Catechesi 79-2005 41181

Mercoledì, 4 novembre 1981: Nel nome di San Carlo per una totale dedizione a Cristo e alla sua Chiesa

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1. Oggi, 4 novembre, la Chiesa ricorda, come ogni anno, la figura di san Carlo Borromeo, vescovo e confessore. Dato che ho ricevuto nel Battesimo proprio il nome di questo santo, desidero dedicargli la riflessione dell’odierna udienza generale, facendo riferimento a tutte le precedenti riflessioni del mese di ottobre. Ho cercato in esse – dopo alcuni mesi di intervallo, causato dalla degenza all’ospedale – di condividere con voi, cari fratelli e sorelle quei pensieri, che sono nati in me sotto l’influsso dell’evento del 13 maggio. La riflessione odierna si inserisce anche in questa trama principale. A tutti coloro, che nel giorno del mio santo patrono si uniscono a me nella preghiera, desidero ancora una volta ripetere le parole della lettera agli Efesini, che ho riportato mercoledì scorso: pregate "per tutti i santi, e anche per me, perché mi sia data una parola franca, per far conoscere il mistero del Vangelo, del quale sono ambasciatore..." (
Ep 6,18-20).

2. San Carlo è proprio uno di quei santi, a cui è stata data la parola "per far conoscere il Vangelo" del quale era "ambasciatore", avendone la missione ereditata dagli apostoli. Egli compì questa missione in modo eroico con la totale dedizione delle sue forze. La Chiesa guardava a lui e se ne edificava: in un primo tempo, nel periodo del Concilio Tridentino, ai cui lavori partecipò attivamente da Roma, sostenendo il peso di una corrispondenza serrata, collaborando a condurre ad un favorevole esito la fatica collegiale dei Padri Conciliari secondo i bisogni del Popolo di Dio di allora. Ed erano necessità pressanti. In seguito, lo stesso Cardinale come Arcivescovo di Milano, successore di san Ambrogio, diventa l’instancabile realizzatore delle risoluzioni del Concilio, traducendole in pratica mediante diversi Sinodi diocesani.

A lui la Chiesa – e non solo quella di Milano – deve un radicale rinnovamento del clero, al quale contribuì l’istituzione dei Seminari, il cui inizio risale proprio al Concilio di Trento. E molte altre opere, tra cui l’istituzione delle confraternite, dei pii sodalizi, degli oblati-laici, che già prefiguravano l’Azione Cattolica, i collegi, gli ospedali per i poveri, e infine la fondazione del 1572 dell’Università di Brera. I volumi degli "Acta Ecclesiae Mediolanensis" e i documenti riguardanti le visite pastorali attestano questa intensa e lungimirante attività di san Carlo, la cui vita si potrebbe sintetizzare in tre magnifiche espressioni: egli fu un Pastore santo, un Maestro illuminato, un accorto e sagace Legislatore.

Quando, alcune volte nella mia vita, ho avuto occasione di celebrare il Santissimo Sacrificio nella cripta del Duomo di Milano, nella quale riposa il corpo di san Carlo, mi si presentava davanti agli occhi tutta la sua attività pastorale dedicata sino alla fine al popolo, al quale era stato mandato. Egli chiuse questa vita nell’anno 1584, all’età di 46 anni, dopo aver reso un eroico servizio pastorale alle vittime della peste che aveva colpito Milano.

3. Ecco alcune parole pronunciate da san Carlo, indicative di quella totale dedizione a Cristo ed alla Chiesa, che infiammò il cuore e l’intera opera pastorale del santo. Rivolgendosi ai Vescovi della regione lombarda, durante il IV Concilio Provinciale del 1576, così li esortava: "Sono queste le anime, per la cui salvezza Dio mandò il suo Unico Figlio Gesù Cristo... Egli indicò anche a ciascuno di noi Vescovi, che siamo chiamati a partecipare all’opera di salvezza, il motivo più sublime del nostro ministero ed insegnò che soprattutto l’amore deve essere il maestro del nostro apostolato, l’amore che Lui (Gesù) vuole esprimere, per mezzo nostro ai fedeli a noi affidati, con la frequente predicazione, con la salutare amministrazione dei sacramenti, con gli esempi di una vita santa... con un zelo incessante" (cf. Sancti Caroli Borromei, Orationes XII, Roma 1963 "Oratio IV").

Ciò che inculcava ai Vescovi ed ai sacerdoti, ciò che raccomandava ai fedeli, Egli per primo lo praticava in modo esemplare.

4. Al Battesimo ho ricevuto il nome di san Carlo. Mi è stato dato di vivere nei tempi del Concilio Vaticano II, il quale, come una volta il Concilio Tridentino, ha cercato di mostrare la direzione del rinnovamento della Chiesa secondo i bisogni dei nostri tempi. A questo Concilio mi è stato dato di partecipare dal primo giorno fino all’ultimo. Mi è stato dato anche – come al mio patrono – di appartenere al Collegio Cardinalizio. Ho cercato di imitarlo, introducendo nella vita dell’Arcidiocesi di Cracovia l’insegnamento del Concilio Vaticano II.

Oggi, nel giorno di san Carlo, medito quale importanza abbia il Battesimo, nel quale ho ricevuto proprio il suo nome. Con il Battesimo, secondo le parole di san Paolo, siamo immersi nella morte di Cristo per ricevere in questo modo la partecipazione alla sua risurrezione. Ecco le parole che l’apostolo scrive nella lettera ai Romani: "Per mezzo del Battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione" (Rm 6,4-5).

Mediante il Battesimo ognuno di noi riceve la partecipazione sacramentale a quella Vita che – meritata attraverso la Croce – si è rivelata nella risurrezione del Signore nostro e Redentore. Al tempo stesso, radicandoci con tutto il nostro essere umano nel mistero di Cristo, siamo in Lui per la prima volta consacrati al Padre. Si compie in noi il primo e fondamentale atto di consacrazione, mediante il quale il Padre accetta l’uomo come suo figlio adottivo: l’uomo viene donato a Dio, perché in questa figliolanza adottiva compia la sua volontà e diventi in modo sempre più maturo parte del suo Regno. Il Sacramento del Battesimo inizia in noi quel "sacerdozio regale", mediante il quale partecipiamo alla missione di Cristo stesso, Sacerdote, Profeta e Re.

Il Santo, di cui riceviamo il nome nel Battesimo, deve renderci costantemente coscienti di questa figliolanza divina che è diventata la nostra parte. Deve pure sostenere ognuno nel formare tutta la vita su misura di ciò che è diventato per opera di Cristo: per mezzo della sua morte e risurrezione. Ecco il ruolo che san Carlo compie nella mia vita e nella vita di tutti coloro che portano il suo nome.

5. L’evento del 13 maggio mi ha permesso di guardare la vita in modo nuovo: questa vita, il cui inizio è unito alla memoria dei miei genitori e contemporaneamente al mistero del Battesimo con il nome di san Carlo Borromeo.

Cristo non ha forse parlato di grano, che caduto in terra muore, per produrre frutto? (cfr Jn 12,24).

Non ha forse detto il Cristo: "Chi vorrà salvare la propria vita la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà?" (Mt 16,25).

E inoltre: "Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna" (Mt 10,28).


E ancora: "Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici" (Jn 15,13).

Tutte queste parole alludono a quella maturità interiore, che la fede, la speranza e la grazia del nostro Signore Gesù Cristo fanno raggiungere nell’animo umano.

Guardando la mia vita nella prospettiva del Battesimo, guardandola attraverso l’esempio di san Carlo Borromeo, ringrazio quanti oggi, in tutto il periodo passato e continuamente anche ora mi sostengono con la preghiera e a volte anche con grande sacrificio personale. Spero che, grazie a questo sostegno spirituale, potrò raggiungere quella maturità che deve diventare la mia parte (così come pure la parte di ciascuno di noi) in Gesù Cristo crocifisso e risorto per il bene della Chiesa e la salvezza della mia anima – così come essa è diventata parte dei santi apostoli Pietro e Paolo, e di tanti successori di san Pietro nella sede romana, alla quale, secondo le parole di san Ignazio di Antiochia, spetta di "presiedere nella carità" (S. Ignazio di Antiochia, Epistula ad Romanos Inscr.: Funk, Patres Apostolici, I, 252).

Saluti:

Prima dell’udienza generale nell’Aula Paolo VI, il Santo Padre si è incontrato nella Basilica Vaticana con un grande pellegrinaggio di ammalati provenienti dalla Germania:



Cari fratelli e sorelle!

Saluto con gioia tutti i gruppi e i pellegrini di lingua tedesca convenuti qui presso la tomba di san Pietro. Rivolgo un saluto di benvenuto particolarmente cordiale al cospicuo pellegrinaggio di ammalati condotti a Roma dal Malteser Hilfsdienst. Ringrazio gli organizzatori, gli accompagnatori e gli assistenti che hanno reso possibile questo incontro ed incoraggio tutti voi che siete provati dal dolore e dalla malattia.

A voi, cari fratelli e sorelle ammalati, desidero raccomandare ancora una volta alla vostra riflessione e alla vostra preghiera ciò che circa un anno fa durante la mia visita pastorale in Germania ho detto ad Osnabruck: "Comunque si manifesti la volontà di Dio nei nostri riguardi, è in definitiva per noi sempre un lieto messaggio, un messaggio per la nostra salvezza eterna. Ciò vale anche per voi che soffrite gravi menomazioni perché siete chiamati da Cristo a un tipo del tutto particolare di sequela, alla sequela della Croce. Cristo vi invita a prendere le vostre pene come il suo giogo, come una via segnata dalle sue tracce... Solo il vostro pronto "sì" alla volontà di Dio che spesso si sottrae alla nostra comprensione umana, può rendervi beati e donarvi già ora una gioia intima che non può essere distrutta dall’esterno da alcuna necessità". Di cuore vi auguro e chiedo per voi la forza e la disponibilità per rispondere con questo "sì" interiore alla vostra personale vocazione, quale grazia particolare per il vostro pellegrinaggio a Roma.

La festività odierna dirige la nostra attenzione alla memoria del grande Vescovo e confessore san Carlo Borromeo, il cui nome ho ricevuto nel Battesimo. A tutti coloro che nell’odierna festività si uniscono in preghiera con me, vorrei ripetere – come già mercoledì scorso – le parole di san Paolo nella lettera agli Efesini: "Pregate... per tutti i santi e anche per me, perché mi sia data una parola franca, per far conoscere il mistero del Vangelo, del quale sono ambasciatore..." (Ep 6,18-20). San Carlo ha realizzato questo servizio al Vangelo di Gesù Cristo in modo eroico con l’impegno di tutte le sue forze. Il suo fervore pastorale e il suo instancabile impegno per il Popolo di Dio a lui affidato sono stati sempre presenti al mio spirito a titolo di esempio.

Il nostro onomastico ci deve parimenti far ricordare del dono di grazia del nostro Battesimo, mediante il quale veniamo sepolti nella morte di Cristo per risuscitare con lui dai morti. Solo quando siamo disposti con Cristo a cadere nella terra come un chicco di grano e a morire, potremo portare veramente frutto. Cristo stesso ci ha predetto "Chi salvare la propria vita la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà" (Mt 16,25). Chiediamo l’uno per l’altro il coraggio conferito dalla fede di rischiare la nostra vita per Cristo e per il suo Regno! Perciò imparto a voi tutti di cuore la benedizione apostolica con i miei migliori auguri di trascorrere giorni lieti e ricchi di grazie nella Città eterna.

Ai pellegrini di lingua francese

Ai membri del Comitato Europeo per l’Insegnamento cattolico




Ai fedeli di lingua inglese


Ai pellegrini olandesi

Ai fedeli di lingua spagnola


Ai pellegrini di lingua portoghese


A pellegrini polacchi


Ai gruppi italiani

E’ presente a questa Udienza il numeroso pellegrinaggio organizzato dalla Congregazione delle Figlie del Sacro Cuore di Gesù, in occasione del CL anniversario di fondazione.

Perciò saluto di cuore le Religiose qui presenti con la loro Superiora Generale ed il proprio Consiglio, insieme con le Insegnanti, le Alunne delle loro Scuole con i Genitori, ed anche i rappresentanti di gruppi parrocchiali ad esse collegati.


Sono contento della vostra presenza e, mentre vi raccomando al Signore, tutti vi esorto ad una vita di sempre più luminosa testimonianza cristiana.

Un particolare saluto va pure ai Religiosi del " Consiglio Plenario " dell’Ordine dei Frati Minori, accompagnati dal Ministro Generale, ed auspico dal Signore che il loro già benemerito impegno ecclesiale sulle orme di San Francesco diventi ancor maggiormente fecondo.

Inoltre saluto tutti i giovani, dalle cui fresche energie mi aspetto sempre molto per il rinnovamento della Chiesa.

Agli ammalati assicuro il mio particolare affetto ed il mio costante ricordo nella preghiera.

Ed ai Novelli Sposi auguro una ininterrotta vita di amore e di gioia in comunione col Signore.

Su tutti invoco le abbondanti grazie divine e tutti di cuore benedico.




Mercoledì, 11 novembre 1981, Aula Paolo VI: Le parole del “colloquio con i sadducei” essenziali per la teologia del corpo

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(Prima di dirigersi nell'Aula Paolo VI, il Santo Padre ha incontrato gli allievi delle Scuole Centrali Antincendio di Roma nel Cortile di San Damaso)



1. Riprendiamo quest’oggi, dopo una pausa piuttosto lunga, le meditazioni tenute già da tempo e che abbiamo definito riflessioni sulla teologia del corpo.

Nel continuare, conviene, questa volta, riportarci alle parole del Vangelo, in cui Cristo fa riferimento alla risurrezione: parole che hanno un’importanza fondamentale per intendere il matrimonio nel senso cristiano e anche "la rinuncia" alla vita coniugale "per il regno dei cieli".

La complessa casistica dell’Antico Testamento nel campo matrimoniale non soltanto spinse i Farisei a recarsi da Cristo per porgli il problema dell’indissolubilità del matrimonio (cfr
Mt 19,3-9 Mc 10,2-12) ma anche, un’altra volta, i Sadducei, per interrogarlo sulla legge del cosiddetto levirato (questa legge, contenuta nel (Dt 25,7-10), riguarda i fratelli che abitavano sotto lo stesso tetto. Se uno di essi moriva senza lasciare figli, il fratello del defunto doveva prendere in moglie la vedova del fratello morto. Il bambino nato da questo matrimonio era riconosciuto figlio del defunto, affinché non fosse estinta la sua stirpe e venisse conservata in famiglia l’eredità (cfr Dt 3,9-4 Dt 3,12]). Tale colloquio è riportato concordemente dai sinottici (cfr Mt 22,24-30 Mc 12,18-27 Lc 20,27-40). Sebbene tutte e tre le redazioni siano quasi identiche, tuttavia si notano tra loro alcune differenze lievi, ma, nello stesso tempo, significative. Poiché il colloquio è riferito in tre versioni, quelle di Matteo, Marco e Luca, si richiede un’analisi più approfondita, in quanto esso comprende contenuti che hanno un significato essenziale per la teologia del corpo.

Accanto agli altri due importanti colloqui, cioè: quello in cui Cristo fa riferimento al "principio" (cfr Mt 19,3-9 Mc 10,2-12), e l’altro in cui si richiama all’intimità dell’uomo (al "cuore"), indicando il desiderio e la concupiscenza della carne come sorgente del peccato (cfr Mt 5,27-32), il colloquio, che ci proponiamo ora di sottoporre ad analisi, costituisce, direi, la terza componente del trittico delle enunciazioni di Cristo stesso: trittico di parole essenziali e costitutive per la teologia del corpo. In questo colloquio Gesù si richiama alla risurrezione, svelando così una dimensione completamente nuova del mistero dell’uomo.

2. La rivelazione di questa dimensione del corpo, stupenda nel suo contenuto – e pur collegata col Vangelo riletto nel suo insieme e fino in fondo – emerge nel colloquio con i Sadducei, "i quali affermano che non c’è risurrezione" (1); essi sono venuti da Cristo per esporgli un argomento che – a loro giudizio – convalida la ragionevolezza della loro posizione. Tale argomento doveva contraddire "l’ipotesi della risurrezione". Il ragionamento dei Sadducei è il seguente: "Maestro, Mosè ci ha lasciato scritto che se muore il fratello di uno e lascia la moglie senza figli, il fratello ne prenda la moglie per dare discendenti al fratello" (Mc 12,19). I Sadducei si richiamano qui alla cosiddetta legge del levirato (cfr Dt 25,5-10), e riallacciandosi alla prescrizione di questa antica legge, presentano il seguente "caso": "C’erano sette fratelli: il primo prese moglie e morì senza lasciare discendenza; allora la prese il secondo, ma morì senza lasciare discendenza; e il terzo ugualmente, e nessuno dei sette lasciò discendenza. Infine, dopo tutti morì anche la donna. Nella risurrezione, quando risorgeranno, a chi di loro apparterrà la donna? Poiché in sette l’hanno avuta come moglie" (Mc 12,20-23 Mc 12, Sadducei, rivolgendosi Gesù per un "caso" puramente teorico, attaccano al tempo stesso la primitiva concezione dei Farisei sulla vita dopo la risurrezione dei corpi; insinuano infatti che la fede nella risurrezione dei corpi conduce ammettere la poliandria, contrastante con la legge di Dio. ).

3. La risposta di Cristo è una delle risposte-chiave del Vangelo, in cui viene rivelata – appunto a partire dai ragionamenti puramente umani e in contrasto con essi – un’altra dimensione della questione, cioè quella che corrisponde alla sapienza e alla potenza di Dio stesso. Analogamente, ad esempio, si era presentato il caso della moneta del tributo con l’immagine di Cesare e del rapporto corretto fra ciò che nell’ambito della potestà è divino e ciò che è umano ("di Cesare") (cfr Mt 22,15-22). Questa volta Gesù risponde così: "Non siete voi forse in errore dal momento che non conoscete le Scritture, né la potenza di Dio? Quando risusciteranno dai morti, infatti, non prenderanno moglie né marito, ma saranno come angeli nei cieli" (Mc 12,24-25). Questa è la risposta basilare del "caso", cioè al problema che vi è racchiuso. Cristo, conoscendo le concezioni dei Sadducei, ed intuendo le loro autentiche intenzioni, riprende, in seguito, il problema della possibilità della risurrezione, negata dai Sadducei stessi: "A riguardo poi dei morti che devono risorgere, non avete letto nel libro di Mosè, a proposito del roveto, come Dio gli parlò dicendo: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e di Giacobbe? Non è un Dio dei morti, ma dei viventi" (Mc 12,26-27). Come si vede, Cristo cita lo stesso Mosè a cui hanno fatto riferimento i Sadducei, e termina con l’affermare: "Voi siete in grande errore" (Mc 12,27).

4. Questa affermazione conclusiva, Cristo la ripete anche una seconda volta. Infatti la prima volta la pronunciò all’inizio della sua esposizione. Disse allora: "Voi vi ingannate, non conoscendo né le Scritture, né la potenza di Dio": così leggiamo in Matteo (Mt 22,29). E in Marco: "Non siete voi forse in errore dal momento che non conoscete le Scritture, né la potenza di Dio?" (Mc 12,24). Invece, la stessa risposta di Cristo, nella versione di Luca (Lc 20,27-36), è priva di accento polemico, di quel "siete in grande errore". D’altronde egli proclama la stessa cosa in quanto introduce nella risposta alcuni elementi che non si trovano né in Matteo né in Marco. Ecco il testo: "Gesù risponde: i figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione dai morti, non prendono moglie né marito: e nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio" (Lc 20,34-36). Riguardo alla possibilità stessa della risurrezione, Luca – come i due altri sinottici – si riferisce a Mosè, ossia al passo del Libro dell’Esodo 3,2-6, in cui infatti si narra che il grande legislatore dell’Antica Alleanza aveva udito dal roveto, che "ardeva nel fuoco e non si consumava", le seguenti parole: "Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe" (Ex 3,6). Nello stesso luogo, quando Mosè aveva chiesto il nome di Dio, aveva udito la risposta: "Io sono colui che sono" (Ex 3,14).

Così dunque, parlando della futura risurrezione dei corpi, Cristo si richiama alla potenza stessa del Dio vivente. In seguito dovremo considerare in modo più particolareggiato questo argomento.

Incontro con gli allievi delle Scuole Centrali Antincendio di Roma nel Cortile di San Damaso

Carissimi giovani!

Anche quest’anno, al termine del Corso per Allievi Vigili volontari ausiliari antincendi, avete desiderato quest’incontro con il Papa: avete voluto portare qui la vostra giovinezza, i vostri ideali, la vostra fede.

Vi ringrazio di cuore per il vostro gesto e, mentre porgo il mio sincero saluto ai vostri Superiori, al Cappellano Capo e a ciascuno di voi in particolare, desidero esprimere il mio vivo compiacimento per la buona volontà con cui vi siete preparati al coraggioso e benefico compito che vi attende.


Oggi la liturgia ci fa celebrare la festa di san Martino, un santo molto celebre e popolare, ufficiale romano convertito dal paganesimo e battezzato sui vent’anni, divenuto poi diacono, quindi presbitero ed infine fu Vescovo di Tours in Francia. Che cos’è che caratterizzò la sua vita in modo particolare? Il coraggio della fede e la generosità verso tutti. Per la fedeltà al messaggio di Cristo dovette lottare, soffrire, impegnarsi duramente contro i pagani, eretici e miscredenti: all’amore per il prossimo consacrò tutta la sua esistenza, cominciando da quella notte famosa, in cui, ancora catecumeno, durante la ronda, in pieno inverno, incontrò un povero seminudo e, presa la spada, tagliò in due la clamide, e ne donò la metà al povero. Nella notte seguente vide in sogno Gesù stesso, rivestito della meta del suo mantello.

Siate coraggiosi anche voi, nel vivere e testimoniare la vostra fede cristiana, convinti che essa è veramente la soluzione dei più gravi problemi della vita! Siate generosi anche voi, sempre, verso tutti, con amore, con carità, con spirito di sacrificio, sicuri che la vera gioia si trova nell’amare e nel donare!

Vi auguro sinceramente che, come preghiamo nella Santa Messa di oggi, in perfetto accordo con la volontà del Signore e obbedendo alla sua volontà, i vostri giorni trascorrano nella pace e possiate gustare la gioia di essere veramente cristiani!

Con questi voti, vi imparto con grande affetto la mia benedizione che estendo volentieri a tutte le persone care.

Saluti:

Ai fedeli di lingua francese


Ai fedeli di lingua inglese



Al gruppo di Danbury negli Stati Uniti

Ai fedeli di lingua tedesca

Ai fedeli di lingua spagnola



Ai fedeli di lingua portoghese

Ai fedeli di lingua polacca

Ai gruppi italiani


Rivolgo ora un cordiale benvenuto ai gruppi provenienti da varie parti d’Italia. Saluto, anzitutto, gli associati alla "Lega di San Francesco" (per una crociata morale in difesa della natura e degli animali), i quali, unitamente ad altri analoghi sodalizi di ispirazione cristiana, tra cui la " Lega Antivivisezionistica Nazionale ", si sono dati convegno a Roma per ricordare la emblematica figura di San Francesco, ispirato cantore delle creature, nell’VIII centenario della sua nascita.

Mi fa piacere incontrarmi con voi, benemeriti ecologisti, e volentieri vi esprimo il mio incoraggiamento nell’opera che prestate per la salvaguardia del patrimonio della natura e per la protezione degli animali "nostri fratelli più piccoli", come li chiamava il Poverello di Assisi.

Il Signore vi assista e vi ricolmi di abbondanti ricompense nel vostro nobile e meritorio impegno.
* * *


Una parola di particolare affetto vada anche alle Volontarie del movimento dei Focolari, riunite presso il Centro " Mariapoli " di Rocca di Papa per un convegno, avente per tema " L’unità "; e ai pellegrini di Ferrara e di Comacchio qui guidati dal loro Arcivescovo Monsignor Filippo Franceschi. Saluto altresì cordialmente tutti i giovani, che con la loro festosa presenza testimoniano la perenne giovinezza della Chiesa. Vi auguro che questa tappa a Roma e questo incontro con il Successore di Pietro segnino un rinnovamento interiore ed una decisa crescita della vostra coscienza cristiana e della vostra fede, in modo da poter testimoniare sempre più fedelmente il Cristo nei vari ambienti, in cui vi trovate a vivere.

A voi pure, cari Sposi novelli, giunga il mio beneaugurante saluto all’indomani della celebrazione del sacramento del matrimonio che vi ha uniti per sempre in un amore sacro e indistruttibile. Vi auguro di cuore che possiate vivere la vostra unione cristiana in piena letizia ed armonia.

Vada, soprattutto, un pensiero particolarmente affettuoso a tutti gli ammalati qui presenti e, in particolare, ai due gruppi appartenenti rispettivamente al Centro di Riabilitazione Motoria " Padre Pio " in San Giovanni rotondo e a quello di Riabilitazione Psicomotoria intitolato pure a Padre Pio ed avente sede in Manfredonia.

Carissimi fratelli e sorelle provati dal dolore e dalla sofferenza, dopo la mia recente esperienza come infermo, vi comprendo di più, e vi sono ancor più vicino del solito; vi assicuro pertanto il mio ricordo costante nella preghiera, affinché il Signore vi sia di aiuto per comprendere sempre meglio il valore della sofferenza accettata con fortezza e coraggio per amore di Dio e per la salvezza di tante anime. Avvaloro questa mia esortazione con una speciale benedizione.


(1) (Mt 22,23) Al tempo di Cristo, i Sadducei formavano, nell’ambito del giudaismo, una setta legata alla cerchia dell’aristocrazia sacerdotale. Alla tradizione orale e alla teologia elaborate dai Farisei, essi contrapponevano l’interpretazione letterale del Pentateuco, che consideravano fonte principale della religione jahvista. Dato che nei libri biblici più antichi non vi era menzione della vita d’oltretomba, i Sadducei rifiutavano l’escatologia proclamata dai Farisei, affermando che "le anime muoiono insieme al corpo" [cf. Giuseppe Flavio, Antiquitates Iudaicae, XVII, 1.4,16]. Le concezioni dei Sadducei non ci sono tuttavia direttamente note, perché tutti i loro scritti sono andati perduti dopo la distruzione di Gerusalemme nell’anno 70, quando la setta scomparve. Scarse sono le informazioni riguardo ai Sadducei: le prendiamo dagli scritti dei loro avversari ideologici.



Mercoledì, 18 novembre 1981: Il Dio vivente, stringendo l’alleanza con gli uomini, rinnova continuamente la realtà stessa della vita

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1. "Voi vi ingannate, non conoscendo né le Scritture né la potenza di Dio" (
Mt 22,29), così disse Cristo ai Sadducei, i quali – rifiutando la fede nella futura risurrezione dei corpi – Gli avevano esposto il caso seguente: "C’erano tra noi sette fratelli; il primo appena sposato morì e, non avendo discendenza, lasciò la moglie a suo fratello" (secondo la legge mosaica del "levirato"); "così anche il secondo, e il terzo, fino al settimo. Alla fine, dopo tutti, morì anche la donna. Alla risurrezione, di quale dei sette essa sarà moglie?" (Mt 22,25-28).

Cristo replica ai Sadducei affermando, all’inizio e alla fine della sua risposta, che essi sono in grande errore, non conoscendo né le Scritture né la potenza di Dio (cfr Mc 12,24 Mt 22,29). Dato che il colloquio con i Sadducei è riportato da tutti e tre i Vangeli Sinottici, confrontiamo brevemente i relativi testi.

2. La versione di Matteo (Mt 22,24-30), benché non faccia riferimento al roveto, concorda quasi interamente con quella di Marco (Mc 12,18-25). Entrambe le versioni contengono due elementi essenziali: 1) l’enunciazione sulla futura risurrezione dei corpi, 2) l’enunciazione sullo stato dei corpi degli uomini risorti (1). Il primo elemento, concernente la futura risurrezione dei corpi, è congiunto, specialmente in Matteo e in Marco, con le parole indirizzate ai Sadducei, secondo cui essi non conoscono "né le Scritture né la potenza di Dio". Tale affermazione merita un’attenzione particolare, perché proprio in essa Cristo puntualizza le basi stesse della fede nella risurrezione, a cui aveva fatto riferimento nel rispondere alla questione posta dai Sadducei con l’esempio concreto della legge mosaica del levirato.

3. Senza dubbio, i Sadducei trattano la questione della risurrezione come un tipo di teoria o di ipotesi, suscettibile di superamento (2). Gesù dimostra loro prima un errore di metodo: non conoscono le Scritture; e poi un errore di merito: non accettano ciò che viene rivelato dalle Scritture – non conoscono la potenza di Dio – non credono in Colui che si è rivelato a Mosè nel roveto ardente.

È una risposta molto significativa e molto precisa. Cristo s’incontra qui con uomini, che si reputano esperti e competenti interpreti delle Scritture. A questi uomini – cioè ai Sadducei – Gesù risponde che la sola conoscenza letterale della Scrittura non è sufficiente. La Scrittura infatti è soprattutto un mezzo per conoscere la potenza del Dio vivo, che in essa rivela se stesso, così come si è rivelato a Mosè nel roveto. In questa rivelazione Egli ha chiamato se stesso "il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e di Giacobbe" (3) – di coloro dunque che erano stati i capostipiti di Mosè nella fede che scaturisce dalla rivelazione del Dio vivente. Tutti quanti sono ormai morti da molto tempo; tuttavia Cristo completa il riferimento a loro con l’affermazione che Dio "Non è Dio dei morti, ma dei vivi". Questa affermazione-chiave, in cui Cristo interpreta le parole rivolte a Mosè dal roveto ardente, può essere compresa solo se si ammette la realtà di una vita, a cui la morte non pone fine. I padri di Mosè nella fede, Abramo, Isacco e Giacobbe, sono per Dio persone viventi (cfr Lc 20,38, "perché tutti vivono per Lui") sebbene, secondo i criteri umani, debbano essere annoverati fra i morti. Rileggere correttamente la Scrittura, e in particolare le suddette parole di Dio, vuol dire conoscere e accogliere con la fede la potenza del Datore della vita, il quale non è vincolato dalla legge della morte, dominatrice nella storia terrena dell’uomo.

4. Sembra che in tal modo sia da interpretare la risposta di Cristo sulla possibilità della risurrezione(4), data ai Sadducei, secondo la versione di tutti e tre i Sinottici. Verrà il momento in cui Cristo darà la risposta, in questa materia, con la propria risurrezione; per ora, tuttavia, Egli si richiama alla testimonianza dell’Antico Testamento, dimostrando come scoprirvi la verità sull’immortalità e sulla risurrezione. Bisogna farlo non soffermandosi soltanto al suono delle parole, ma risalendo anche alla potenza di Dio, che da quelle parole viene rivelata. Il richiamarsi ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe in quella teofania concessa a Mosè, di cui leggiamo nel Libro dell’Esodo (Ex 3,2-6), costituisce una testimonianza che il Dio vivo dà a coloro che vivono "per Lui": a coloro che grazie alla sua potenza hanno la vita, anche se, stando alle dimensioni della storia, occorrerebbe da molto tempo annoverarli tra i morti.

5. Il significato pieno di questa testimonianza, a cui Gesù si riferisce nel suo colloquio con i Sadducei, si potrebbe (sempre soltanto alla luce dell’Antico Testamento) cogliere nel modo seguente: Colui che è – Colui che vive e che è la Vita – costituisce l’inesauribile fonte dell’esistenza e della vita, così come si è rivelato in "principio", nella Genesi (cfr Gn 1-3). Sebbene, a causa del peccato, la morte corporale sia divenuta la sorte dell’uomo(5), e sebbene l’accesso all’albero della Vita (grande simbolo del Libro della Genesi) gli sia stato interdetto (cfr Gn 3,22), tuttavia il Dio vivente, stringendo la sua Alleanza con gli uomini (Abramo – patriarchi, Mosè, Israele), rinnova continuamente, in questa alleanza, la realtà stessa della Vita, ne svela di nuovo la prospettiva e in un certo senso apre nuovamente l’accesso all’albero della Vita. Insieme con l’Alleanza, questa vita, la cui sorgente è Dio stesso, viene partecipata a quegli stessi uomini che, in conseguenza della rottura della prima Alleanza, avevano perduto l’accesso all’albero della Vita, e nelle dimensioni della loro storia terrena erano stati sottoposti alla morte.

6. Cristo è l’ultima parola di Dio su questo argomento; infatti l’Alleanza, che con Lui e per Lui viene stabilita tra Dio e l’umanità, apre una infinita prospettiva di Vita: e l’accesso all’albero della Vita – secondo l’originario piano del Dio dell’Alleanza – viene rivelato ad ogni uomo nella sua definitiva pienezza. Sarà questo il significato della morte e della risurrezione di Cristo, sarà questa la testimonianza del mistero pasquale. Tuttavia il colloquio con i Sadducei si svolge nella fase pre-pasquale della missione messianica di Cristo. Il corso del colloquio secondo Matteo (Mt 22,24-30), Marco (Mc 12,27-28), e Luca (Lc 20,27-36) manifesta che Cristo – il quale più volte, in particolare nei colloqui con i suoi discepoli, aveva parlato della futura risurrezione del Figlio dell’uomo (cfr Mt 17,9 Mt 17,23 Mt 20,19) – nel colloquio con i Sadducei invece non si richiama a questo argomento. Le ragioni sono ovvie e chiare. Il colloquio si svolge con i Sadducei, "i quali affermano che non c’è risurrezione" (come sottolinea l’evangelista), cioè mettono in dubbio la stessa sua possibilità, e nel contempo si considerano esperti della Scrittura dell’Antico Testamento, e suoi interpreti qualificati. Ed è perciò che Gesù si riferisce all’Antico Testamento e in base ad esso dimostra loro che "non conoscono la potenza di Dio" (6).

7. Riguardo alla possibilità della risurrezione, Cristo si richiama appunto a quella potenza, che va di pari passo con la testimonianza del Dio vivo, che è il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, e il Dio di Mosè. Il Dio, che i Sadducei "privano" di questa potenza, non è più il Dio vero dei loro Padri, ma il Dio delle loro ipotesi ed interpretazioni. Cristo invece è venuto per dare testimonianza al Dio della Vita in tutta la verità della sua potenza che si dispiega sulla vita dell’uomo.

Saluti:

Ai gruppi di lingua francese





Ai pellegrini di lingua inglese


Ai fedeli di espressione tedesca

Ai fedeli provenienti dalla Spagna e dall’America Latina




Saluto ai fedeli sloveni e croati

Ai pellegrini polacchi

Ai fedeli italiani

Rivolgo ora un particolare saluto ai partecipanti al pellegrinaggio dell’UNITALSI di Imola.

Carissimi, desidero assicurarvi che sono particolarmente vicino a voi che siete chiamati a partecipare alla sofferenza di Colui che, inchiodato al legno della Croce, ha portato la salvezza al mondo intero. L’essere uniti alla Croce di Cristo è preziosa sorgente di santificazione e di merito. Estendo il mio cordiale saluto a tutti gli ammalati qui presenti, assicurandoli del mio ricordo nella preghiera e di gran cuore li benedico insieme con i loro Cari.
* * *



Saluto poi il gruppo dei ragazzi sordomuti della Scuola Media " Mazzini ", di Roma. Ad essi e a tutti i giovani qui presenti mi piace dire che una vita è pienamente realizzata, ed una giovinezza è autenticamente riuscita, quanto si è capaci di aprire il cuore alle proposte che ci vengono da Cristo, per poter parlare, con la testimonianza della vita, delle meraviglie che il Signore compie in coloro che Lo ascoltano e Lo seguono con generosità.

Di cuore li accompagno con la mia preghiera e la mia Benedizione.
* * *


Mi rivolgo, infine, a voi, sposi novelli, che iniziate un cammino a due, uniti dal Sacramento e dall’amore vicendevole. Auspico che Cristo sia vostro compagno di viaggio: partecipe delle gioie, aiuto nelle difficoltà, speranza nella prova.

A tutti la mia Benedizione.

(1) Sebbene il Nuovo Testamento non conosca l’espressione "la risurrezione dei corpi" [che apparirà per la prima volta in san Clemente: 2 Clem. 9,1 e in Giustino: Dial. 80,5] e usi l’espressione "risurrezione dei morti", intendendo con essa l’uomo nella sua integrità, tuttavia è possibile trovare in molti testi del Nuovo Testamento la fede nell’immortalità dell’anima e la sua esistenza anche fuori del corpo [cf. ad esempio:(Lc 23,43 Ph 1,23-24 2Co 5,6-8). Questi due elementi si trovano anche in Luca (Lc 20,27-36 Lc 20, testo di Luca contiene alcuni elementi nuovi intorno ai quali si svolge la discussione degli esegeti.

(2) Come è noto, nel giudaismo di quel periodo non fu chiaramente formulata una dottrina circa la risurrezione; esistevano soltanto le diverse teorie lanciate dalle singole scuole. I Farisei, che coltivavano la speculazione teologica, hanno sviluppato fortemente la dottrina della risurrezione, vedendo allusioni ad essa in tutti i libri del Vecchio Testamento. Essi intendevano tuttavia la futura risurrezione in modo terrestre e primitivo, preannunciando per esempio un’enorme crescita del raccolto e della fertilità nella vita dopo la risurrezione. I Sadducei invece polemizzavano con una tale concezione, partendo dalla premessa che il Pentateuco non parla dell’escatologia. Bisogno tener presente che nel primo secolo il canone dei libri del Vecchio Testamento non era ancora stato stabilito. Il caso presentato dai Sadducei attacca direttamente la concezione farisaica della risurrezione. Infatti i Sadducei ritenevano che Cristo ne fosse seguace. La risposta di Cristo corregge ugualmente sia le concezioni dei Farisei, sia quelle dei Sadducei.

(3) Questa espressione non significa: "Dio che era onorato da Abramo, Isacco e Giacobbe", ma: "Dio che si prendeva cura dei Patriarchi e li liberava". Tale formula ritorna nel libro dell’Esodo: (Ex 3,6 Ex 3,15-16 Ex 4,5) sempre nel contesto della promessa di liberazione di Israele: il nome del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è pegno e garanzia di questa liberazione. "Dieu de X est synonyme de secours, de soutien et d’abri pour Israel". Un senso simile si trova nella Gen 49,24: "Dio di Giacobbe – Pastore e Pietra d’Israele, Dio dei tuoi Padri che ti aiuterà" (cfr Gn 49,24-25 cfr Gn 24,27 Gn 26,24 Gn 28,13 Gn 32,10 Gn 46,3. Cf. F. Dreyfus O. P., L’argument scripturaire de Jésus en faveur de la résurrection des morts [Mc 12,26-27], Revue Biblique 66 (1959) 218. La formula: "Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe" in cui sono citati tutti e tre i nomi dei Patriarchi, indicava nell’esegesi giudaica, contemporanea di Gesù, il rapporto di Dio con il popolo dell’Alleanza come comunità. Cf. E. Ellis, Jesus, The Sadducees and Qumran, New Testament Studies, 10 (1963-64) 275.

(4) Nel nostro modo contemporaneo di comprendere questo testo evangelico il ragionamento di Gesù riguarda soltanto l’immortalità; se infatti i patriarchi vivono dopo la loro morte già adesso prima della risurrezione escatologica del corpo, allora la constatazione di Gesù riguarda l’immortalità dell’anima e non parla della risurrezione del corpo. Ma il ragionamento di Gesù fu indirizzato ai Sadducei che non conoscevano il dualismo del corpo e dell’anima accettando soltanto la biblica unità psico-fisica dell’uomo che è "il corpo e l’alito di vita". Perciò secondo loro l’anima muore insieme al corpo. L’affermazione di Gesù secondo cui i patriarchi vivono, poteva significare per i Sadducei unicamente la risurrezione con il corpo.

(5) (Cfr ) Non ci soffermiamo qui sulla concezione della morte nel senso puramente veterotestamentario, ma prendiamo in considerazione l’antropologia teologica nel suo insieme.

(6) Questo è l’argomento determinante che comprova l’autenticità della discussione con i Sadducei. Se la pericope costituisce "una aggiunta postpasquale della comunità cristiana" [come riteneva per esempio R. Bultmann], la fede nella risurrezione dei corpi sarebbe sorretta dal fatto della risurrezione di Cristo, che s’imponeva come una forza irresistibile, come lo fa capire per esempio san Paolo [cf. 1Co 15,12]. Cf. J. Jeremias, Neutestamentliche Theologie, I Teil, Gutersloh 1971 [Mohn]; cf. inoltre, I. H. Marshall, The Gospel of Luke, Exeter 1978, The Paternoster Press, p. 738. Il riferimento al Pentateuco – mentre nell’Antico Testamento vi erano testi che trattavano direttamente della risurrezione [come ad esempio Is 26,19 oppure ] – testimonia che il colloquio si è svolto realmente con i Sadducei, i quali ritenevano il Pentateuco l’unica autorità decisiva. La struttura della controversia dimostra che questa era una discussione rabbinica, secondo i classici modelli in uso nelle accademie di allora. Cf. J. Le Moyne, OSB, Les Sadducéens, Paris 1972, Gabalda, p. 124s.; E. Lohmeyer, Das Evangelium des Markus, Göttingen 1959, p. 257; D. Daube, New Testament and Rabbinic Judaism, London 1956, pp. 158-163; J. Rademakers, SJ, La bonne nouvelle de Jésus selon St Marc, Bruxelles 1974, Institut d’Etudes Théologiques, p. 313.




Catechesi 79-2005 41181