Paolo VI Catechesi 26668

Mercoledì, 26 giugno 1968 PIETRO E PAOLO ALL'ORIGINE COSTITUTIVA DELLA CHIESA DI ROMA

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Diletti Figli e Figlie!

Al termine ormai dell’«Anno della Fede», che Noi abbiamo dedicato alla memoria del XIX centenario del martirio sofferto a Roma per il nome di Cristo dai Santi Apostoli Pietro e Paolo, dobbiamo rivolgere il nostro riverente pensiero a questi Corifei del cristianesimo, che possono essere considerati, come li definisce alla fine del primo secolo il Papa S. Clemente I, terzo successore di S. Pietro, e perciò quarto Vescovo sulla cattedra romana, «le massime e giustissime colonne» (1 Cor. V) della «Chiesa di Dio pellegrina a Roma» (ibid. I), e come poi sempre furono celebrati insieme quali fondamenti apostolici della Chiesa romana e universale.

Non è questo il momento per fare il loro panegirico, né quello di accennare alle questioni storiche, che si riferiscono alla venuta dell’uno e dell’altro Apostolo nell’Urbe e del loro martirio, né dello sviluppo che Roma e l’intera Cristianità diedero al culto di questi incomparabili testimoni del messaggio e del fatto cristiano, e nemmeno come mai la loro memoria fu sempre associata in un unico ricordo (cfr. S. Ignazio, ad Rom. IV), quantunque, come dice S. Ambrogio, Pietro sia stato il fondamento della Chiesa, e Paolo l’architetto, il costruttore (De Sp. S. II, 13, 158; P.L. 16, 808); cioè diversa sia stata la funzione da essi esercitata nella comunità cristiana di Roma, Vescovo l’uno, S. Pietro, Predicatore del Vangelo l’altro, S. Paolo, e sebbene entrambi, a quanto afferma S. Ireneo, siano all’origine della tradizione gerarchica della Chiesa di Roma (Contra haereses, III, 3; P.G. 7, 848-849).


VENERAZIONE AMORE FEDELTÀ PER I DUE INSIGNI ARALDI

Ciò che a Noi preme, in questo breve incontro, è di accendere nei nostri animi la venerazione, l’amore, la fedeltà verso questi Apostoli, che sono all’origine costitutiva della Chiesa romana, e le lasciano l’eredità della loro parola, della loro autorità, del loro sangue, eguali sotto diversi aspetti come declama S. Leone Magno: «electio pares, et labor similes, et finis fecit aequales», pari per l’elezione all’apostolato, simili per l’opera compiuta, ed eguali per il loro martirio (Sermo 82, 7; P.L. 54, 428); ma l’uno insignito della potestà del regno dei cieli, l’altro della scienza delle cose divine; l’uno Pastore, l’altro Dottore. A questa intensità di sentimenti ci aiutano e ci impegnano le tracce storiche e locali da loro lasciate. Non possono essere trascurati da noi Romani, a da quanti a Roma muovono i passi, questi riferimenti umani e materiali alla memoria degli Apostoli, «per quos religionis sumpsit exordium», per merito dei quali ebbe inizio la nostra vita religiosa (Colletta della Messa). Ricordiamo anche noi la prima testimonianza letteraria di questo culto locale: scrive Eusebio di Cesarea, padre della storia ecclesiastica: «Si narra che Paolo fu decapitato da lui (Nerone) e Pietro crocifisso a Roma; e ne sono riconferma tuttora i monumenti insigniti dei nomi di Pietro e di Paolo, visitati tuttora nei cimiteri della città di Roma. Del resto anche Gaio, un ecclesiastico vissuto ai tempi del Vescovo di Roma Zefirino (199-217), in un suo scritto contro Proclo, capo della setta dei Montanisti (Catafrigi), parla dei luoghi ove furono deposte le sacre spoglie dei detti Apostoli; e così si esprime: «Io posso mostrarti i trofei degli Apostoli. Se vorrai recarti al Vaticano, o sulla via Ostiense, troverai i trofei dei fondatori di questa Chiesa» (Hist. Eccl., 11, 25; P.L. 20, 207-210).


LA MEMORIA ANTICA E LE RECENTI INDAGINI DEL GLORIOSO «TROFEO»

Si è parlato assai in questi ultimi anni dei menzionati «trofei»: nessun dubbio che per trofei s’intendano le tombe dei due Apostoli martiri, le quali già prima della testimonianza di Gaio, e perciò già nel secondo secolo, erano oggetto di venerazione. Ultimamente l’attenzione degli studiosi s’è fissata sul trofeo eretto sulla tomba di San Pietro, detto appunto il trofeo di Gaio. Dobbiamo questo appassionato interessamento agli scavi, che Papa Pio XII, Nostro venerato Predecessore, ordinò che si facessero sotto questo altare centrale, detto «Confessione», della Basilica di S. Pietro, per meglio identificare la tomba dell’Apostolo, sulla quale, ed in suo onore, questa Basilica è costruita. Gli scavi, difficilissimi e delicatissimi, furono eseguiti, fra il quaranta e il cinquanta, con i risultati archeologici di somma importanza, che tutti sanno, per merito degli insigni studiosi ed operatori che all’ardua ricerca hanno dedicato cure degne di plauso e di riconoscenza. Così si esprimeva Papa Pio XII, nel suo Radiomessaggio natalizio del 23 dicembre 1950: «. . . La questione essenziale è la seguente: È stata veramente ritrovata la tomba di San Pietro? A tale domanda la conclusione finale dei lavori e degli studi risponde con un chiarissimo "sì". La tomba del Principe degli Apostoli è stata ritrovata. Una seconda questione, subordinata alla prima, riguarda le reliquie del Santo. Sono state esse rinvenute?» (Discorsi e Radiom. XII, 380). La risposta allora data dal venerato Pontefice era sospensiva, dubitativa.

Nuove indagini pazientissime e accuratissime furono in seguito eseguite con risultato che Noi, confortati dal giudizio di valenti e prudenti persone competenti, crediamo positivo: anche le reliquie di San Pietro sono state identificate in modo che possiamo ritenere convincente, e ne diamo lode a chi vi ha impiegato attentissimo studio e lunga e grande fatica.


ANNUNZIO FELICE: RINTRACCIATI I SACROSANTI RESTI MORTALI DEL PRINCIPE DEGLI APOSTOLI

Non saranno esaurite con ciò le ricerche, le verifiche, le discussioni e le polemiche.

Ma da parte Nostra Ci sembra doveroso, allo stato presente delle conclusioni archeologiche e scientifiche, di dare a voi e alla Chiesa questo annuncio felice, obbligati come siamo ad onorare le sacre reliquie, suffragate da una seria prova della loro autenticità, le quali furono un tempo vive membra di Cristo, tempio dello Spirito Santo, destinate alla gloriosa risurrezione (cfr. Denz. Sch.,
DS 1822); e, nel caso presente, tanto più solleciti ed esultanti noi dobbiamo essere, quando abbiamo ragione di ritenere che sono stati rintracciati i pochi, ma sacrosanti resti mortali del Principe degli Apostoli, di Simone, figlio di Giona, del Pescatore chiamato Pietro da Cristo, di colui che fu eletto dal Signore a fondamento della sua Chiesa, e a cui il Signore affidò le somme chiavi del suo regno, con la missione di pascere e di riunire il suo gregge, l’umanità redenta, fino al suo finale ritorno glorioso.

Figli carissimi! Invochiamo il martire, apostolo, vescovo di Roma e della Chiesa cattolica, Pietro, e, con lui, Paolo, il missionario, il dottore delle genti, l’assertore principale dell’universalità del messaggio cristiano, affinché entrambi ci siano maestri e protettori dal cielo nel nostro pellegrinaggio terreno.

Possa la Benedizione Apostolica, che a Noi da quella fonte Ci deriva, essere per voi tutti effusiva delle più abbondanti grazie del Signore Gesù.



SETTIMANA DI STUDIO SULLA PASTORALE NEL MONDO DEL LAVORO

Un cordiale saluto e qualche pensiero per i diletti Figli Sacerdoti partecipanti alla V Settimana di Studio sulla Pastorale nel Mondo del Lavoro, promossa dall’ONARMO.

Basta sottolineare, nel titolo stesso dei vostri provvidi incontri, due termini: «Pastorale» e «Mondo del Lavoro»; e richiamare la nozione di «Comunità di Lavoro», sempre presente nei vari temi trattati fino ad oggi nelle vostre riunioni annuali, perché il Nostro e vostro animo si mettano subito in contatto con una enorme e stimolante realtà, densa di problemi, di urgenze, di difficoltà, ma anche carica di motivi di consolazione, di speranze, di promesse.

La «Pastorale», e cioè la Chiesa nell’esercizio della sua divina missione per la salvezza di tutti gli uomini, deve essere presente e operante nel «Mondo del Lavoro», un mondo da costruire sempre più in «Comunità», in compagine solidale consapevole e responsabile, pervasa dallo spirito del Vangelo, della giustizia e della carità di Cristo. Tutto ciò è a voi ben noto, diletti Figli, e rappresenta la sostanza della vostra particolare vocazione. All’umile successore di Pietro è caro ripetervi che la Chiesa vi stima, che la Chiesa vi incoraggia, che la Chiesa ha bisogno della vostra collaborazione.

Gli accennati tre termini e la corrispondente realtà sono la trama fondamentale su cui si va intessendo ogni anno il vostro discorso per approfondire l’uno o l’altro dei molteplici aspetti che quella medesima enorme e stimolante realtà costituiscono nel suo dinamismo : un discorso serio e doverosamente specializzato, nel quale confluiscono orientamenti ed esperienze, e dal quale trae profitto di criteri illuminanti e di pratici impulsi generosi la vostra attività apostolica. Particolarmente gradito Ci riesce il tema di questa V Settimana: «La formazione del sacerdote all’apostolato nel mondo del lavoro». Esso riguarda la base stessa, il principio operante della vostra missione. Quanto Ci sta a cuore, diletti Figli, la vostra formazione, così come, in generale, la formazione e la vita di tutti i sacerdoti, oggi; quando non mancano, purtroppo, pericoli di sbandamento, mentre urge andare incontro ad un mondo in rapida evoluzione, ma senza abdicare alla chiarezza e alla solidità delle certezze perenni!

Diletti Figli! Profondamente sensibili all’omaggio della vostra devozione, e grati per l’operosa ispirazione che - ne siamo sicuri - vorrete trarre da questo incontro con Noi, di gran cuore vi benediciamo, invocando su di voi e sul mondo del lavoro il conforto delle grazie del Cielo.

* * *

Un augurio particolare ai Sacerdoti della Diocesi di Verona, che festeggiano il XXV della loro Ordinazione con un pellegrinaggio sulla tomba del Principe degli Apostoli.

A voi la gratitudine Nostra e della Chiesa, per l’attestato di venerazione e di affetto al Vicario di Cristo e per il bene compiuto fra le anime in questi anni di ministero sacerdotale.

Il Signore vi illumini e vi conforti nel delicato servizio pastorale, e vi accompagni la Nostra Benedizione Apostolica, che impartiamo a voi, ai vostri cari e alle anime a voi confidate.

* * *

Fra i gruppi qui presenti salutiamo con cordiale compiacenza i Diaconi del quarto anno di Teologia del Pontificio Collegio Urbano «de Propaganda Fide», accompagnati dal loro Rettore, che concludono in questi giorni i loro studi e si preparano a ricevere l’ordinazione sacerdotale.

Figli dilettissimi, sappiamo quanto grande profitto abbiate tratto da questi anni di permanenza a Roma, ben consapevoli delle necessità e delle attese dei popoli, tra i quali vi accingete a tornare. Ciò procura vero conforto al Nostro animo e Ci assicura le migliori speranze per il bene religioso delle Diocesi a cui la Provvidenza vi destina.

Voi provenite da Regioni diversissime, eppure presentate in questo momento lo spettacolo di una mirabile unità, e vi sentite non già forestieri ma figli in questa casa del Padre, cittadini in questa Roma cristiana. Vi auguriamo che tale esperienza di fede e di grazia, vissuta accanto alla Cattedra di Pietro, vi accompagni sempre e cresca ogni giorno di più, per la gloria di Cristo Gesù e la diffusione della sua Chiesa.

La Nostra Benedizione Apostolica scenda sopra di voi, sui vostri cari e su coloro che il Signore porrà sul vostro cammino sacerdotale.




Mercoledì, 3 luglio 1968 LA «REGULA FIDEI» DI GLORIOSA TRADIZIONE

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Diletti Figli e Figlie!

Avrete certamente avuto notizia, un’eco almeno, della professione del nostro Credo, con la quale abbiamo concluso formalmente e solennemente l’«Anno della Fede»; ma una simile conclusione si potrebbe meglio chiamare un principio, non già d’un altro anno dedicato allo stesso tema, ma delle conseguenze, ch’esso vorrebbe produrre; e sono senza numero e senza fine. Una professione di fede non può essere che un riassunto, un «simbolo», come si dice nel linguaggio teologico tradizionale, una formula, una «regula fidei», che contiene le principali verità della fede, in termini autorevoli, ma quanto più possibili condensati ed abbreviati. Era fin dall’antichità cristiana una sintesi dei dogmi fondamentali dell’insegnamento dottrinale, che i candidati al battesimo dovevano imparare e recitare a memoria; l’uso di questo metodo didascalico cominciò probabilmente a Roma; ne abbiamo memoria all’inizio del terzo secolo nella cosiddetta «tradizione apostolica» di Ippolito, la quale consisteva in una specie d’interrogatorio, come ancora si usa nella liturgia battesimale (cfr. Denz.-Sch.
DS 10); si credette che questo testo risalisse agli Apostoli, donde il nostro cosiddetto «Simbolo Apostolico», e godette perciò di grande credito; S. Ambrogio vi ravvisa l’autentica tradizione, come quello «quod Ecclesia Romana intemeratum semper custodit et servat», che la Chiesa Romana sempre custodisce e conserva (Ep. 42,5 P.L. 16,1174); il Concilio di Nicea (a. 325) lo riprese e lo ampliò, come noi lo recitiamo e cantiamo nella Messa, con le modifiche del Concilio I di Costantinopoli (a. 381), e con l’aggiunta famosa del «Filioque», suggerita ovviamente dall’Imperatore Enrico TI, e accolta da Papa Benedetto VIII (a. 1014); e poi ammessa anche dalla Chiesa Greca nei Concili di Lione II (a. 1274) e di Firenze (a. 1439) (cfr. Denz.-Sch. DS 125 DS 150).

S. Agostino, commentando la formula ambrosiana (ch’è poi il Simbolo Apostolico), conclude: «Questa è la fede da ritenere in poche parole nel Simbolo che si dà ai cristiani novelli» (De fide et symb., n. 25; P.L. 40, 196).


STUDIARE ED APPROFONDIRE: DOVERE DI TUTTI I CREDENTI

Tutto questo ci dice che una professione riassuntiva delle verità della fede esige poi uno studio, uno sviluppo, un approfondimento; è questo il dovere di tutti i credenti; e quelli fra loro che sanno passare dalle formule catechistiche all’esposizione più completa e più organica delle verità della fede, dalle aride parole allo sviluppo dottrinale, e, ancor meglio, dalle espressioni verbali a qualche intelligenza reale delle verità stesse, sperimentano un gaudio e uno sgomento insieme: il gaudio della ricchezza e della bellezza delle verità religiose, e lo sgomento della loro profondità e della loro ampiezza, che la nostra mente sa intravedere, ma non misurare: è l’esperienza maggiore che il nostro pensiero può fare. Ed è questo parimente il compito dei maestri, dei teologi, dei predicatori, ai quali questo momento storico della Chiesa offre una stupenda missione, quella di penetrare, di purificare, di esprimere gli enunciati della fede in termini nuovi, belli, originali, vissuti, comprensibili, i sempre identici ed immutabili tesori della rivelazione, «nella stessa dottrina, nello stesso senso, nello stesso pensiero», come disse il Concilio Vaticano primo (cfr. Vincenzo Ler., Commonitorium, 28; P.L. 50, 668; e Conc. Vat. I, De fide cath., IV, in Alberigo etc. Conc. Occ. decreta, p. 785).

CONOSCIUTA LA PAROLA DI DIO OCCORRE VIVERLA

Un lavoro quindi che, si può dire, ricomincia, cioè succede all’affermazione della fede, che l’anno testé concluso Ci ha dato la felice occasione di pronunciare. Dobbiamo rimetterci tutti ad uno studio serio della nostra religione; e speriamo che in ogni Paese si abbia una nuova e originale fioritura di letteratura religiosa.

Ma vi è un’altra conseguenza che scaturisce da una professione della fede, ed è la coerenza della vita con la fede stessa. Non avremo mai dato sufficiente importanza a questa coerenza tra la fede e la vita. Non basta conoscere la Parola di Dio, bisogna viverla. Conoscere e non applicare la fede alla vita sarebbe una grave illogicità, sarebbe una seria responsabilità. La fede è un principio di vita soprannaturale, ed insieme un principio di vita morale. La vita cristiana nasce dalla fede, ne gode l’incipiente comunione ch’essa stabilisce fra noi e Dio, fa circolare il suo infinito e misterioso pensiero nel nostro, ci dispone a quella comunione vitale, che unisce la nostra appena creata esistenza con l’increato e infinito Essere, ch’è Dio; ma nello stesso tempo introduce nella nostra mente e nel nostro operare un impegno, un criterio spirituale e morale, un elemento qualificante la nostra condotta: ci fa cristiani. È sempre da ricordare la ripetuta formula dell’Apostolo: iustus ex fide vivit, il Cristiano, possiamo tradurre, vive di fede (Rm 1,17 Ga 3,11 He 10,38).

Questo aspetto della vita religiosa ora ci interessa. Come rendere conforme la nostra vita vissuta alla nostra fede? Come possiamo figurarci il tipo moderno del credente? Qual è la vocazione del fedele, oggi, quando egli voglia prendere sul serio le conseguenze del proprio Credo? Tutti ricorderemo come il recente Concilio abbia proclamato che «tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alle pienezze della vita cristiana e alla perfezione della carità», e aggiunge: «Anche nella società terrena da questa santità è promosso un tenore di vita più umano» (Lumen gentium LG 40). Questa affermazione conciliare circa la vocazione di tutti e di ciascuno alla santità, corrispondente «ai vari generi di vita e ai vari uffici» di ciascuno è di capitale importanza: «Ognuno - prosegue il Concilio - secondo i propri doni ed uffici, deve senza indugio avanzare per le vie della fede viva, la quale accende la speranza e opera per mezzo della carità» (ib. n. 41). Perciò dovrebbe scomparire il cristiano inadempiente ai doveri della sua elevazione a figlio di Dio, e fratello di Cristo, a membro della Chiesa. La mediocrità, l’infedeltà, l’intermittenza, l’incoerenza, l’ipocrisia dovrebbero essere tolte dalla figura, dalla tipologia del credente moderno. Una generazione pervasa di santità dovrebbe caratterizzare il nostro tempo. Non solo andremo alla ricerca del santo singolare ed eccezionale, ma dovremo creare e promuovere una santità di Popolo, proprio come, fin dai primi albori del cristianesimo, voleva San Pietro, scrivendo le celebri parole: «Voi siete una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una gente santa, un popolo redento; . . . voi, che un tempo non eravate un popolo, ma ora siete Popolo di Dio» (1P 2,9-10).


SÌ: OGGI L’UOMO PUÒ ESSERE VERAMENTE CRISTIANO

Riflettiamo bene. È possibile raggiungere una simile mèta? Non siamo nel mondo dei sogni ? Come può mai un uomo comune del nostro tempo conformare la propria vita a un ideale autentico di santità, per quanto lo si possa modellare sulle esigenze oneste e legittime della vita moderna? Oggi, per di più, quando tutto è messo in «contestazione», quando dalla tradizione non si vogliono più derivare le norme per la guida della nuova generazione, quando la trasformazione del costume è così impellente e palese, quando la vita sociale assorbe e soverchia la singola personalità, quando tutto è secolarizzato e dissacrato, quando nessuno sa più quale sia l’ordine costituito e da costituire, quando tutto è diventato problema e quando non si accetta che alcuna normale autorità suggerisca soluzioni ragionevoli e allineate sul filo della comprovata esperienza storica?

GESÙ LUCE DEL MONDO E DELLA NOSTRA VITA

Non bisogna chiudere gli occhi alla realtà ideologica e sociale, che ci avvolge; anzi faremo bene a guardarla in faccia con coraggiosa serenità. Ne potremo trarre molte conclusioni favorevoli ai nostri principi circa l’umanesimo privo della luce di Dio. Ma ora preme a Noi di rispondere alla domanda che Ci siamo posta, e che faremo bene a ripetere nell’interno delle nostre coscienze; può oggi un uomo essere veramente cristiano? E può un cristiano essere santo (nel senso biblico del termine)? Può la nostra fede essere davvero un principio di vita concreta e moderna? E può ancora un popolo, una società, una comunità almeno, esprimersi in forme autenticamente cristiane?

Ecco, Figli carissimi, una buona occasione per subito porre in azione la nostra fede. Rispondiamo che sì. Nulla ci deve spaventare, nulla arrestare. È di Santa Teresa questa parola: Nada te espante. Ripetiamo a noi stessi le parole di San Paolo ai Romani: «Se tu confessi con la bocca il Signore Gesù, e nel cuore hai fede che Dio lo ha risuscitato da morte, sarai salvo». Questa è la bussola. Nel mare infido e agitato del mondo presente, teniamo fisso questo supremo orientamento: Gesù Cristo. Lui, luce del mondo e della nostra vita, subito infonde nei nostri cuori due cardinali certezze, quella su Dio e quella sull’uomo; l’una e l’altra da perseguirsi in una totale dedizione di amore. Se così, non abbiamo più paura di nulla: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? La tribolazione, o l’angoscia, o la fame, o la nudità, o il pericolo, o la persecuzione, o la spada? . . . In tutte queste cose siamo più che vincitori per opera di Colui che ci ha amati», dice ancora San Paolo (Rm 8,35-37).

Cominciate a vedere come la fede possa avere un influsso determinante e corroborante sulla nostra psicologia dapprima, e poi sulla nostra vita pratica. Ma il discorso si fa lungo, e qui lo fermiamo, fidando che voi lo sappiate continuare da voi stessi nelle vostre coscienze. Con la Nostra Apostolica Benedizione.

Nell'udienza di stamane abbiamo la gioia di accogliere tre gruppi di sacerdoti altamente qualificati e veramente meritevoli della Nostra affettuosa stima. Sono i partecipanti al Congresso Nazionale degli Assistenti Diocesani dell’Unione Uomini di Azione Cattolica, i partecipanti al Convegno Nazionale dei Direttori degli Uffici Catechistici Diocesani, e gli Assistenti Diocesani della Gioventù Femminile e Maschile di Azione Cattolica Italiana convenuti a Roma per il loro Convegno Nazionale Unitario.

Vi ringraziamo, Figli carissimi, della vostra visita e dei sentimenti di devozione che ve l’hanno suggerita. L’orario molto impegnato di questi giorni non Ci permette, purtroppo, di dare a questo incontro l’ampiezza che vorremmo e che meriterebbe. Non possiamo però fare a meno di rivolgere almeno una parola a ciascun gruppo in particolare, per dirvi tutta la compiacenza con cui seguiamo il vostro silenzioso e tanto proficuo lavoro, e per assicurarvi della fiducia che riponiamo nella vostra opera.

Anzitutto desideriamo congratularCi con gli Assistenti Diocesani della Unione Uomini per l’opportunità del tema scelto per il loro Congresso: L’impegno degli uomini di Azione Cattolica nella costruzione della Comunità locale. Detto tema riflette l’ansia della Chiesa di riavvicinare il mondo, che per le così rapide e profonde trasformazioni di questi ultimi tempi tanto si è allontanato da lei. Desiderio, questo, che, se da un lato spinge la Chiesa ad accostarsi agli uomini del nostro tempo per servirli e rigenerarli cristianamente, dall’altro mette in evidenza il dovere che urge ciascun fedele di interessarsi all’apostolato, in modo che nessun membro del Popolo di Dio rimanga inerte, nessuno sia ozioso, nessuno passivo.

A voi, diletti Figli, spetta il delicato compito di rendere sempre più consapevoli di questo onore, di questo dovere, di questa chiamata del Signore, tutti coloro che militano nelle file della vostra grande e benemerita Unione.

Voi, dunque, porterete ad essi i Nostri paterni voti, la Nostra gratitudine sincera e il Nostro incoraggiamento a servire sempre meglio la Chiesa e l’Italia nella loro bella vocazione di Uomini di Azione Cattolica.

Un altro particolare saluto desideriamo rivolgere ai cari Assistenti Diocesani della Gioventù Femminile e Maschile di Azione Cattolica Italiana.

Il vostro Convegno, diletti Figli, si svolge dopo che il Convegno Nazionale dei Dirigenti Diocesani di Gioventù Femminile e Maschile di Azione Cattolica Italiana ha posto in evidenza la volontà di queste due Associazioni di operare in stretta unione per un’organica e sistematica azione apostolica nella Chiesa locale.

Noi di tutto cuore incoraggiamo questa collaborazione tra le due Organizzazioni, e siamo certi che essa permetterà loro di inserirsi con maggiore competenza nella pastorale.

Ciò comporta naturalmente il dovere di ricercare e proporre criteri di interpretazione del nostro tempo; una interpretazione che si ispiri agli insegnamenti del Magistero, e che sappia tener conto nello stesso tempo del travaglio di inquietudine e di ricerca che soffrono, oggi, gli uomini e, come più sensibili, particolarmente i giovani. Rientra, infatti, fra i compiti delle vostre Associazioni orientare i giovani a comprendere meglio il mondo in cui vivono, i fermenti che lo animano, e aiutarli a rendere in esso più incisiva la loro presenza e la loro azione di cristiani, membra vive del Popolo di Dio.

In tutto ciò grande è la vostra responsabilità, diletti Assistenti, giacché tocca alla vostra esperienza indicare in che modo le vostre Associazioni possano assolvere questo compito, mantenendo sempre la loro unità di contenuto, di metodo, di finalità e anche di strutture.

Intanto Noi vi assicuriamo di seguirvi con la Nostra fervida preghiera a Dio. E voi a nome Nostro direte ai vostri giovani e alle vostre giovani che Noi Ci aspettiamo molto da loro; sappiano essere non spettatori inerti, o peggio ancora critici e scettici, ma collaboratori fra i più generosi e disciplinati nello sforzo rigeneratore che la Chiesa sta compiendo in questo periodo postconciliare.

Un saluto, infine, con grande effusione di cuore, ai partecipanti al Convegno Nazionale dei Direttori degli Uffici Catechistici Diocesani, promosso dall’Ufficio Catechistico della Conferenza Episcopale Italiana.

Diletti sacerdoti, sappiamo tutta la delicatezza del vostro compito e anche le sue molteplici e gravi difficoltà. Da una parte vi è la necessità di presentare la verità che salva in termini adeguati e comprensibili, senza però deformarla, ma cercando di farla risplendere di nuova luce e di farla accettare con una adesione schietta e senza riserve; e dall’altra vi è il turbine della vita moderna che con le sue attrattive, coi suoi godimenti e con le sue aspirazioni tanto potentemente distoglie gli uomini del nostro tempo dall’ascoltare l’annuncio della Parola di Dio.

Per questo motivo Noi Ci rallegriamo dei vostri Convegni che si susseguono con tanto frutto, e che vanno costruendo con molta pazienza le nuove premesse per la pastorale della Parola di Dio in Italia, in una sempre più consapevole e responsabile adesione ai Pastori della Chiesa e con profonda attenzione alle situazioni spirituali sempre nuove dei fedeli. Diremo di più. I vostri Convegni non soltanto sono momenti preziosi di preghiera, di comune ricerca, di scambio di esperienze e di programmi sempre più adeguati, ma sono altresì occasione di profonda amicizia sacerdotale, che si prolunga successivamente nelle diocesi e nelle regioni, garantendo una sempre maggiore fecondità nell’apostolato e nel servizio della Chiesa.

Continuate, adunque, Figliuoli, nella vostra opera benemerita. Noi intanto vi esprimiamo la Nostra riconoscenza più sincera e vi accompagniamo col Nostro cordiale incoraggiamento.

La Nostra paterna e confortatrice Apostolica Benedizione, che di cuore impartiamo a tutti voi, diletti sacerdoti, e a tutte le vostre Associazioni, avvalori i Nostri voti e le Nostre preghiere.




Mercoledì, 10 luglio 1968 LA POTENZA DELLA DIVINA LUCE

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Diletti Figli e Figlie!

Cha cosa attendere oggi dalla Nostra parola? Voi sapete che dopo avere proclamata la nostra fede cattolica, antica e sempre nuova, perché sempre vera e sempre viva, Noi andiamo cercando il rapporto ch’essa deve avere col nostro pensiero e con la nostra condotta; cerchiamo cioè quale sia l’influsso ch’essa deve avere sulla nostra vita, quali esigenze essa reclami, quali impulsi essa ci offra, quale stile essa imprima alla nostra personalità. Studiamo ora la questione nel suo aspetto individuale. E abbiamo già ricordato la grande legge, che stabilisce essere la fede un principio di vita, sia nel senso trascendente e misterioso della iniziale inserzione soprannaturale della presenza e dell’azione di Dio in noi, sia nel senso della ispirazione morale derivante dalle verità della fede, e sia del modo di giudicare, suggerito dalla fede, l’enorme e complessa varietà di valori, tanto del nostro mondo interiore, quanto di quello esteriore. Un uomo moderno, un cristiano del nostro tempo, un fedele sensibile alle voci del Concilio quale conto deve fare della propria fede? Il noto binomio «fede e vita» come si pone oggi alla nostra coscienza, supposto un desiderio di fondamentale sincerità personale, un desiderio, diciamo pure, di perfezione?

La risposta esigerebbe la soluzione d’un’altra fondamentale questione: come si fa oggi a credere? Ma non trattiamo ora della genesi della fede, problema immenso, che tuttavia per voi credenti supponiamo in qualche modo risolto. Limitiamo la Nostra indagine a più semplice, ma sempre grave domanda: È la fede un possesso di Dio, ovvero una ricerca di Dio? È dapprima un possesso: il credente è già in possesso di alcune supreme verità, derivate dalla Parola di Dio; è già custode di alcune rivelazioni, che lo invadono e lo dominano; è già felice di alcune certezze che danno al suo spirito una pienezza, una fortezza, una gioia, una voglia di esprimerle e di celebrarle, che alimentano in lui un’interiorità meravigliosa; per il credente è come se nell’oscurità e nella confusione della sua stanza interiore si fosse accesa una luce; egli vede la luce, cioè le realtà divine entrate nel suo spirito, e vede, in virtù di quella luce, se stesso, la sua coscienza; e non solo: vede quanto lo circonda, il suo posto nel mondo, e il mondo stesso. Tutto acquista un senso. Tutto appare per quello che è; e non si può negare che questa prima visione sia magnifica, anche se svela altezze irraggiungibili, profondità tenebrose, ampiezze abissali, ed anche umili cose concrete già conosciute, ma ora riconosciute in perimetri reali nuovi; anche se cioè il senso del mistero si accresca proprio mediante la scoperta iniziale delle realtà di cui viviamo, e in mezzo a cui si trova la nostra esterrefatta esistenza.


SEMPRE COSTANTE RICERCA DELLE VERITÀ DIVINE

Ma facciamo attenzione: questo possesso della fede non esclude, bensì reclama un’ulteriore ricerca. Il nostro possesso di Dio, in questa vita, non è mai completo, non è che un inizio, una prima scintilla che invita a maggiore conquista d’una luce più piena. È questa una norma conosciutissima del nostro tirocinio religioso, anche per noi cattolici che abbiamo la fortuna di riposare su formule della fede fisse e sicure; esse non ci dispensano dallo sforzo d’una sempre progressiva ricerca e da una sempre migliore cognizione delle cose divine. Bene lo sanno le anime che della religione e della contemplazione fanno alimento dolce e forte. È un pensiero su cui S. Agostino ritorna sovente; per esempio: «Amore crescente inquisitio crescat inventi», con amore crescente cresca la ricerca di Colui che abbiamo trovato (Enarr. in PS 104 P.L.
Ps 37,112); ed anche: «Invenitur ut quaeratur avidius», troviamo Dio per cercarlo più avidamente (De Trin. XV, 1; P.L. 42, 1058). La fede non è una stasi, è un cammino verso le divine verità. Il credente è un pellegrino, che cammina sulla buona strada, verso Dio.

Ma oggi dobbiamo tener conto d’un duplice fenomeno, che interrompe questa nostra serena visione del campo religioso e spirituale; fenomeno l’uno e l’altro molto grave e diffuso. Il primo è l’ateismo, che pretende affrancare l’uomo dalla così detta alienazione religiosa. «Negare Dio, dice il Concilio, . . . viene presentato come esigenza del progresso scientifico o di un nuovo tipo di umanesimo» (Gaudium et Spes GS 7). Qui ora Noi non parliamo di questo triste e impressionante fenomeno; chi ne volesse conoscere le sue molteplici espressioni può consultare un’opera poderosa, di cui sono usciti i primi due grossi volumi: «L’ateismo contemporaneo» (S.E.I. 1967 e 1968); altri due volumi sono in preparazione, per iniziativa principale dei bravi e dotti Salesiani, D. Girardi e D. Miano, con altri valenti studiosi. Qui ci basta osservare che l’ateismo non è ammissibile nella configurazione dell’uomo vero, completo e buono, che andiamo delineando, sebbene anche l’ateismo pretende di fondare una sua moralità meritevole di qualche approfondita analisi (cfr. Fabro, Introd. all’ateismo moderno, Ed. Studium, 1964).

IDDIO PRIMO PRINCIPIO E FINE ULTIMO DELLA RELIGIONE

Diciamo piuttosto una parola, una sola e fugace, sull’altro fenomeno, che si verifica anche negli ambienti, che si qualificano come religiosi e come cristiani: il fenomeno della religione antropocentrica, cioè orientata verso l’uomo come suo principale oggetto d’interesse, mentre la religione deve essere, di natura sua, teocentrica, cioè orientata verso Dio, come a suo primo principio e a suo fine ultimo (cfr. S. Th. II-II 82,0) e poi verso l’uomo considerato, cercato, amato in funzione della sua derivazione divina e dei rapporti e dei doveri che da essa scaturiscono. Si è parlato di religione verticale e di religione orizzontale; ed è questa seconda, filantropica e sociale, che oggi prevale in chi non abbia la visione sovrana dell’ordine ontologico, cioè reale e obbiettivo, della religione. Vogliamo forse negare l’importanza e l’impegno che la fede cattolica attribuisce all’interesse dovuto all’uomo? Non sia mai! E nemmeno vogliamo temperare questo interesse, che per noi cristiani dev’essere estremamente e continuamente obbligante: ben ricordiamo che saremo giudicati sull’amore effettivo, che avremo consacrato al nostro prossimo, specialmente a quello indigente, sofferente, decaduto (cfr. Mt 25,31 ss.). Non mettiamo indebite riserve su questo punto. Ma dobbiamo sempre ricordare che il principio dell’amore verso il prossimo è l’amore verso Dio. Chi dimenticasse la ragione, per cui dobbiamo dirci fratelli degli uomini, e cioè la comune paternità di Dio, potrebbe, ad un dato momento, non più ricordarsi degli oneri gravissimi di tale fratellanza, e potrebbe scorgere nel proprio simile, non più un fratello, ma un estraneo, un concorrente, un nemico. Dare nella religione il primato alla tendenza umanitaria induce nel pericolo di trasformare la teologia in sociologia, e di dimenticare la fondamentale gerarchia degli esseri e dei valori: «Io sono il Signore Dio tuo . . . non avrai altro Dio fuori che me» (cfr. Ex 20,1 ss.); così nell’antico Testamento; e, nel nuovo, Cristo c’insegna: «Ama Dio, . . . questo è il più grande e il primo comandamento. Il secondo poi è simile a questo: amerai il tuo prossimo come te stesso» (Mt 22,37-39).


L'INSEGNAMENTO PERENNE: PER IL COSTUME LA VITA SOCIALE LA CARITÀ

E non è da dimenticare che la prevalenza data all’interesse sociologico su quello teologico propriamente detto può generare un altro inconveniente pericoloso, quello di adattare la dottrina della Chiesa a criteri umani, posponendo quelli intangibili della rivelazione e del magistero ufficiale ecclesiastico. Che lo zelo pastorale attribuisca preferenza pratica alla considerazione dei bisogni umani, spesso tanto gravi e tanto urgenti, si può ammettere e incoraggiare, sempre che tale considerazione non comporti una svalutazione e una degradazione della preminenza e dell’autenticità dell’ortodossia teologica.

La fede, accettata e praticata, non è un’evasione dai doveri della carità e dalle grandi e impellenti necessità d’ordine sociale; ne è piuttosto l’ispiratrice e la forza. Ne è altresì la salvaguardia dalla tentazione di ricadere nel temporalismo, cioè nella prevalenza degli interessi temporali, da cui oggi più che mai si vorrebbe immune la religione; e da quella più grave di voler instaurare un nuovo ordine sociale, senza la carità, ma con la violenza e con la sostituzione d’un dominio prepotente ed egoistico ad un altro giudicato improvvido o ingiusto.

Una morale senza Dio, un cristianesimo senza Cristo e senza la sua Chiesa, un umanesimo senza l’autentico concetto dell’uomo, non ci conducono a buon fine. Che la nostra fede ci preservi da simili, fatali errori; e ci sia, nella ricerca della perfezione personale e sociale, luce e maestra.

Così vi augura la Nostra Benedizione.

Agli Assistenti Ecclesiastici e alle Dirigenti delle Donne Cattoliche

Un folto gruppo di fedeli con la sua presenza rende preziosa per Noi l’udienza di stamane: il gruppo degli Assistenti Ecclesiastici Diocesani e delle Presidenti e Dirigenti Diocesane dell’Unione Donne di Azione Cattolica, convenuti in Roma per il loro Convegno Nazionale.

Il vostro numero, diletti Figli e Figlie, come pure il vostro carattere rappresentativo, Ci dice il vostro zelo, e insieme l’importanza del vostro comune impegno, da cui prenderà impulso la vostra attività futura, in linea con gli indirizzi dell’Episcopato, e in comunione con gli altri rami dell’Azione Cattolica Italiana. Ve ne siamo sommamente grati, e vi esprimiamo il Nostro sincero compiacimento, giacché lo spettacolo di stretta unione e di fervore da voi dato in questi giorni col vostro Convegno, dimostra che l’ardore benefico e attivo dell’Unione Donne non conosce riposo, non teme crisi, non schiva sacrifici.

Una particolare soddisfazione abbiamo provato nell’esaminare le linee programmatiche del vostro lavoro futuro, tutto incentrato nel tema «Il mistero eucaristico, centro dinamico della Comunità cristiana». Tema, questo, quanto mai attuale ed opportuno, che è una magnifica affermazione di volere far primeggiare in tutte le vostre attività «lo spirituale», l’«unum necessarium», che soprattutto nell’Eucaristia trova il suo punto di sostegno e di orientamento. Perciò in questo vostro impegno, diletti figli, Noi volentieri vi accompagniamo coi Nostri voti e con le Nostre preghiere. E voi, ritornando nelle vostre Diocesi, sappiate far partecipi le vostre associazioni di quanto avete appreso in queste laboriose giornate di studio; specialmente sappiate far comprendere col vostro esempio a tutte le donne di Azione Cattolica che nessuna deve rimanere indifferente o tiepida nel grandioso sforzo di rinnovamento che la Chiesa sta compiendo in questo periodo Post-conciliare.

In pegno dei favori divini, di cuore, intanto, vi impartiamo l’Apostolica Benedizione.

Sacerdoti che svolgeranno il sacro ministero tra gli emigrati

Un particolare saluto è dovuto, oggi, ai cari sacerdoti delle diocesi d’Italia in procinto di recarsi a svolgere il loro ministero fra gli italiani emigrati.

Diletti figli, non avete voluto chiudere il vostro corso di aggiornamento qui in Roma presso il Pontificio Collegio dei sacerdoti per l’Emigrazione Italiana, senza prima venirci a salutare e chiedere la Nostra benedizione.

Acconsentiamo ben volentieri al vostro desiderio e cogliamo l’occasione di questo incontro per ringraziarvi del servizio che voi rendete alla Chiesa in un settore così vasto e delicato, qual è quello dell’emigrazione. Il sapervi animati da tanto zelo, Ci assicura che le ansie della Chiesa per il grave problema dell’assistenza religiosa agli emigrati, hanno trovato in voi eco profonda e’ piena rispondenza.

Opera grande, opera benefica, opera immensamente meritoria, la vostra, dilettissimi figli. Giustamente Ci pare di poter vedere nell’apostolato a cui vi siete consacrati, una delle forme più efficaci e notevoli per far sentire la presenza materna della Chiesa a favore di una categoria di lavoratori tra le più numerose e più bisognose di aiuto.

Vi incoraggiamo pertanto a compierlo bene, questo apostolato, da cui tanto la Chiesa si aspetta, con sempre maggiore consapevolezza e dedizione, e soprattutto con sempre maggior spirito di cristiana carità: carità delicata, attenta, premurosa, che fa scoprire nei fratelli in necessità la presenza stessa di Cristo, e trova sostegno e conforto ineffabile nelle sue divine parole: «Tutto ciò che avete fatto a uno dei più piccoli tra questi miei fratelli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).

Vi sostenga l’aiuto divino, specialmente in quanto vi è di faticoso e di sacrificato nel vostro lavoro; e a tal fine vi impartiamo di tutto cuore la Benedizione Apostolica che siete venuti a domandare.




Paolo VI Catechesi 26668