Catechesi 79-2005 28279

Mercoledì delle Ceneri, 28 febbraio 1979

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1. Ci incontriamo oggi nel primo giorno di Quaresima, Mercoledì delle Ceneri. In questo giorno, iniziando il periodo di quaranta giorni della preparazione alla Pasqua, la Chiesa ci impone le ceneri sul nostro capo e ci invita alla penitenza. La parola “penitenza” ritorna in tante pagine della Sacra Scrittura, risuona sulla bocca di tanti profeti e, infine, in modo particolarmente eloquente, sulla bocca di Gesù Cristo stesso: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (
Mt 3,2). Si può dire che Cristo ha introdotto la tradizione del digiuno di quaranta giorni nell’anno liturgico della Chiesa, perché egli stesso “digiunò quaranta giorni e quaranta notti” (Mt 4,2) prima di incominciare a insegnare. Con questo digiuno di quaranta giorni la Chiesa è, in un certo senso, chiamata ogni anno a seguire il suo Maestro e Signore, se vuole predicare efficacemente il suo Vangelo. Il primo giorno di Quaresima proprio oggi deve in modo particolare testimoniare che la Chiesa accetta questa chiamata di Cristo e che desidera adempierla.

2. La penitenza in senso evangelico significa soprattutto “conversione”. Sotto questo aspetto è molto significativo il brano del Vangelo del Mercoledì delle Ceneri. Gesù parla dell’adempimento degli atti di penitenza, noti e praticati dai suoi contemporanei, dal popolo dell’antica alleanza. In pari tempo però sottopone a critica il modo puramente “esterno” dell’adempimento di questi atti: elemosina, digiuno, preghiera, perché questo modo è contrario alla finalità propria degli atti stessi. Il fine degli atti di penitenza è il più profondo volgersi a Dio stesso per potersi incontrare con lui nell’intimo della umana entità, nel segreto del cuore.

“Quando dunque fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti... per essere lodati dagli uomini...; non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti segreta; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà”.

“Quando pregate, non siate simili agli ipocriti... per essere visti dagli uomini..., ma... entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.

“E quando digiunate, non assumete aria malinconica come gli ipocriti... (ma) profumati la testa e lavati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo tuo Padre che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà” (Mt 6,2-6).

Quindi il primo e principale significato della penitenza è interiore, spirituale. Il principale sforzo della penitenza consiste “nell’entrare in se stesso”, nella propria entità più profonda, entrare in questa dimensione della propria umanità in cui, in un certo senso, ci attende Dio. L’uomo “esteriore” deve – direi – cedere, in ognuno di noi, all’uomo “interiore” e, in un certo senso, “lasciargli il posto”. Nella vita corrente l’uomo non vive abbastanza “interiormente”. Gesù Cristo indica chiaramente che anche gli atti di devozione e di penitenza (come digiuno, elemosina, preghiera) che per la loro finalità religiosa sono principalmente “interiori”, possono cedere all’“esteriorismo” corrente, e quindi possono essere falsificati. Invece la penitenza, come conversione a Dio, richiede soprattutto che l’uomo respinga le apparenze, sappia liberarsi dalla falsità e ritrovarsi in tutta la sua verità interiore. Anche uno sguardo rapido, sommario, nel divino fulgore è già un successo. Bisogna però abilmente consolidare questo successo mediante un lavoro sistematico su se stessi. Tale lavoro viene chiamato “ascesi” (così lo avevano già denominato i Greci dei tempi delle origini del cristianesimo). Ascesi vuol dire sforzo interiore per non lasciarsi rapire e spingere dalle diverse correnti “esteriori”, così da rimanere sempre se stessi e conservare la dignità della propria umanità.

Però il Signore Gesù ci chiama a far ancora qualcosa di più. Quando dice “entra nella tua camera e chiudi la porta”, indica uno sforzo ascetico dello spirito umano, che non deve terminare nell’uomo stesso. Quel chiudersi è, nello stesso tempo, la più profonda apertura del cuore umano. È indispensabile allo scopo di incontrarsi col Padre, e per questo deve essere intrapreso. “Il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà”. Qui si tratta di riacquistare la semplicità del pensiero, della volontà e del cuore, che è indispensabile per incontrarsi nel proprio “io” interiore con Dio. E Dio attende ciò, per avvicinarsi all’uomo internamente raccolto e nel contempo aperto alla sua parola e al suo amore! Dio desidera comunicarsi all’anima così disposta. Desidera donarle la verità e l’amore, che hanno in lui la vera sorgente.

3. Allora la corrente principale della Quaresima deve scorrere attraverso l’uomo interiore, attraverso cuori e coscienze. In questo consiste lo sforzo essenziale della penitenza. In questo sforzo la volontà umana di convertirsi a Dio è investita dalla grazia preveniente di conversione e, nello stesso tempo, di perdono e di liberazione spirituale. La penitenza non è soltanto uno sforzo, un peso, ma anche una gioia. Qualche volta è una grande gioia dello spirito umano, letizia che altre sorgenti non possono suscitare.


Sembra che l’uomo contemporaneo abbia perso, in una certa misura, il sapore di questa gioia. Ha perso inoltre il profondo senso di quello sforzo spirituale, che permette di ritrovare se stesso in tutta la verità del proprio intimo. Concorrono a questo proposito molte cause e circostanze, che è difficile analizzare nei limiti di questo discorso. La nostra civiltà – soprattutto in occidente –, legata strettamente con lo sviluppo della scienza e della tecnica, intravede il bisogno dello sforzo intellettuale e fisico; ma ha perso notevolmente il senso dello sforzo dello spirito, il cui frutto è l’uomo visto nelle sue dimensioni interiori. Alla fin dei conti, l’uomo vivente nelle correnti di questa civiltà molto spesso perde la propria dimensione; perde il senso interiore della propria umanità. A questo uomo diventa estraneo sia lo sforzo che conduce al frutto or ora menzionato, sia la gioia che da esso proviene: la grande gioia del ritrovamento e dell’incontro, la gioia della conversione (metànoia), la gioia della penitenza.

La severa liturgia del Mercoledì delle Ceneri e, in seguito, tutto il periodo della Quaresima è – come preparazione alla Pasqua – una sistematica chiamata a questa gioia: alla gioia che fruttifica dallo sforzo del ritrovamento di se stesso in pazienza: “Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime” (Lc 21,19).

Nessuno abbia timore a intraprendere questo sforzo.

Ai rappresentanti della religione “ Shinto ”


Desidero esprimere al Venerabile Patriarca Nijo, Sommo Sacerdote del Tempio di Ise, e ai trenta delegati Shinto qui presenti la gioia e la gratitudine di aver onorato la mia umile persona a nome di tutta la comunità Shintoista. In tale feconda occasione desidero comunicarvi il rispetto che nutro per la religione da voi professata. La Chiesa Cattolica riconosce e rispetta tutto ciò che nella vostra religione è vero buono e nobile (Nostra Aetate NAE 2). Lo Shintoismo, la religione tradizionale del Giappone, afferma per esempio che tutti gli uomini sono uguali figli di Dio e per questo motivo tra di loro fratelli. Inoltre, nella vostra tradizione religiosa è presente una speciale sensibilità e apprezzamento per l’armonia e la bellezza della natura insieme alla capacità di riconoscere in esse la rivelazione dell’Altissimo. Sappiamo inoltre che con i vostri nobili insegnamenti sull’ascetismo personale voi ricercate una maggiore purificazione del cuore dell’uomo. I molti punti che riconosciamo comuni ci spingono sempre più ad unirci in amicizia e fratellanza a servizio di tutta l’umanità.


Con gioia invoco dunque su ciascuno di voi, sulle vostre famiglie e sull’intero popolo del Giappone la particolare benedizione dello Altissimo.

Ai pellegrinaggi delle diocesi di Capua ed Eboli

Sono lieto di rivolgere un affettuoso benvenuto al numeroso pellegrinaggio dell’arcidiocesi di Capua, guidato dall’Arcivescovo, Monsignor Luigi Diligenza, come pure ai sacerdoti e ai fedeli di Eboli, anch’essi accompagnati dal loro Pastore, Monsignor Gaetano Pollio. In ambedue i gruppi sono presenti dei malati, privilegiati testimoni della Croce benedetta e redentrice di Cristo. Voi siete convenuti qui, desiderosi d’incontrarvi cuore a cuore con il Papa, per vivere un momento d’intimità familiare e trarne motivi di letizia e di conforto. Tuttavia, anche in questa occasione, l’aspirazione più intima è quella di entrare in comunione con Gesù Signore, speranza e gaudio delle nostre anime, vita della nostra vita.

Prego il Padre celeste perché quest’ora sia un momento di grazia per tutti, una lieta esperienza di fede in Gesù Salvatore e Liberatore, specialmente per coloro che, sofferenti nel corpo e nello spirito, sono a lui più vicini in un misterioso disegno di salvezza a favore dell’umanità intera. Con l’augurio che nella vita di ogni giorno vi assista sempre la certezza dell’amore paterno del Signore, benedico di cuore voi e le vostre famiglie.

Agli ammalati

Estendo poi il mio saluto e la mia particolare Benedizione a tutti gli altri ammalati, e tanto più affettuoso, quanto più profonda è la ferita del dolore. Carissimi, come le sofferenze di Cristo, così anche le vostre, se accettate e offerte con fede, possono contribuire al vostro bene morale e alla redenzione del mondo.Per comprender questo ci vuole un occhio puro e un cuore che ama, come invoco dal Signore per ciascuno di voi, mentre lo prego altresì di consolarvi.

Ai giovani e agli anziani ospiti dell’Istituto Romano San Michele

Desidero ancora rivolgere un saluto affettuoso ai dirigenti ed ospiti dell’Istituto Romano San Michele. Carissimi fratelli, siate sempre fieri delle tradizioni cristiane che hanno distinto la vostra istituzione: voi giovani, irradiate l’ideale evangelico nelle vostre scuole e nei vostri centri di addestramento professionale, e un domani in tutti i luoghi dove verrete a trovarvi e a svolgere la vostra attività. Voi anziani, siate perseveranti nella fede e lieti nella speranza, ben consapevoli che la Provvidenza non vi abbandonerà mai, e tanto meno in codesti preziosi anni della vostra esistenza. La mia speciale Benedizione vi sia di conforto e di incoraggiamento in ogni vostro buon proposito all’inizio del tempo quaresimale.

Ai giovani sposi

Non dimentico voi, sposi novelli, che avete la primavera nel cuore, santificati dalla grazia e dal sacramento. Vi auguro ogni bene e felicità. Col matrimonio voi avete fondato un nido e acceso una fiamma. Fate che il nido sia sempre tiepido d’amore e che la fiamma sia alimentata dalla fede e da una coerente vita cristiana. Vi accompagni la mia benedizione.




Mercoledì, 14 marzo 1979

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1. Durante la Quaresima sentiamo spesso giungere a noi le parole: preghiera-digiuno-elemosina, che già ebbi a ricordare il Mercoledì delle Ceneri. Siamo abituati a pensare ad esse come ad opere pie e buone, che ogni cristiano deve compiere soprattutto in questo periodo. Tale modo di pensare è corretto, ma non completo. La preghiera, l’elemosina e il digiuno richiedono di esser compresi più profondamente, se vogliamo inserirli più a fondo nella nostra vita, e non considerarli semplicemente come delle pratiche passeggere, che esigono da noi soltanto qualcosa di momentaneo oppure che solo momentaneamente ci privano di qualcosa. Con tale modo di pensare non arriveremmo ancora al vero senso e alla vera forza che la preghiera, il digiuno e l’elemosina hanno nel processo della conversione a Dio e della nostra maturazione spirituale. L’una va di pari passo con l’altra: maturiamo spiritualmente convertendoci a Dio, e la conversione si attua mediante la preghiera, come anche mediante il digiuno e l’elemosina, adeguatamente intesi.

Conviene forse dire subito che non si tratta qui soltanto di “pratiche” momentanee, ma di atteggiamenti costanti, che danno alla nostra conversione a Dio una forma duratura. La Quaresima, come tempo liturgico, dura solo quaranta giorni all’anno: a Dio invece dobbiamo tendere sempre; ciò significa che bisogna convertirsi continuamente. La Quaresima deve lasciare un’impronta forte e indelebile nella nostra vita. Deve rinnovare in noi la coscienza della nostra unione con Gesù Cristo, che ci fa vedere la necessità della conversione e ci indica le vie per realizzarla. La preghiera, il digiuno e l’elemosina sono appunto le vie che Cristo ci ha indicato.

Nelle meditazioni che seguiranno cercheremo di intravedere quanto profondamente queste vie penetrino nell’uomo: che cosa esse significhino per lui. Il cristiano deve comprendere il vero senso di queste vie, se vuole seguirle.

2. Prima, quindi, la via della preghiera. Dico “prima”, perché desidero parlare di essa prima delle altre. Ma dicendo “prima” voglio oggi aggiungere che nell’opera totale della nostra conversione, cioè della nostra maturazione spirituale, la preghiera non è isolata dalle altre due vie che la Chiesa definisce col termine evangelico di “digiuno ed elemosina”. La via della preghiera ci è forse più familiare. Forse comprendiamo con più facilità che senza di essa non è possibile convertirsi a Dio, rimanere in unione con lui, in quella comunione che ci fa maturare spiritualmente. Senz’altro tra voi, che adesso mi ascoltate, vi sono moltissimi che hanno una propria esperienza di preghiera, che ne conoscono i vari aspetti e possono farne partecipi gli altri. Impariamo infatti a pregare, pregando. Il Signore Gesù ci ha insegnato a pregare prima di tutto pregando lui stesso: “...e passò la notte in orazione” (
Lc 6,12); un altro giorno, come scrive San Matteo, “salì sul monte, solo, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava ancora solo lassù” (Mt 14,23). Prima della sua Passione e della Morte andò al monte degli Ulivi ed incoraggiò gli Apostoli a pregare, e lui stesso, inginocchiatosi, pregava. In preda all’angoscia, pregava più intensamente (cfr Lc 22,39-46). Solo una volta richiesto dai discepoli “Signore, insegnaci a pregare” (Lc 11,1), egli ha dato loro il più semplice e più profondo contenuto della sua preghiera: il “Padre nostro”.

Dato che è impossibile racchiudere in un breve discorso tutto ciò che si può dire o che è stato scritto sul tema della preghiera, vorrei oggi mettere in rilievo una sola cosa. Noi tutti, quando preghiamo, siamo discepoli di Cristo, non perché ripetiamo le parole che lui una volta ci ha insegnato – parole sublimi, contenuto completo della preghiera – siamo discepoli di Cristo perfino quando non usiamo queste parole. Siamo suoi discepoli solo perché preghiamo: “Ascolta il Maestro che prega; impara a pregare. Per questo infatti egli pregò, per insegnare a pregare”, afferma Sant’Agostino (S. Agostino, Enarr. in PS 56,5). E un autore contemporaneo scrive: “Poiché la fine del cammino della preghiera si perde in Dio, e nessuno conosce il cammino tranne Colui che viene da Dio, Gesù Cristo, bisogna... fissare gli occhi su lui solo. È la via, la verità e la vita. Solo lui ha percorso il cammino nelle due direzioni. Bisogna mettere la nostra mano nella sua e partire” (Y. Raguin, Chemins de la contemplation, Desclée de Brouwer, 1969, p. 179). Pregare significa parlare con Dio – oserei dire ancor di più – pregare significa ritrovarsi in quell’unico eterno Verbo attraverso il quale parla il Padre, e il quale parla al Padre. Questo Verbo si è fatto carne, affinché ci sia più facile ritrovarci in lui anche con la nostra parola umana di preghiera. Questa parola può alle volte essere molto imperfetta, può talvolta addirittura mancarci, tuttavia questa incapacità delle nostre parole umane si completa continuamente nel Verbo che si è fatto carne per parlare al Padre con la pienezza di quella mistica unione, che ogni uomo che prega forma con lui; che tutti coloro che pregano formano con lui. In questa particolare unione col Verbo sta la grandezza della preghiera, la sua dignità e, in qualche modo, la sua definizione.

Bisogna soprattutto comprendere bene la fondamentale grandezza e dignità della preghiera. Preghiera di ogni uomo. Ed anche di tutta la Chiesa orante. La Chiesa giunge, in certo modo, così lontano come la preghiera. Dovunque ci sia un uomo che prega.

3. Bisogna pregare basandosi su questo concetto essenziale della preghiera. Quando i discepoli chiesero al Signore Gesù: “Insegnaci a pregare”, egli rispose pronunciando le parole della preghiera “Padre nostro”, creando così un modello concreto e insieme universale. Difatti, tutto ciò che si può e si deve dire al Padre è racchiuso in quelle sette domande, che tutti conosciamo a memoria. C’è in esse una tale semplicità, che persino un bambino le impara, e parimenti una tale profondità, che si può consumare un’intera vita nel meditare il senso di ognuna di esse. Non è forse così? Non ci parla ognuna di esse, l’una dopo l’altra, di ciò che è l’essenziale per la nostra esistenza, rivolta totalmente a Dio, al Padre? Non ci parla del “pane quotidiano”, della “remissione dei nostri peccati come anche noi li rimettiamo”, e insieme della “preservazione dalla tentazione” e della “liberazione dal male”?

Quando Cristo, rispondendo alla domanda dei discepoli “Insegnaci a pregare” pronuncia le parole della sua preghiera, insegna non soltanto le parole, ma insegna che nel nostro colloquio col Padre deve esserci una totale sincerità e una piena apertura. La preghiera deve abbracciare tutto ciò che fa parte della nostra vita. Non può essere qualcosa di supplementare o di marginale. Tutto deve trovare in essa la propria voce. Anche tutto ciò che ci aggrava; ciò di cui ci vergogniamo; ciò che per sua natura ci separa da Dio. Proprio soprattutto questo. È la preghiera che sempre, per prima ed essenzialmente, demolisce la barriera tra noi e Dio, che il peccato e il male possono avere innalzato.

Attraverso la preghiera tutto il mondo deve trovare il suo riferimento giusto: cioè il riferimento a Dio: il mio mondo interiore e anche il mondo oggettivo, quello nel quale viviamo, e così come lo conosciamo. Se ci convertiamo a Dio, tutto in noi si volge a lui. La preghiera è l’espressione di tale rivolgersi verso Dio; e ciò è, nello stesso tempo, la nostra continua conversione: la nostra via. Dice la Sacra Scrittura: “Come infatti la pioggia e la neve / scendono dal cielo e non vi ritornano / senza aver irrigato la terra, / senza averla fecondata e fatta germogliare, / perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, / così sarà della parola uscita dalla mia bocca: / non ritornerà a me senza effetto, / senza aver operato ciò che desidero / e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata” (Is 55,10-11).

La preghiera è la via del Verbo che tutto abbraccia. Via del Verbo eterno che attraversa il profondo di tanti cuori; che riconduce al Padre tutto ciò che in lui ha la sua origine.


“La preghiera è il sacrificio delle nostre labbra” (cfr He 13,15). E, come scrive Sant’Ignazio di Antiochia (S. Ignazio di Antiochia, Ad Romanos, VII, 2), “Acqua viva che mormora dentro di noi e dice: vieni al Padre”.

Con la mia Benedizione Apostolica.

Alla comunità del Pontificio Collegio Spagnolo di Roma


Desidero ora salutare con particolare affetto, i superiori e i sacerdoti del Pontificio Collegio Spagnolo di Roma, esortandoli vivamente a continuare la tradizione secolare della Chiesa di Spagna, a mantenere sempre una stretta comunione di sentimenti con la Sede di Pietro e con il Vicario di Cristo.

A un gruppo di Diaconi della diocesi di Paderborn e di Seminaristi di Mainz


Tra i gruppi di lingua tedesca rivolgo il mio cordiale saluto ai diaconi presenti della diocesi di Paderborn, così come alla direzione e agli studenti del Seminario vescovile di Mainz. Accompagno il vostro cammino al sacerdozio con la mia preghiera e la mia particolare Benedizione.

A un gruppo di studenti della Open University



Voglio estendere ora un particolare saluto agli studenti disabili dell’Associazione Inglese degli Studenti della Open University insieme ai loro assistenti. Ricordate sempre che gli sforzi da voi compiuti per superare qualsiasi svantaggio e per essere di aiuto verso gli altri, hanno un grande valore. Considerate sempre il ruolo che Dio Padre ha nelle vostre vite, quanto egli vi sia prossimo, e quanto ami ognuno di voi.

Ai malati

Il mio animo si apre ora, con paterna tenerezza, a quanti tra voi soffrono a causa della malattia: sappiate che non siete soli nel calvario in cui siete incamminati per un misterioso disegno, la Chiesa tutta soffre con voi in fraterna, solidale partecipazione al vostro dramma che vi affligge. Voi, a vostra volta, sappiate rivolgervi nelle prove dolorose a Colui che ha vinto la sofferenza con la propria croce e offrire a lui il dono del vostro pianto e delle vostre lacrime, che così non cadranno invano, ma saranno redentrici dell’umanità. Vi assista sempre la mia Benedizione.

Ai giovani sposi

A voi sposi novelli, che avete iniziato una nuova vita sotto il segno benedicente del Signore per rendere sacro e indistruttibile il vostro amore coniugale, auspico di cuore che possiate sentire sempre più la bellezza della gioia cristiana, vissuta nelle vostre famiglie in piena concordia e armonia, a imitazione della Famiglia di Nazaret. A questo fine vi benedico di gran cuore.




Mercoledì, 21 marzo 1979

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1. “Proclamate il digiuno!” (
Ga 1,14). Sono le parole che abbiamo ascoltato nella prima lettura del Mercoledì delle Ceneri. Le ha scritte il profeta Gioele e la Chiesa conformemente ad esse stabilisce la pratica di Quaresima, ordinando il digiuno. Oggi la pratica della Quaresima, definita da Paolo VI nella Costituzione Paenitemini, è notevolmente mitigata rispetto a quelle di una volta. In questa materia il Papa ha lasciato molto alla decisione delle Conferenze Episcopali dei singoli paesi, alle quali, pertanto, spetta il compito di adattare le esigenze del digiuno secondo le circostanze in cui si trovano le rispettive società. Egli ha ricordato pure che l’essenza della penitenza quaresimale è costituita non soltanto dal digiuno, ma anche dalla preghiera e dall’elemosina (opera di misericordia). Bisogna quindi decidere secondo le circostanze, in quanto lo stesso digiuno può essere “sostituito” da opere di misericordia e dalla preghiera. Lo scopo di questo particolare periodo nella vita della Chiesa è sempre e dappertutto la penitenza, cioè la conversione a Dio. La penitenza, infatti, intesa come conversione, cioè “metànoia”, forma un insieme, che la tradizione del Popolo di Dio già nell’antica alleanza e poi Cristo stesso hanno legato, in un certo modo, alla preghiera, all’elemosina e al digiuno.

Perché al digiuno?

In questo momento ci vengono forse in mente le parole con cui Gesù ha risposto ai discepoli di Giovanni Battista quando lo interrogavano: “Perché i tuoi discepoli non digiunano?”. Gesù rispose: “Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto, mentre lo sposo è con loro? Verranno però i giorni quando lo sposo sarà loro tolto e allora digiuneranno” (Mt 9,15). Difatti il tempo di Quaresima ci ricorda che lo sposo ci è stato tolto. Tolto, arrestato, imprigionato, schiaffeggiato, flagellato, incoronato di spine, crocifisso... Il digiuno nel tempo di Quaresima è l’espressione della nostra solidarietà con Cristo. Tale è stato il significato della Quaresima attraverso i secoli e così rimane oggi.


“L’amore mio è stato crocifisso e non c’è più in me la fiamma che desidera le cose materiali”, come scrive il Vescovo di Antiochia Ignazio nella lettera ai Romani (S. Ignazio di Antiochia, Ad Romanos, VII, 2).

2. Perché il digiuno?

A questa domanda bisogna dare una risposta più ampia e profonda, perché diventi chiaro il rapporto tra il digiuno e la “metànoia”, cioè quella trasformazione spirituale, che avvicina l’uomo a Dio. Cercheremo quindi di concentrarci non soltanto sulla pratica dell’astensione dal cibo o dalle bevande – ciò infatti significa “il digiuno” nel senso comune – ma sul significato più profondo di questa pratica che, del resto, può e deve alle volte essere “sostituita” da qualche altra. Il cibo e le bevande sono indispensabili all’uomo per vivere, egli se ne serve e deve servirsene, tuttavia non gli è lecito abusarne sotto qualsiasi forma. La tradizionale astensione dal cibo e dalle bevande ha come fine di introdurre nell’esistenza dell’uomo non soltanto l’equilibrio necessario, ma anche il distacco da quello che si potrebbe definire “atteggiamento consumistico”. Tale atteggiamento è divenuto nei nostri tempi una delle caratteristiche della civiltà e in particolare della civiltà occidentale. L’atteggiamento consumistico! L’uomo orientato verso i beni materiali, molteplici beni materiali, molto spesso ne abusa. Non si tratta qui unicamente del cibo e delle bevande. Quando l’uomo è orientato esclusivamente verso il possesso e l’uso di beni materiali, cioè delle cose, allora anche tutta la civiltà viene misurata secondo la quantità e la qualità delle cose che è in grado di fornire all’uomo, e non si misura con il metro adeguato all’uomo. Questa civilizzazione infatti fornisce i beni materiali non soltanto perché servano all’uomo a svolgere le attività creative e utili, ma sempre di più... per soddisfare i sensi, l’eccitazione che ne deriva, il piacere momentaneo, una sempre maggiore molteplicità di sensazioni.

Alle volte si sente dire che l’incremento eccessivo dei mezzi audio-visivi nei paesi ricchi non sempre giova allo sviluppo dell’intelligenza, particolarmente nei bambini; al contrario, talvolta contribuisce a frenarne lo sviluppo. Il bambino vive solo di sensazioni, cerca delle sensazioni sempre nuove... E diventa così, senza rendersene conto, schiavo di questa passione odierna. Saziandosi di sensazioni, rimane spesso intellettualmente passivo; l’intelletto non si apre alla ricerca della verità; la volontà resta vincolata dall’abitudine, alla quale non sa opporsi.

Da ciò risulta che l’uomo contemporaneo deve digiunare, cioè astenersi non soltanto dal cibo o dalle bevande, ma da molti altri mezzi di consumo, di stimolazione, di soddisfazione dei sensi. Digiunare significa astenersi, rinunciare a qualcosa.

3. Perché rinunciare a qualcosa? Perché privarsene? Abbiamo già in parte risposto a questo quesito. Tuttavia la risposta non sarà completa, se non ci rendiamo conto che l’uomo è se stesso anche perché riesce a privarsi di qualcosa, perché è capace di dire a se stesso: “no”. L’uomo è un essere composto di corpo e di anima. Alcuni scrittori contemporanei presentano questa struttura composta dell’uomo sotto la forma di strati e parlano, ad esempio, di strati esteriori in superficie della nostra personalità, contrapponendoli agli strati in profondità. La nostra vita sembra esser divisa in tali strati e si svolge attraverso di essi. Mentre gli strati superficiali sono legati alla nostra sensualità, gli strati profondi sono espressione invece della spiritualità dell’uomo, cioè: della volontà cosciente, della riflessione, della coscienza, della capacità di vivere i valori superiori.

Questa immagine della struttura della personalità umana può servire a comprendere il significato del digiuno per l’uomo. Non si tratta qui solamente del significato religioso, ma di un significato che si esprime attraverso la cosiddetta “organizzazione” dell’uomo come soggetto-persona. L’uomo si sviluppa regolarmente, quando gli strati più profondi della sua personalità trovano una sufficiente espressione, quando l’ambito dei suoi interessi e delle sue aspirazioni non si limita soltanto agli strati esteriori e superficiali, connessi con la sensualità umana. Per agevolare un tale sviluppo, dobbiamo alle volte consapevolmente distaccarci da ciò che serve a soddisfare la sensualità, vale a dire, da quegli strati esteriori superficiali. Quindi dobbiamo rinunciare a tutto ciò che li “alimenta”.

Ecco, in breve, l’interpretazione del digiuno al giorno d’oggi. La rinuncia alle sensazioni, agli stimoli, ai piaceri e anche al cibo o alle bevande, non è fine a se stessa. Essa deve soltanto, per così dire, spianare la strada per contenuti più profondi, di cui “si alimenta” l’uomo interiore. Tale rinuncia, tale mortificazione deve servire a creare nell’uomo le condizioni per poter vivere i valori superiori, di cui egli è, a suo modo, “affamato”.

Ecco, il “pieno” significato del digiuno nel linguaggio di oggi. Tuttavia, quando leggiamo gli autori cristiani dell’antichità o i Padri della Chiesa, troviamo in loro la stessa verità, spesso espressa con linguaggio così “attuale” che ci sorprende. Dice, per esempio, San Pietro Crisologo: “Il digiuno è pace del corpo, forza delle menti, vigore delle anime” (S. Pietro Crisologo, Sermo VII: “De Jejunio”, 3), e ancora: “Il digiuno è il timone della vita umana e regge l’intera nave del nostro corpo” (“De Jejunio”, 1).

E Sant’Ambrogio risponde così alle eventuali obiezioni contro il digiuno: “La carne, per la sua condizione mortale, ha alcune sue concupiscenze proprie: nei loro confronti ti è stato concesso il diritto di freno. La tua carne è sotto di te: non seguire le sollecitazioni della carne fino alle cose illecite, ma frenale alquanto anche per quanto riguarda quelle lecite. Infatti, chi non si astiene da nessuna delle cose lecite, è prossimo pure a quelle illecite” (S. Ambrogio, Sermo de utilitate jejunii, III. V. VII). Anche scrittori non appartenenti al cristianesimo dichiarano la stessa verità. Questa verità è di portata universale. Fa parte della saggezza universale della vita.

4. È ora certamente più facile per noi comprendere il perché Cristo Signore e la Chiesa uniscano il richiamo al digiuno con la penitenza, cioè con la conversione. Per convertirci a Dio, è necessario scoprire in noi stessi quello che ci rende sensibili a quanto appartiene a Dio, dunque: i contenuti spirituali, i valori superiori, che parlano al nostro intelletto, alla nostra coscienza, al nostro “cuore” (secondo il linguaggio biblico). Per aprirsi a questi contenuti spirituali, a questi valori, bisogna distaccarsi da quanto serve soltanto al consumismo, alla soddisfazione dei sensi. Nell’apertura della nostra personalità umana a Dio, il digiuno – inteso sia nel modo “tradizionale” che “attuale” – deve andare di pari passo con la preghiera perché essa ci dirige direttamente verso lui.


D’altronde il digiuno, cioè la mortificazione dei sensi, il dominio del corpo, conferiscono alla preghiera una maggiore efficacia, che l’uomo scopre in se stesso. Scopre infatti che è “diverso”, che è più “padrone di se stesso”, che è divenuto interiormente libero. E se ne rende conto in quanto la conversione e l’incontro con Dio, attraverso la preghiera, fruttificano in lui.

Da queste nostre riflessioni odierne risulta chiaro che il digiuno non è solo il “residuo” di una pratica religiosa dei secoli passati, ma che è anche indispensabile all’uomo di oggi, ai cristiani del nostro tempo. Bisogna profondamente riflettere su questo tema, proprio durante il periodo della Quaresima.

Agli alunni

Fratelli carissimi! Sono veramente lieto per questo mio incontro con una folla grandissima di adolescenti e di ragazzi provenienti da varie scuole d’Italia. Voi sapete quanto il Papa conti su di voi, che rappresentate l’attesa e la speranza della società e della Chiesa. A voi tutti il mio saluto affettuoso e cordiale, che estendo ai vostri docenti e ai vostri genitori, che tanti sacrifici fanno per la vostra formazione culturale, umana e cristiana.

Desidero vivamente raccomandarvi che vi prepariate, fin da adesso, mediante lo studio serio, agli impegni che dovrete assumere fra non molti anni, per portare il vostro personale contributo alla costruzione della società, fondata sulla giustizia, sulla libertà, sulla solidarietà. Voi siete cristiani, siete cioè seguaci di Gesù, lo amate, gli volete essere sempre amici fedeli, ne accettate gioiosamente la dottrina, che esige talvolta delle rinunce. Ebbene: impegnatevi a lavorare con entusiasmo fra i vostri condiscepoli, fra i vostri amici, nella scuola, perché il messaggio di Cristo penetri nel profondo delle coscienze.

Il periodo quaresimale, nel quale la Liturgia della Chiesa presenta alla nostra riflessione i grandi misteri della salvezza, sia vissuto da noi tutti in atteggiamento di penitenza e di sacrificio, per prepararci degnamente all’incontro pasquale con Cristo.

Siate sempre animati dall’ideale altissimo proclamato da Gesù: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (GV 15,12). Con questi voti vi benedico di cuore.

Ai malati

Al gruppo degli ammalati dell’UNITALSI di Firenze, a tutti gli infermi qui presenti e a quanti soffrono nel corpo o nello spirito desidero rivolgere con particolare intensità di sentimento il mio cordiale saluto e l’assicurazione del mio ricordo nella preghiera. Carissimi ammalati, la sofferenza è un grande mistero, ma con la grazia di Gesù Cristo essa diventa una sicura via verso la felicità eterna. Il dolore infatti è un mezzo adatto per diventare sempre più intimamente amici di Gesù, il quale vuole essere luce e conforto della vostra esistenza. Vi accompagni la mia Benedizione.

Alle coppie di giovani sposi

Una parola e un augurio ai novelli sposi. Carissimi, difendete con ogni premura il vostro amore e ricordatevi che Cristo è vicino a voi per rendere indissolubile il vincolo che vi unisce e per aiutarvi a dare testimonianza nel mondo di oggi della concezione cristiana della famiglia. Mentre di cuore vi benedico, prego il Signore di accompagnarvi con la sua assistenza e con la sua grazia lungo la strada della vita che avete scelto di percorrere insieme.






Catechesi 79-2005 28279