Paolo VI Catechesi 11114

Mercoledì, 11 novembre 1964

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Diletti Figli e Figlie!

La vostra visita odierna cade nel giorno in cui la Chiesa celebra la festa d’uno dei suoi Santi, più popolari e più gloriosi, San Martino, Vescovo di Tours, morto alla fine del quarto secolo (nel 397, lo stesso anno della morte di S. Ambrogio), e tuttora famoso per l’episodio di Amiens. Martino era allora ufficiale della guardia imperiale a cavallo, forse non ancora ventenne; s’incontrò un giorno d’inverno alle porte della città con un povero mendicante, intirizzito e spoglio, a cui nessuno badava. Martino non aveva denaro con sé, ma aveva fin d’allora grande cuore in sé: che fare?: con un magnifico colpo di spada taglia in due la sua clamide, cioè la sopravveste militare, e ne dà una metà al mendicante. La notte successiva, Martino (che non era ancora battezzato) vede Cristo in sogno coperto con la parte del suo mantello, ch’egli aveva dato al povero sconosciuto, e sente Cristo che dice: Martino, ancora catecumeno, mi ha coperto con questa veste (Sulpicio Severo, Vita Beati Martini, P.L. 20, 162). Questa scena ha fatto la delizia degli artisti, ma ancor più quella dei cristiani, che hanno visto in essa un anticipato riflesso della parola di Gesù all’ultimo giudizio: «Quando avete beneficato uno dei miei minimi fratelli, l’avete fatto a me». È una parola stupenda e formidabile: Gesù si mette al posto di ogni uomo sofferente; chi soccorre lui, soccorre Gesù.

Conosciamo bene questa sentenza del Signore, la quale ha la virtù d’una rivelazione: Gesù è presente nel povero, nel sofferente, nell’ignudo, nel carcerato. Dove l’umanità patisce, Gesù patisce. Dove il volto umano piange, si scopre, dietro, il volto di Cristo piangente. L’uomo minorato diventa una specie di sacramento, cioè di segno sacro di Cristo (Bossuet, Oeuvres, III, 192 e 477). Qui la mistica diventa principio della sociologia cristiana.

Ma ciò che ora c’interessa è di scoprire una duplice rappresentanza umana di Cristo, che lo attualizza nella storia e lo rende a noi, in certo modo, visibile e avvicinabile. E cioè: il Povero è rappresentante di Cristo, come S. Martino c’insegna, e con lui ogni seguace del Vangelo. Ma: il Papa non è lui pure rappresentante di Cristo? Sì; ed è il confronto fra queste due forme di rappresentanza, che ferma un istante la Nostra attenzione. A dire le cose alla buona e brevemente, possiamo concludere: il Povero e il Papa, ecco due rappresentanti di Gesù. E sorge subito la domanda: quale differenza esiste fra le due forme di rappresentanza ? È chiaro: la rappresentanza di Cristo nel Povero è universale, ogni Povero rispecchia Cristo; quella del Papa è personale. Il Povero ha, per così dire, una rappresentanza passiva; è una immagine del Signore, mentre il Papa ha una rappresentanza attiva; il Povero è segno umano del volto di Cristo, un suo riflesso, una sua immagine; Pietro invece è un vicario dell’autorità di Cristo; vive Cristo nel Povero per ricevere, vive in Pietro per dare. Gesù si dirà debitore per la misericordia usata al Povero; e Gesù si dirà Pastore, che guida, che dirige, creditore e debitore insieme, per così dire, nel ministero affidato a Pietro.

La meditazione cristiana può trovare largo pascolo in questo raffronto; e alla fine il raffronto si farà rapporto: quale rapporto esiste fra i due rappresentanti di Cristo: il Povero e Pietro? Qui è forse più difficile rispondere, a meno che non si semplifichi la risposta in questi due paragrafi: 1) il Povero e Pietro possono coincidere, possono essere la stessa persona, rivestita d’una duplice rappresentanza, della Povertà e dell’Autorità. Quella forma di filiale beneficenza, che dal secolo scorso in poi si chiama l’Obolo di S. Pietro, intende appunto onorare tale duplice aspetto che Cristo assume nel suo Vicario, successore di san Pietro. 2) E l’altro paragrafo: fra le funzioni dell’autorità pontificia, primissima è quella dell’esercizio della carità; la quale, come si sa, non è soltanto esercitata mediante le opere di misericordia, così dette, corporali, ma anche, e soprattutto, mediante quelle spirituali; e queste sono precisamente il contenuto specifico della missione benefica e salvatrice dell’Ufficio apostolico. Ma questo ci ricorda, e a Noi per primi, che, se siamo seguaci autentici di Cristo, dobbiamo avere somma premura di soccorrere i nostri fratelli nell’indigenza e nella sofferenza. Dobbiamo avere l’intelligenza dei bisogni altrui (
Ps 11,1), e con l’intelligenza la compassione, con la compassione la venerazione, con la venerazione l’ingegnosità di portarvi rimedio. Anche con nostro sacrificio, c’insegna San Martino; con superamento audace e cavalleresco di quelle prudenze economiche, che vorrebbero frenarci (e saggiamente, dal loro punto di vista, dall’andare incontro a Cristo che incrocia i nostri passi sotto le parvenze del fratello, suo e nostro, afflitto dal bisogno e dal dolore. Ricordiamo un Dottore antico: «Vidisti . . . fratrem? Vidisti Dominum tuum! Hai incontrato il fratello? Hai incontrato il tuo Signore!» (Tertulliano, De orat. 26).

Così ravvivi in noi la presente Udienza questi buoni pensieri e li renda fecondi di ottimi frutti la Nostra Apostolica Benedizione.





Mercoledì, 18 novembre 1964 - MARIA SANTISSIMA «MATER ECCLESIAE»

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Diletti Figli e Figlie!



Il saluto che oggi Noi vi diamo, ha una sua ispirazione particolare, quella delle grandi discussioni del Concilio Ecumenico, il quale concluderà alla fine di questa settimana la sua terza sessione; e, come certo saprete, la dottrina principale riguarda la divina ed umana costituzione della Chiesa, specialmente su alcuni punti, i quali devono fare oggetto, d’ora innanzi, di un’amorosa considerazione di tutti i fedeli, che hanno la fortuna di appartenere alla Chiesa e che devono farsi onore ed obbligo di averne coscienza.

Uno di questi punti riguarda il popolo di Dio, cioè l’umanità che il Signore ha voluto legare a sé mediante rapporti soprannaturali, mediante una vocazione partita da Lui, e avente per scopo di stabilire un patto, un testamento, fra Lui e quegli uomini che corrispondono alla sua chiamata. Fu così istituito dapprima un patto, un testamento con una stirpe eletta e distinta: fu l’antica alleanza, l’Antico Testamento, che costituiva il piccolo e ristretto popolo ebreo in popolo di Dio. Ma ciò non era altro che una preparazione e una figura di una nuova alleanza fra Dio e l’umanità, l’alleanza messianica del Nuovo Testamento, instaurata da Cristo, aperta a tutta l’umanità e fondata non sul sangue, non su promesse temporali, ma sulla redenzione operata da Cristo stesso e sulla parola evangelica da Lui bandita nel mondo, per formare così una famiglia universale di uomini credenti, santificati, e disposti a dare alla loro vita naturale un’impronta, un valore cristiano, e a lasciarla dirigere quasi filii obedientiae, come figli dell’obbedienza (
1P 1,14), da un’autorità pastorale, la gerarchia ecclesiastica, verso una finalità trascendente il tempo di questa vita mortale, la vita futura.

Nulla è nuovo in questa dottrina, ben nota ad ogni cattolico; quello ch’è nuovo è l’importanza, il rilievo, lo sviluppo dato dal Concilio al popolo di Dio nell’insegnamento relativo alla Chiesa. La Chiesa non è definita soltanto nel suo aspetto gerarchico, ma altresì nel suo aspetto comunitario. Le parole dell’apostolo Pietro, nella sua prima lettera alle comunità cristiane dell’Asia Minore, sono oggi da tutti ricordate e ripetute, dove definiscono i fedeli come una «stirpe eletta, un sacerdozio regale, una gente santa, un popolo riscattato, . . . che un tempo non si poteva chiamare popolo, ora invece popolo di Dio» (1P 2,9-10). La dignità dei cristiani è così riconosciuta ed esaltata. La sola appartenenza alla Chiesa conferisce al fedele un’eccellenza meravigliosa e un destino straordinario; lo dichiara «nato da Dio» (cfr. Jn 1,13), dotato della libertà dei figli di Dio (cfr. Rm 8,21), diretto dalla legge della carità e della pace, destinato al regno di Dio, che qui in terra comincia, ma che avrà in cielo la sua pienezza; e tutto questo per la comunione di vita che egli possiede, mediante la grazia, cioè l’animazione dello Spirito Santo, con Cristo.

Questa esaltazione del «popolo di Dio» nel grande disegno della dottrina della Chiesa ha un’importanza pratica straordinaria, perché mira a dare agli uomini del nostro tempo la vera concezione della vita, che tanti errori, tante ideologie, tante opinioni mirano invece a confondere e ad oscurare. Bisogna avere una concezione esatta della vita; e questa a noi è data dalla fede, e precisamente là dove essa ci ricorda la nostra vocazione cristiana come un’elevazione ad una società scelta ed amata da Dio e da Lui guidata a superiori e felici destini. La concezione che noi ci facciamo della vita influisce su ogni nostro altro giudizio di valore e su tante nostre pratiche risoluzioni. Essa orienta il nostro cammino, essa educa il nostro cuore; così che, se davvero siamo persuasi d’essere cittadini del popolo messianico, del popolo di Dio, ci riesce facile comprendere un altro capitolo di questa stupenda costituzione della Chiesa, quello che parla della vocazione universale alla santità: tutti i membri della Chiesa sono chiamati ad una perfezione, ad una fedeltà che deve santificare ogni condizione della loro vita, qualunque sia lo stato in cui praticamente essa si svolge. Anche questa considerazione non è per nulla nuova, ma innestata nel disegno grandioso del ministero della Chiesa appare meravigliosa e investe, come una luce abbagliante, la coscienza d’ogni fedele cristiano.

La dottrina della Chiesa si presenta come una esaltazione dell’umanità. E voi sapete dov’essa trova il suo vertice, nella creatura umana che possiede in sé, per privilegio divino, la pienezza della umana perfezione e che fu scelta per dare al Verbo di Dio, quando volle farsi uomo per la nostra salvezza, la nostra carne, la nostra natura, per essere cioè la Madre di Cristo - Uomo Dio -, secondo la carne, e la Madre nostra spiritualmente per la mistica unione che ci affratella a Cristo. Maria, come sappiamo, occupa una posizione singolarissima; anch’Ella è membro della Chiesa, è redenta da Cristo, è sorella nostra; ma proprio in virtù della sua elezione a Madre del Redentore dell’umanità, e in ragione della sua perfetta ed eminente rappresentanza del genere umano, essa può dirsi a buon diritto moralmente e tipicamente la Madre di tutti gli uomini, e specialmente la nostra, di noi credenti e redenti, la Madre della Chiesa, la Madre dei Fedeli.

Per questo, diletti Figli e Figlie, siamo lieti di annunciarvi che Noi termineremo questa sessione del Concilio Ecumenico, che ha delineato la dottrina della Chiesa, nella gioia di riconoscere alla Madonna il titolo che ben le compete di Madre della Chiesa «Mater Ecclesiae».

Sarà questo un titolo che ci aiuterà a celebrare Maria Santissima amorosa regina del mondo, centro materno dell’unità, pia speranza della nostra salvezza.




Mercoledì, 25 novembre 1964

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Diletti Figli e Figlie!

Noi vogliamo invitarvi, com’è Nostro costume in queste Udienze generali, a ricercare dentro di voi una delle impressioni che questo momento, questo luogo, questa scena, questo incontro col Papa suscitano certamente dentro le vostre anime. Crediamo di non sbagliare dicendo che una di tali impressioni è quella dell’attualità della Chiesa: la Chiesa è qui, la Chiesa è viva, la Chiesa è operante, sia nel segreto dei cuori fedeli, sia nella sua vasta organizzazione capillare e mondiale, sia nel merito dei grandi problemi moderni.

Voi avrete sicuramente ascoltato gli echi delle discussioni del Concilio Ecumenico, che ha testé concluso la sua terza Sessione; ebbene, avrete avvertito quanto sia vasta, quanto animata e penetrante la discussione che il Concilio ha svolto e che porterà alla fine, speriamo, nella prossima quarta Sessione, appunto intorno allo schema che tratta della Chiesa nei suoi rapporti col mondo contemporaneo; non vi è aspetto essenziale della vita umana che sfugga all’attenzione della Chiesa; essa ha occhio, ha cuore per tutto.

Ma in questa Udienza l’attualità della Chiesa si manifesta ai presenti, come di solito, sotto alcuni aspetti particolari, che danno allo spirito quasi un senso inebriante di meraviglia. Ecco, ad esempio, la scoperta della continuità storica del Papato, la quale vi presenta nella persona viva d’un uomo, piccolo e modesto fin che volete, la permanenza autentica d’una missione che parte da Cristo, la rappresentanza misteriosa e concreta di Lui, la delega tuttora valida e operante delle sue potestà. il tempo sembra annullato da questa visione di scorcio, che fa vedere Cristo nel suo Vicario.

Gli studiosi di Roma del secolo scorso, messi a contatto con l’esperienza spirituale, che voi state facendo, erano portati a riandare le reminiscenze storiche del passato e gustavano l’ebbrezza dei ricordi che all’incontro col Papa sembravano rianimarsi e riempire di arcane presenze la scena della Basilica. I figli del nostro tempo, quando afferrano questa impressione dei rapporti che legano il Papa d’oggi ai secoli passati, fino a San Pietro, fino a Cristo, si fermano piuttosto sull’ultimo anello della lunga catena, si fermano al presente, sentono l’attualità, come una vittoria sulla caducità delle cose, come una realtà con cui si può venire a contatto, oggi, come un fatto del nostro tempo, un fatto di vita incontestabile. E questo fa pensare, perché l’orientazione abituale del pensiero della gente di oggi si disinteressa delle cose passate, o sorpassate, come essa le dice, e guarda alle cose che esistono oggi e che si attendono per domani. Trovare qui la Chiesa non già semplice espressione del passato, non già residuo appena superstite dei secoli scorsi, ma vivente e operante, dicevamo, fa pensare. La Chiesa non è un museo di ricordi; è una comunità viva.



E lo stupore si fa più profondo, se bene osservate, quando qui avvertite che non solo la Chiesa non è fuori del tempo presente, ma non è nemmeno fuori dei problemi che interessano ed appassionano la nostra generazione. È sempre vera la parola di Papa Leone XIII: «La Chiesa, opera immortale di Dio misericordioso, sebbene per natura sua abbia direttamente di mira la salute delle anime e la eterna felicità del cielo, tuttavia reca tali e tanti vantaggi anche nell’ordine temporale, che più e maggiori non potrebbe, se fosse destinata direttamente e specialmente a procurare la prosperità della vita presente» («Immortale Dei», 1885).

Questa osservazione, che qui per alcuni può essere quasi una scoperta, deve confortare in voi tutti la fiducia nella Chiesa: essa non distacca dalla realtà storica e sociale, in cui uno si trova a vivere, ma piuttosto gliela fa capire questa realtà e lo aiuta a reagire verso di essa da uomo e da cristiano. Essa non restringe l’orizzonte dell’interesse umano; si dà piuttosto il caso ch’essa lo allarghi troppo tale orizzonte e metta gli animi dei suoi alunni davanti a questioni immensamente grandi, universali.

Fiducia non basta. Se l’impressione dell’attualità della Chiesa è genuina, in questa circostanza, essa darà anche la voglia di partecipare a tale attualità: conoscete la storia presente della Chiesa? conoscete i problemi della sua cultura? seguite gli sforzi ch’essa fa’ per educare gli uomini alla novità della vita cristiana (
Rm 6,4)? sapete quanti bisogni e quante sofferenze la affliggono? e ricordate che ciascuno di noi dev’essere in questo Corpo mistico un membro sano e attivo, non morto, o infermo, o inerte?

La vita della Chiesa qui mostra la sua attualità, la sua intensità; e chiama ciascuno a capirne la dignità e la fortuna, a compatirne i dolori, a promuoverne lo sviluppo e la benefica efficacia.

Noi auguriamo che a tale esperienza spirituale voi apriate i cuori e che la Nostra Benedizione li renda idonei a nuovi frutti di cristiana fedeltà.




Mercoledì, 9 dicembre 1964

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Diletti Figli e Figlie!

Voi che venite a visitarci dopo il Nostro viaggio a Bombay per assistere al Congresso Eucaristico Internazionale, colà celebrato, avete certamente negli animi e quasi sulle labbra una domanda da farci: «E l’India? che ne pensa il Papa del suo pellegrinaggio, che tanto ha fatto parlare di sé?». Curiosità legittima e filiale la vostra, alla quale per altro non possiamo dare soddisfazione, tante sono le cose, tante le impressioni, che sarebbero da esporre e da commentare.

Molto è stato scritto e divulgato dai mezzi moderni d’informazione, e molto resterebbe sempre da dire sopra questo avvenimento, che si presta a tanti rilievi: vorremmo dirvi del suo aspetto propriamente religioso, veramente sincero e magnifico; del suo aspetto storico, civile e sociale, estremamente ricco di motivi che Ci riempiono l’animo di ammirazione, di stima, di simpatia per quel popolo immenso, così religioso, così paziente, così laborioso, così aperto ad ogni moderno sviluppo; ma non è questo il momento. Fra le molte impressioni, lasciate nel Nostro spirito, una confideremo a voi, la quale fu allora vivissima, e che qui ricordata può servire per la riflessione e per la memoria di questa udienza; ed è l’impressione del significato complesso e fecondo di quella proprietà che riconosciamo nella Chiesa di Cristo, la proprietà d’essere cattolica, cioè universale, e così insito nella sua natura da diventare visibile e da costituire una delle note distintive della vera Chiesa.

La cattolicità indica la molteplicità sempre estensibile delle forme umane, che possono far parte dell’unico Corpo mistico di Cristo. È presto detto che tutti gli uomini sono chiamati alla salvezza, e che la Chiesa ha capacità indefinita d’accoglienza di tutta l’umanità entro i suoi padiglioni. Per il fatto che la cattolicità è correlativa all’unità, e questa si definisce con termini chiari ed univoci (dice S. Paolo: «Uno è il Signore, una la fede, uno il battesimo, uno Iddio e Padre di tutti» [
Ep 4,6]), facilmente siamo indotti a pensare che la cattolicità, cioè l’estensione dell’unità all’umanità viva e reale, sia uniformità; e il solo fatto di pensare che gente di diversa cultura, di diversa lingua, di diverso costume, di diversa nazionalità è chiamata a costituire un «solo Corpo e un solo spirito... in un’unica speranza» (ibid. Ep 4,3), desta in noi stupore dapprima, come per gli astanti al miracolo delle lingue il giorno di Pentecoste, e ci porta poi a scoprire innumerevoli problemi delicatissimi e difficilissimi, alla riflessione che tutta quella molteplicità va riconosciuta, rispettata, anzi promossa e vivificata.

Bisogna cioè che ci facciamo un concetto più adeguato della cattolicità della Chiesa, che abbiamo un desiderio più largo della fratellanza umana, a cui essa ci educa e ci obbliga, e che affrontiamo con maggiore coraggio apostolico le questioni relative alla presenza della Chiesa nel mondo.

Se è bello ripetere: «Qui Romae sedet, Indos scit membrum suum esse», chi sta a Roma sa che anche gli Indiani gli appartengono come membri, non è altrettanto facile stabilire i vincoli e le forme di tale appartenenza. Un dovere nasce subito, ed è quello di conoscere meglio quei popoli con cui, per ragione del Vangelo, si viene a contatto, e di riconoscere quanto di bene essi posseggono non solo per la loro storia e la loro civiltà, ma altresì per il patrimonio di valori morali ed anche religiosi, che essi posseggono e conservano; questa attitudine del cattolico rispetto agli acattolici si va ora affinando e sviluppando, sebbene anch’essa appartenga all’onesta e positiva maniera tradizionale, con cui la Chiesa ha considerato i Gentili, i pagani.

Ed è questa impressione di valori, degni d’essere onorati, che Noi abbiamo avuto avvicinando il grande Popolo Indiano; impressione che non si risolve in irenismo, o in sincretismo, ma che impone al dialogo apostolico tanta misura, tanta saggezza e tanta pazienza; e che ci ricorda come il cristianesimo non sia legato ad una sola civiltà, ma sia fatto per esprimersi secondo il genio d’ogni civiltà, purché veramente umana e aperta alla voce dello Spirito.

Concluderemo raccomandando a voi tutti d’essere veramente «cattolici», cioè fedelissimi nell’aderenza all’unità, che Cristo esige da noi nella sua Chiesa; e apertissimi alla fratellanza che la Chiesa stessa predica e promuove, proprio per essere cattolica, come Cristo la vuole.




Mercoledì, 16 dicembre 1964

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Diletti Figli e Figlie!

Chi viene a questo incontro col Papa subisce di solito una duplice impressione : quella del tempo che corre, e quella di «qualche cosa» che resta. Quella del tempo che corre, cioè quella della storia passata, la prova chiunque pensa ai secoli che precedono questo momento, con una continuità, con una connessione interiore, che lascia intravedere un disegno singolare e meraviglioso, da cui le vicende umane acquistano un ordine, un significato, un valore pensabile e riferibile a Dio, che guida, nel loro libero e disordinato svolgimento, gli avvenimenti umani. Qui qualche cosa si capisce della logica della storia. Nello stesso tempo un momento come questo dà l’impressione di toccare qualche cosa di immobile, di fermo, di impassibile: si tocca la pietra che non invecchia, che non teme l’usura degli anni, che è sempre eguale a se stessa.

Sono vere, sono esatte queste impressioni? Sì che lo sono, perché ciascuna, a suo modo, ci fa sperimentare diversi aspetti della realtà della Chiesa, che vive nel tempo e che sfida il tempo; che misura a secoli la sua vita e che non invecchia; che aderisce alla fluida contingenza delle cose umane, ma sempre portando con sé certi elementi estratemporali, che sono il segreto della sua perennità e della sua attualità: la fede, la grazia, la promessa di Cristo.

In questo quadro, che assume l’aspetto d’un grande orologio, l’orologio della storia collegata con l’eternità, si possono meglio capire le feste che segnano i giorni del nostro calendario; feste, che si riferiscono ad avvenimenti passati, e che ne rinnovano la memoria, anzi ne rievocano, in certa forma, la realtà. Il passato diventa presente; anzi si fa preparazione del futuro; ritorna messianico, diviene escatologico.

Guardate il Natale, ch’è ormai prossimo. Che cosa è il Natale, se non la commemorazione della venuta del Verbo di Dio nel mondo, e precisamente della sua Incarnazione? Ma non è solo ricordo. È un riflesso di quella luce nello specchio delle anime credenti. Il Natale si riverbera e si ripete nel cuore dei fedeli, Questo fa la Chiesa: ricorda e attualizza. Rammenta il grande avvenimento storico, passato; e lo trasporta nei cuori; lo spiritualizza, lo universalizza. Trasferisce il Presepio negli spiriti dei suoi figli; lo conserva così e lo rinnova. Anzi già fin d’ora lo proietta nel futuro, non solo assicurandone la celebrazione agli anni avvenire, ma annunciandone il compimento in una scena finale. Ci insegna cioè che l’avvento di Cristo è triplice: nella realtà storica del Vangelo; nella realtà spirituale delle anime viventi nella storia attraversata dalla salvezza di Cristo; nella realtà escatologica, ossia finale, quando Egli ritornerà glorioso e dominatore del secolo eterno.

Queste visioni sono certamente note a tutti, e sono presenti, Noi pensiamo, alle vostre menti durante questo periodo di preparazione alla soave e sublime festa del Natale. Ma Noi pensiamo anche, e auguriamo, che vi siano più chiare e più impressionanti in questo luogo ed in questo momento, in cui le cose della nostra fede sembrano e sono irradiate dall’incontro con Colui che, per mandato e per misericordia di Cristo, non certo per Suo merito o per Sua elezione, ha l’ufficio supremo d’esserne testimonio e maestro. Vi diremo perciò, a conclusione, con le parole stesse dell’Apostolo Pietro che qui ha, sulla sua tomba, la sua cattedra: «Che la prova della vostra fede pili preziosa dell’oro... sia trovata degna di lode, di gloria e di onore nella manifestazione di Gesù Cristo, che voi amate senza averlo mai visto; nel quale anche ora credete, pur senza vederlo; e credendo esulterete d’una letizia ineffabile e beata, riportando a premio della vostra fede la salvezza delle anime» (
1P 1,7-9).

Con questo voto, carissimi, tutti vi salutiamo e vi benediciamo, a tutti augurando buono, santo e felice il prossimo Natale.

Saluti

Un saluto di particolarissimo affetto e di speciale attenzione è dovuto al gruppo dei sacerdoti del Seminario «Nostra Signora di Guadalupe», presenti a questa Udienza, i quali, avendo terminato il loro corso di preparazione, si accingono a partire per l’America Latina, per quelle diocesi ove li attendono gli ampi orizzonti di un nuovo, urgente, fecondo ministero. Li accompagnano i venerabili Fratelli Giuseppe Carraro, Vescovo di Verona, Presidente della Commissione Episcopale Italiana per l’America Latina, e Alberto Castelli, Segretario della Commissione Episcopale Italiana; e sono con loro i Superiori e i condiscepoli del Seminario Veronese, ove questi si preparano a seguirli un giorno su le vie dell’apostolato in mezzo ai fratelli lontani, i quali attendono le loro mani sacerdotali, che un giorno dovranno levarsi a benedire, a consacrare, ad amministrare i Sacramenti della salvezza.

Figli dilettissimi. Il pensiero del lavoro che tutti vi aspetta, vi ha condotti a Roma per ritemprare le vostre anime a contatto con le sacre memorie del Principe degli Apostoli, e con la realtà viva della Chiesa cattolica, che qui ha il suo centro e la sua spinta evangelizzatrice; siete venuti a videre Petrum, che vi incoraggia e vi benedice per il tramite del suo umile, ma autentico Successore.

E per Noi è fonte di commossa gioia potervi rivolgere il Nostro saluto, e dirvi che il Nostro cuore è vicino al vostro, perché avete scelto una più ardua e generosa «pars hereditatis et calicis» (Ps 15,5), e dilatato le sollecitudini della vostra vocazione verso gli ampi orizzonti di regioni sterminate, già albeggianti per il raccolto, ove purtroppo si fa ancora sentire la mancanza di operai della messe. Siamo pertanto lieti di vedere la vostra schiera, già così numerosa, e di potervi ripetere di persona quell’augurio e quel compiacimento che affidammo alle onde invisibili dell’etere il giorno 8 dello scorso mese di novembre, quando si è inaugurato il vostro bel Seminario; augurio e compiacimento reso più intenso dalla consolazione di avervi qui, oggi, alla Nostra presenza. L’aver voi accolto con esemplare prontezza la voce del Signore che chiama, e aver corrisposto alle Nostre più trepide speranze, Ci dice che la Chiesa è sempre giovane, le sue energie si rinnovellano continuamente e l’avvenire le schiude il campo di sempre nuove conquiste, nella certezza della divina promessa del suo Fondatore: «Ecco io sono con voi fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).

La Nostra preghiera vi accompagna, diletti sacerdoti, ora e nei vostri primi passi in terra lontana, come invoca per tutti voi, diletti seminaristi, l’abbondanza dei lumi celesti per la vostra degna, completa, solida formazione al sacerdozio; e non dimentica altresì i vostri Superiori e quanti vi sono al fianco per aiutarvi nell’ardito cammino, in primo luogo i vostri genitori carissimi, che hanno compiuto lietamente, per il Signore, il sacrificio che a loro più costa.

La Nostra Apostolica Benedizione scenda ad avvalorare i Nostri voti, e vi ottenga ogni più eletta grazia dell’Eterno Sacerdote delle nostre anime.




Mercoledì, 23 dicembre 1964

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Diletti Figli e Figlie!

Siamo nell'imminenza del Natale. Ci disponiamo a celebrare, ancora una volta, la festa della venuta del Verbo di Dio nel mondo mediante quel fatto unico decisivo, che è stata l’Incarnazione.

Come ci disponiamo? In tanti modi, voi lo sapete, profani e religiosi. Uno li dovrebbe tutti sovrastare e comprendere, e cioè il desiderio di Dio. Ogni anno la Chiesa lo stimola e lo riaccende; come un fuoco, che ha bisogno di nuovo alimento, così il desiderio di Dio ha bisogno di riandare le ragioni profonde e vitali, che lo inseriscono nel cuore dell’uomo come un’esigenza inderogabile (chi non ricorda la celebre parola di S. Agostino: «Fecisti nos ad Te, et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in Te». Tu ci hai creati per Te, ed il nostro cuore è inquieto, finché non si riposi in Te? [Confess. 1, 1; P.L. 32, 661]). Ha bisogno di ricordare e di percorrere in qualche modo l’itinerario dell’attesa messianica: la lunga, lenta e crepuscolare vigilia messianica ha prodotto nell’Antico Testamento espressioni religiose di invocazione, di attesa, di desiderio, di speranza, le quali sono d’insuperata bellezza e nelle quali lo spirito umano, guidato dallo Spirito Santo, effonde le sue voci più profonde, più pie, più dolenti e più fiduciose. Il desiderio di Dio, che avrà il suo termine prossimo nel Cristo, riempie questo cammino spirituale e storico in modo meraviglioso; e la Chiesa, durante l’Avvento, lo fa suo per rinnovare nelle anime la tensione verso il Messia, che sarà l’Emanuele, cioè Dio con noi.

Ci si potrebbe chiedere se questo desiderio di Dio abbia ancora ragion d’essere, quando sappiamo d’aver già raggiunto in Cristo l’età messianica e d’aver già conseguito, per nostra immensa fortuna, l’incontro con Dio nella venuta di Gesù Cristo nel mondo e nelle tante grazie, che già ci mettono in comunione con Dio: sembra che noi dobbiamo piuttosto godere del suo possesso, che non aspirare al suo incontro.

Ecco: è vero che noi abbiamo la felice sorte d’essere già «figli del regno», cioè ricolmi delle benedizioni messianiche; coloro che vivono nella grazia sono già in qualche modo partecipi della divinità; ce lo insegna San Pietro: «La divina potenza di Cristo ci ha donato tutto quanto riguarda la vita e la pietà... dando a noi grandissime promesse, affinché per mezzo di queste diventiate partecipi della natura divina» (
2P 1,4). Ma bisogna ricordare che il possesso dei doni divini, a noi elargiti da Cristo, richiede un continuo sforzo di corrispondenza morale e spirituale, un continuo approfondimento, un continuo incremento verso la perfezione, «fino a tanto - dice San Paolo - che sia formato Cristo in noi» (Ga 4,19); ed ecco perché il desiderio di Dio, il desiderio di Cristo, dev’essere da noi alimentato e rinnovato continuamente, come appunto la Chiesa, con la sua pedagogia liturgica, ci obbliga e ci aiuta a fare. E dobbiamo altresì ricordare che l’avvento di Cristo nella storia e l’avvento di Cristo nelle anime preludono ad un altro suo avvento, quello finale, quello risolutivo della presente scena umana e cosmica; quello del Cristo glorioso. E anche verso questo avvento finale i nostri spiriti devono essere rivolti con un vigilante desiderio, verso quel «giorno del Signore», che sarà quello del premio, promesso, scriveva San Paolo a Timoteo, «a tutti quelli che amano la sua venuta» (2Tm 4,8).

È facile rilevare come questo ordine di pensieri sia tanto spesso assente dagli animi degli uomini del nostro tempo. Il desiderio di Dio non tiene il primo posto, il suo posto, nel cuore dei figli del secolo; il desiderio dei beni terrestri lo sostituisce; il desiderio di sé prevale sul desiderio di Dio. Ed è facile vedere come tutta la mentalità umana cambi di conseguenza; la psicologia, la moralità, l’attività umana vengono a mancare del loro superiore sostegno.

Ecco perché dobbiamo prepararci bene al Natale, riaccendendo nei nostri cuori il desiderio, la sete, l’ansia del Dio vivente, e la beata certezza di incontrare in Cristo il Dio fatto uomo.

È questa l’esortazione della Chiesa; è questa quella del Papa. Il quale la converte per voi in voto, in preghiera, in benedizione; e con questo cuore vi augura a tutti: buon Natale!




Mercoledì, 30 dicembre 1964

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Diletti Figli e Figlie!

Questa udienza è l’ultima dell’anno ormai giunto al suo termine; e questa circostanza pone anche a Noi l’obbligo d’una riflessione sopra questo tema: il tempo, il tempo che passa, il tempo che genera e divora i suoi figli; riflessione su tema, come vedete, tanto comune da sembrare banale farne menzione, e tanto difficile, da sembrare disadatto alle parole familiari di questo incontro. Ma il passaggio da un anno all’altro impone questa meditazione sull’inafferrabile natura del tempo, che altro non è per noi se non la successione dei vari momenti della nostra esistenza, tanto da coincidere col suo svolgimento, e da imprimerle l’inesorabile carattere della fugacità, della precarietà, della caducità, della brevità, ponendola fra due misteri: quello del nulla, che la precede, e quello dell’eternità successiva alla nostra morte.

Figliuoli carissimi! Ci basti dire su argomento di tanta gravità essere per noi benefico e necessario dedicarvi qualche seria riflessione, illuminata però di luce cristiana, per non fare della meditazione sul tempo un incentivo al pessimismo e alla disperazione, e uno stimolo a più ansioso e raffinato godimento dell’ora che passa. Noi ricordiamo l’impressione paurosa che Ci faceva, nei lontani anni scolastici, la nota esclamazione del fine, gaudente e angosciato poeta latino Orazio, al suo amico Postumo, tale da raggelare il cuore: «Postume, Postume, labuntur anni!» gli anni se ne vanno! Guardando il nastro del tempo che fugge, trascinando con sé la nostra vita presente, con la lucerna della sapienza cristiana, impareremo due lezioni fondamentali: a svalutare le cose che passano, e a valutare le cose che restano; lezioni queste, su cui i santi e i maestri di spirito hanno lasciato insegnamenti preziosi, molto diffusi, e sempre meritevoli di buona memoria; insegnamenti, ai quali i nostri teologi moderni, ragionando delle realtà temporali, aggiungono utili considerazioni, che ci esortano ad apprezzare, come si deve, anche le cose fuggevoli di questo mondo, purché sempre in ordine al fine ultimo della vita.

A Noi piace ricordarvi ora la parola pontificale di S. Pietro, che nella sua prima lettera, tutta imbevuta del senso effimero di questo mondo, scrive ai primi cristiani: «La fine di tutte le cose si avvicina; siate dunque prudenti e vegliate nelle preghiere» (
1P 4,7). V’è quanto basta perché Noi vi esortiamo, carissimi figli, ad avere coscienza della realtà nobile e contingente, in cui si svolge la nostra vita, per decifrare «i segni dei tempi», come li chiama Gesù (Mt 16,3), e sapere quali siano i disegni di Dio nella nostra storia e quali i nostri conseguenti doveri; e soprattutto a usare bene di questo tesoro, ch’è il tempo, seminandolo, come il solco della nostra messe futura, di opere buone.

Termineremo bene l’anno che muore pensando a queste cose, e impiegando le ultime ore dell’annata a chiudere bene i nostri conti spirituali: perdoniamo le offese e dimentichiamole, chiediamo piuttosto noi stessi perdono a Dio dei nostri peccati e del tempo sciupato, e ringraziamolo degli innumerevoli benefici ch’Egli ci ha elargiti, promettendo di farne miglior conto nel tempo che ancora ci sarà concesso di trascorrere quaggiù.

E valga la Nostra Benedizione a confermare per voi ogni Nostro voto migliore.

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(Alla Federazione degli Istituti dipendenti dall’Autorità ecclesiastica)

Accogliamo con grande considerazione i partecipanti alla XVIII Assemblea generale della carissima Federazione degli Istituti dipendenti dall’Autorità ecclesiastica.

Ben conosciamo la storia ed i meriti di questa FIDAE, conosciamo le egregie persone che la compongono e che la dirigono, conosciamo le finalità ch’essa si propone di conseguire, provvide ed urgenti tutte, conosciamo i problemi e le difficoltà, in cui versa e che oggi interessano non solo la Federazione stessa, ma la vita scolastica italiana e la Chiesa non meno, la quale non può disinteressarsi della Scuola cattolica in Italia, ché anzi ben sa quale sia la sua importanza e la sua funzione, tanto nel campo scolastico e culturale, quanto in quello dell’educazione cattolica della gioventù.

Noi vogliamo sperare che le gravi questioni riguardanti non soltanto il funzionamento, ma l’esistenza altresì delle Scuole cattoliche italiane avranno felice soluzione, per l’onore stesso di questo diletto Paese; per i vantaggi economici, pedagogici, culturali che possono derivare al Paese medesimo; per i buoni frutti risultanti dal pluralismo scolastico e da una bene intesa libertà effettiva d’insegnamento; per i rapporti di amichevole collaborazione alla causa comune dell’educazione giovanile, i quali devono esistere fra la Scuola di Stato e la Scuola cattolica dipendente dall’Autorità ecclesiastica: per la tranquillità spirituale della Nazione; e per tante altre belle ragioni, che voi conoscete e non mancate e non mancherete di illustrare per una esatta ed equa valutazione della pubblica opinione.

Ma, ad ogni modo, Noi vogliamo sostenere la vostra pesante e difficile attività con il Nostro incoraggiamento. Perseverate! Perseverate innanzi tutto cercando di fare d’ogni vostra scuola un istituto modello, non forse per le attrezzature esteriori a cui non bastano sempre i vostri mezzi, quanto per lo spirito che lo deve animare, coscienti, come siete, essere la scuola missione altissima, per la quale ogni dedizione, ogni studio, ogni amore è bene speso, e per la cura morale e spirituale, che in ciascuna delle vostre scuole deve circondare l’alunno e promuovere in lui uno sviluppo armonico e completo delle sue facoltà, in modo da favorire in lui, quanto meglio possibile, la formazione vigorosa dell’uomo e del cristiano.

Perseverate, procurando di perfezionare i rapporti spirituali fra l’educatore e l’alunno, in modo che questi sia lieto e fiero della sua scuola, e ripaghi d’amore filiale i sacrifici ch’essa prodiga per lui; procurando di perfezionare altresì i rapporti con le famiglie degli studenti, interessandole a collaborazione solidale con la vostra opera e ad integrarla con la bontà degli esempi, con la cordialità degli affetti, con la gioia comune per quanto fa buono, bravo, sano, forte il giovane, figlio ed alunno, non meno della casa che della scuola.

Perseverate onorando la Scuola italiana di ottimi risultati, sia nell’insegnamento che nella formazione morale della gioventù, dimostrando con i fatti che i vostri Istituti, anche se rappresentano quantitativamente una percentuale ormai ridotta nel loro numero e in quello dei loro allievi, meritano tuttavia stima ed appoggio per la serietà dei loro metodi e per la bontà dei loro risultati.

Perseverate parimente nello sforzo di rendere accessibili le vostre scuole anche ai figli delle famiglie meno abbienti, ai ragazzi del popolo, agli alunni dei Paesi in via di sviluppo; questa larghezza, è chiaro, vi è preclusa dalle difficoltà finanziarie, che paralizzano lo sviluppo, la libera competizione e l’allargamento democratico della Scuola cattolica. Ma la carità e lo spirito di sacrificio, che la caratterizzano, renderanno possibile anche questo prodigio, tanto conforme alle tradizioni, all’indole e alle finalità dei vostri Istituti.

Perseverate infine tenendovi uniti, studiando appassionatamente i vostri problemi, mantenendo relazioni leali e rispettose verso le Autorità scolastiche statali, interessando voi stessi e le vostre scuole ai grandi problemi spirituali e culturali del nostro tempo, amando e facendo sempre amare quella Chiesa, che dà all’opera vostra i suoi caratteri specifici e le sue esaltanti idealità.

Vi segue la Nostra riconoscenza, la Nostra fiducia, la Nostra Benedizione.

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(Al Movimento Studenti della Gioventù Femminile di Azione Cattolica)

Salutiamo con particolare interesse il Congresso Nazionale del Movimento Studenti della Gioventù Femminile di Azione Cattolica. Siamo lietissimi di accogliere una schiera così numerosa, così scelta, così promettente di anime giovanili, e di dire loro la Nostra paterna affezione, il Nostro cordiale incoraggiamento, la Nostra speciale benedizione.

Questo momento è troppo breve perché Noi diciamo quanto abbiamo in cuore per cotesto bellissimo Movimento; Ci basti confermare a chi lo promuove e lo dirige, ed alle brave figliuole che lo compongono, che Noi lo apprezziamo moltissimo. Per l’aspetto pedagogico ch’esso presenta: nessuna altra età quanto l’adolescenza - l’adolescenza specialmente d’oggi, così precocemente svegliata alla sensibilità, alla coscienza, alla scelta dei valori della vita - è altrettanto ricca di problemi; e perciò di novità, di difficoltà, di esperienze, di orientamenti, di timori e di speranze, di lacrime e di sorrisi.

Dare ad un’età come la vostra la possibilità di aprirsi in intensità e in purezza di impressioni, in sicurezza e in lucidità di giudizi, in serenità e in bontà di sentimenti, in capacità di espressioni semplici e liete, in volontà di dare alla vita un piano ideale e generoso, in spiritualità religiosa profonda e sicura, è tale compito da affascinare chiunque abbia dell’educazione il concetto dovuto, e da intimorirlo altresì, per la complessità e la delicatezza dei suoi aspetti e dei suoi processi. E il quadro che voi rappresentate si fa anche più interessante per la convergenza di due altri fattori importantissimi; e cioè, in primo luogo: cotesto aprirsi alla vita, ch’è proprio dell’adolescenza, avviene per voi nell’ambiente scolastico; circostanza questa d’incalcolabile valore, se pensiamo a quanto la formazione umana deve all’ambiente: tutto, staremmo per dire; tale è l’importanza di ciò che ci circonda per lo sviluppo della nostra personalità; e se pensiamo che la scuola è appunto l’ambiente preparato ed operante per influire direttamente, metodicamente, profondamente sugli animi di coloro che apposta lo frequentano per accogliere tale influsso e per trarne alimento ai loro spiriti, per «formarsi».

In secondo luogo, l’arte educativa, che distingue il vostro Movimento, mira a questo: che voi stesse siate collaboratrici dapprima del magistero che la famiglia, la scuola, l’associazione esercita intorno a voi; promotrici poi ed arbitre alla fine della vostra superiore e definitiva formazione, non più semplicemente recettive e passive rispetto all’azione ambientale, ma elettive ed attive rispetto agli elementi preferiti per la guida ed il nutrimento della vita personale e sociale.

Tutto ciò è estremamente bello e drammatico; e Ci piacerebbe seguire con qualche passo il vostro itinerario, per ammirare, nello specchio della vostra sempre nuova e sempre antica esperienza, quanto è bella la vita, questo capolavoro di Dio contemplato nella fase ancora limpida e fresca della sua prima fioritura; per misurare quanto l’amicizia e la conversazione sociale sia influente e spesso determinante nel dare ad un’anima la sua fisionomia, e quanto perciò le vostre associazioni siano importanti e provvidenziali; per ricordare inoltre come, ad una data ora della vita giovanile, una parola inattesa si pronunci interiormente con un misterioso richiamo rivelatore: «Se tu conoscessi il dono di Dio . . .» (Jn 4,10); e per vedere, alla fine, la maturazione della scelta che deve impegnare la vita e che non può essere se non l’amore vero, quale Cristo ha insegnato, educato, consacrato nel dono di sé, per il bene altrui, secondo la vocazione differenziata, ma sempre alta e buona, propria di ciascuna persona.

Itinerario splendido, figliuole carissime, se lo percorrete sulla traccia che il vostro Movimento vi offre. Sappiamo che avete sostato, in cotesto Congresso, alla tappa della vita comunitaria, dalla quale tanto potete ricevere e alla quale tanto potete dare, e nella quale la vostra fortuna d’appartenere alla Chiesa può darvi la gioia e l’onore di ineffabili esperienze spirituali.

Sappiamo che volete portare nella scuola la vostra serena affermazione di gioventù cosciente e credente, e che volete invitare alla fortuna e alla gioia della vostra amicizia tante vostre compagne, per dare alla vostra generazione l’animazione umana e cristiana di alte e sicure speranze. Molto bene!






Paolo VI Catechesi 11114