questi due grandi Apostoli vi aiutino ad essere anche voi zelanti testimoni del Vangelo. Vi accompagni la mia Benedizione!

Saluto in lingua ungherese:

Volentieri do il benvenuto ai pellegrini ungheresi, in particolare a quelli provenienti da Tusnádfürdo, Brassó e Máriabesnyo. Ringrazio voi tutti per le vostre preghiere per la Chiesa e per il mio servizio petrino. Portate il mio saluto alle vostre famiglie e ai vostri cari. Di cuore imparto a voi tutti la mia benedizione! Sia lodato Gesù Cristo!

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Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i membri della Milizia dell'Immacolata fondata novant'anni fa da S. Massimiliano Maria Kolbe, e li incoraggio a proseguire con rinnovato ardore apostolico nel loro servizio al Vangelo e alla Chiesa. Saluto le Delegate al Capitolo dell'Unione Romana dell'Ordine di Sant'Orsola e assicuro la mia preghiera affinché l'intero Istituto sia sempre più animato dall'amore di Dio secondo il carisma della fondatrice sant'Angela Merici. Saluto poi le Religiose che prendono parte al Seminario internazionale promosso dall'USMI sul tema della "Tratta di esseri umani", ed auspico che tale incontro rafforzi in tutti la coscienza del valore sacro della vita umana. Saluto con affetto i fedeli, accompagnati dall'Arcivescovo di Lecce Mons. Francesco Ruppi e da altri Presuli, che prendono parte al pellegrinaggio promosso dalle Suore Salesiane dei Sacri Cuori ad un anno dalla canonizzazione di san Filippo Smaldone, apostolo dei sordomuti. Cari amici, vi invito tutti, clero, religiose e fedeli laici a imitare la sua esemplare testimonianza e a seguire fedelmente lo spirito di carità verso i più bisognosi.

Rivolgo, infine, il mio pensiero ai malati, agli sposi novelli e ai giovani, specialmente ai ragazzi del dopo-Cresima della Diocesi di Faenza-Modigliana e agli alunni della Fondazione Sacro Cuore di Cesena. Cari amici, il mese di ottobre ci invita a rinnovare la nostra attiva cooperazione alla missione della Chiesa. Ponete pertanto al servizio del Vangelo, voi giovani le fresche energie della giovinezza, voi malati la forza della preghiera e della sofferenza, voi sposi novelli le potenzialità della vita coniugale per offrire un concreto sostegno ai missionari che recano il messaggio cristiano nelle frontiere dell’evangelizzazione.

ANNUNCIO DI CONCISTORO PER LA CREAZIONE DI NUOVI CARDINALI


Ho ora la gioia di annunciare che il 24 novembre prossimo, vigilia della Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo, Re dell’Universo, terrò un Concistoro nel quale, derogando di una unità al limite numerico stabilito dal Papa Paolo VI, confermato dal mio venerato Predecessore Giovanni Paolo II nella Costituzione Apostolica Universi dominici gregis (cfr n. 33), nominerò diciotto Cardinali. Ecco i loro nomi:

1. Mons. Leonardo Sandri, Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali;
2. Mons. John Patrick Foley, Pro-Gran Maestro dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme;
3. Mons. Giovanni Lajolo, Presidente della Pontificia Commissione e del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano;
4. Mons. Paul Joseph Cordes, Presidente del Pontificio Consiglio "Cor Unum";
5. Mons. Angelo Comastri, Arciprete della Basilica Vaticana, Vicario Generale per lo S.C.V. e Presidente della Fabbrica di San Pietro;
6. Mons. Stanislaw Rylko, Presidente del Pontificio Consiglio per i Laici;
7. Mons. Raffaele Farina, Archivista e Bibliotecario di S.R.C.;
8. Mons. Agustín García-Gasco Vicente, Arcivescovo di Valencia (Spagna);
9. Mons. Seán Baptist Brady, Arcivescovo di Armagh (Irlanda);
10. Mons. Lluís Martínez Sistach, Arcivescovo di Barcellona (Spagna);
11. Mons. André Vingt-Trois, Arcivescovo di Parigi (Francia);
12. Mons. Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova (Italia);
13. Mons. Théodore-Adrien Sarr, Arcivescovo di Dakar (Senegal);
14. Mons. Oswald Gracias, Arcivescovo di Bombay (India);
15. Mons. Francisco Robles Ortega, Arcivescovo di Monterrey (Messico);
16. Mons. Daniel N. Di Nardo, Arcivescovo di Galveston-Houston (Stati Uniti d’America);
17. Mons. Odillo Pedro Scherer, Arcivescovo di São Paulo (Brasile);
18. Mons. John Njue, Arcivescovo di Nairobi (Kenya).

Desidero inoltre elevare alla dignità cardinalizia tre venerati Presuli e due benemeriti ecclesiastici, particolarmente meritevoli per il loro impegno al servizio della Chiesa:

1. S.B. Emmanuel III Delly, Patriarca di Babilonia dei Caldei;
2. Mons. Giovanni Coppa, Nunzio Apostolico;
3. Mons. Estanislao Esteban Karlic, Arcivescovo emerito di Paraná (Argentina);
4. P. Urbano Navarrete, S.I., già Rettore della Pontificia Università Gregoriana; e
5. P. Umberto Betti, O.F.M., già Rettore della Pontificia Università Lateranense.

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Tra questi ultimi era stato mio desiderio elevare alla porpora anche l’anziano Vescovo Ignacy Jez, di Koszalin-Kolobrzeg, in Polonia, benemerito Presule, che ieri è improvvisamente mancato.

A lui va la nostra preghiera di suffragio.

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I nuovi Porporati provengono da varie parti del mondo. Nella loro schiera ben si rispecchia l'universalità della Chiesa con la molteplicità dei suoi ministeri: accanto a Presuli benemeriti per il servizio reso alla Santa Sede, vi sono Pastori che spendono le loro energie a diretto contatto con i fedeli.

Altre persone vi sarebbero, a me molto care, che per la loro dedizione al servizio della Chiesa ben meriterebbero di essere elevate alla dignità cardinalizia. Spero di avere in futuro l'opportunità di testimoniare, anche in questo modo, ad esse ed ai Paesi a cui appartengono la mia stima ed il mio affetto.

Affidiamo i nuovi eletti alla protezione di Maria Santissima, chiedendoLe di assisterli nelle rispettive mansioni, affinché sappiano testimoniare con coraggio in ogni circostanza il loro amore per Cristo e per la Chiesa.

APPELLO

Si celebra oggi la Giornata Mondiale del rifiuto della miseria, riconosciuta dalle Nazioni Uniti sotto il titolo di Giornata internazionale per l’eliminazione della povertà. Queste popolazioni vivono ancora in condizioni di estrema povertà! La disparità tra ricchi e poveri s'è fatta più evidente e inquietante, anche all’interno delle nazioni economicamente più avanzate. Questa situazione preoccupante s'impone alla coscienza dell'umanità, poiché le condizioni in cui versa un gran numero di persone sono tali da offendere la dignità dell’essere umano e da compromettere, conseguentemente, l'autentico ed armonico progresso della comunità mondiale. Incoraggio, pertanto, a moltiplicare gli sforzi per eliminare le cause della povertà e le tragiche conseguenze che ne derivano.



Piazza San Pietro

Mercoledì, 24 ottobre 2007: Sant’Ambrogio


Catechesi 2005-2013 31007