Paolo VI Catechesi 21465

Mercoledì, 21 aprile 1965

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Diletti Figli e Figlie!

Questa udienza generale Ci riempie di letizia per il vostro numero, d’interesse per la diversità delle vostre provenienze e dei vostri gruppi, di affezione e di auguri per il bene che Noi vi vogliamo nel Signore, al Quale chiediamo che ricolmi le vostre anime di grazie spirituali e di salutari ricordi. È infatti Nostro vivissimo voto che questa udienza costituisca per voi non soltanto un momento singolare di esteriore curiosità, ma altresì, e soprattutto, un momento di felici impressioni e di esatte ed autentiche osservazioni del quadro che vi circonda; vogliamo dire dell’incontro col Papa, sulla Tomba e nella Basilica di San Pietro, in unione con migliaia di persone forestiere e sconosciute, che qui, più che altrove, godono di sentirsi fuse in una incomparabile fratellanza di fede e di preghiera.

Perché, vedete, chi viaggia è sempre esposto al pericolo di fermare l’attenzione sull’aspetto esteriore dei luoghi e delle scene, che vede forse per la prima e per l’unica volta. L’impressione sensibile e fugace del viaggiatore, specialmente se va girando con l’intenzione di svago e di diletto, e si contenta di guardare ogni cosa dal di fuori, superficialmente, e di giudicare ogni cosa che vede secondo i criteri improvvisati ed i gusti soggettivi, può prevalere su la visione intelligente e reale delle cose osservate. E questo pericolo di fermare lo sguardo sullo schermo puramente immediato e superficiale dell’ambiente circostante può essere proprio più grande, dove le immagini osservate sono più belle, più solenni, più curiose, più nuove, come appunto avviene a Roma ed avviene in questa Basilica stessa.

Non è facile viaggiare e capire il valore e il senso di ciò che si vede. Non è facile farsi un concetto giusto del quadro artistico, storico, religioso, che vi circonda, se oltre le grandiose e meravigliose apparenze non si penetra nel loro significato profondo e genuino. I pellegrini, cioè quelli che viaggiano con la lucerna della fede a loro guida, sono più idonei degli altri visitatori a comprendere lo spirito, cioè la verità e la bellezza di questo quadro medesimo. Se Noi chiedessimo a ciascuno di voi: che impressione vi fa questa visita a San Pietro? Di grandezza, di potenza, di gloria, di enfasi artistica e sovrana? Se così fosse, Noi dovremmo dire: guardate meglio nel significato, nell’intenzione di ciò che vedete; e scoprirete un significato, un’intenzione di culto, di celebrazione spirituale, di glorificazione, che dall’umile Pescatore di Galilea sale. all’Apostolo Pietro destinato a guidare il gregge di Cristo, sale a Cristo, a Lui e a Dio; per il cui onore ogni opera umana non è mai grande abbastanza. Qui è uno sforzo massimo di dare gloria a Cristo e a Dio; e se scoprite questo sforzo, ricordatelo, e comprendete come esso voglia esprimere in modo superlativo il proposito della Chiesa cattolica, del Papato, di dare a Dio, a Cristo, il primo posto, la somma adorazione, l’offerta totale di ciò che l’uomo è e può fare. Qui è una fede che si esteriorizza, non perché manchi d’interiorità, o perché ignori che il vero regno della fede è il cuore, è la coscienza, ma perché vuole dare l’immagine e quasi l’impressione sensibile di due aspetti, che qui, a Roma, sul Sepolcro di Pietro, qualificano sommamente la fede cattolica: la sua fermezza, la sua testimonianza.

Oh! se voi, carissimi figli e figlie, ritornando alle vostre case, riportaste nel cuore questa duplice impressione romana: la fermezza nella fede, la sua indiscutibile autorità derivante dalla Parola di Cristo, la sua stabilità storica, la sua coerenza interiore, la sua capacità a fare da base all’edificio della vita, la sua infrangibile solidità che le potenze avverse non potranno né scuotere, né demolire; ed insieme l’impressione della fecondità della fede, della sua forza espansiva, della sua attitudine ad essere il messaggio di salvezza per chiunque sia uomo, la sua missione apostolica, in una parola, - se voi, diciamo, aveste a recare con voi, partendo da questo centro, non solo amministrativo, ma sacramentale e vitale della Chiesa, l’impressione della verità e della carità, lasciate in eredità da Cristo a Pietro e agli Apostoli, al Papa e ai Vescovi, per farne patrimonio di tutto il Popolo di Dio, di tutta l’umanita, quale lampo di luce avrebbe brillato nei vostri spiriti, quale infusione di certezza, di forza, di gioia avrebbe arricchito, non per questo solo istante, ma per tutta la vita, i vostri cuori! E quanta umiltà, sgorgherebbe nei vostri cuori, quanta bontà, quanta ansia d’essere veramente fedeli a Cristo e di dare a Lui degna testimonianza!

Qui potete meglio vedere e comprendere come Gesù diede a Simone il nome di Pietro e come lo fece Apostolo e Pastore. Questa migliore e consolante comprensione Noi vi auguriamo a ricordo di questa udienza pasquale; e tutti, nel nome di Cristo, vi benediciamo.

Pellegrinaggio di militari del Belgio

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Mercoledì, 28 aprile 1965

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Diletti Figli e Figlie!

Con quale saluto possiamo Noi accogliere la vostra visita, se non con quello pasquale? Sapete? «Il Signore è veramente risorto!» (
Lc 24,24). Ci suggerisce l’opportunità di rivolgere il pensiero a questo avvenimento decisivo e sublime il fatto che la festa della Risurrezione di Cristo, celebrata nella scorsa settimana, dura tuttora. È proprio della liturgia pasquale estendersi per diverse settimane, fino a Pentecoste; ed è proprio nell’intenzione del mistero pasquale significare l’immortalità, la vita che non passa. Dice bene S. Agostino: «Questo giorno è per noi come un grande segno sacro della felicità eterna. Infatti non passerà, come passa questo giorno, la vita che questo giorno intende significare» (Serm. 259; P.L. 38, 1196). E crediamo di non sbagliare pensando che il pellegrinaggio, il quale vi conduce a Roma e all’incontro col Papa, ha per occasione fortunata la Pasqua.

Ecco perché vi salutiamo così: «È risorto davvero il Signore»!

E ricordate le parole che, nel Vangelo di San Luca, seguono a tale straordinario annuncio? Queste: «Ed è apparso a Simone», a Pietro. «Surrexit Dominm vere, et apparuit Simoni». Quale desiderio avremmo Noi, e voi tutti certamente di sapere qualche cosa di più di quella prima e speciale apparizione di Gesù risorto a Pietro, ancora tutto sconvolto per la sua negazione e tutto atterrito per l’infame e crudele morte del suo Maestro, apparizione avvenuta nel giorno stesso della risurrezione di Lui! Ma anche se non abbiamo il racconto del meraviglioso e consolantissimo incontro di Gesù redivivo con Pietro in quel giorno beato, possiamo ben pensare che l’incontro stesso fosse molto importante, se i discepoli raccolti nel Cenacolo ne danno notizia, la sera stessa, ai due trafelati ed esterrefatti condiscepoli reduci da Emmaus, e se San Paolo vi fa cenno, elencando, nella prima lettera ai Corinti, i testimoni oculari della Risurrezione di Cristo, quando mette a capo della lista Cefa; cioè Pietro: «Visus est Cephae», apparve a Cefa, a Pietro (1Co 15,5).

Questo pare costituire per Noi, umile e indegno, ma vero Successore di quello stesso Pietro, un obbligo particolare di farci con voi, quest’oggi, testimoni della Risurrezione del Signore nostro, Gesù il Cristo, come il medesimo Principe degli Apostoli si fece nel suo discorso di Pentecoste al popolo cosmopolita allora presente a Gerusalemme, sotto l’impulso dello Spirito Santo: «Questo Gesù Dio lo risuscitò, e noi tutti ne siamo testimoni» (Ac 2,32).

Non vi stupisca perciò, Figli carissimi, se qui oggi risuona dalle Nostre labbra la medesima solenne testimonianza: sì, Cristo è veramente risorto! Vorremmo che l’eco di queste parole si ripetesse nell’interno dei vostri spiriti, a ricordo di questa udienza, in modo che ciascuno di voi possa dire a se stesso e possa narrare agli altri ritornando alle vostre case: sono stato a Roma, ed ho ascoltato la voce del Papa, che diceva: Cristo è veramente risorto!

Perché tanto insistiamo su questo singolarissimo annuncio? Oh, per tante ragioni! Insistiamo perché esso è alla base della nostra fede, e cioè del cristianesimo e di quanto dal cristianesimo è derivato di nuovo, di buono, di santo, di vitale. Insistiamo, perché questo è l’ufficio Nostro principale, il dovere che Gesù stesso ha legato alla Nostra elezione, quando ingiunse a Pietro, all’ultima cena: «Tu conferma i tuoi fratelli» (Lc 22,32). E perché pensiamo che la fede in questa ineffabile realtà, la Risurrezione del Signore, è il centro di convergenza di tutta la Chiesa, di tutti i credenti, anche di coloro con cui ancora non è perfetta la comunione. Vi farà piacere conoscere che per la Pasqua, come Noi abbiamo mandato messaggi di pace e di augurio ai venerabili Capi delle Chiese Orientali tuttora da Noi separati, così abbiamo ricevuto, con Nostro immenso gaudio e speranza, lettere recanti piissimi voti pasquali di quei Capi medesimi, la cui voce, rompendo un secolare silenzio, ripeteva con la Nostra e con quella dei degnissimi Patriarchi dell’Oriente cattolico, il messaggio della nuova vita: è risorto il Signore!

Ed insistiamo pertanto anche con voi qui presenti e con quanti vorranno ascoltare tale Nostro messaggio, affinché si confermi nei vostri cuori, con inequivocabile e beata certezza, la fede; la fede in Cristo risorto. Siate forti, figli carissimi, siate fieri, siate gelosi di questa fede. Oggi, quando certe confuse voci sembrano oscurare e vanificare la genuina credenza del popolo cristiano nel patrimonio di dottrina della santa Chiesa, e scuotere la filiale e ferma adesione al suo magistero, sappiate conservare l’integrità semplice e univoca della vostra fede, che da Cristo, di secolo in secolo, mediante la testimonianza apostolica, vi è fino ad oggi testimoniata. E date alla fede la funzione che le spetta, d’essere ispiratrice della vita, che appunto si chiama cristiana, quando attinge dalla fede i suoi sommi principii di pensiero e di azione, secondo la celebre sentenza di San Paolo: «Iustus ex fide vivit» (Ga 3,11), l’uomo giusto vive traendo dalla fede la sua luce superiore e la sua energia spirituale.

Ed ecco allora, col Nostro annuncio pasquale, il Nostro augurio: che sappiate vivere della vostra fede, per la vostra santificazione, per la vostra letizia e per la vostra pace, con la Nostra paterna Benedizione.

Capitolo Generale dei «Fratelli di San Gabriele»

Chers Frères de l’Instruction chrétienne de Saint-Gabriel,

Nous sommes heureux de vous accueillir au terme du Chapitre général que vous venez de tenir à Rome, et au cours duquel vous avez largement renouvelé votre Curie généralice.

Nous saluons d’abord votre nouveau Supérieur Général, le Très Révérend Frère Louis-Bertrand Landry, et lui offrons Nos voeux fervents pour que Dieu l’assiste dans sa lourde tâche, Nous sommes bien sûr qu’avec l’aide de son Conseil, et en union profonde de pensée et d’action avec ses prédécesseurs, il aura à coeur de poursuivre l’oeuvre si importante de l’Institut de l’Instruction chrétienne de Saint-Gabriel à travers le monde. Instruire des enfants et des jeunes gens: voilà votre tâche première, et fondamentale; mais aussi former des hommes et des chrétiens, des citoyens ayant le souci du bien commun, et des catholiques ardents et généreux au service de l’Eglise; tâche plus nécessaire et plus urgente que jamais à l’époque actuelle, vous en avez certes bien conscience. Et ce doit vous être un précieux encouragement - comme c’est pour Nous une joie - de voir toujours plus nombreux les Frères qui entendent y consacrer leur vie dans votre Institut.

Que le Seigneur vous bénisse, et qu’Il féconde votre apostolat, Nous le lui demandons de tout coeur, pour le plus grand bien des hommes et le meilleur service de son Eglise. Et c’est en invoquant sur votre oeuvre éducatrice l’abondance des divines grâces que Nous vous donnons Notre meilleure Bénédiction Apostolique.



Festa di San Giuseppe Artigiano - Sabato, 1° maggio 1965

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Diletti Figli e Figlie!

Se cerchiamo quali motivi spirituali dànno a questa udienza un significato particolare, è facile rilevare che tali motivi sono due: la festa del lavoro e la festa di San Giuseppe; anzi è uno solo, quello che suggerì dieci anni or sono, al Nostro Predecessore, di venerata memoria, Pio XII, di abbinare questi due titoli, che dànno al Calendimaggio il carattere d’un giorno speciale di festa, per farne, com’Egli disse, un «giorno di giubilo per il concreto e progressivo trionfo degli ideali cristiani della grande famiglia del lavoro» (Discorsi e Radiomessaggi, XVII, 76). Questo atto, che ha potuto apparire a qualcuno come un pio artificio, come uno sforzo per attribuire ad una celebrazione profana, anzi laica nel senso più radicale del termine, un qualche tardivo e compiacente riconoscimento, rivela invece, come nel campo cattolico tutti hanno notato con soddisfazione, un gesto doppiamente coerente: coerente con la tradizione del culto cristiano, il quale non soltanto per purificare ed elevare le feste pagane, più d’una di esse ha assorbito nel suo calendario e ha trasfigurato in senso cristiano, ma altresì per obbedire al suo genio profondamente teologico e profondamente umano, il quale scopre in ogni manifestazione autentica della vita un campo sempre possibile e quasi predisposto all’economia dell’Incarnazione, alla penetrazione del divino nell’umano, all’infusione redentrice e sublimante della grazia.

E seconda coerenza: e cioè con tutta l’opera dottrinale e pastorale svolta dalla Chiesa, dai Papi specialmente, dai Vescovi e da Maestri cattolici, da un secolo in qua, per ridare al lavoro una sua nuova spiritualità, una sua animazione cristiana. E allora l’aver fatto coincidere la festa del lavoro con la festa del lavoratore S. Giuseppe, che nella scena evangelica, nella stessa famiglia terrena di Cristo, personifica il tipo umano, che Cristo medesimo scelse per qualificare la propria posizione sociale «fabri filius» (
Mt 13,55), pone il grande, enorme, moderno problema della riconciliazione del mondo del lavoro con i valori religiosi e cristiani, e della conseguente irradiazione di dignità, di energie, di conforti, di speranze, che il Vangelo può e deve ancor oggi diffondere sulla fatica umana; anzi quasi lo dà, questo problema, per risoluto, anche se oggi pur troppo, in gran parte, risoluto non è.

Anche questo modo di agire è nel costume della Chiesa credente, la quale sovente opera «contra spem, in spem» (Rm 4,18), sicura che il tempo, i fatti, gli uomini le daranno ragione, perché lo Spirito di Dio anticipa alla Chiesa una sicurezza profetica, che un giorno, a bene dell’umanità, sarà vittoriosa.

E nulla diremo, in questo brevissimo momento, delle troppe cose che si offrono alla mente dalla presentazione del problema suddetto, del rapporto cioè fra vita religiosa e vita del lavoro: perché queste due supreme espressioni dell’attività umana dovrebbero essere separate fra loro? Perché in contrasto? Come fu che la loro alleanza, la loro simbiosi si ruppe? Quale lunga storia, quale diligente analisi ce ne può indicare le ragioni, i pretesti, le rovine? Forse non fu a tempo compresa la trasformazione psicologica e sociale che il passaggio dall’impiego di umili e primitivi utensili in aiuto della fatica dell’uomo all’impiego della macchina con tutte le sue nuove potentissime energie avrebbe prodotto? Non ci si avvide che nasceva una favolosa speranza dal regno della terra che avrebbe oscurato e sostituito la speranza del regno dei cieli? Non ci si accorse che la nuova forma di lavoro avrebbe risvegliato nel lavoratore la coscienza della sua alienazione, che cioè egli non operava più per sé, ma per altri, con strumenti non più propri, ma di altri, non più solo ma con altri, e che sarebbe sorta nel suo animo la brama d’una redenzione economica e temporale, che non gli lasciava più apprezzare la redenzione morale e spirituale offertagli dalla fede di Cristo, non a quella contraria, ma di quella fondamento e corona? E mancò forse (non certo nei Papi) il linguaggio, mancò il coraggio per dire al mondo del lavoro, sconvolto delle sue stesse affermazioni, qual era la via buona del suo riscatto, e quale il bisogno e il dovere di non mortificare al livello del benessere economico la sua capacità ed il suo diritto di salire insieme al livello delle supreme realtà della vita, che sono quelle dell’anima e di Dio?

Nulla diremo. Del resto sono cose che tutti ora, più o meno, conoscono, e che solo richiamiamo al vostro spirito, oggi e proprio qui, perché abbiate a ricordarle e a meditarle, alla luce che la festa di S. Giuseppe, esempio e protettore del mondo del lavoro, proietta su di noi, quando siamo memori del Vangelo e memori della meravigliosa fedeltà, con cui esso si rispecchia nelle attualissime Encicliche pontificie.

E abbiate a interessarvi di queste cose, che hanno tanta importanza nella vita moderna fino a determinarne le forme salienti ed il corso, non si sa se più travagliato o trionfale. Interessarvi per pregare per il mondo del lavoro, per quanti in esso sono oggi sofferenti: disoccupati, sottoccupati, emigrati, mal sicuri del loro pane, mal retribuiti della loro fatica, amareggiati della loro sorte. E per quanti anche del lavoro fanno argomento programmatico e permanente di lotta sociale, invece che di armoniosa e positiva cooperazione nella giustizia e nella libertà; fonte di odio sociale e di passione, invece che di amore fraterno e di esaltazione di nobili sentimenti. Ed infine perché all’interessamento di pensiero e di preghiera abbiate ad aggiungere, come possibile, quello della solidarietà e dell’operosità, affinché «la giustizia e la pace» auspice l’umile e grande Artigiano di Nazareth, abbiano a rifiorire cristianamente nel mondo del lavoro.

La Nostra Benedizione vi incoraggia e vi assicura l’aiuto del Cielo.



Mercoledì, 5 maggio 1965

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Diletti Figli e Figlie!

Il nostro desiderio sarebbe di salutarvi ad uno ad uno! Questo è nell’aspirazione dell’affetto, che tende naturalmente al colloquio personale; questo è nell’ordine della carità, la quale, mentre si rivolge alla moltitudine e vuole a tutti arrivare e fare di tutti una cosa sola, non per questo dimentica che ciascuno è persona, e che ciascuno è degno del suo proprio esclusivo ed ineffabile rapporto della parola: cor ad cor loquitur - come diceva il Newman -: il cuore parla al cuore.

Veniva a Noi questo pensiero meditando il Vangelo della scorsa domenica, il Vangelo del Buon Pastore, che presentando questa bella immagine, che potremmo dire virgiliana, sembra assimilare a un branco di pecore i seguaci del Vangelo, mentre in questa similitudine di unità e di autorità, propria della comunità ecclesiale, subito è marcata la personale individualità del gregge cristiano, là dove il Pastore nota che intercorre una conoscenza particolare fra il Pastore stesso e le sue pecorelle, che distinguono la voce di Lui, il Quale - è una precisazione non solo descrittiva e poetica, ma profondamente psicologica e mistica - il Quale «le chiama ciascuna per nome: vocat nominatim» (
Jn 10,4).

Naturalmente questa misteriosa conversazione fra il Pastore ed ogni singola anima è una prerogativa esclusiva di Cristo, ben a ragione definito «Re e centro di ogni cuore», ma segna un aspetto, offre un esempio, stabilisce un principio della vita pastorale della Chiesa. Dobbiamo sempre ricordarci di questo: che cosa è la Chiesa? È la convocazione dei fedeli, è l’umanità chiamata a comporre il gregge di Cristo, o, con un’altra immagine estremamente espressiva e notissima, il Corpo mistico di Cristo. Il termine stesso di «Chiesa», s’è detto tante volte, vuole dire assemblea chiamata ad unirsi a Cristo ed in Cristo.

E il Nostro pensiero andava volgendosi al tema, che il Concilio ha posto in evidenza, del Popolo di Dio, ch’è appunto la grande comunità convocata da Dio nel suo disegno di salvezza e di elevazione soprannaturale, tramite il ministero apostolico. La voce di Dio che chiama si esprime in due modi, diversi, meravigliosi e convergenti : uno interiore, quello della grazia, quello dello Spirito Santo, quello ineffabile del fascino interiore che la «voce silenziosa» e potente del Signore esercita nelle insondabili profondità dell’anima umana; e uno esteriore, umano, sensibile, sociale, giuridico, concreto, quello del ministro qualificato della Parola di Dio, quello dell’Apostolo, quello della Gerarchia, strumento indispensabile, istituito e voluto da Cristo, come veicolo incaricato di tradurre in linguaggio sperimentabile il messaggio del Verbo e del precetto divino. Così insegna con San Paolo la dottrina cattolica: «Quomodo audient sine praedicante?. . . Fides ex auditu»: come potranno intendere senza uno che parli predicando? . . . la fede nasce dall’ascoltare (Rm 10,14 Rm 10,17).

Vi diciamo questo, Figli e Figlie, anche per un’altra ragione: domenica scorsa la Chiesa nostra, da qualche anno, fissa su questo stupendo ordine di pensieri teologici e spirituali un suo pensiero pastorale, diventato assillante, quello delle vocazioni, e per vocazioni qui si intendono le chiamate libere e privilegiate al totale servizio e all’unico amore di Cristo nei posti specificamente determinati dalla santa Chiesa. Sono le vocazioni ecclesiastiche, sono le vocazioni religiose. Sono quelle che palesano un’iniziativa, un desiderio, una aspettativa di Cristo. Perché Cristo chiama. Come agli Apostoli, da Lui eletti ed educati, Gesù ripete ancor oggi: vieni e seguimi. È il Pastore che viene a colloquio personale, intimo, sconvolgente forse ed avvincente: chiama per nome, «nominatim»: Te io chiamo!

Voi sapete che oggi, mentre da un lato cresce il bisogno di chi si consacri all’amore e al culto di Dio e all’amore e al servizio dei fratelli, diminuisce - in molte regioni della Chiesa, anche in quelle che un tempo erano le più fiorenti e fertili di anime generose e pure, votate al Vangelo - diminuisce il numero di questi volontari della Croce e della Gloria di Cristo. La Chiesa viene a trovarsi in una dolorosa e talora pungente condizione: quella d’avere dinanzi a sé il mondo aperto per la sua missione, un mondo che sembra insensibile e repulsivo, e che in realtà attende ed implora: vieni a soccorrerci, adiuva nos (cfr. Ac 16,9) e non può; non può per mancanza di uomini e di donne, che abbiano accettato di darsi a Cristo e alla salvezza del mondo. Gesù stesso, voi ricordate, sperimentò questa pena, che doveva essere poi perenne nel cuore dei suoi apostoli: «La messe è molta ma gli operai sono pochi» (Mt 9,37).

E qui il lamento di Gesù, diletti Figli e Figlie, si fa Nostro! La sua chiamata viene alle Nostre labbra, e suona ora così: rifletta ognuno che ha la grazia, la somma fortuna, d’appartenere alla Chiesa, d’essere un chiamato, d’avere una sua «vocazione» cristiana; e rifletta chi nella coscienza di questa sublime, ma comune chiamata avvertisse un invito più diretto e più profondo, più esigente e più soave, se il Signore non voglia qualche cosa di più della comune fedeltà, non voglia tutto, non voglia quel sacrificio che sembra annientare chi lo accetta e che dà invece a lui la nuova pienezza promessa ai generosi; quel centuplo, che già fin da questa vita terrena conferisce un’intima felicità incomparabile. La vocazione è una grazia che non è di tutti; ma può essere ancor oggi di molti. Di molti giovani, forti e puri; di molte anime che hanno l’ansia della bellezza superiore della vita, l’ansia della perfezione, la passione della salvezza dei fratelli; di molti spiriti, che nella loro stessa timidità ed umiltà sentono scaturire la forza che rende tutto facile e tutto possibile: «Omnia possum in Eo qui me confortat»: tutto posso in Colui che mi sostiene (Ph 4,13).

Preghiamo che sia così. Forse qualcuno, che ora ode questa Nostra umile voce di fuori, sente di dentro la voce regale di Cristo?

Preghiamo che sia così: la Nostra Benedizione è per quanti «ascoltano la parola di Dio e la custodiscono» (Lc 11,28).



Mercoledì, 12 maggio 1965

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Diletti Figli e Figlie!

Noi vi accogliamo con le parole di S. Paolo: «Voi non siete già ospiti e forestieri, ma siete concittadini dei Santi e della famiglia di Dio, sovrapposti al fondamento degli Apostoli e dei Profeti, mentre lo stesso Cristo Gesù è pietra angolare di tutto l’edificio, che ben costruito si innalza come tempio santo nel Signore; e voi pure siete parte di questo edificio, che ha da essere l’abitazione di Dio nello Spirito» (
Ep 2,19-21).

Questa visione si riferisce alla Chiesa. Ci offre il disegno del piano di Dio, realizzato da Cristo, che raccoglie da ogni parte uomini di varia indole e provenienza, non come estranei gli uni agli altri, ma tutti come membri eguali d’una stessa società, anzi come fratelli d’una stessa famiglia, e che così li vuole uniti fra loro da raffigurarli nel materiale da costruzione d’un edificio, che ha le sue fondamenta storiche e spirituali - l’immagine lascia trasparire la realtà - nell’opera degli Apostoli e in quella precedente dei Profeti, per trovare forma e consistenza nella pietra angolare (cfr. Ps 117,22 e Is 28,16), la quale è il simbolo dello stesso Gesù (cfr. Mc 12,10).

Questa figura della Chiesa, simile ad un edificio unico, solido, compatto, costruito con pietre vive, come scriverà San Pietro (1P 2,5), avente in Cristo la pietra che tutto sostiene, tutto unisce, tutto corona, è fra le più ricorrenti e le più espressive nel linguaggio scritturale e patristico (cfr. S. Aug. En in PS 44, P.L. 36, 512), ed è stata ripresa nella recente costituzione sulla Chiesa da parte del Concilio Ecumenico (LG 6): è una figura rappresentativa, sulla quale possiamo e dobbiamo fermare la fantasia ed il pensiero: la Chiesa è un’immensa costruzione, stupenda e unitaria; in un altro punto della Scrittura Cristo dirà d’essere Lui il costruttore: «Edificherò la mia Chiesa!» (Mt 16,18).

Ora non pare a voi che questa medesima immagine biblica abbia qui, in questa Basilica, una sua concreta e simbolica rappresentazione? E che si rifletta in questa stessa assemblea, da voi composta, un suo riflesso vivente? Non siete voi la Chiesa di Cristo? Non vi trovate voi in questa immensa aula che ancor più che contenerla, la rappresenta? E allora non è questo il momento, profittando del giuoco di ricordi evangelici, di realtà spirituali, di immagini altrettanto concrete che significative, di prendere coscienza della santa Chiesa, a cui appartenete, in cui siete inseriti, a cui voi stessi date vita? «Le pietre vive chi sono, se non i fedeli di Dio? Lapides vivi qui sunt nisi fideles Dei?», si chiede Sant’Agostino (ib.).

Ebbene, sì: questa immagine della Chiesa, simile ad un tempio, ad una casa di Dio, ci può fare molto pensare: alla sua unità, alla sua solidità, alla sua santità. Ma ancora, ed è l’esortazione che vi lasciamo: la similitudine della costruzione ci potrebbe far credere che il disegno di Dio consista solo nella staticità, nell’immobilità, nella passività degli elementi che compongono la Chiesa; e così è: ma non solo, non solo! Questi elementi sono vivi! Sono le anime! E l’edificio stesso è sempre in costruzione, è sempre in crescita, fino all’ultimo giorno della storia umana. Allora ecco la conclusione: ognuno di voi parta da questa udienza con la rinnovata convinzione d’essere parte viva della Chiesa, e di dover contribuire con il suo fervore, e con la sua virtù, ad edificarla, a farla salire verso nuove altezze, nuove espressioni della sua vitalità e della sua eccellenza.

Così vi aiuti a comprendere e ad operare la Nostra Benedizione Apostolica.



Mercoledì, 19 maggio 1965

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Diletti Figli e Figlie!

Nostro desiderio sarebbe che ognuno di voi, per il fatto d’aver assistito, anzi - Noi speriamo - d’avere, col cuore e con la preghiera, partecipato a questa udienza generale, riportasse un vivo senso di gaudio spirituale. Vorremmo che ciascuno di voi, qui e dopo, si sentisse felice. Avesse cioè la fortuna di gustare uno di quei momenti di gioia interiore, che, come un lampo di luce, dànno chiarezza e senso alla vita; di quei momenti, che poi si ricordano non soltanto con nostalgia, come unici e belli, ma con rinascente conforto, per rimanere buoni, per restare fedeli.

Che la gioia sia nota caratteristica e indispensabile della vita cristiana, dello stato di grazia, voi ben sapete. Un cristiano può mancare di tutto; ma se è il cristiano unito a Dio nella fede e nella carità, non può mancare di gioia. È uno degli insegnamenti ricorrenti di San Paolo; egli ce ne fa obbligo ripetutamente: «Gaudete in Domino semper; iterum dico: gaudete», rallegratevi sempre nel Signore; ve lo ripeto: rallegratevi (
Ph 4,4); e ce ne lascia intuire la ragione, scoprire la sorgente: la gioia dell’anima è il primo effetto, dopo la carità, di quella stupenda serie dei dodici frutti, che l’azione dello Spirito Santo produce nell’anima elevata alla vita soprannaturale (Ga 5,22); «All’amore di carità, osserva con la consueta acutezza logica e psicologica S. Tommaso, segue necessariamente il gaudio» (I, II, 70, 3). E il discorso sul gaudio cristiano porterebbe a lunghe e belle considerazioni: e come e perché differisca dalla felicità profana; e come e perché sia compossibile con le tribolazioni della vita presente, non certo risparmiate al cristiano: «Sovrabbondo di gaudio, diceva ancora San Paolo, in mezzo a tutte le mie tribolazioni» (2Co 7,4); e come e perché sarà successivo, in superlativa pienezza, alle sofferenze, tollerate quaggiù per la sequela di Cristo: «Tristitia vestra vertetur in gaudium, la vostra tristezza si trasformerà in gioia», come ha promesso Gesù (Jn 16,20); e così via.

Ma la Nostra pretesa sarebbe ora di notare come questo incontro abbia una sua letizia particolare. Ricordiamo intanto che ogni incontro umano, motivato dalla carità del Signore, dovrebbe essere fonte di letizia. Ogni incontro cristiano chiama una misteriosa presenza di Lui, del Signore (cfr. Mt 18, Mt 18,20); la quale, se appena avvertita, fa risalire alle labbra l’esclamazione del salmo: «Oh! quanto è bello e giocondo che i fratelli si trovino insieme!» (Ps 132,1). È il fascino delle nostre assemblee liturgiche, quando sono bene celebrate; esse rinnovano l’originale esperienza spirituale dei primissimi cristiani di Gerusalemme, quando essi si riunivano nelle case per le nascenti celebrazioni sacre dello «spezzare il pane» fraternamente «cum exsultatione et simplicitate cordis», con esultanza e con semplicità di cuore (Ac 2,46). E non solo le riunioni religiose, ma anche quelle comuni, dei familiari, dei colleghi, degli amici, hanno per i cristiani vivi una loro letizia, che si interiorizza, una loro singolare irradiazione di gioia vivace e serena, che passa facilmente nei cuori, e che gli spiriti puri e sensibili, quelli dei nostri giovani, ad esempio, trovano spesso magnifica e irriproducibile altrove.

E che tale letizia possa effondersi in un incontro come questo, e immergersi nelle anime aperte ad accoglierla, a Noi tocca sovente osservare, non senza qualche confusione per ciò che si riferisce alla Nostra Persona, incapace e immeritevole di tale risultato dell’incontro stesso, ma anche con tanto Nostro conforto e tanta edificazione nell’osservare la gioia trasparente dai volti commossi e felici, che a Noi si rivolgono e che non sono più quelli di persone ignote e forestiere, ma quelli di figli, di fratelli e di amici, che gustano una speciale vibrazione di contentezza.

E Ci pare si tratti della gioia di sapersi e di sentirsi cattolici; una gioia, che dovremmo sempre coltivare e che qui diventa più facile, più dolce e più forte all’insorgere d’una specifica emozione. Non è estraneo a codesto fenomeno di gaudio spirituale l’esercizio della vostra fede e della vostra bontà, che appunto intuisce, quasi per visione sensibile e personificata, essere qui, sulla tomba dell’apostolo Pietro, il centro e, Dio voglia, il più devoto servizio, di quei valori supremi di unità, di verità, di carità, di grazia, che soli possono dare al cuore umano la suprema felicità. Pensiamo, ad esempio, al «gaudium de veritate», di cui discorre S. Agostino (cfr. Conf. X, 22; P.L. 32, 793-794). Forse si ripercuote qui la parola di San Pietro stesso: «Se credete, potete esultare di letizia indescrivibile» (1P 1,8).

Carissimi Figli e Figlie! che venite con tanto vostro fervore e vostro disagio, e molti di voi da tanto lontano; voi che avete preparato i vostri animi a questo incontro, e certamente con lo scopo di trarne consolazione spirituale, oh! possiate qui gustare la gioia d’essere cattolici; d’essere nell’unità con Dio e con i fratelli; d’essere nella verità della Parola di Dio, offerta e garantita alla vostra fede dal magistero sicuro e paterno a ciò stabilito da Cristo; d’essere nella carità da Lui ricevuta e a tutti dilatata; d’essere nella grazia, che nel ministero apostolico ha la sua inesausta fontana.

Siamo ancora nel tempo pasquale, e possiamo a voi presentare questo augurio di cristiana felicità, salutandovi tutti col grido che lo esprime: alleluia! E con la Benedizione Apostolica che lo offre e lo avvalora.




Paolo VI Catechesi 21465