Agostino, Consenso Evang.



Sant'Agostino - Il consenso degli Evangelisti


LIBRO PRIMO



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CAPITOLO 1

L'autorità dei Vangeli.

1. Fra tutti i libri insigniti di autorità divina che sono contenuti nelle sacre Scritture il Vangelo occupa meritamente un posto di preminenza. Difatti cio che la Legge e i Profeti preannunziavano come futuro, nel Vangelo si mostra realizzato e compiuto. Primi predicatori di questo Vangelo furono gli Apostoli. Essi videro presente nella carne il nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo e, assunto l'incarico della predicazione, si premurarono d'annunziare all'umanità le parole udite dalla sua bocca e le opere da lui compiute in loro presenza conforme a quanto potevano ricordare. Inoltre si incaricarono di trasmettere cio che avevano investigato e conosciuto sul periodo che precedette la loro adesione a Cristo in qualità di discepoli. Erano cose che riguardavano la sua nascita, la sua infanzia e puerizia, cose avvenute per intervento divino e quindi meritevoli d'essere ricordate; ed essi le poterono domandare o a lui personalmente o ai suoi genitori o ad altre persone e conoscerle sulla base di informazioni certissime o di attestati quanto mai degni di fede. Di questi Apostoli alcuni, cioè Matteo e Giovanni, misero in iscritto, ciascuno con un libro, le cose che nei suoi riguardi ritennero doversi scrivere.

2. Per quanto riguarda la conoscenza e la predicazione del Vangelo non si deve credere che ci siano differenze se ad annunziarlo sono coloro che seguirono, servendolo da discepoli, il Signore apparso in terra rivestito di carne o gli altri che, divenuti credenti ad opera degli Apostoli, ritennero fedelmente le cose da loro apprese. Fu pertanto disposto dalla divina Provvidenza che anche ad alcuni che avevano seguito i primi Apostoli fosse concessa ad opera dello Spirito Santo l'eccelsa prerogativa di annunziare il Vangelo, non solo ma anche quella di scriverlo. Tali sono Marco e Luca. Quanto agli altri che tentarono, o osarono, scrivere qualcosa sulle gesta del Signore o degli Apostoli, già fin dai loro tempi non furono tali che la Chiesa li ritenesse meritevoli di fede o ne ammettesse gli scritti nella serie autorevole e canonica dei Libri santi. Questo, non solo perché essi non erano tali da meritare che si credesse alle loro narrazioni ma anche perché nei loro scritti inserirono falsità che la regola della fede cattolica e apostolica condanna, e cosi pure la sana dottrina.

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CAPITOLO 2

Ordine degli Evangelisti e metodo da loro seguito.

3. Quattro dunque sono gli evangelisti, personaggi notissimi in tutto il mondo. Che siano quattro lo si deve forse al fatto che quattro sono le parti del mondo dove si sarebbe estesa la Chiesa di Cristo, cosa che essi in certo qual modo indicarono col mistero del loro numero. A quanto ci si riferisce, essi hanno scritto nel seguente ordine: primo Matteo, poi Marco, terzo Luca e per ultimo Giovanni, di modo che uno fu l'ordine in cui si susseguirono nella conoscenza e nella predicazione e un altro quello in cui avvenne la stesura dei libri. Per quanto infatti riguarda la conoscenza e la predicazione certo furono primi quelli che seguirono il Signore presente corporalmente, lo udirono parlare, lo videro agire e da lui personalmente furono mandati ad evangelizzare. Nello scrivere il Vangelo viceversa -cosa che è da ritenersi avvenuta per disposizione divina- i due evangelisti appartenenti al numero di coloro che il Signore scelse prima della passione occupano il primo e l'ultimo posto: il primo posto Matteo, l'ultimo Giovanni. Gli altri due, che non erano del numero degli Apostoli ma avevano seguito Cristo che parlava per mezzo di costoro, dovevano essere abbracciati come figli e in tal modo, collocati in mezzo agli altri due, essere da loro come difesi da ambedue i lati.

4. Secondo la tradizione, di questi quattro soltanto Matteo scrisse in lingua ebraica; gli altri in greco. E per quanto puo sembrare che ciascuno abbia in certo qual modo seguito nella narrazione un suo proprio ordine, tuttavia si constata che nessuno di loro volle scrivere come ignorando il suo predecessore e che nessuno omise, ignorandole, le cose che si riscontrano scritte dagli altri. Seguivano piuttosto l'ispirazione ricevuta, alla quale ognuno aggiunse una collaborazione personale che non è stata certamente superflua. A quanto ci è dato comprendere, Matteo comincio a narrare l'incarnazione del Signore secondo la stirpe regale, a cui aggiunse molti detti e fatti del Salvatore, limitandosi alla presente vita di uomo. Marco segui Matteo e sembra essere un suo alunno ed epitomatore. In effetti, in comune col solo Giovanni non disse nulla; egli da solo riferisce pochissime cose; in comune col solo Luca anche di meno, mentre di cose comuni con Matteo ne disse moltissime, e alcune alla stessa maniera e quasi con le stesse parole, concordando o con lui solo o, se del caso, anche con gli altri. Luca appare interessato maggiormente della stirpe sacerdotale del Signore e della funzione sacra esercitata dalla sua persona. Ascende infatti a Davide non seguendo la genealogia regale ma attraverso coloro che non furono re e cosi giunge a Natan (Lc 3,31), figlio di Davide, che non fu re. Non fece come Matteo, il quale discende attraverso il re Salomone e prosegue ricordando (Mt 1,6)ordinatamente anche gli altri re , disponendo la serie secondo un numero mistico, di cui parleremo appresso.

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CAPITOLO 3

Argomento dei primi tre Vangeli.

5. Il Signore Gesù Cristo è l'unico vero re e l'unico vero sacerdote: come re ci regge, come sacerdote espia per noi. Questi due uffici, singolarmente rappresentati negli antichi Padri, egli stesso confermo di aver esercitato nella sua persona. Cosi nel titolo che era stato affisso alla croce si diceva: Re dei Giudei (Mt 27,37 Mc 15,26 Lc 23,38 Jn 19,19), e fu per mozione (Jn 19,22)celeste che Pilato rispose: Cio che ho scritto ho scritto , in quanto era stato predetto nei Salmi (Ps 74,1): Non guastare l'iscrizione del titolo. Circa poi l'ufficio di sacerdote, lo si riscontra in cio che egli ci insegno ad offrire e a ricevere, per cui nei suoi riguardi premise quella profezia che diceva: Tu sei sacerdote per sempre secondo l'ordine di Melchisedech(Ps 109,4).

Da molti altri testi scritturistici appare che Cristo è re e sacerdote (Ps 2,6 Ps 44,2 Mt 2,2 Mt 21,5 Mt 27,11 Mc 15,2 Mc 9,12 Lc 19,38 Lc 22,2 Jn 1,49 Jn 12,13 Jn 15 Jn 18,37 Jn 19,14 He 1,5 He 5,5 He 6 He 7,17), come quando si parla di Davide, di cui non a caso Cristo è detto " figlio " più frequentemente che non di Abramo. Questo ritennero tanto Matteo quanto Luca: Matteo che lo fa discendere da lui tramite Salomone, Luca che risale a lui tramite Natan (Mt 1,6 Lc 3,31). Orbene Davide, che come tutti sanno fu re, figuratamente rappresento anche la persona del sacerdote quando mangio i pani della proposizione, che non era lecito mangiare se non ai soli sacerdoti (Lv 24,9 1S 1S 21,6 Mt 12,13). Si aggiunge anche il fatto, ricordato solo da Luca, che anche Maria fu dall'angelo descritta come parente di Elisabetta (Lc 1,36), che era moglie del sacerdote Zaccaria. Scrive infatti Luca di Zaccaria che aveva per moglie una discendente di Aronne (Lc 1,5), cioè della tribù sacerdotale.

6. Avendo dunque Matteo rivolto l'attenzione alla persona del re e Luca a quella del sacerdote, tutt'e due sottolineano principalmente l'umanità di Cristo. In quanto uomo infatti Cristo è diventato e re e sacerdote, e a lui Dio ha dato la sede di Davide suo padre (Lc 1,32-33), in modo che il suo regno non abbia fine e sia lui, l'uomo Cristo Gesù, il Mediatore fra Dio e gli uomini che vive sempre ad intercedere per noi (1Tm 2,5). Pertanto Luca non ha avuto chi lo seguisse come epitomatore, come Matteo ebbe Marco. E cio forse non senza un significato misterioso. E proprio infatti dei re non esser privi dell'omaggio di cortigiani, e quindi chi si incarico di descrivere la persona regale di Cristo ebbe al suo seguito una specie di accompagnatore, che in certo qual modo ne calcasse le orme. Viceversa è del sacerdote: egli entrava solo nel Sancta Sanctorum (Lv 16,17). Per questo Luca, che si propose di descrivere il sacerdozio di Cristo, non ebbe alcun seguace o accompagnatore che ne riepilogasse in qualche modo la narrazione.

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CAPITOLO 4.

Giovanni si occupa della divinità di Cristo.

7. I tre primi evangelisti si sono diffusi a narrare di preferenza le cose compiute da Cristo nell'ordine temporale mediante la sua carne umana. Giovanni al contrario si volge soprattutto alla divinità del Signore per la quale egli è uguale al Padre. Questa divinità si propose d'inculcare con la massima cura nel suo Vangelo, e vi si dedico nella misura che ritenne sufficiente agli uomini. Pertanto egli si leva molto più in alto che non gli altri tre. Ti par di vedere i tre primi quasi trattenersi sulla terra con Cristo uomo, lui invece oltrepassare le nebbie che coprono la superficie terrestre e raggiungere il cielo etereo (Si 24,6), da dove con acutissima e saldissima penetrazione della mente poté vedere il Verbo che era in principio, Dio da Dio, ad opera del quale tutte le cose furono fatte. Lo osservo anche fatto carne per abitare in mezzo a noi (Jn 1,1-14), precisando che egli prese la carne, non che si sia mutato in carne. Se l'incarnazione infatti non fosse avvenuta conservando il Verbo immutata la sua divinità, non si sarebbe potuto dire: Io e il Padre siamo una cosa sola (Jn 10,30).

Non sono infatti una cosa sola il Padre e la carne. Ed è ancora lo stesso Giovanni che, unico fra gli evangelisti, ci riporta questa testimonianza del Signore nei riguardi di se stesso: Chi ha visto me ha visto anche il Padre, e: Io sono nel Padre e il Padre è in me (Jn 14,9-10), e: Che essi siano una cosa sola come io e tu siamo una cosa sola (Jn 17,22), e: Tutto cio che fa il Padre, questo stesso lo fa ugualmente i Figlio (Jn 5,19). Queste parole e le altre, se ce ne sono, che designano a chi le capisce debitamente la divinità di Cristo nella quale è uguale al Padre è Giovanni che, esclusivamente o quasi, le ha poste nel suo Vangelo. Egli aveva bevuto più copiosamente e in certo qual modo più familiarmente il mistero della divinità di Cristo, attingendolo dallo stesso petto del Signore sul quale nella cena gli fu consentito di reclinare il capo (Jn 13,25).

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CAPITOLO 5.

La vita contemplativa e quella attiva.

8. All'anima umana sono proposte due forme di virtù: quella attiva e quella contemplativa. Con la prima si cammina, con la seconda si perviene; nella prima si fatica per purificare il cuore e renderlo degno di vedere Dio (Mt 5,8), nella seconda si riposa e si vede Dio; la prima osserva i precetti che regolano la presente vita temporale, la seconda gode della manifestazione della vita eterna. Pertanto l'una opera, l'altra riposa, poiché l'una ha il compito di purificare dai peccati, l'altra fruisce della luce di chi è già purificato (Col 1,12 Col 1,14 He 1,3). E per quanto concerne la presente vita mortale, l'una si occupa delle opere d'una buona condotta (Jc 3,13 1P 2,12 1P 3,16), l'altra consiste prevalentemente nel credere alla parola e, sia pure in pochissimi, in una qualche visione dell'immutabile verità, visione peraltro speculare, enigmatica e parziale (Rm 5,2 Ga 2,16 Ga 3,8 Fil Ga 3,9 Jc 2,22 1Co 13,12).

Queste due virtù troviamo rappresentate nelle due mogli di Giacobbe (Gn 29,16 Gn 23,28), di cui ho trattato, secondo le mie modeste risorse e quant'era sufficiente per quell'opera, nel libro Contro Fausto manicheo. Difatti Lia significa " affaticata ", mentre Rachele " visione del principio ". Da tutto questo, se lo si considera attentamente, è dato concludere che i primi tre evangelisti, occupandosi di preferenza dei fatti e detti temporali del Signore, validi soprattutto per la formazione dei costumi durante la vita presente, si limitarono alla prima categoria di virtù, cioè quella attiva. Giovanni invece narra molto meno fatti riguardanti il Signore, mentre riferisce più diligentemente e abbondantemente i detti di lui, specialmente quelli che presentano l'unità della Trinità e la felicità della vita eterna. Cio facendo mostra che la sua attenzione e predicazione erano rivolte ad inculcare la virtù contemplativa.

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CAPITOLO 6.

Simboli degli Evangelisti.

9. Mi sembra dunque che fra quei ricercatori che hanno interpretato i quattro esseri viventi dell'Apocalisse (Ap 4,7 Ap 5,6-7 Ez 1,5 Ez 1,10) significando con essi i quattro evangelisti meritino -probabilmente - maggiore attendibilità coloro che hanno identificato il leone con Matteo, l'uomo con Marco, il vitello con Luca, l'aquila con Giovanni, che non gli altri che hanno attribuito l'uomo a Matteo, l'aquila a Marco, il leone a Giovanni. Per sostenere questa loro congettura essi si basarono piuttosto sull'inizio del libro che non sul piano globale inteso dagli evangelisti, cosa che invece bisognava di preferenza investigare. Era pertanto molto più logico che con il leone si vedesse raffigurato colui che sottolineo assai vigorosamente la persona regale di Cristo. Difatti anche nell'Apocalisse il leone è ricordato insieme con la tribù regale, là dove si dice: Ha vinto il leone della tribù di Giuda (Ap 5,5). Secondo Matteo si narra anche che i Magi vennero dall'Oriente per cercare e adorare il Re che mediante la stella era loro apparso come già nato; e dello stesso re Erode è detto che ebbe timore di quel Re bambino e per ucciderlo fece trucidare molti piccoli (Mt 2,1-18).

Che col vitello si indichi Luca non ci sono dubbi fra le due categorie di studiosi, e il motivo è da ricercarsi nella vittima più grande che soleva immolare il sacerdote. In effetti l'autore del terzo Vangelo comincia la sua narrazione con il sacerdote Zaccaria e ricorda la parentela fra Maria ed Elisabetta (Lc 1,5-36); da lui si raccontano adempiuti in Cristo bambino i segni misteriosi del sacerdozio veterotestamentario (Lc 2,22-24) e tante altre cose, che possono ricavarsi da una ricerca diligente, attraverso la quale appare che Luca intese descrivere la persona di Cristo sacerdote. Quanto a Marco, egli non volle narrare né la stirpe regale né la parentela o la consacrazione sacerdotale, e tuttavia appare occuparsi delle cose compiute da Cristo come uomo. Ora fra quei quattro esseri viventi egli appare raffigurato dal simbolo del semplice uomo. Quanto poi a questi tre esseri viventi: il leone, l'uomo e il vitello, si deve dire che essi si muovono sulla terra, cosa che si addice ai primi tre evangelisti, i quali si occupano prevalentemente delle cose che Cristo opero nella carne e dei precetti che diede agli uomini rivestiti di carne insegnando loro come debbano trascorrere la presente vita mortale. Viceversa Giovanni come aquila vola sopra le nebbie della fragilità umana e vede con l'occhio acutissimo e sicurissimo del cuore la luce della verità immutabile.

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CAPITOLO 7.

Occasione dell'opera.

10. Certuni, o per empia vacuità o per temeraria ignoranza, muovono attacchi contro questa santa quadriga del Signore, dalla quale trasportato egli sta assoggettando al suo giogo soave e al suo peso leggero (Mt 11,30) tutti i popoli della terra. Negano l'attendibilità che merita ogni narrazione verace a quegli scritti per i quali la religione cristiana si è disseminata nel mondo intero e ha raggiunto tanta fecondità che gli infedeli osano a malapena mormorare fra di loro le proprie calunnie, battuti come sono dalla fede delle genti e dall'adesione di tutti i popoli. Con queste loro dispute calunniose essi tuttavia ritardano chi ancora non crede dall'abbracciare la fede o turbano, per quanto possono, i credenti mettendo in agitazione il loro animo. Al riguardo alcuni fratelli, la cui fede è al sicuro, desiderano conoscere cosa debbano rispondere a tali questioni tanto per accrescere la propria scienza quanto per ribattere i vani discorsi degli avversari. Pertanto, dietro ispirazione del Signore Dio nostro e col suo aiuto, e con l'augurio che lo scritto rechi giovamento ai lettori, con quest'opera intendiamo dimostrare l'errore e l'insolenza di coloro che ritengono criticamente fondate le accuse che essi proferiscono contro i quattro libri del Vangelo, ciascuno dei quali ha un diverso autore. Per riuscire nell'intento occorrerà dunque mostrare come questi quattro scrittori non si contraddicano l'un l'altro. I nostri nemici infatti, per difendere la propria vacuità, questo sogliono dare per scontato, cioè che gli evangelisti sono discordanti fra loro.

11. E pero necessario affrontare prima il problema che fa difficoltà a certuni, e cioè perché il Signore di persona non abbia scritto niente, per cui si deve credere a questi altri che di lui hanno scritto. E quel che dicono tante persone, soprattutto pagane, che non osano prendersela col nostro Signore Gesù Cristo né bestemmiarlo, ma gli attribuiscono un'eccezionale sapienza, sempre pero a livello umano. Dicono al riguardo che i discepoli hanno detto del loro maestro più di quanto egli non fosse, qualificandolo come Figlio di Dio e Verbo di Dio ad opera del quale sono state create tutte le cose e asserendo che egli e il Padre sono una cosa sola (Jn 1,3 Jn 1,34 Jn 17,22) e tutte quelle altre cose di questo genere, contenute negli scritti apostolici, con cui ci si insegna ad adorarlo come il solo Dio insieme col Padre (2Co 1,3 2Co 11,31 Ga 1,1). Essi ritengono, si, che lo si debba onorare come uomo sapientissimo ma negano che lo si debba adorare come Dio.

12. Quando dunque costoro si interrogano sul perché egli di persona non abbia scritto nulla, li riterresti disposti a credere se egli personalmente avesse scritto qualcosa nei suoi riguardi, mentre non vogliono credere a quanto su di lui hanno predicato gli altri secondo il proprio giudizio. Da costoro vorrei sapere perché, a proposito di certi nobilissimi loro filosofi, credano a quello che nei loro riguardi hanno tramandato per iscritto i loro discepoli mentre essi personalmente non hanno scritto niente sulla propria vita. Cosi Pitagora, di cui la Grecia non ha avuto uomo più celebre per risorse speculative. E risaputo che egli non ha scritto nulla né su se stesso né su qualsiasi altro argomento. Cosi Socrate, da tutti collocato al primo posto per la dottrina morale tendente all'educazione dei costumi, tanto che non passano sotto silenzio la notizia che egli sia stato dichiarato il più sapiente degli uomini anche per testimonianza del loro dio Apollo.

Egli redasse in pochi versi alcune favole di Esopo, usando parole e ritmi suoi per cose altrui, e a tal segno non volle scrivere nulla da affermare che quanto da lui scritto lo scrisse per comando e costrizione del suo dèmone, come ricorda il più nobile dei suoi discepoli, Platone. Nella sua opera egli preferi abbellire le sentenze altrui piuttosto che le proprie. Se dunque a proposito di costoro credono a quanto ci hanno tramandato per iscritto i loro discepoli, per qual motivo si rifiutano di credere a cio che i discepoli scrissero nei riguardi di Cristo? Come possono soprattutto ragionare cosi se ammettono che egli supero in sapienza tutti gli uomini, per quanto non vogliano ammettere che egli sia dio? O che per caso quei filosofi, che essi non dubitano di ritenere molto inferiori a Cristo, siano riusciti a rendere veraci nei loro riguardi i propri discepoli, mentre lui non c'è riuscito? Che se questa è un'affermazione assurda, credano nei riguardi di Cristo, che considerano un sapiente, non cio che salta loro in testa ma cio che leggono presso quegli autori che appresero da lui, uomo sapiente, le cose che scrissero.

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CAPITOLO 8.

Cristo uomo sapiente e Dio.

13. Ci dicano poi almeno da qual fonte abbiano saputo o udito che egli fu un uomo sapientissimo. Se l'ha divulgato la fama, forse che è più attendibile la fama che ci ha recato notizie su di lui di quanto non lo siano i suoi discepoli che lo predicarono in tutto il mondo e ad opera dei quali s'è diffusa la fragranza della sua fama? Insomma a una fama preferiscano un'altra fama e nei suoi riguardi credano a quanto divulgato dalla fama maggiore. In effetti la fama che si diffonde con mirabile chiarezza ad opera della Chiesa cattolica - a proposito della quale si stupiscono vedendola diffusa in tutto il mondo - supera incomparabilmente il fioco rumoreggiare degli increduli.

Ebbene, questa fama è cosi grande e cosi nota che essi, per timore di lei, sono costretti a masticare dentro di sé spaurite e trepide contraddizioni di poco conto, temendo ormai più di farsi ascoltare che pretendendo di farsi credere. Ora è proprio la Chiesa cattolica a proclamare che Cristo è Figlio unigenito di Dio e Dio, ad opera del quale sono state create tutte le cose (Jn 1,3). Se pertanto scelgono come testimone la fama, perché non scelgono questa fama che risplende di tanta luce? Se scelgono la Scrittura, perché non quella dei Vangeli che eccelle sulle altre per la sua grande autorità? Nei riguardi dei loro dèi noi indubbiamente crediamo a cio che contengono e i loro scritti più antichi e la fama più diffusa. E se questi dèi sono da adorarsi, perché di loro si ride nei teatri? Se invece sono cose ridicole, più ridicolo è adorarli nei templi. Resta quindi assodato che loro stessi, mentre si privano del merito di approfondire cio che dicono, diventano testimoni di Cristo dicendo cio che non sanno. Che se dicono di avere dei libri che sarebbero stati scritti da lui, ce li presentino pure. Scritti da un uomo sapientissimo, com'essi riconoscono, tali libri saranno certo utilissimi e saluberrimi. Se al contrario temono di presentarceli sono sicuramente libri cattivi, e se sono cattivi non è sapientissimo colui che li scrisse. Ma Cristo, a quel che essi dicono apertamente, fu sapientissimo, per cui cose come quelle è impossibile siano state scritte da lui.

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CAPITOLO 9.

Libri magici scritti da Cristo.

14. Questi [pagani] sono cosi stolti da affermare che nei libri che ritengono scritti da Gesù sono contenute norme di arte magica con le quali - a quanto essi credono -egli avrebbe fatto quei miracoli la cui fama s'è diffusa per ogni dove. Credendo a una cosa simile palesano se stessi, cioè quel che amano e desiderano. In tanto infatti ritengono Cristo uomo sapientissimo in quanto era a conoscenza di non so quali pratiche illegali, condannate giustamente non solo dalla morale cristiana ma anche dal governo della società civile. E qui è ovvio chiedersi: coloro che dicono d'aver letto quei libri scritti da Cristo, perché non compiono le opere da lui fatte, che essi ammirano leggendole nei suoi libri?

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CAPITOLO 10.

Libri indirizzati a Pietro e Paolo.

15. E che dire del fatto che alcuni di costoro per giudizio divino cadono nell'errore che o credono o vogliono far credere che Cristo abbia scritto tali libri, asserendo inoltre che ad essi sia stato apposto l'indirizzo " a Pietro " o " a Paolo " quasi si trattasse di lettere? In effetti puo essere accaduto che o i nemici del nome di Cristo o altri dediti a simili arti detestabili abbiano ritenuto che sarebbero derivati ai loro scritti autorità e prestigio dal nome glorioso di Cristo, e cosi li abbiano posti sotto il nome di lui o degli Apostoli. Essi sono stati talmente accecati nella loro audacia e menzogna che giustamente se ne ridono anche quei fanciulli che, costituiti nel grado di lettori, conoscono sia pure da ragazzi gli scritti cristiani.

Cristo converti i popoli con arti magiche.

16. Volendo dar consistenza alla supposizione che Cristo invio degli scritti ai suoi discepoli, pensarono a chi sarebbe stato più verosimile che egli avesse scritto, chi furono cioè le persone che aderirono più da vicino a lui si che fosse conveniente confidar loro quella specie di segreto. E pensarono a Pietro e a Paolo per il fatto, credo, che in più luoghi li vedevano dipinti insieme con lui. Roma infatti celebra con festosa solennità i meriti di Pietro e di Paolo collocando anche nello stesso giorno il ricordo del loro martirio. In tale grossolano errore meritamente incorsero coloro che andarono a cercare Cristo e gli Apostoli non nei sacri libri ma nelle pitture murali; e niente di strano se questi autori fantasiosi furono ingannati da autori di pitture. Per tutto il tempo infatti che Cristo trascorse con i suoi discepoli nella carne mortale Paolo non era ancora suo discepolo. Egli lo chiamo dal cielo e lo fece suo discepolo e apostolo dopo la sua passione, dopo la risurrezione, dopo l'ascensione, dopo che ebbe mandato dal cielo lo Spirito Santo, dopo che molti Giudei si erano convertiti e avevano accettato la nostra mirabile religione, dopo che era stato lapidato il diacono e martire Stefano. In quel tempo Paolo si chiamava ancora Saulo e perseguitava accanitamente quanti avevano creduto in Cristo (Ac 9,1-30). Come dunque poté Cristo inviare a Pietro e a Paolo, in quanto discepoli che più degli altri gli sarebbero stati familiari, dei libri che egli avrebbe scritto prima della morte, se in quel tempo Paolo non era ancora suo discepolo?


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CAPITULO 11.

17. Alcuni, vaneggiando, asseriscono che Cristo poté fare tante cose strepitose perché esperto di arti magiche con le quali riusci a divinizzare il suo nome e a convertire i popoli. Costoro dovrebbero considerare in qual modo egli, prima di nascere in terra, abbia potuto con le sue magie riempire dello Spirito divino tanti Profeti che nei suoi riguardi predissero cose future che nel Vangelo leggiamo essersi poi realizzate e che oggi vediamo presenti in tutto il mondo. Che se con le sue magie riusci a farsi adorare dopo la morte, non era certo mago prima di nascere. Eppure, per profetizzare la sua venuta, fu scelto e incaricato un popolo le cui vicende nazionali, nel loro succedersi ordinato, erano una profezia di quel Re che sarebbe venuto e avrebbe riunito tutte le genti formando con esse la città celeste.

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CAPITOLO 12.

Il Dio degli Ebrei non accettato dai Romani.

18. Il popolo ebraico dunque, destinato - come ho detto - a preparare profeticamente il Cristo, non aveva altro dio se non il Dio vero, il Dio unico, che ha creato il cielo, la terra e tutto cio che è in essi. Per avere offeso questo Dio, gli Ebrei vennero più volte soggiogati dai nemici, e al presente per il gravissimo delitto della morte inferta a Cristo sono totalmente sradicati da Gerusalemme, capitale del loro regno, e assoggettati al dominio di Roma. Ora, come si sa, i Romani erano soliti adorare e propiziarsi gli dèi delle genti che sottomettevano e accettare i loro riti sacri. Questo pero non vollero fare con il Dio degli Ebrei quando li espugnarono e vinsero. Credo che a cio li spingeva la consapevolezza che, se avessero tributato il culto a quel Dio che comandava d'adorare lui solo distruggendo anche le statue [degli dèi], occorreva far piazza pulita di tutte quelle divinità che già da tempo avevano cominciato ad adorare e per la fedeltà alle quali credevano fosse cresciuto il loro Impero. In questo li ingannava grandemente l'astuzia fraudolenta dei demoni. Avrebbero infatti dovuto capire che il regno era stato loro dato e accresciuto per occulto volere del vero Dio, presso il quale è il dominio di tutte le cose, non per il favore di quegli dèi che, se avessero avuto in materia una qualche potestà, avrebbero dovuto proteggere i popoli che credevano in loro impedendo che fossero vinti dai Romani o magari avrebbero dovuto assoggettare ad essi gli stessi Romani, dopo averli soggiogati.

19. Né possono dire che la loro religiosità e i loro costumi furono amati e preferiti dagli dèi dei popoli vinti. Mai potranno dire questo se rammentano le proprie origini: l'asilo accordato a facinorosi e il fratricidio di Romolo. Ed effettivamente quando Remo e Romolo apersero quell'asilo nel quale potesse rifugiarsi chiunque fosse reo di qualsiasi delitto ottenendo l'impunità per la colpa commessa, non diedero ai rifugiati l'ordine di ravvedersi volendo guarire l'anima di quegli sciagurati (Gn 19,17 Lc 9,56 Jc 1,21 Jc 5,20). Viceversa, raccolta una banda di gente che temeva [la punizione], l'armarono contro le città di cui temevano le leggi, e come compenso ne assicurarono l'impunità. Parimenti quando Romolo uccise il fratello, che non gli aveva fatto nulla di male, non si propose di ristabilire la giustizia ma di conquistare il dominio assoluto [sulla città]. Dunque tali costumi avrebbero amato gli dèi ostili alle proprie città a tal punto da favorire chi di esse era nemico? Al contrario, come non danneggiarono le città che li veneravano abbandonandole al loro destino, cosi facendole passare ai Romani non recarono ad essi alcun aiuto, per il semplice fatto che non è in loro potere dare il regno o toglierlo. Questo appartiene al Dio unico e vero. Egli, procedendo secondo un occulto giudizio, non intende rendere immediatamente beati coloro ai quali accorda il regno terreno né immediatamente infelici coloro a cui lo toglie. Quando rende beati o infelici lo fa promettendo altri doni e servendosi di altri mezzi, e distribuisce i regni temporali e terreni a chi vuole e finché vuole secondo il predestinato susseguirsi dei secoli, alcune cose tollerando, altre concedendo.

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CAPITOLO 13

Perché Dio ha permesso la conquista della Palestina.

20. Essi non possono nemmeno sollevare questa obiezione: Perché dunque il Dio degli Ebrei, che voi dite essere il sommo e vero Dio, non ha loro assoggettato i Romani e non ha aiutato gli stessi Ebrei affinché non venissero soggiogati dai Romani? Cio dipende dal fatto che in antecedenza gli Ebrei avevano commesso peccati pubblici per i quali tanto tempo prima i Profeti avevano predetto una tal fine. La causa principale è da ricercarsi in quell'empio furore con cui uccisero il Cristo, peccato che commisero a motivo della loro cecità, derivante a sua volta da altri peccati occulti. Che poi la passione di Cristo sarebbe stata vantaggiosa per le genti, anche questo era stato predetto dalla predicazione profetica. In realtà il regno di quel popolo, il suo tempio, il sacerdozio, il sacrificio e quell'unzione mistica che in greco si chiama crisma - da cui deriva apertamente il nome di " Cristo " - e per la quale gli Ebrei chiamavano "cristi " i loro re, non erano finalizzati ad altro che a preannunziare il Cristo. Tutto cio è reso evidente, più che da altri motivi, dalla risurrezione di Cristo morto in croce. In effetti, quando si comincio a predicare fra i pagani la risurrezione, questi abbracciarono la fede, e con cio stesso tutte le istituzioni dell'ebraismo cessarono, all'insaputa dei Romani, che le facevano finire vincendo i Giudei, e dei Giudei che le facevano finire con il loro assoggettamento ai Romani.

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CAPITOLO 14.

La conversione dei pagani.

21. I pochi pagani rimasti non avvertono una cosa che invece è davvero straordinaria, come cioè il Dio degli Ebrei, offeso dai vinti, non accolto dai vincitori, ora viene predicato e adorato da tutte le genti. Il Dio d'Israele infatti è quel medesimo Dio del quale tanto tempo prima parlava il profeta che rivolto al suo popolo diceva: E colui che ti libera si chiama Dio d'Israele di tutta la terra (Is 54,5). Questo è avvenuto ad opera del nome di Cristo, venuto tra gli uomini dalla progenie di Israele, che fu nipote di Abramo, il capostipite del popolo ebraico. In effetti anche ad Israele fu detto: E nella tua discendenza saranno benedette tutte le tribù della terra (Ac 3,25 Gn 22,18 Gn 22, Gn 28,14 Ps 71,17). Questo Dio d'Israele è il Dio unico che ha creato il cielo e la terra e con giustizia e misericordia si prende cura delle cose umane, in modo che né la giustizia escluda la misericordia né la misericordia impedisca la giustizia (Jc 2,13). Di lui appare evidente che non fu vinto insieme al suo popolo, gli Ebrei, quando egli permise che il suo regno e sacerdozio venissero espugnati e distrutti dai Romani. In realtà anche oggi, mediante il Vangelo di Cristo, vero re e sacerdote prefigurato come avvenimento futuro da quel regno e sacerdozio, il Dio d'Israele abbatte ovunque gli idoli del paganesimo. Eppure proprio perché questi idoli non venissero infranti i Romani non vollero accettare le cerimonie del suo culto come avevano accettato quelle degli altri popoli che avevano sottomessi. Elimino dunque il regno e il sacerdozio di quel popolo profeta perché era già venuto colui che attraverso quel popolo si prometteva. Dio quindi per mezzo di Cristo re assoggetto al suo nome anche l'Impero romano, da cui gli Ebrei erano stati vinti, e, mediante la forza e l'attaccamento religioso propri della fede cristiana, questo stesso Dio indusse i pagani a rovesciare gli idoli per onorare i quali il suo culto non era stato permesso.

22. Mi sia consentito di supporre che tutti questi eventi futuri concernenti il Cristo non li abbia fatti preannunziare lui stesso ad opera di tanti Profeti e mediante il regno e il sacerdozio di un determinato popolo, quasi che egli fosse dotato di arti magiche e potesse intervenire nella storia prima ancora di nascere fra gli uomini. Il popolo di quel regno ormai distrutto, sparso per mirabile Provvidenza di Dio in tutte le parti del mondo, sebbene sia rimasto senza alcuna unzione di re o di sacerdoti - unzione nella quale è figurato il nome di Cristo - tuttavia conserva ancora alcuni resti delle sue antiche osservanze. Quanto ai riti dei Romani riguardanti il culto degli idoli, sebbene vinto e soggiogato, quel popolo non ha voluto mai accettarli. Cosi gli Ebrei sono latori dei libri profetici che recano la testimonianza a favore di Cristo e pertanto in base a libri conservati da nemici si dimostra la verità su Cristo annunziato dai Profeti. Cosa vogliono dunque i miseri increduli? Lodando malamente Cristo, manifestano chi sono loro stessi! Ammesso pure che alcuni libri di magia si facciano passare come opera di Cristo, è certo che la sua dottrina si oppone decisamente a tali arti. Da cio si dovrebbe piuttosto ricavare quanto grande sia quel nome, usando il quale anche coloro che vivono contro la sua legge cercano di dare prestigio alle proprie arti delittuose. E quel che accade nei diversi errori umani. Molti hanno dato origine a svariate eresie contrapponendosi alla verità in base al nome di Cristo. Allo stesso modo si comportano anche questi altri suoi nemici, i quali per far credere alla gente dottrine contrarie a quelle di Cristo pensano di non poter trovare appoggio più autorevole del nome di Cristo.


Agostino, Consenso Evang.