Paolo VI Catechesi 30365

Mercoledì delle Ceneri, 3 marzo 1965

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Diletti Figli e Figlie!

Noi non possiamo oggi, mercoledì delle Ceneri, all’inizio della sacra Quaresima, parlarvi d’altro che di questo particolare periodo dell’anno liturgico, che nel pensiero e nella disciplina della Chiesa è rivestito di grande importanza. Tutti sapete quanto si è scritto e parlato su questo tema; e, se avete la fortuna di «vivere cum Ecclesia», sentirete quanto ancora se ne parla e quanto oggi si cerca di rinnovare nei fedeli il senso spirituale proprio di questa stagione sacra.

Anzi la premura, e quasi lo sforzo, che i Pastori della Chiesa e con loro i maestri di vita religiosa mettono per rialzare ed illustrare il concetto della Quaresima, indica due cose: prima, l’interesse di coloro che nella Chiesa hanno responsabilità di guida e potestà d’iniziativa per una valutazione nuova e adeguata di questa varia e laboriosa preparazione pasquale (perché tale è la Quaresima); e seconda, la difficoltà che la gente del giorno d’oggi ha di comprendere tale disciplina ecclesiastica, che sembra aver perduto il titolo, oggi indispensabile, dell’attualità.

Che ne pensate voi? la Quaresima è ancora attuale? cioè interessante? cioè importante? cioè utile? cioè possibile?

La Quaresima ha avuto attraverso i secoli e nei diversi paesi forme diverse di attuazione, e ai nostri giorni ha perduto non poco delle sue esigenze e delle sue esplicazioni, specialmente per quanto riguarda l’osservanza ascetica, che le era caratteristica, cioè il digiuno (ridotto ora a due giorni soltanto con l’astinenza: oggi, giorno delle Ceneri, e il Venerdì Santo, ferma restando per ora la solita legge dell’astinenza, ogni venerdì). Ma non ha perduto, possiamo ben dire, la sua necessità, se è vero che la vita cristiana ha bisogno di raccoglimento, di silenzio, di meditazione, d’interiorità, di conversione e di riforma continua, di preghiera, di penitenza, di ginnastica ascetica, di senso mistico; e ancor più di risveglio della coscienza cristiana, di misericordia e di grazia di Dio, d’unione viva e generatrice con i misteri della Redenzione, con la Passione cioè e con la Risurrezione di Cristo. La vita religiosa è cosa grave, è cosa seria, è cosa difficile, è cosa meravigliosa, è cosa indispensabile: non ne possiamo, non ne dobbiamo fare a meno; e non si conquista senza particolare applicazione, senza qualche esercizio accurato e metodico, senza sforzo di rinnovamento interiore, senza ricorso, al momento decisivo, al contatto sacramentale con l’azione vivificante di Dio Padre, per Cristo, nello Spirito Santo.

Sentirete certamente parlare di tutto questo nelle predicazioni quaresimali: fatevi attenzione; fermate un istante il ritmo fuggente dei saliti pensieri profani; pensateci un po’.

Chi volesse classificare le ragioni d’interesse della Quaresima, cioè della sua attualità, potrebbe, semplificando, catalogarle in relazione ad un triplice senso, di cui l’uomo moderno, se almeno qualche po’ sensibile ai valori religiosi, è tuttora riccamente dotato. Diciamo: il senso storico, il senso morale, il senso liturgico. La Quaresima attraversa la storia della nostra civiltà: riti, usi, costumi, canti, libri, sermoni, concilii, leggi, edifici sacri, sono derivati dall’osservanza della Quaresima e ad essa rivolti; e ancora quel che resta di questa grande espressione religiosa: nel calendario, nel messale, ad esempio, dice quanto essa abbia marcato il processo storico della nostra civiltà. La Quaresima è stata una scuola, prolungata per secoli, applicata ad ogni aspetto della vita, non solo a quello religioso, per la formazione dell’uomo, per la liberazione dalle sue interiori catene di passioni e di vizi, per la sua unificazione spirituale, per la sua educazione alla bontà, alla carità, al perdono, alla pace sociale, alla riparazione del male compiuto, alla speranza d’ogni bene possibile, alla virtù sincera, alla vita nuova.

È incalcolabile il progresso morale e civile, a cui questo ricorrente e potente esercizio ascetico e spirituale ha dato, lungo i secoli dell’era cristiana, impulso e sviluppo. Un riferimento a ciò che avviene ai nostri giorni si presenta alla mente; possiamo infatti ricordare come proprio in questi ultimi anni, in ossequio ed in virtù della disciplina quaresimale, sull’esempio della Chiesa cattolica germanica, sono state promosse quelle collette, rese possibili da qualche sacrificio penitenziale, da qualche generoso «fioretto», le quali vanno ad alleviare la fame nel mondo: un’astinenza, suggerita dallo spirito della Quaresima, si traduce in valore economico, e questo diventa pane «per la fame nel mondo», per una moltitudine cioè di poveri, lontani e sconosciuti, che godono così della carità sgorgante dall’osservanza quaresimale. Ci sembra d’ascoltare l’eco d’un sermone per la Quaresima di San Leone Magno: «Laetemur in refectionibns pauperum, quos impendia nostra satiaverint»; godiamo del ristoro dei poveri, che le nostre oblazioni abbiano sfamati (Sermo 40, de Quadr. II, P.L. 54, 270). Non è questo molto bello, e non merita forse che Noi lo segnaliamo alla vostra pietà e alla vostra carità? S. Agostino, con tanti altri, ci ammonisce: «Quod detrahit temperantia voluptati, addat misericordia caritati»; ciò che la temperanza toglie al piacere, la misericordia lo destini alla carità (Sermo 208, P.L. 38, 1045).

E del senso liturgico della Quaresima che cosa diremo? Nulla, per non dir troppo poco! Esso è il grande tirocinio alla grazia del battesimo e della penitenza, è la grande pioggia fecondatrice della Parola di Dio, è la grande meditazione preparatoria alla Pasqua. In nessun altro momento dell’anno la spiritualità della Chiesa è più ricca, più commossa, più lirica, più attraente, più benefica: chi la studia la scopre stupenda; chi l’avvicina la trova profonda; chi la sperimenta la sente umana; chi la vive, sì, la gode divina.

E perciò sempre attuale, Figli carissimi, ai quali miglior augurio oggi non possiamo rivolgere, insieme alla Nostra Benedizione, che quello di buona e santa Quaresima.



Mercoledì, 17 marzo 1965

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Diletti Figli e Figlie!

La nostra conversazione familiare, in un’udienza come questa, non può non ritornare sul tema del giorno: l’applicazione della riforma liturgica alla celebrazione della santa Messa. Nostro desiderio sarebbe di chiedere a voi, se il carattere pubblico di questo incontro non lo impedisse, come facciamo in altri incontri a carattere privato, quali siano le vostre impressioni su questa grande novità. Essa merita che tutti vi facciano attenzione. Ebbene, Noi pensiamo che la vostra risposta alla Nostra domanda non sarebbe dissimile da quelle che Ci pervengono in questi giorni.

La riforma liturgica? Si possono ridurre a due categorie queste risposte. La prima categoria è quella delle risposte che notano una certa confusione, e perciò un certo fastidio: prima, dicono questi osservatori, si stava tranquilli, ciascuno poteva pregare come voleva, tutto era conosciuto circa lo svolgimento del rito; ora tutto è novità, sorpresa, cambiamento; perfino il suono del campanello al Sanctus è stato abolito; e poi quelle preghiere che non si sa dove andarle a trovare, quella comunione ricevuta stando in piedi; e la fine della Messa che termina in tronco con la benedizione; tutti che rispondono, molti che si muovono, riti e letture che si recitano ad alta voce . . .; insomma non c’è più pace e si capisce meno di prima; e così via.

Non faremo la critica di queste osservazioni, perché dovremmo mostrare come esse rivelano scarsa penetrazione del senso dei riti religiosi, e lasciano intravedere non già una vera devozione e un vero senso del significato e del valore della santa Messa, ma piuttosto una certa indolenza spirituale, che non vuole spendere qualche sforzo personale d’intelligenza e di partecipazione per meglio comprendere e meglio compiere il più sacro degli atti religiosi, a cui siamo invitati, anzi obbligati ad associarci. Ripeteremo ciò che in questi giorni da tutti i Sacerdoti pastori d’anime e da tutti i bravi maestri di religione si va ripetendo: primo, che si produca al principio qualche confusione e qualche fastidio è inevitabile; è nella natura d’una riforma pratica, oltre che spirituale, di abitudini religiose inveterate e piamente osservate, produrre un po’ di sommovimento, non sempre a tutti piacevole; ma, secondo, una qualche spiegazione, una qualche preparazione, una qualche premurosa assistenza tolgono presto le incertezze e danno subito il senso ed il gusto d’un nuovo ordine. Perché, terzo, non si deve credere che dopo qualche tempo si ritornerà quieti e devoti o pigri, come prima; no, il nuovo ordine dovrà essere diverso, e dovrà impedire e scuotere la passività dei fedeli presenti alla santa Messa; prima bastava assistere, ora occorre partecipare; prima bastava la presenza, ora occorrono l’attenzione e l’azione; prima qualcuno poteva sonnecchiare e forse chiacchierare; ora no, deve ascoltare e pregare. Speriamo che presto celebranti e fedeli possano avere i nuovi libri liturgici e che questi rispecchino anche nella nuova forma, sia letterale che tipografica, la dignità di quelli precedenti. L’assemblea diventa viva ed operante; intervenire vuol dire lasciare che l’anima entri in attività, di attenzione, di colloquio, di canto, di azione. L’armonia d’un atto comunitario, compiuto non solo col gesto esteriore, ma con il movimento interiore del sentimento di fede e di pietà, imprime al rito una forza e una bellezza particolari: esso diventa coro, diventa concerto, diventa ritmo d’una immensa ala volante verso le altezze del mistero e del gaudio divino.

La seconda categoria dei commenti che a Noi giungono circa le prime celebrazioni della nuova Liturgia, è invece quella degli entusiasmi e delle lodi. Chi dice: finalmente si può capire e seguire la complicata e misteriosa cerimonia; finalmente ci si prende gusto; finalmente il Sacerdote parla ai fedeli, e si vede che agisce con loro e per loro. Abbiamo testimonianze commoventi, di gente del popolo, di ragazzi e di giovani, di critici e di osservatori, di persone pie e desiderose di fervore e di preghiera, di uomini di lunga e grave esperienza e di alta cultura. Sono testimonianze positive. Un vecchio e distintissimo signore, di grande animo, e di finissima, e perciò sempre insoddisfatta, spiritualità, si sentiva obbligato, al termine della prima celebrazione della nuova Liturgia, a presentarsi al celebrante per dirgli candidamente la sua felicità per aver finalmente partecipato, forse per la prima volta in vita sua, in pienezza spirituale al santo sacrificio.

Può darsi che questa ammirazione e questa specie di santa eccitazione si calmino e si distendano presto in una nuova tranquilla consuetudine. A che cosa non si abitua l’uomo? Ma è da credere che non verrà meno l’avvertenza della intensità religiosa che la nuova forma del rito reclama; e con essa la coscienza di dover compiere simultaneamente due atti spirituali: uno di vera e personale partecipazione al rito, con quanto di essenzialmente religioso ciò può comportare; l’altro di comunione con l’assemblea dei fedeli, con la «ecclesia»; atti che tendono il primo all’amor di Dio; all’amore del prossimo il secondo. Ecco il Vangelo della carità che va attuandosi nelle anime del nostro tempo: è veramente cosa bella, nuova, grande, piena di luce e di speranza.

Ma avete compreso, carissimi Figli e Figlie: questa novità liturgica, questa rinascita spirituale, non può avvenire senza la vostra volonterosa e seria partecipazione. Tanto Ci preme questa vostra corrispondenza che, come vedete, ne facciamo tema di questa Nostra parola; e nella fiducia che voi davvero le facciate buona accoglienza, Noi vi promettiamo tante e tante grazie del Signore, che appunto fin d’ora la Nostra Apostolica Benedizione vuole a ciascuno di voi assicurare.



Mercoledì, 24 marzo 1965

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Diletti Figli e Figlie!

Oggi il nostro pensiero va al Congresso Mariologico e Mariano, che in questi giorni si sta celebrando a Santo Domingo, sotto la Presidenza del Nostro Cardinale Legato, l’Arcivescovo in Santiago del Cile, e con l’intervento di altri Cardinali, Vescovi, Religiosi, Teologi e fedeli da varie parti del mondo, specialmente dalle Americhe, e anche dall’Europa e pure da Roma. Questo avvenimento religioso internazionale in onore di Maria Santissima interessa grandemente l’animo Nostro, come potete bene immaginare, e Ci suggerisce d’invitare la vostra adesione in questa udienza, nella quale, come sempre, Nostra intenzione è quella di associare i fedeli ed i visitatori, che vi partecipano, ai Nostri pensieri per fare di questo incontro un momento di comunione ecclesiale e spirituale. A voi certo non dispiace essere ora a Noi uniti nel ricordo e nella venerazione della Madonna Santissima.

Dunque, a Santo Domingo in questi giorni il mondo cattolico, con la presenza altresì di alcuni Fratelli cristiani separati, concentra il suo pensiero e la sua pietà su Maria, e la contempla nel quadro riassuntivo della sua storia, dei suoi misteri, della sua missione; Maria, diciamo, che il popolo ebraico, in virtù della sua elezione messianica, ha avuto la somma fortuna d’avere per figlia; Maria, che a buon diritto fu proclamata la benedetta fra tutte le donne; Maria, ch’ebbe Ella stessa l’intuito profetico d’essere chiamata beata da tutte le generazioni; Maria, la elettissima fra tutte le creature per pienezza di grazia e la santissima per l’innocenza immacolata e per la corrispondenza volontaria e totale al volere di Dio: Maria, ecco il punto focale del quadro, la Madre di Cristo, fatto questo d’incommensurabile importanza, che le conferisce il titolo sommo di Madre di Dio e quello risultante di Madre dei credenti, di Madre nostra; Maria, in cui si realizza in modo perfetto quanto Cristo ha elargito e promesso all’umanità redenta, d’essere la prima a partecipare alla sua opera di salvezza e ai suoi meriti e d’essere fra tutti perciò membro primo e privilegiato del Corpo mistico, tanto da riflettere in sé l’intera figura della Chiesa, come tipo e modello; Maria, dicevamo, è, in occasione di ,questo duplice Congresso, l’oggetto dello studio più attento e della devozione più fervorosa.

Dobbiamo godere di questo avvenimento, oltre che per l’onore che sale alla Vergine, per alcune circostanze, le quali lo possono rendere proficuo anche per noi, che non abbiamo avuto la fortuna di parteciparvi di persona.

E cioè: questo duplice Congresso in onore della Madonna è celebrato nel clima, come si dice, del Concilio ecumenico; cioè ne raccoglie e ne riflette lo spirito, ne studia e ne divulga la dottrina. E ciò viene molto a proposito dopo la promulgazione della Costituzione sulla Chiesa, Costituzione che, com’è noto, è stata discussa nelle tre Sessioni del Concilio e finalmente approvata nella terza, e che, quasi a corona della sua splendida costruzione dottrinale, termina all’ultimo capitolo delineando sinteticamente, ma magnificamente l’insegnamento cattolico circa la beata Vergine Madre di Dio nel mistero di Cristo e della Chiesa. Il Congresso perciò darà alta testimonianza alla verità e alla bellezza del pensiero e del culto cattolico su Maria santissima, con l’encomiabile intenzione di riaffermare la dottrina mariana sotto i due aspetti, che il Concilio ha voluto considerare e mettere in evidenza: l’aspetto cristocentrico e l’aspetto ecclesiologico del dogma e del culto che riguardano la Madonna.

E questo il Congresso mariologico ha fatto esponendo ed esplorando le parole della Sacra Scrittura relative a Maria Santissima, offrendo così un’ottima apologia circa la legittimità, anzi l’obbligo della specialissima venerazione che la Chiesa cattolica tributa alla Madre di Cristo, e insinuando forse un affettuoso invito ai Fratelli separati, timorosi che il nostro culto a Maria detragga alla prerogativa di Cristo d’essere l’unico Salvatore e mediatore, a voler riconsiderare quale posto il Signore abbia assegnato a Maria, su la testimonianza della Sacra Scrittura, nell’economia della Redenzione.

Il Congresso mariano, poi, che s’intreccia e succede a quello mariologico, darà giusto risalto al titolo che Noi abbiamo riconosciuto a Maria, quello di Madre della Chiesa, titolo, come si sa, né nuovo, né indebito, come quello che risulta dal fatto che Ella, come dice S. Agostino, «cooperata est caritate, ut fideles in Christo nascerentur» cooperò con la sua carità alla nascita dei fedeli in Cristo (De Sancta Virginitate, VI; P.L. 40, 399).

Tutto questo ci induce non solo a ravvivare la nostra filiale e fervorosa devozione a Maria, ma a modellarla altresì su la vera dottrina e ad inserirla, da un lato, nella nostra adesione a Cristo Signore, a congiungerla, dall’altro, con la fedeltà che dobbiamo alla santa Chiesa.

Sia il nostro culto alla Vergine e sorgente e segno di questa autenticità cristiana e cattolica; sarà allora davvero fonte di grazia, di gaudio e di fiducia; come Noi auguriamo a voi, diletti Figli e Figlie, e illustri Visitatori, con la Nostra Benedizione Apostolica.



Mercoledì, 31 marzo 1965

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Diletti Figli e Figlie!

Queste udienze generali Ci presentano un quadro d’insieme, che Ci fa sempre pensare e sempre Ci commuove, non solo per la moltitudine delle persone accorse attorno all’umile Nostra persona, ma per la varietà altresì dei gruppi che compongono questa assemblea, e che, se bene comprendiamo i loro sentimenti, sono lieti d’essere folla, d’essere popolo raccolto in un solo complesso e in un solo sentimento, e forse ancor più lieti d’essere di diversa origine, di diversa lingua, di diversa età, di diversa cultura; e di sentirsi insieme, come se si fossero sempre conosciuti. Non sarà facile che un simile incontro si riproduca; capiterà a tutti voi certamente d’essere in mezzo a masse di gente varia e disparata e tenuta insieme da particolari contingenze; di viaggio, di spettacoli, di affari, di comizio, eccetera; ma ciò avverrà senza che una profonda e fraterna unità di sentimenti si realizzi in quelle riunioni, spesso più esteriori che interiori; talvolta riunite dagli stessi contrasti che le dividono; in chiesa certo l’assemblea dei fedeli assume una unità spirituale meravigliosa, dove «unum corpus multi sumus», i molti formano un solo corpo (
1Co 10,17); ma di solito la comunità orante possiede già una certa omogeneità e una certa abituale coesione; qui invece la riunione trova la sua interiore armonia soltanto per la stessa fede e per la stessa carità, che alla presenza del Papa acquistano, forse come raramente altrove, la loro espressione di unità, non solo occasionale, ma ecclesiale e spirituale.

Ora è proprio questa unità interiore della Chiesa che Noi vogliamo, questa volta, fare a voi notare, come uno dei principii costitutivi della Chiesa - essa non può non essere intrinsecamente unita -, che la definisce, che la dimostra animata da un influsso superiore, dallo Spirito Santo, che le conferisce questa sorprendente capacità, di mettere insieme gli uomini più disparati rispettando, anzi valorizzando le loro specifiche caratteristiche purché positive, cioè veramente umane, la capacità cioè d’essere cattolica, d’essere universale. Non solo. L’unità non è soltanto una prerogativa della Chiesa cattolica; è un dovere, una legge, un impegno. Cioè l’unità della Chiesa dev’essere ricevuta e riconosciuta da tutti a da ciascun membro della Chiesa, e da tutti e da ciascuno dev’essere promossa, amata, difesa. Non basta dirsi cattolici; bisogna essere effettivamente uniti. I figli fedeli della Chiesa devono essere i costruttori dell’unità concreta della sua compagine sociale, i seguaci della sua spiritualità comunitaria. Maestro Tommaso insegna che l’unità della Chiesa si deve considerare sotto due aspetti: il primo, nella connessione dei membri della Chiesa fra loro, nell’unità di comunione; il secondo nel riferimento di tutti i membri della Chiesa stessa all’unico Capo, che è Cristo, di cui il Papa fa qui in terra le veci, nell’unità di convergenza (II-IIae, 39, 1). La promozione di questo duplice criterio unificatore è uno dei grandi doveri del cattolico; e questo diciamo perché voi stessi, a ricordo di questa udienza, siate sempre gelosi e zelanti cultori dell’intima unità della nostra santa Chiesa.

E forse v’è oggi di ciò particolare bisogno. Tanto si parla ora dell’unità da ricomporre con i Fratelli separati; e sta bene; è questa una meritevolissima impresa, al cui progresso dobbiamo tutti collaborare con umiltà, con tenacia e con fiducia; ma non si deve da noi trascurare il dovere di operare tanto di più per l’unità interna della Chiesa, tanto necessaria per la sua vitalità spirituale e apostolica. Come daremo ai Fratelli separati l’esempio dell’unità, come ne offriremo loro il dono inestimabile, se noi stessi cattolici non la viviamo nella fedeltà e nella pienezza, ch’essa richiede? Non sempre riceviamo buone notizie circa la fedeltà dei cattolici al dovere dell’unità interiore del Corpo ecclesiastico. Non Ci riferiamo, in questo momento, alle raccomandazioni sovente ripetute in favore dell’unità operativa dei cattolici, sempre reclamata per la difesa e l’affermazione dei loro principii e dei loro diritti nel campo civile; Ci riferiamo piuttosto all’obbligo per tutti urgente di alimentare quel senso di solidarietà, di amicizia, di mutua comprensione, di rispetto al patrimonio comune di dottrine e di costumi, di obbedienza e univocità di fede, che deve distinguere il cattolicesimo; esso ne costituisce la forza e la bellezza, e ne dimostra l’autenticità realizzando in questo spirito di concordia e di amore la parola di Gesù: «Sarete da tutti riconosciuti quali miei discepoli, se sarete stretti da vicendevole dilezione» (Jn 13,35).

Che dovremmo dire di quelli che invece non altro contributo sembra sappiano dare alla vita cattolica che quello d’una critica amara, dissolutrice e sistematica? di coloro che mettono in dubbio o negano la validità dell’insegnamento tradizionale della Chiesa per inventare nuove e insostenibili teologie? di quelli che sembra abbiano gusto a creare correnti l’una all’altra contraria, a seminare sospetti, a negare all’autorità fiducia e docilità, a rivendicare autonomie prive di fondamento e di saggezza? o di coloro che per essere moderni trovano tutto bello, imitabile, e sostenibile ciò che vedono nel campo altrui, e tutto insopportabile e discutibile e sorpassato ciò che si trova nel campo nostro?

Non vogliamo certo censurare il processo di purificazione e di rinnovamento, che ora travaglia e rigenera la Chiesa, e che essa per prima reclama e promuove; vogliamo soltanto invitare tutti quanti sentono la dignità e la responsabilità del nome cattolico ad amare fortemente, profondamente il mistero della sua interiore unità, a venerarlo nella parola e nell’opera per dare alla Chiesa il gaudio d’essere quello che è, magnificamente una e per accrescere lo splendore, che da ciò le deriva per l’illuminazione del mondo. Non è, credetelo, questo uno spirito chiuso, statico, egoista; non è spirito di «ghetto», come oggi si dice; è lo spirito genuino di Cristo, trasfuso nella sua Chiesa; ed è, per chi ha occhio per vedere, un fenomeno di sovrana, spirituale bellezza;. ce lo ricorda S. Agostino, ammonendoci come «omnis . . . pulchritudinis forma unitas sit»; il segreto della bellezza è l’unità (Ep 18 P.L. Ep 33,85).



Mercoledì, 7 aprile 1965

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Diletti Figli e Figlie!

La vista della vostra moltitudine, che ogni settimana Ci offre il dono della sua sempre nuova e fors’anche sempre crescente presenza, Ci ricorda il bel capitolo secondo della Costituzione dogmatica sulla Chiesa, testé promulgata dal Concilio Ecumenico, dove parla del Popolo di Dio.

A questo Ci richiama il fatto che voi siete molti, e più siete, e più gode il Nostro animo, non solo per lo spettacolo, sempre gradito e sempre impressionante d’un’assemblea numerosa e concorde, ma per l’immagine spirituale e reale che Ci viene offerta della Chiesa, la quale altro fisicamente non è, se non una moltitudine convocata e riunita nel nome di Cristo, una folla, una gente, una società, a cui tutti possono appartenere, ed a cui tutti sono chiamati; dove tutti e ciascuno hanno un loro posto distinto, un riconoscimento personalissimo, una vocazione loro propria, una missione insostituibile, come ogni singola tessera in un mosaico. La moltitudine non toglie il valore d’ogni singola persona, che compone il Popolo di Dio; così che la moltitudine nella Chiesa non affoga la singolarità, specifica e irriproducibile, del singolo fedele, ma la assume e la onora e la esalta; e la rende idonea a ricevere i doni spirituali della comunità, e a dare i propri alla comunità stessa, come c’insegnò il Principe degli Apostoli, nella sua prima Lettera: «Unusquisque sicut accepit gratiam in alterutrum administrantes; sicut, boni dispensatores multiformis gratiae Dei; da buoni amministratori della multiforme grazia di Dio, ognuno di voi ponga al servizio degli altri il dono ricevuto» (
1P 4,10).

Così la moltitudine, che con le sue difficoltà quantitative e materiali Ci impedisce di avvicinare ciascuno di voi, è tuttavia per Noi grande letizia, Ci obbliga alla riconoscenza e all’affezione, Ci ravviva nel cuore quella simpatia, quella carità, che Gesù, come leggiamo nel Vangelo, ebbe per le folle che lo seguivano, per il popolo. Voi Ci rinnovate l’esperienza sensibile del mistero della Chiesa, Ci fate pensare all’intera umanità, che dalla Chiesa riceve o attende salvezza, Ci rinnovate quella riflessione, amorosa e tormentosa, che Noi dobbiamo avere del «mondo», sia che per mondo s’intenda l’intera famiglia umana, sia che per mondo si alluda a coloro che resistono alla vocazione cristiana; e Ci fate sperare.

Sì, sperare. È la grande consolazione che voi Ci portate in questi incontri, tanto brevi, ma tanto pieni di significato e di valore spirituale. Sperare, innanzi tutto, che voi, ciascuno di voi qui presenti, siate e sarete sempre figli fedeli della santa Chiesa. Non vi basti quest’ora di presenza e di devozione alla Tomba e alla Cattedra di San Pietro; tutta la vostra vita sia animata da un sentimento, da un proposito di cosciente fedeltà a Cristo, vivente ed operante nella sua Chiesa.

E la Nostra speranza cresce fino alla gioia, se Noi concediamo a Noi stessi la visione fantastica di ciò e di chi voi, senza forse saperlo, rappresentate. E non è fantasia vana, se ricordiamo che voi siete Popolo di Dio, e che dietro ciascuno di voi è lecito ed è bello immaginare una schiera innumerevole di cristiani rivestiti dalle vostre medesime sembianze umane. Piace a Noi, in questo momento, ravvisare in ciascuno di voi il rappresentante simbolico della sua categoria: vediamo dietro ogni fanciullo presente le file interminabili dei fanciulli delle nostre famiglie cristiane e delle nostre scuole, tutta l’infanzia innocente e lieta che porta ancora con sé la fragranza battesimale; vediamo dietro ogni giovane le schiere degli adolescenti e dei giovani, che, studiando, lavorando, pregando, entrano nella vita e, forti della santa Cresima ricevuta, sono contenti e fieri di dirsi cristiani; vediamo a fianco delle persone adulte la corona dei loro familiari, stretti nei rispettivi focolari cristiani da ineffabili affetti, forti e sacri; vediamo le famiglie buone, oneste, laboriose, religiose, che celebrano nella fedeltà e nel coraggio della quotidiana fatica la legge divina dell’amore e della vita; vediamo nei sacerdoti e nei religiosi presenti le loro chiese, le loro case, le loro opere, le loro comunità, tutte rivolte al servizio di Dio e del prossimo, tutte illuminate dalla luce-guida del Vangelo. E poi i sofferenti, e con loro appare al Nostro sguardo l’esercito dei malati buoni e pii, che trasformano i loro dolori, e le loro prove in prezzo redentore per sé, per la Chiesa, per il mondo. Vediamo anche i soldati che assistono a questo raduno spirituale, e con loro tutti quanti, militari o civili, compiono con dedizione e con nobiltà di sentimenti il loro dovere a servizio della società nazionale. Vediamo cioè quelli che chiamiamo «buoni», e sono per fortuna senza numero, gli onesti, i fedeli, i cristiani, i cattolici, e fra questi i nostri laici militanti. Quale panorama umano meraviglioso! Quale città di Dio, frammista alla città terrestre! Quale giardino fiorito per virtù della rugiada misteriosa dello Spirito Santo; quale Popolo di Dio!

Ebbene, siate benedetti voi, figli e figlie qui presenti, che di questa visione di onestà, di bellezza morale, di santità Ci date memoria ed esperienza! Siate benedetti voi, che raccogliete la parola di Cristo, della quale Noi siamo messaggeri e custodi, che Ci comprendete, che Ci seguite, che insegnate nella pratica della virtù ciò che Noi vi insegniamo nella dottrina della verità! Siate benedetti voi, che appartenete alla «comunione dei santi» e per essa lottate e soffrite, pregate e gioite. Siate benedetti voi, figli fedeli e forti della santa Chiesa, che con la vostra coerenza, con la vostra adesione, con la vostra testimonianza, col vostro apostolato medicate le ferite della Chiesa stessa, consolate i suoi dolori, corroborate le sue speranze, irradiate la sua bellezza; siate benedetti!

Popolo di Dio! con i vostri Pastori il Papa è con voi, e con voi cammina verso la Patria eterna, ammirandovi, confortandovi, benedicendovi!



Mercoledì, 14 aprile 1965

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Diletti Figli e Figlie!

Quest'oggi Noi siamo lieti di accogliere la vostra visita con l’augurio di «buona Pasqua». Questo augurio, sulle Nostre labbra, non può essere un’espressione puramente convenzionale e sentimentale. È un augurio che nasce dall’essenza e dalla finalità del Nostro ministero: a che cosa serve infatti il Nostro ministero, se non a ricordare, a rinnovare, a comunicare la Redenzione di nostro Signore Gesù Cristo, la quale ha nella celebrazione della Pasqua la sua rievocazione, non puramente rituale e commemorativa, ma continuativa, estensiva e comunicativa? La festa di Pasqua è la pulsazione della vita di Cristo nella compagine della Chiesa. E il ministero sacerdotale è il veicolo umano, è lo strumento vivo, che perpetua e propaga nel tempo e nel mondo il mistero di salvezza, operato da Cristo mediante la sua Passione e la sua Risurrezione. Se così è, quale augurio può meglio esprimere la Nostra missione pontificale, che quello della «buona Pasqua», rivolto a fedeli che, sia pure per i brevi momenti di questa udienza, sono entrati nel cerchio immediato e sensibile della Nostra conversazione spirituale? Quale augurio può meglio recare a voi i favori divini, che Cristo ha posti nelle Nostre mani, di quello che vi annuncia il grande avvenimento pasquale, e che nell’umile, ma affettuoso servizio della Nostra carità irradia lo splendore della carità di Cristo per le vostre anime?

Così, questo augurio pasquale, diletti Figli, non vi può lasciare indifferenti, o appena sensibili, come si trattasse d’un semplice saluto qualsiasi, d’un’abituale espressione di cortesia. L’augurio, che si fa annuncio del mistero pasquale, tende a entrare nei vostri spiriti, come una parola sorprendente e viva, che si dirige al fondo delle coscienze, per svegliarle, per commuoverle, per invitarle ad una risposta meravigliata, ad una comunione fiduciosa, ad una specie di concelebrazione del mistero stesso. Questo annuncio penetra come una fulgurazione, un lampo nei cuori, quasi per obbligare gli occhi interiori del pensiero e del sentimento ad aprirsi e per inondare di vigore nuovo e di visioni nuove il senso che ciascuno ha della propria vita. È la forza, è la letizia, è la grazia che entra nell’anima a chi ascolta umile e fedele l’annuncio pasquale, e le dà non solo l’impressione, ma altresì il segreto carisma del rinnovamento, del ritrovamento in Cristo risorto di due termini spesso per noi oscuri, tormentosi e staccati, resi improvvisamente chiari e congiunti: l’uomo e Dio; con quanto di luce, di gioia, di speranza può accompagnare una simile scoperta. Ricordate i due discepoli che, andando tristi e sfiduciati, nel tramonto, verso Emmaus, sono accompagnati dal misterioso viandante, che parla loro, ricordando le Scritture, del dramma del Messia doloroso e glorioso? «Non ci ardeva forse - essi commentano poi - il cuore nel petto, mentre per istrada Egli ci parlava e ci spiegava le Scritture?» (
Lc 24,32).

Questo Nostro discorso pasquale non è diverso da quello che ogni ministro della parola evangelica vi può fare, anzi ogni fratello, che si fa testimonio della Risurrezione di Cristo. A Noi piace sempre ricordare il saluto che i buoni cristiani si scambiano al mattino del grande giorno della Risurrezione di Cristo: «È Pasqua!»; saluto che nelle Chiese orientali, spesso accompagnato dal bacio rituale, ancora è segno di riconciliazione fraterna e di fede comune: «Christós anesté», Cristo è risorto, dice l’uno; «alethós anesté», è risorto davvero, risponde l’altro. Gioia e pace diventano i doni spirituali della festa beata.

Discorso non diverso il Nostro, dicevamo, perché conforme a quello che circola in tutta la comunità del popolo di Dio. Ma discorso che può per voi acquistare un accento più autorevole e più vivo per essere pronunciato dalle Nostre labbra, a cui è dato da Cristo un incarico speciale e superiore di testimonianza: testes miihi eritis; voi, disse Cristo agli Apostoli, mi sarete testimoni (Ac 1,8); e discorso più pressante e attuale, per essere l’eco della voce recente del Concilio Ecumenico.

Il quale, come sapete, ha ribadito l’insegnamento che mostra il mistero pasquale essere all’origine e al centro del culto cattolico (cfr. Const. De Sacra Liturgia, 106), e che ripete più volte la condizione, semplicissima ma inderogabile, affinché l’ordinamento dei rapporti stabiliti dalla liturgia tra le nostre anime e Dio, vero e sublime in se stesso, sia vero ed efficace per tutti e per ciascuno di noi: la condizione è la partecipazione viva e personale a tale ordinamento; e ora possiamo dire: al mistero pasquale. La luce è illuminante e benefica solo per chi apre gli occhi ai suoi raggi; il pane è alimento vitale solo per chi effettivamente di esso si nutre.

La partecipazione, ecco ciò che può rendere efficace il Nostro augurio di buona Pasqua. La partecipazione nella fede e nel pentimento ai Sacramenti che la Pasqua ci prodiga; e la partecipazione nella devozione e nell’intelligenza al meraviglioso dramma della Redenzione che i riti della Settimana Santa dispiegano in ogni comunità cattolica del mondo, e qui a Roma con rinnovato fervore, per il popolo credente e fedele dell’Urbe, di cui voi, pellegrini e visitatori, siete in questi giorni cittadini graditi.

Possa la Nostra Benedizione rendere valido l’augurio, che nel nome di Cristo vi ripetiamo: «buona Pasqua».

Il Santo Padre, rivolgendosi in modo speciale ai pellegrini dell’estero, riassume i Suoi, voti e la Sua esortazione in francese, inglese, tedesco e spagnuolo, salutato ad ogni brano, da vive, riconoscenti acclamazioni.

All’inizio del saluto in lingua francese, il Santo Padre rivolge uno speciale Discorso al gruppo delle ex alunne della Congregazione Romana di S. Domenico. Lo riportiamo.

Chères filles, anciennes élèves des religieuses de la Congrégation romaine de Saint Dominique,

Il Nous est bien agréable de vous souhaiter la bienvenue, à l’occasion de votre premier Congrès général, qui réunit pendant quelques jours à Rome des délégations représentant les anciennes élèves des pensionnats dirigés par les Soeurs de la Congrégation romaine de Saint Dominique.

En plus de la joie de vous retrouver ensemble fraternellement avec vos compagnes et vos éducatrices, et de découvrir avec émotion les richesses de la Rome antique et chrétienne, vous avez voulu faire de ces journées romaines, selon la devise de votre Congrès, une recherche commune de l’unité, de la vérité, et de la charité. Noble but, bien digne de susciter l’enthousiasme de vos coeurs. Puissiez-vous repartir dans vos foyers, et dans vos pays respectifs, avec un amour accru de l’unité, de la vérité, et de la charité. Vous serez ainsi de dignes filles de ces éducatrices dont vous avez tant reçu, et vous porterez autour de vous le convaincant témoignage de catholiques profondément enracinées dans la vérité de la foi, vivant dans l’unité de l’Eglise, et rayonnant la charité du Christ.

C’est là Notre voeu le plus cher. Et, dans ces sentiments, Nous invoquons de grand coeur sur les religieuses de la Congrégation romaine de Saint Dominique et leur tache d’éducatrices, sur leurs anciennes élèves réunies à Rome et sur tous ceux et celles qui leur sont chères, l’abondance des divines grâces en gage desquelles Nous donnons Notre paternelle Bénédiction Apostolique.




Paolo VI Catechesi 30365