Catechesi 79-2005 31883

Mercoledì, 31 agosto 1983

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1. “Rivestitevi del Signore Gesù Cristo” (
Rm 13,14): queste parole, carissimi fratelli e sorelle, ci danno la completa definizione dell’ethos della Redenzione. L’uomo, rinato dall’acqua e dallo Spirito, rinnovato e ri-creato, ha ricevuto la vocazione e il compito di “rivestirsi del Signore Gesù Cristo”, cioè di conformarsi sempre più al Cristo: nei suoi pensieri, nelle sue decisioni, nella sua prassi quotidiana.

La ragione profonda di questo dover-essere dell’uomo redento è che l’atto redentivo ha realmente cambiato l’essere della persona umana, e l’agire è la realizzazione dell’essere. L’atto redentivo ha inserito nel Cristo la persona umana, rendendola partecipe della stessa filiazione divina del Verbo: siamo figli nel Figlio Unigenito del Padre. “Poiché - scrive san Tommaso, ripetendo un insegnamento costante della Chiesa - Cristo ricevette nella sua umanità la pienezza somma della grazia, dal momento che è Unigenito del Padre, da lui la grazia rifluisce sugli altri, cosicché il Figlio di Dio fatto uomo rende gli uomini figli di Dio” (S. Tommaso, Compendium theologiae, c. 214). Questa unità profonda fra Cristo e il giustificato pone in lui l’esigenza di “rivestirsi del Signore Gesù”, e di “avere gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (cfr Ph 2,5). La prassi del cristiano non può contraddire il suo essere.

2. In questo modo la nostra umanità raggiunge la pienezza della sua verità. Infatti, siamo stati creati per divenire figli nel Figlio (cfr Ep 1,5), predestinati ad essere conformati all’immagine del Figlio (cfr Rm 8,29). È Cristo la verità intera dell’uomo (cfr Gaudium et Spes GS 22) e, di conseguenza, è Cristo la legge della vita dell’uomo (cfr 1Co 9,21).

Questo rapporto fra l’uomo redento e Cristo non deve essere pensato come se Cristo fosse solo un “modello”, posto di fronte e al di fuori di noi, da ricopiare. Ci è stato donato lo Spirito Santo, affinché ci muova dall’interno ad agire in Cristo e come Cristo. La legge di Cristo è scritta nei nostri cuori mediante lo Spirito.

I segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio”, ci avverte san Paolo (1Co 2,11). Lo Spirito Santo, terza Persona della Santissima Trinità, è interiore a Dio, conosce dal di dentro, per così dire, i disegni del Padre, i suoi segreti e perciò ce li può svelare. “Ora noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che ci ha donato”, ci assicura ancora l’apostolo (1Co 2,12). Interiore a Dio e dimorante nel cuore del redento, lo Spirito opera perché possiamo conoscere “tutto ciò che ci ha donato” il Padre e possiamo consentire a questo dono.

Qual è il dono del Padre? Oh, tutto è dono nella vita del cristiano. Dono è il Figlio Unigenito del Padre (cfr Jn 3,16), in cui siamo stati creati. Dono è lo Spirito Santo: “Donum Dei altissimi” (cfr Lc 11,13). Lo Spirito ci sospinge a realizzare il nostro essere nella sua verità più intima, trasformandoci a immagine di Cristo. Prima di essere concepito sotto il cuore della propria madre, ciascuno di noi è stato concepito, pensato cioè e voluto, nel cuore di Dio. Lo Spirito conosce il progetto di Dio sulla nostra vita, egli guida la nostra esistenza perché essa realizzi nel tempo il nostro essere ideale, quale è stato pensato nell’eternità.

3. “La notte è avanzata, il giorno è vicino” (Rm 13,12): questo è il tempo durante il quale siamo chiamati a rivestirci del Signore Gesù Cristo. È il tempo che sta fra il finire di una notte e l’inizio di un giorno. Infatti, se è vero che ciascuno di noi è già stato redento, è ugualmente vero che la Redenzione non è ancora completata in noi: ciò accadrà solo quando entreremo nel giorno pieno della vita eterna.


La conseguenza necessaria e immediata di questa situazione esistenziale del credente è che questi deve rivestirsi di Cristo, combattendo contro il male, nella mortificazione e nel rinnegamento di se stesso. “Se qualcuno vuol venire dietro di me”, ci dice il Signore, “rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16,24).

L’ethos della Redenzione è anche un ethos caratterizzato da una forte tensione ascetica: è ethos di lotta e di combattimento contro tutto ciò che impedisce al cristiano di “rivestirsi del Signore Gesù Cristo”. “Non sapete”, dice l’apostolo, “che nelle corse, allo stadio, tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però ogni atleta è temperante in tutto: essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile” (1Co 9,24-25).

Solo mediante questo combattimento spirituale, la “forma di Cristo” può penetrare tutti gli strati della persona umana redenta e salvaguardarne la libertà di adesione al bene. La libertà del credente infatti è sempre in pericolo di autodistruggersi, distaccandosi dalla verità piena di Cristo per orientarsi verso una realizzazione di sé non conforme al suo trascendente destino. Mediante l’ascesi, il vincolo della libertà con la verità viene confermato e ristabilito con una fermezza sempre maggiore.

Ai pellegrini di lingua francese

Ai gruppi di espressione inglese


Ai gruppi di lingua tedesca

Ai pellegrini di lingua spagnola

Ai pellegrini di espressione portoghese


Ai polacchi


Ai fedeli di lingua italiana

Fra i pellegrini di lingua italiana sono lieto di salutare vari gruppi.

Innanzitutto, mi rivolgo ai Membri del Capitolo Generale dei Chierici regolari (o Teatini), ai sacerdoti di Vicenza venuti a Roma per celebrare il 38° anniversario della loro Ordinazione, ai sacerdoti dell’Ispettoria Salesiana di Roma che concludono un corso di aggiornamento pastorale, e al gruppo di Teologi di vari Seminari, riuniti dalla conferenza Episcopale per un incontro di studio.

Carissimi, voi sapete quanto vi sono vicino, vicino alla vostra persona, alla vostra attività apostolica, ai vostri desideri, alle vostre preoccupazioni. Mi basta dirvi: amate il vostro sacerdozio, difendetelo da ogni insidia, rendetelo ogni giorno più luminoso con una profonda vita interiore, al seguito volenteroso di Cristo, che è il Sommo ed eterno Sacerdote. A tal fine vi benedico, tutti e ciascuno personalmente.
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In secondo luogo, saluto di cuore i pellegrini di alcune diocesi, quasi tutti accompagnati dai rispettivi Vescovi: quelli piemontesi delle diocesi di Alba, di Fossano, e di Ivrea; e poi quelli della diocesi toscana di Pontremoli, della diocesi pugliese di Lecce, e della diocesi di Cefalù.
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Saluto altresì la rappresentanza di autorità e cittadini del Comune di Aiello Calabroi, con il Sindaco e la Giunta, di cui volentieri benedico il nuovo Gonfalone comunale.


Divisi geograficamente, eccovi qui riuniti in questo comune incontro, che parla di fratellanza, di intesa, di aiuto vicendevole. A tutti voi un grazie per la vostra presenza e l’auspicio che qui, presso la tomba di San Pietro possiate rinnovare e irrobustire la vostra fede, in quest’anno Giubilare della Redenzione.
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Mi voglio ora rivolgere a voi giovani, inviandovi un caloroso saluto, e l’esortazione a vivere con gioia e spirito apostolico questo importante periodo della vostra vita. Vivete pienamente il presente, ma con la consapevole responsabilità del futuro che sarà tanto più carico di frutti, quanto più avrete seminato e seminato bene oggi, radicati e fondati, come dice san Paolo, in Cristo e nel suo Vangelo.
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Anche a voi, ammalati, il mio saluto particolarmente affettuoso. Voi siete e potete essere apostoli, cioè annunciatori del messaggio di Cristo, rendendolo credibile mediante l’esercizio della pazienza cristiana, che è frutto della virtù della fortezza cristiana. Gesù; se lo invocate, ve ne darà la forza. A voi il mio augurio e la mia Benedizione.
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Un saluto infine a voi, sposi novelli. Col mio compiacimento per il traguardo da voi raggiunto, vi do l’esortazione ad animare cristianamente la realtà odierna del mondo, spesso smarrito nell’errore. Cominciate dal vostro piccolo nucleo familiare, sostenendovi vicendevolmente con amore sincero, durevole e fecondo. Per parte mia avete preghiera e particolare Benedizione.
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Richiamo la comune attenzione sul fatto che, a Venezia, questa settimana si riunisce per la prima volta la nuova Commissione Mista Internazionale tra la Chiesa Cattolica e la Comunione Anglicana, come era stabilito nella Dichiarazione Comune da me firmata con l’Arcivescovo Runcie a Canterbury lo scorso anno. Invito tutti ad elevare fervide preghiere allo Spirito Santo per chiedere le sue ricche benedizioni su questa “prossima fase del nostro pellegrinaggio comune nella fede e nella speranza verso l’unità che tanto auspichiamo”.

Al termine dell’udienza generale il Santo Padre invita nuovamente i fedeli a pregare per il Libano e per il suo popolo martoriato. Queste le parole del Papa

Vi invito a ricordare nuovamente nella vostra preghiera il Libano, che in questi giorni è in preda a lotte fratricide. Sono particolarmente vicino a tutte le famiglie che piangono i loro cari, vittime della violenza, nonché a quanti guardano con accresciuta ansietà al futuro della Nazione. Per tutti i libanesi è tempo di riconciliazione attraverso il negoziato e l’intesa, come hanno ribadito ancora recentemente le autorità governative e religiose del Paese.

Rinnovo la mia viva esortazione a pregare perché, in questi momenti drammatici, Iddio illumini e aiuti tutti quelli che, in un modo o nell’altro, possono influire sulla sorte di quel Popolo martoriato, a far fronte alle loro responsabilità per la ricerca della pace nella salvaguardia dei diritti di tutti.



Mercoledì, 7 settembre 1983

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1. “Nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti . . .” (
Ac 4,10). Queste parole dell’apostolo Pietro ci mettono innanzi in maniera forte e globale la realtà del mistero della Redenzione. Esse ci richiamano a ciò che avvenne 1950 anni fa sul Calvario. Si tratta di un evento misterioso, la cui piena comprensione supera le capacità dell’intelligenza umana, che non riuscirà mai a penetrare fino in fondo nel cuore del disegno di Dio, realizzato in maniera imperscrutabile sulla croce.

I tratti essenziali di tale evento ci sono stati conservati nelle pagine del Nuovo Testamento e sono a noi ben noti. Dopo l’avvenimento doloroso e incomprensibile della morte del Maestro - ricordiamo l’amarezza dei due discepoli di Emmaus: “Lo hanno condannato a morte e crocifisso, mentre noi speravamo che egli avrebbe dato la redenzione ad Israele” (cfr Lc 24,20-21) - i discepoli poterono godere dell’esperienza del Cristo vivente e risorto. Dirà ancora Pietro, a nome anche degli altri Apostoli, davanti al Sinedrio di Gerusalemme: “Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù, che voi avete ucciso appendendolo alla croce” (Ac 5,30).

Quella che sembrava la sconfitta di Gesù si rivelò invece come la sua definitiva vittoria, grazie alla potenza di Dio che, in lui, vinse la morte. Nella Croce di Cristo la morte e la vita vennero a confronto (“mors et vita duello / conflixere mirando”) e la vita ebbe ragione della morte: il Dio della vita trionfò di quelli che volevano la morte. Tale grido gioioso della fede, all’annuncio della risurrezione di Cristo, fu la prima e fondamentale comprensione che la comunità primitiva raggiunse dell’evento “assurdo” della morte del Maestro.

2. Ma in quella comprensione se ne innestava un’altra. Se Dio aveva risuscitato Gesù da morte, ciò stava a dimostrare che quella morte rientrava nei disegni misteriosi di Dio, faceva parte del disegno divino della salvezza. Per questo si cominciò a proclamare che la morte di Gesù era avvenuta “secondo le Scritture”, che essa “doveva” avvenire e si collocava in un disegno più grande riguardante tutta l’umanità.

Gesù stesso aveva avviato i discepoli a questa comprensione, quando, ad esempio, rivolgendosi ai due discepoli che andavano a Emmaus, aveva detto loro: “O stolti e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava forse che il Cristo sopportasse questa sofferenza per entrare nella sua gloria?” (Lc 24,25-26). E lo stesso san Luca, poco oltre, narrando il congedo di Gesù dai suoi, scriveva: “E disse loro: “Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi”. Allora aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture, e disse: “Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati” (Lc 24,44-47). Così, a poco a poco, si svelava il mistero.

Se la morte di Gesù era avvenuta secondo il disegno di Dio, contenuto nelle Scritture, essa era “per noi”, “per in nostri peccati”, “per la nostra giustificazione” giacché “in nessun altro c’è salvezza” (Ac 4,12). La professione di fede che san Paolo ricorda ai Corinzi dice: “Cristo è morto per i nostri peccati, secondo le Scritture” (1Co 15,3). Questo si trova affermato con forza nell’annuncio apostolico della morte di Gesù. “Cristo è morto per noi, mentre noi eravamo ancora peccatori” attesta vigorosamente san Paolo (Rm 5,8). E nella lettera ai Galati: “Ha dato se stesso per i nostri peccati” (Ga 1,4).

E ancora: “Mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Ga 2,20). E san Pietro ricorda: “Cristo patì per voi . . . Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della Croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia” (1P 2,21 1P 2,24).

3. Nelle formule ricordate non si fa distinzione fra l’espressione “per noi” e quella “per i nostri peccati”, perché noi tutti siamo peccatori, e la morte di Cristo doveva cancellare il peccato di tutti e renderci possibile la vittoria sopra il peccato.


Ecco dunque il “lieto annuncio”, che dal mattino di Pasqua non ha cessato di risonare nel mondo: la morte di Gesù Cristo sulla Croce non fu la fine, ma il principio; essa fu soltanto un trionfo apparente della morte. In realtà si realizzò in quel momento la vittoria di Dio sulla morte e sul male. La sua morte sta al centro di un grande disegno di salvezza, delineato nelle Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento. Un disegno che riguarda tutta l’umanità, ciascun uomo e ciascuna donna in particolare. Cristo “fu dato” per noi, egli “fu consegnato” alla morte in nostro favore, perché fossimo liberati dalla forza distruttrice del peccato e dalla disperazione della morte. Per questo la Croce rappresenta per il cristiano il segno della liberazione e della speranza, dopo essere stata lo strumento della vittoria del Signore. Giustamente, quindi, la Chiesa canta proprio nel giorno del Venerdì Santo: “Vexilla regis prodeunt, / fulget crucis misterium”: “Avanzano le insegne del re, splende il mistero della Croce”.

La Croce ci rammenta la donazione e l’amore personale di Cristo per ciascuno di noi. Vengono alla mente le parole che Pascal pone sulle labbra di Cristo: “Pensavo a te nella mia agonia, ho versato per te alcune gocce di sangue” (B. Pascal, Pensées, n. 533). Gesù ha fatto interamente la sua parte: in lui Dio si è dato a noi e si è fatto a noi vicino. Ora tocca a noi rispondere con la vita e con il nostro impegno a Colui che “ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’immortalità per mezzo del Vangelo” (2Tm 1,10).

Ai fedeli di espressione francese

Ai gruppi di lingua inglese

Ai pellegrini di espressione tedesca


Ai fedeli di lingua spagnola


Ai fedeli di lingua portoghese

Ai fedeli polacchi

Ai gruppi italiani

Desidero rivolgere un cordiale saluto a tutti i gruppi di lingua italiana, presenti a questa Udienza Generale, che sono venuti a Roma per il Giubileo dell’Anno della Redenzione.

In particolare intendo ricordare il pellegrinaggio della diocesi di Lodi; della diocesi di Forlì e Bertinoro; della diocesi di Anagni; della diocesi di Penne e Pescara; delle diocesi di Melfi, Rapolla e Venosa; della diocesi di rito greco di Lungro; della eparchia di Piana degli Albanesi, guidati dai loro rispettivi Vescovi.

Un affettuoso pensiero va anche ai vari Sacerdoti, che accompagnano i numerosi gruppi parrocchiali, e specialmente a quelli presenti al XVI Convegno Nazionale dei consiglieri Ecclesiastici della “Confederazione Nazionale Coltivatori Diretti”, che stanno approfondendo il tema: “Comunità rurale e partecipazione”; al Cappellano, ai Responsabili del Compartimento ed ai Ferrovieri di bari, con le loro Famiglie; ai partecipanti al Convegno organizzato dal Segretario Nazionale Enti Assistenza Carcerati sul tema: “Il volontariato in Italia e all’Estero”.

A tutti voi, provenienti dalle diocesi d’Italia, il mio sincero compiacimento e il fervido auspicio che questo vostro pellegrinaggio nella Città dei Santi Pietro e Paolo, dei Martiri e dei Papi, sia stimolo e sprone per vivere in maniera sempre più intensa e coerente con la fede cristiana.

A voi tutti, come pure ai vostri cari, la mia Benedizione Apostolica.
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Rivolgo ora un affettuoso saluto ai ragazzi e ai giovani presenti a questa Udienza. Tra di essi ricordo i giovani venuti a piedi, recando la “fiaccola dell’amicizia”, da Rogoredo di Casatenovo ed, in particolare, i più numerosi ragazzi della Federazione Oratori Milanesi i quali, con la loro partecipazione a questa Udienza, intendono ricambiare la mia visita alla loro metropoli in occasione del Congresso Eucaristico Nazionale.


Carissimi, siete venuti con fede ed entusiasmo in questa Città, nella quale potete ammirare la ricchezza di un incomparabile patrimonio artistico, frutto di un lavoro paziente e secolare. Sappiate scoprire, fra tanti monumenti del genio umano, anche i segni evidenti della fede cristiana che, cominciando dall’eroica testimonianza dei martiri romani, è stata qui professata lungo il corso dei secoli da persone di ogni età e di ogni ceto sociale. Essa affida oggi all’impegno generoso di voi giovani il suo futuro. Sappiate essere degni di così nobile consegna! Per questo ogni giorno prego, per questo di gran cuore oggi vi benedico.
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Desidero ora salutare tutti gli ammalati presenti in questa piazza.

Carissimi, accanto alla croce di Cristo, il vostro patire diventa tesoro prezioso di redenzione, e quindi seme di speranza per un mondo così carico di tensioni fratricide.

Con voi e per voi io prego come il Profeta: “Guariscimi, Signore, e sarò guarito, salvami, e sarò salvo”.

San Bernardo Abate, nella liturgia delle ore di oggi, alla luce di questa preghiera ci invita a rigettare l’amarezza che minaccia di entrare talvolta nel nostro spirito, e ci incoraggia ad aprirci alla grande gioia che sta nel riposare nello Spirito di Dio.

Faccio mio questo augurio per voi, e lo accompagno con la mia Benedizione.
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Sono pure presenti a questa Udienza numerose coppie di sposi novelli, ai quali rivolgo il mio più cordiale saluto.

Carissimi, nel giorno in cui avete consacrato col Sacramento del matrimonio il vostro patto d’amore, siete stati festeggiati da parenti ed amici.

Anch’io mi unisco alla vostra gioia, pregando il Signore di aiutarvi a vivere giorno per giorno i propositi di fedeltà, di reciproca accettazione, di totale vicendevole donazione che vi siete scambiati davanti all’altare.

Cristo sia sempre presente nella vostra nuova famiglia. Invocatelo ogni giorno, nella gioia e nel dolore e sappiatene trasmettere il messaggio ai figlio che Dio vorrà donarvi.

Vi accompagni la mia Benedizione.



Mercoledì, 14 settembre 1983

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1. “Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (
Mc 10,45).

Carissimi fratelli e sorelle, con queste parole, pronunciate nel corso della sua vita terrena, Gesù ha confidato ai discepoli il vero significato della sua esistenza e della sua morte. Oggi, 14 settembre, giorno nel quale la Chiesa celebra la festa dell’Esaltazione della Santa Croce, noi vogliamo soffermarci a meditare sul significato della morte redentrice di Cristo. Una domanda sorge spontaneamente nel nostro animo: Gesù ha previsto la sua morte e l’ha compresa come una morte per gli uomini? L’ha accettata e voluta come tale?

Risulta chiaro dai Vangeli che Gesù andò incontro alla morte volontariamente. “C’è un battesimo che devo ricevere e come sono angosciato fino a che non sia compiuto!” (Lc 12,50 cf. Mc 10,39 Mt 20,23). Avrebbe potuto sottrarsi fuggendo come già alcuni profeti perseguitati, come Elia e altri. Ma Gesù volle “salire a Gerusalemme”, “entrare a Gerusalemme”, purificare il tempio, celebrare l’ultima cena pasquale con i suoi, recarsi nel giardino degli ulivi “affinché il mondo sapesse che amava il Padre e faceva quello che il Padre gli aveva comandato” (cfr Jn 14,31).

È anche certo e innegabile che della sua morte furono responsabili gli uomini. “Voi l’avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato - dichiara Pietro davanti al Popolo di Gerusalemme -, mentre egli aveva deciso di liberarlo. Avete rinnegato il Santo e il Giusto, avete chiesto che vi fosse graziato un assassino e avete ucciso l’autore della vita” (Ac 3,13-14). Ci fu la responsabilità dei Romani e quella dei capi degli Ebrei, e ci fu la richiesta di una folla astutamente manipolata.

2. Quasi tutte le manifestazioni del male, del peccato e della sofferenza si sono rese presenti nella passione e nella morte di Gesù: il calcolo, la gelosia, la viltà, il tradimento, l’avarizia, la sete di potere, la violenza, l’ingratitudine da una parte, e dall’altra l’abbandono, il dolore fisico e morale, la solitudine, la mestizia e lo sconforto, la paura e l’angoscia. Ricordiamo le parole laceranti del Getsemani: “La mia anima è triste fino alla morte” (Mc 14,34); “e in preda all’angoscia, riferisce san Luca, pregava più intensamente, e il suo sudore divenne come gocce di sangue che cadevano a terra” (Lc 22,24).

La morte di Gesù è stata un esempio altissimo di onestà, di coerenza, di adesione alla verità fino al sacrificio supremo di sé. Per questo la Passione e morte di Gesù sono da sempre l’emblema stesso della morte del giusto che subisce eroicamente il martirio per non venir meno alla sua coscienza e alle esigenze della verità e della legge morale. È vero: la Passione di Cristo non cessa di stupire per gli esempi che ci ha lasciato. Lo rilevava già la lettera di san Pietro (cfr 1P 2,20-23).

3. Gesù ha accettato volontariamente la sua morte. Di fatto sappiamo che egli la predisse ripetutamente: l’annunciò tre volte durante l’ascesa verso Gerusalemme: avrebbe dovuto “soffrire molto . . . essere ucciso e risuscitare il terzo giorno” (Mt 16,21 Mt 17,22 Mt 20,18); e poi, a Gerusalemme stessa, pronunciò con chiaro riferimento a sé la parabola del padre di famiglia, al quale gli agricoltori ingrati uccisero il figlio (cfr Mt 21,33-34).

Infine, nel momento supremo e solenne dell’ultima Cena Gesù, riassumendo il senso della sua vita e della sua morte in quello di un’offerta fatta per gli altri, per la moltitudine degli uomini, parla del suo “corpo che è dato per voi”, del suo “sangue che viene versato per voi” (Lc 22,19-20 par.).


La vita di Gesù è dunque una esistenza per gli altri, una esistenza che culmina in una morte-per-gli-altri, comprendendo negli “altri” l’intera famiglia umana con tutto il peso delle colpe che porta con sé fin dalle origini.

4. Se guardiamo poi il racconto della sua morte, le ultime parole di Gesù gettano ulteriore luce sul significato che egli ha dato alla sua vita terrena. Gli evangelisti ci riferiscono alcune di queste parole. Luca registra il grido: “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito” (Lc 23,46); è l’atto supremo e definitivo della donazione umana di Gesù al Padre. Giovanni annota il reclinamento del capo e le parole: “Tutto è compiuto” (Jn 19,30); è il culmine dell’obbedienza al disegno di “Dio che ha mandato il suo Figlio nel mondo non per giudicarlo, ma perché il mondo fosse salvato per mezzo di lui” (Jn 3,17). Gli evangelisti Matteo e Marco danno invece rilievo all’invocazione: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,26 Mc 15,35), mettendoci di fronte al grande dolore di Cristo che affronta il passaggio con un grido umanissimo e paradossale, nel quale è racchiusa in modo drammatico la consapevolezza della presenza di Colui che in quel momento sembrava assente: “Dio mio, Dio mio”.

Non c’è dubbio che Gesù ha pensato la sua vita e la sua morte come mezzo di riscatto (lytron) per gli uomini. Siamo qui nel cuore del mistero della vita di Cristo. Gesù ha voluto darsi per noi. Come scrisse san Paolo: “Mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Ga 2,20).

Ai fedeli italiani

Il mio pensiero si volge ora ai giovani qui convenuti da ogni parte. A voi, carissimi giovani, che con la gioia e la speranza nel cuore intraprendete il cammino della vita, rivolgo l’invito di guardare con fiducia a Cristo, di seguirlo con slancio e donazione piena.

Cristo, il Crocifisso, che con il sacrificio della sua Croce ha redento e rinnovato il mondo, vi aiuterà ad impostare la vostra vita nella giustizia e nell’amore, nel servizio di coloro che, intorno a voi, ogni giorno, condividono le Sue sofferenze: i poveri, gli ammalati, gli anziani, nei quali Egli è presente e vuole essere servito. Vi accompagni la mia Apostolica Benedizione.
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A voi, cari malati, che come Cristo portate nel corpo e nello spirito i segni della sofferenza, dico: il Cristo Redentore vi associa al mistero della Sua morte e risurrezione, che noi oggi celebriamo nella liturgia dell’Esaltazione della Santa Croce.

Vi esorto quindi ad offrire, in questo Anno Santo Giubilare, i vostri dolori e le vostre pene per la conversione di tanti fratelli nel mondo, mentre di cuore imparto a ciascuno di voi la mia Benedizione.
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Saluto ora voi, sposi novelli, che rafforzati dal Sacramento del matrimonio, siete venuti a Roma per venerare la memoria dell’Apostolo Pietro, campione della fede.


Sia Cristo, in ogni giorno della vostra vita, l’ideale dei vostri pensieri e delle vostre aspirazioni. Da lui attingete la vostra forza, a lui rendete la preziosa testimonianza della vostra fede.

Per questo sia con voi, propiziatrice di una vita serena e santa, la mia Apostolica Benedizione.
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Saluto ora i vari gruppi di lingua italiana, tra i quali sono lieto di menzionare i partecipanti al XV Congresso Canonistico, che in questi giorni studiano il tema: “Lo statuto giuridico dei ministri sacri nel Codex Iuris Canonici rinnovato”, e mi compiaccio dei loro lavori, a cui auguro fecondi risultati.
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Parimenti saluto con affetto il pellegrinaggio diocesano di Padova, particolarmente numeroso, che richiama alla mia mente la visita alla loro città nello scorso anno, della quale conservo un gratissimo ricordo. Saluto anche i pellegrinaggi delle diocesi di Aosta, di Asti, di Cava dei Tirreni, di Ariano Irpino e Lacedonia, accompagnati dai rispettivi Vescovi, con l’auspicio che questa visita a Roma sulla tomba degli Apostoli rafforzi sempre più la loro fede in Cristo.
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Un particolare saluto va al gruppo del “Corso di Aggiornamento per Missionari reduci”, con l’augurio nel Signore che la loro generosa e intelligente dedizione al Vangelo porti abbondanti frutti per il bene della Chiesa.
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Saluto anche i militari della brigata “Granatieri di Sardegna” di Roma e delle Scuole Aeronautiche di Borgo Piave e di Latina, accompagnati dai loro Comandanti e dall’Ordinario Militare, mentre formulo auguri di pace per loro e per l’intera società.
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Infine, saluto gli operatori della Società “Tupperware” con sede a Milano, convenuti per l’annuale riunione nazionale, e ringrazio vivamente il loro Direttore Generale per il dono di mille giocattoli destinati in beneficenza ad un Istituto per l’Infanzia.

A tutti assicuro la mia benevolenza, il mio ricordo nella preghiera, e tutti benedico di cuore, invocando l’abbondanza delle grazie celesti.

Nel corso del settimanale incontro giubilare con i fedeli, il Santo Padre parla dell’appena concluso pellegrinaggio in Austria. Queste le parole del Papa.

L’intensità dei sentimenti suscitati in me dal pellegrinaggio in Austria, conclusosi ieri sera, mi spinge a dire una breve parola su questo avvenimento ecclesiale che resterà per sempre nel mio cuore.

Desidero innanzitutto esprimere il mio sincero ringraziamento al Presidente di quella Nazione per l’amabile accoglienza e per le grandi attenzioni avute nei miei riguardi. Ringrazio i miei fratelli nell’Episcopato - e in special modo il Cardinale König - per la loro ospitalità e cordialità. Li ringrazio anche, insieme con i loro collaboratori, per la diligente preparazione e l’accurata organizzazione dei vari momenti della visita nel quadro del “Katholikentag”. Un grazie altresì a tutti i sacerdoti, religiosi e religiose: li affido alla materna protezione della Madonna di Mariazell, nel cui Santuario ho avuto la gioia di incontrarli. Ringrazio gli uomini della cultura, della scienza e dell’arte; ringrazio i lavoratori; ringrazio gli ammalati e gli anziani. Un particolare ringraziamento vorrei esprimere ai giovani, il cui entusiasmo e la cui numerosa partecipazione hanno recato una nota di freschezza all’intero pellegrinaggio.

Il mio pensiero va, infine, a tutti gli austriaci, che ringrazio per la loro testimonianza di fede e di affetto, auspicando che la meditazione fatta in questi giorni sulla missione e sul ruolo della loro Nazione nel contesto dell’Europa, sia motivo di rinnovato impegno a vivere in fedele adesione alle esigenze che scaturiscono dalle comuni radici cristiane.

Un nuovo appello affinché cessino in Libano gli scontri e gli eccidi tra le opposte fazioni viene elevato dal Papa al termine della settimanale celebrazione della Parola che si tiene in Piazza San Pietro Queste le parole del Santo Padre.

Fratelli e sorelle,

rinnovo un invito a pregare per il popolo libanese, che vive giorni drammatici. Le notizie degli aspri scontri, delle vittime numerosissime, degli eccidi provocati dalle parti che si combattono, della popolazione inerme e senza soccorsi destano grande pena e preoccupazione. Questo crescente scoppio di violenza è tanto più doloroso in quanto vede opposti tra loro i figli stessi del Libano, membri di due comunità, la drusa e la maronita, che tanta parte hanno avuto nella storia del Paese.

Preghiamo perché il Signore conceda conforto alle persone e alle famiglie che piangono la perdita dei loro cari.

Preghiamo perché il Signore illumini i responsabili delle due parti, così che rinunzino ad affrontarsi con le armi. La continuazione di questa irragionevole lotta compromette l’esistenza della Nazione e distrugge i valori propri di ciascuna comunità, i quali debbono essere salvati nella convivenza e nella collaborazione tra tutte le componenti storiche del Paese.

Il mio appello alla tregua e alla trattativa si accompagna con l’augurio che le forze straniere presenti nel Libano, astenendosi dal fomentare la lotta interna, favoriscano la riconciliazione e l’intesa nazionale. Affido questi voti all’intercessione della Vergine Santissima, Signora e Patrona del Libano.



Mercoledì, 21 settembre 1983

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1. “Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore” (
Ep 5,2). Con queste parole l’apostolo Paolo ci mette davanti agli occhi la passione e la morte di Cristo servendosi dell’immagine classica, ben nota ai suoi contemporanei, del sacrificio. Fu un sacrificio gradito e accetto a Dio.

Cerchiamo di approfondire il significato di questo termine che era più familiare agli antichi che non a noi. Gli Ebrei infatti avevano l’esperienza dei molti sacrifici offerti nel Tempio; anche i Greci e i Romani, per non dire degli altri popoli dell’antichità, offrivano e immolavano frequentemente sacrifici di ringraziamento o di propiziazione alle loro divinità. Non fa meraviglia quindi che gli Apostoli e i primi discepoli di Gesù abbiano compreso la morte di Cristo come il vero, il grande sacrificio offerto una volta per sempre, per la salvezza di tutti gli uomini.

A dire il vero, Gesù stesso nell’ultimo incontro effettuato nell’intimità con i Dodici, durante l’ultima Cena pasquale, li aveva avviati a comprendere il significato della sua morte preannunciandola come il sacrificio della nuova alleanza, la quale sarebbe stata suggellata con il sangue. Conosciamo con sicurezza le sue parole riferite dagli evangelisti e da san Paolo: “Questo è il mio corpo . . . Questo è il mio sangue, dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati” (Mt 26,26-28).

Certo è che l’interpretazione della morte di Cristo come sacrificio campeggia in tutto il Nuovo Testamento. Nel passo citato dell’ultima Cena è chiara l’allusione al rituale compiuto da Mosè nell’atto di celebrare l’alleanza tra Dio e il popolo ebraico al monte Sinai. In tale circostanza Mosè prese la metà del sangue delle vittime sacrificate e la versò sull’altare che rappresentava Dio e, dopo aver letto ai presenti il libro della Legge, prese l’altra metà del sangue “e ne asperse il popolo dicendo: Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole” (cfr Ex 24,4-8). Con tale rito il medesimo sangue veniva a unire Dio e il popolo in un vincolo sacro inscindibile di reciproca fedeltà: l’antica alleanza.

2. Ma anche ad altri sacrifici poterono far riferimento i discepoli di Gesù per comprendere la sua morte in favore degli uomini. Tra essi vi era il sacrificio dell’agnello pasquale. L’evangelista Giovanni vide adempiersi chiaramente nella morte di Gesù la figura dell’agnello pasquale (cfr Jn 19,36). Nella stessa linea interpretativa, l’apostolo Paolo scriveva ai Corinzi: “Cristo nostra pasqua è stato immolato” (1Co 5,7).

Siamo così rimandati nuovamente al libro dell’Esodo dove fu fissato da Mosè il rituale dell’immolazione dell’agnello, segno della partenza del popolo dalla schiavitù dell’Egitto e del passaggio allo stato di libertà. Il sangue dell’agnello, segnato sugli stipiti delle porte, era garanzia di liberazione dalla distruzione e dalla morte (cfr Ex 12,1-14) e segno di chiamata alla libertà. Il collegamento fra questo rito e la morte di Cristo fu suggerito dal fatto che essa avvenne nel momento in cui si immolavano nel tempio gli agnelli per la cena pasquale.

Vi è, infine, un terzo genere di sacrificio a cui viene riferita la morte di Gesù nel Nuovo Testamento. È il sacrificio del grande Giorno dell’espiazione, destinato, secondo quanto è scritto nel libro del Levitico, ad espiare e cancellare tutte le colpe e le impurità contratte dal popolo nel corso dell’anno. Secondo precise indicazioni rituali (cfr Lv 16,1-16), il Sommo Sacerdote entrava nella parte più sacra del santuario, nel Santo dei santi, si avvicinava all’arca dell’alleanza, e col sangue delle vittime immolate aspergeva il propiziatorio (il “Kapporet”), collocato sull’arca tra le immagini dei cherubini e considerato il luogo della presenza di Dio. Quel sangue rappresentava la vita del popolo e con l’aspersione di esso nel luogo santissimo della sua Presenza si esprimeva la volontà irrevocabile di aderire a lui e di entrare in comunione con lui, eliminando la separazione e la distanza provocata dal peccato.

Soprattutto l’autore della Lettera agli Ebrei ha interpretato, con l’aiuto di questo rituale, la morte di Gesù in Croce notando l’efficacia sovreminente del sacrificio di Cristo, il quale “entrò una volta per sempre nel santuario non con sangue di capri e vitelli, ma col proprio sangue, dopo averci ottenuto una redenzione eterna” (He 9,12).

3. Gesù compì questo sacrificio come nostro rappresentante, a nome nostro e per noi, in virtù di quella solidarietà che egli acquistò con la nostra natura umana grazie all’incarnazione. E lo effettuò come un atto di amore e di spontanea obbedienza, realizzando così il disegno di Dio che lo aveva costituito “Nuovo Adamo” e mediatore, per tutti gli uomini, della sua giustizia salvifica e della sua misericordia.


Per questo san Paolo non esita a indicare nella Croce il nuovo “Kapporet”, il nuovo propiziatorio, sul quale Cristo ha versato per noi il sangue della riconciliazione e della ritrovata comunione dell’umanità con Dio: “Tutti hanno peccato - egli scrive - e sono privi della gloria di Dio; ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione, per mezzo della fede nel suo sangue” (Rm 3,23-25).

“Per mezzo della fede”: ecco la grande parola, il grande mezzo personale per attingere pienamente i frutti dell’azione salvatrice di Cristo. I tre aspetti complementari dell’alleanza santificatrice della redenzione liberatrice e dell’espiazione purificatrice si integrano a vicenda per darci una qualche intelligenza dell’atto globale di amore, col quale Cristo ci ha salvati, ottemperando al disegno misericordioso del Padre. Possiamo quindi dire che il sacrificio di Cristo ci ha aperto un passaggio dal peccato alla grazia, dalla servitù alla libertà, dalla morte alla comunione e alla vita.

Ad alcuni gruppi di lingua francese

Ai fedeli di espressione inglese

A gruppi di lingua tedesca


A fedeli di lingua spagnola

A oltre 500 pellegrini polacchi

Ai pellegrini italiani

Un cordiale saluto desidero indirizzare ai vari gruppi e ai singoli pellegrini di lingua italiana, che sono presenti a questa Udienza; in modo particolare porgo il mio benvenuto al pellegrinaggio della diocesi di Mantova, la quale, nello spirito di S. Pio X e di San Luigi Gonzaga, in quest’anno è impegnata a riflettere sul tema: “La dimensione morale nella società del benessere”; saluto il pellegrinaggio della diocesi di Bergamo, sempre ricordando la mia visita alla loro città e a Sotto il Monte; saluto i pellegrini della diocesi di Chioggia e quelli della diocesi di Grosseto; un saluto anche al “Gruppo Alpino della Valle Olona”.


A voi tutti, partecipanti a questo incontro, che si svolge nel corso dell’Anno Giubilare della Redenzione, rivolgo l’auspicio che questo evento ecclesiale sia sprone per una sincera conversione e per un profondo rinnovamento interiore, secondo le finalità che ho inteso dare alla celebrazione dell’Anno Santo Straordinario.

Che il Signore illumini le vostre menti e muova i vostri cuori, perché possiate dare una continua testimonianza di fede ardente e di operosa carità nell’ambiente delle vostre famiglie e del vostro posto di lavoro e di professione.

A voi, ai vostri familiari ed alle persone care la mia Apostolica Benedizione.
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Ed ora rivolgo il mio saluto a voi, cari giovai, mentre il mio pensiero va alla festività liturgica odierna, che ricorda S. Matteo Apostolo ed Evangelista. Cercate anche voi, con l’aiuto dello Spirito Santo, di avvertire la vostra responsabilità nella costruzione della comunità ecclesiale, di scoprire il vostro posto e la vostra missione in tale altissima ed esaltante prospettiva, la quale, se non vi risparmierà i sacrifici, non potrà deludervi nelle vostre speranze. La mia benedizione vi sostenga nel vostro impegno.
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Carissimi ammalati, mi rivolgo a voi, salutandovi con affetto: San Matteo è un esempio ed un intercessore anche per voi; egli, come Evangelista e Testimone di Cristo diffuse e diffonde nel mondo tanta luce. La vostra condizione umana, cari fratelli, benché spesso sia conosciuta solo da pochi intimi, se offerta in sacrificio al Signore, quanto è grande e preziosa! E’ una luce che si affida a Lui e con la quale Egli stesso, nei modi e nei tempi che Egli solo sa, illumina e salva il mondo.

Vi sostenga l’intercessione di San Matteo e vi accompagni la mia Benedizione.
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Carissimi sposi novelli, il mio saluto è adesso per voi. Il patto d’amore che vi siete da poco giurati ha in realtà qualcosa di grande, di santo, di eroico; è il vostro Vangelo, il Vangelo che dovete annunciare al mondo, perché, sì, il matrimonio cristiano è un vero mistero di salvezza che si tratta di annunziare, con l’aiuto della grazia, agli uomini innanzitutto mediante un esempio di fedeltà e di vero amore. Questa visuale vi assimila, in un certo senso, alla grande missione di S. Matteo, per quanto diversa dalla vostra sia stata la sua vocazione specifica. La sostanza è la medesima: annunziare il Vangelo di Cristo! Vi sono vicino con la mia Benedizione.




Catechesi 79-2005 31883