Paolo VI Catechesi 13105

Mercoledì, 13 ottobre 1965

13105

Diletti Figli e Figlie!

Amate la Chiesa! questa sarà la parola che consegniamo al ricordo di questa udienza. Amate la Chiesa! Quale altra raccomandazione vi può fare il Papa, quando Egli è tanto lieto di accogliervi come membri della santa Chiesa, e quando Egli si compiace di ammirare nell’assemblea, che voi qui accolti componete, una figura, anzi una porzione della grande assemblea dei fedeli di tutto il mondo, che compongono la Chiesa stessa? Amate la Chiesa, perché l’ha amata Gesù Cristo, il suo fondatore, che non solo l’ha ideata, iniziata, istruita, educata, arricchita del tesoro inestimabile della sua Parola e dei suoi carismi di grazia e di vita spirituale, ma ha dato la sua vita, il suo sangue per lei, per lei è morto e per lei è risorto, assorbendo in Sé, agnello innocente, le pene, le miserie, le sofferenze, le aspirazioni dell’umanità, e celebrando in Sé la redenzione, che Egli a tutti offre e comunica, a tutti quelli cioè che, accettandola nella fede e nella partecipazione sacramentale, diventano a Lui conformi, anzi suo corpo mistico, sua Chiesa. Tanto ha amato Cristo la Chiesa da farla rappresentare, nella celebre similitudine di San Paolo (
Ep 5,25), come sua Sposa, e da indicare l’amore intercorso fra Lui, Cristo, e la Chiesa come il paradigma più alto e più pieno dell’amore, dal quale deve attingere esempio e santità perfino l’amore coniugale.

Amate la Chiesa, Figli carissimi, in quest’ora specialissima della sua storia e della sua vita; l’ora del Concilio; un Concilio, che appunto ha avuto la Chiesa come oggetto principale delle sue discussioni e dei suoi decreti. Amate la Chiesa, oltre tutto, perché essa è diventata tema d’interesse dell’opinione pubblica, la quale osserva, studia, discute persone, avvenimenti,, problemi riguardanti la Chiesa, come forse non è mai capitato; e perché nell’interno stesso della Chiesa un risveglio s’è prodotto, un fermento, un’inquietudine, una speranza, che tutta la agitano e la scuotono, che le fanno approfondire la coscienza di se stessa, in una incalzante serie di interrogativi interiori, e la spingono a sognare, anzi a tentare espressioni pratiche ed esteriori nuove e originali, in una ricerca di autenticità rigorosa e testuale per alcuni, di conformità al costume storico presente per altri.

Amate la Chiesa. Ma a questo punto dobbiamo completare la Nostra esortazione con un rilievo. Questo fervore di rinnovamento deve essere, innanzi tutto, osservato nella linea dinamica delle sue tendenze e delle sue finalità; e l’osservazione ci presenta, semplificando, due linee correnti in direzioni diverse, talora opposte: una, possiamo dire, centrifuga, l’altra centripeta; una eccitata piuttosto dalla considerazione delle realtà terrene, alimentata dal desiderio di capire il mondo contemporaneo, di esaltare i suoi valori e servire i suoi bisogni, di accettare i suoi modi di sentire, di parlare, di vivere, di estrarre dall’esperienza della vita una teologia umana e terrestre e di dare al cristianesimo espressioni nuove, aderenti, non tanto alle tradizioni sue proprie, quanto all’indole della mentalità moderna; e sta bene; ma per arrivare a tali risultati questa linea instaura sovente una critica, spesso inizialmente giusta, su manchevolezze, stanchezze, difetti, arcaismi del mondo cattolico, ma poi spesso critica abituale, radicale e superficiale ad un tempo, insofferente della consuetudine e della norma ecclesiastica, incapace alla fine di capire il mistero dell’obbedienza e della carità interiore che collegano e santificano la comunità ecclesiale, per terminare in raffinate espressioni soggettive, spirituali o culturali, che piuttosto disperdono e inaridiscono magnifiche energie, senza potere, né volere più impiegarle umilmente e positivamente nel grande, lento, e coordinato sforzo di costruire la Chiesa.

Vi è un’altra linea, un altro metodo d’interesse per il rinnovamento della Chiesa, quello che mira non al distacco o all’allontanamento dalla sua strutturazione organica, concreta e unitaria, ma al suo avvicinamento all’accrescimento della sua vitalità, cioè della sua santità e della sua capacità di rendere vivo e attuale il Vangelo. Questo è il metodo dell’instancabile riforma, di cui parla la Costituzione conciliare sulla Chiesa, affinché essa seipsam renovare non desinat, non dia mai tregua al suo rinnovamento (c. 2, n. 9). È il metodo che parte dalla considerazione delle verità rivelate, dei valori propriamente religiosi, della fecondità indeficiente delle dottrine tradizionali, e che si alimenta del godimento di questa continua scoperta, in modo tale che trabocca in un bisogno apostolico e missionario, e trova in sé per il mondo circostante una duplice e complementare capacità: quella di conservarsi libero e puro dalle sue facili contaminazioni, e quella di mettersi al suo fianco, anzi di inserirsi nella sua aggrovigliata compagine, come un olio benefico, come un fermento vitale, come un messaggio di letizia, di bontà, di speranza, che non solo non lo guasta, ma lo corrobora e lo innalza a più alto significato umano, cioè religioso e cristiano.

Noi comprenderemo e ammetteremo la bontà, che si trova anche nel primo metodo di interessamento alla vita della Chiesa, ma non senza che la bontà del secondo lo integri e lo preceda; e a questo conserveremo di preferenza il nome di amore. Di quell’amore alla Chiesa, che ora a voi raccomandiamo e con la Nostra benedizione incoraggiamo.



Mercoledì, 20 ottobre 1965

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Diletti Figli e Figlie!

Noi abbiamo esortato i Nostri visitatori, come, del resto, tutti i credenti, ad amare la Chiesa. Sorge allora spontanea la domanda: perché? Quali titoli ha la Chiesa al nostro amore? Noi crediamo che questa domanda si presenti allo spirito di chi assiste ad un’udienza come questa, non solo come spettatore curioso, ma come fedele devoto ed avido di meglio comprendere le .ragioni della sua professione cattolica; e crediamo altresì che tale domanda faccia scaturire un fiume di risposte, suscettibili ciascuna di ampia e profonda meditazione. Perché dobbiamo amare la Chiesa? La domanda si pone subito in relazione con un’altra, estremamente semplice e difficile insieme: che cosa è la Chiesa? che cosa è la Chiesa, perché noi la dobbiamo amare? E allora i vari aspetti, in cui possiamo scorgere il volto della Chiesa, cioè l’essere suo e la sua missione, la sua origine e la sua storia, i nomi con cui essa è designata, ci si presentano come titoli che esigono la nostra devota affezione alla Chiesa: non è la Chiesa l’oggetto dell’amore di Cristo, la sua mistica Sposa? Se Cristo tanto l’ha amata, fino a dare la vita per lei, fino a farne il termine terreno e storico dell’opera sua, non dovremo noi stessi amarla con simile dilezione? Non è la Chiesa nostra madre, nell’ordine della grazia; nostra maestra, nell’ordine della fede? non è l’arca della nostra salvezza? non è la famiglia di Dio, dove la comunità cristiana, l’intera umanità in via di redenzione, si trova riunita dalla carità e per la carità? E così via.

Noi vorremmo fermare la vostra attenzione, per questa volta, sopra uno dei più luminosi motivi, che esigono il nostro amore alla Chiesa: è santa; la dobbiamo amare perché è santa; perché è la santa Chiesa.

Chi le ha dato questo titolo? Non si trova testualmente questo titolo nella sacra Scrittura, ma lo si deduce (cfr.
Ep 5,33). Il che vuol dire che la Chiesa stessa se lo è riconosciuto. Il senso della santità è fra le prime deduzioni che la Chiesa trasse dalla coscienza del suo essere e della sua vocazione; così che la qualifica di «Santa», attribuita alla Chiesa, fin dai primi padri apostolici (cfr. San Ignazio, ad Trall., introd.) divenne abituale, entrò subito nei simboli e nelle professioni battesimali della fede (cfr. Denz.-Schoen. DS 1 DS 10, etc.), e rimase poi sempre come aggettivo consueto e protocollare per designare una delle proprietà intrinseche e una delle note esteriormente visibili della Chiesa, la sua santità.

E che cosa significa santità? Non possiamo ora soffermarci su questo concetto complesso e vasto come un mare; ci basta accennare alla parentela ch’esso ha con la religione. Dice bene San Tommaso che la santità è essenzialmente la stessa cosa che la religione, salvo che questa si riferisce al culto di Dio, mentre la santità, in senso generale, consiste nell’ordinamento d’ogni atto virtuoso verso Dio stesso (cfr. S. Th. II-II 81,8 ad 1); la possiamo perciò considerare come la più alta perfezione morale e spirituale dell’uomo sotto l’influsso della religione. Ciò significa che la santità trova la sua piena e originaria espressione in Dio e da Dio, santo per essenza e prima sorgente d’ogni santità. La Chiesa perciò è santa in quanto a Dio si riferisce, per tramite e virtù di Cristo, che santa la concepì e la fondò, santa la fece e sempre la va facendo con l’infusione dello Spirito Santo, nei sacramenti e in tutta l’economia della grazia; santa la rende per la custodia e per la diffusione della sua parola, per la distribuzione dei suoi carismi, per l’esercizio delle sue potestà, per la capacità di generare e formare anime viventi in comunione con Dio. La Chiesa è santa come istituzione divina, come maestra di verità divine, come strumento di poteri divini, come società composta di membri aggregati in virtù di principii divini. «Nella misura in cui ella è di Dio, la Chiesa è assolutamente santa» (cfr. S. August.: Contra litteras Petiliani;. P.L. 43, 453; Congar, Angelicum, 1965, 3, p. 279).

Noi dovremmo essere capaci di contemplare questo volto splendente della Chiesa, questa sua visione idealmente santa e perfetta, questa Gerusalemme celeste calata sulla terra (Ap 21,2), questa «città collocata sulla montagna» (Mt 5,14), questa santa Chiesa di Dio, umanità rigenerata a formare il Corpo mistico di Cristo. La sua bellezza ci riempie di meraviglia e d’amore. Sì, d’amore, perché questa Chiesa è il pensiero di Dio realizzato nell’umanità, è lo strumento e il termine della nostra salvezza. Impossibile non amare la Chiesa, quando la si e contemplata nella sua santità.

A questo punto Noi avvertiamo la solita obbiezione: ma codesta Chiesa, tutta santa e luminosa, è ideale o reale? è un sogno, un’utopia, o esiste davvero? La Chiesa, che noi conosciamo e che noi siamo, non è piena di imperfezioni e di deformità? La Chiesa storica e terrestre non è composta di uomini deboli, fallaci, peccatori? Anzi non è proprio il confronto stridente fra la santità, che la Chiesa predica e che dovrebbe essere sua, e la sua condizione effettiva, quello che suscita ironia, antipatia e scandalo verso la Chiesa? Sì, sì: gli uomini che compongono la Chiesa sono fatti dell’argilla di Adamo, e possono essere e spesso sono peccatori. La Chiesa è santa nelle sue strutture, e può essere peccatrice nelle membra umane in cui si realizza; è santa in cerca di santità; è santa e penitente insieme? è santa in se stessa, inferma negli uomini che le appartengono. Questo fatto dell’infermità morale in tanti uomini di Chiesa è una terribile e sconcertante realtà; non dobbiamo dimenticarlo. Ma esso non altera l’altra realtà, esistente nel disegno di Dio e in parte già raggiunta dagli eletti, quella della stupenda santità della Chiesa; ed invece di produrre scandalo e sdegno, dovrebbe produrre amore ancora maggiore, quello che noi abbiamo per le persone care, quando sono malate; un amore che così si pronuncia: affinché la Chiesa sia santa, noi, noi dobbiamo essere santi, cioè veramente suoi figli degni, forti e fedeli.

È ciò che auguriamo dando a tutti la Nostra Benedizione Apostolica.




Mercoledì, 27 ottobre 1965

27105

Diletti Figli e Figlie!

Al termine di questa udienza, come al solito, noi canteremo insieme il Credo. Questa professione della nostra fede cattolica, qui, sulla tomba di San Pietro, alla presenza del suo Successore, acquista un significato particolare, che Noi vorremmo da voi compreso e ricordato.

Quale significato? Quello di conforto appunto alla vostra fede. Questo conforto è proprio un dono spirituale, che il Nostro ministero vuol fare alle vostre anime, e che gli è caratteristico, come una prerogativa, come une funzione speciale della missione affidata dal Signore all’Apostolo, da Lui scelto ed abilitato per essere suo Vicario nel governo pastorale della Chiesa. Ricordate le parole dette da Cristo a S. Pietro durante l’ultima cena, che possiamo considerare come il rito familiare e sublime, che proclama l’inaugurazione del Nuovo Testamento? Gesù ebbe a dire in quella sera misteriosa e drammatica all’Apostolo Pietro: «Io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno; e tu, quando sarai convertito, conferma i tuoi fratelli» (
Lc 22,32).

Questo ufficio grande e difficile, ma insieme pieno di forza e di soavità spirituale, per chi lo esercita e per chi lo sperimenta, è oggi a Noi affidato. Ancora una volta il Signore compie nel mondo delle anime i suoi disegni con gli strumenti più umili e disadatti, prodigio nel prodigio dell’economia della salvezza. Ma così è. Dunque Noi vogliamo eseguire l’ordine dato da Cristo a Pietro: confermare i fratelli, cioè confortare in essi la loro fede, dare ad essi la chiarezza sul senso delle parole divine, e insieme quel senso di certezza che il Signore non volle che derivasse dall’evidenza accessibile alla nostra debole mente umana, ma provenisse dalla sua divina autorità; garanzia assoluta della verità delle parole stesse; la certezza della fede, raggiunta mediante l’assistenza, resa infallibile in certe supreme circostanze, del magistero apostolico. La fede, goduta nella sua sicurezza, professata nel suo atto religioso sublime di fiducia nella parola del Signore, innestata nel cielo dell’attività personale come principio di luce e di vigore, vissuta poi con confidente e coraggiosa semplicità, come stile di vita e come testimonianza a quel Regno di Dio a cui sono rivolti i nostri superiori destini, la fede diciamo, vorremmo anche in voi, cari Figli e visitatori, confermare e confortare.

Noi non sappiamo delle vostre condizioni spirituali; ma sappiamo di molti figli del nostro tempo, i quali subiscono una flessione nella sicurezza della loro fede; che cosa è? una tentazione, una debolezza, un’inquietudine, una sofferenza interiore? per alcuni un vuoto interiore, una cecità, uno smarrimento? L’esame, anche sommario, di questi stati d’animo Ci porterebbe a fare un discorso senza fine, sulle loro cause, sulle loro espressioni, sulle loro conseguenze; esame lunghissimo, difficilissimo; ma anche utilissimo, se pensiamo che tutti oggi hanno qualche cognizione, dentro di sé, o relativamente ad altri di questo diminuito senso della fede, integra, semplice e forte, quale dev’essere quella d’un figlio fedele della Chiesa cattolica.

Non Ci inoltreremo ora in questo esame. Ma Ci limitiamo a rassicurarvi, in nome di quel divino Maestro che abbiamo la ventura di rappresentare, che la fede in Lui, ed in quanto la Chiesa su di Lui fondata c’insegna; merita, oggi non meno di ieri e di sempre, adesione piena e schietta; la verità, la sua verità è ferma e sicura, è specchio esatto, anche se a noi enigmatico, di realtà obbiettive e salutari; il tempo non muta, non deforma tale verità; se mai la collauda e la approfondisce; la storia non la corrode, né la consuma, non le cambia significato e valore; se mai la sviluppa e la applica saviamente a mutate circostanze; la scienza non la vanifica, ma quasi la ricerca e la implora; e la Chiesa, oh! certo, non la dimentica, ma la custodisce, la medita, la difende, la professa, e ne gode.

E se questo Nostro discorso, pur troppo breve, su tema di tanta ampiezza, può in voi corroborare il senso della fede e la sicurezza della sua verità, Noi pensiamo d’aver compiuto il Nostro ministero e d’aver procurato a voi un’esperienza della più alta felicità, quella che S. Agostino diceva: gaudium veritatis, la gioia della verità (cfr. Confession. 10, 23; P.L. 32, 793).

Così vi conceda il Signore con la Nostra Apostolica Benedizione.



Mercoledì, 3 novembre 1965

31165

Diletti Figli e Figlie!

Noi parlavamo della fede ai Nostri Visitatori della scorsa settimana; della fede che qui, sulla tomba dell’Apostolo Pietro, è quasi da lui stesso ridestata e confermata. Chi sta in ascolto in questo luogo benedetto non tarderà a sentire sorgere dentro di sé il ricordo di quelle parole semplicissime e straordinarie, che Pietro disse a Gesù, dopo il discorso a Cafarnao, sul pane del cielo, quando Gesù medesimo affermò: «Il pane che Io darò è la mia carne per la vita del mondo» (
Jn 6,52), volendo preannunciare sia il suo sacrificio sulla croce, sia il sacrificio eucaristico. Ricordate che allora vi fu un abbandono di Gesù da parte dei suoi ascoltatori, prima entusiasti poi sconcertati, tanto che solo il gruppo dei discepoli rimase vicino al Maestro, il Quale francamente chiese loro: «Volete andarvene anche voi?». Ed è a questo punto che Simone Pietro conserva e riafferma il vincolo che i discepoli, immagine di tutta la Chiesa, avevano con Gesù, quando alla decisiva domanda di Lui egli rispose: «Signore, a chi andremo noi? Tu solo hai parole di vita eterna» (Jn 6,69).

Ecco: questa affermazione di Pietro, questo suo atto di fede, che sintetizza la fede di tutta l’umanità credente in Cristo, questa parola forte e profonda, che certamente lo Spirito Santo ha fatto scaturire dalla coscienza dell’Apostolo della fede, ciascun pellegrino alla sua tomba sente sorgere nell’interno della sua anima, come se San Pietro gliela suggerisse per farne professione coraggiosa e risolutiva a Cristo Signore: «A chi andremo noi? Tu solo hai parole di vita eterna».

Carissimi Figli: Noi vi auguriamo di fare questa esperienza salutare: è quella della fede che nasce dal cuore; è quella della fede facile e gioiosa, che solo i veri seguaci di Cristo possono sperimentare. Ma osservate: questa professione di fede, a un dato momento, può diventare testimonianza, cioè può esprimersi davanti a chi non la condivide, e forse la osteggia, può diventare pericolosa. È ciò che è avvenuto a Pietro, il quale non fu soltanto apostolo; fu anche martire. Così capitò a San Paolo: sulla sua tomba sono scolpite queste semplici parole: Apostolus et Martyr. E così a tanti seguaci di Cristo, che furono insigniti di questo titolo tragico e glorioso di martire.

Che vuol dire martire? Martire vuol dire testimonio; ma nella nomenclatura cristiana questo termine ha assunto il significato specifico di testimonio col sangue per la fede di Cristo. È il titolo privilegiato di colui che ha dato la vita lasciandosi uccidere per causa di Cristo. È un titolo che suppone un dramma esterno, violento e crudele, un episodio estremamente interessante dell’urto fra due forze, quella disarmata, ma invincibile dello spirito, e quella del potere armato, vittorioso in apparenza, sconfitto in realtà. È un titolo che suppone un dramma interiore, nel cuore del martire, che mette a confronto sulla bilancia d’una scelta suprema: la fede o la vita; e decide che la fede vale più della vita; egli sa che questa scelta gli farà perdere tutto, lo renderà agli occhi altrui impopolare, fanatico e solitario, forse vilipeso e ridicolo; forse privo anche di quella dignità esteriore, che darebbe grandezza- al suo silenzioso e disprezzato eroismo.

Così che la visita alla tomba dell’Apostolo-Martire non solo conforta la fede, ma la scuote; e ci fa sentire altre cose, che non la sola gioia del credere.

Ci fa sentire che la fede è cosa al sommo seria ed impegnativa; ci fa sentire che la professione cristiana non è cosa superficiale e facilmente adattabile a tutte le circostanze; essa caratterizza, essa esige fedeltà, essa comporta rischio e sacrificio, essa vuole animo forte, se occorre fino all’eroismo, fino all’amore supremo: «Non vi è amore più grande - ha detto il Signore - che il dare la vita per chi si ama» (cfr. Jn 15,13).

Così che il visitatore che pensa queste cose, sul sepolcro del martire, rimane scosso e qualche volta turbato.

Vogliamo dirvi, Figli carissimi, che bisogna, sì, avvertire la lezione grave e potente, che parte dalla memoria locale e spirituale del martirio dell’Apostolo primo della fede; ma non per esserne intimiditi e impauriti; ma piuttosto confortati da due aiuti spirituali, che hanno sempre reso glorioso e attraente nella storia della Chiesa il culto dei martiri: l’esempio e l’intercessione.

L’esempio del martire è quanto di più eloquente, di più convincente possa essere proposto ad anime libere e avide di verità per avvicinarle alla verità per cui il martire si immola. Egli ci ricorda che accanto all’«apertura» dell’apostolo vi è la fermezza del martire; ci ricorda che la verità è una sola ed ha, alla fine, diritti assoluti; ci ricorda che alla verità, alla fede, è dovuta una testimonianza non solo convenzionale, collettiva, in via di massima, ma personale, precisa e, se del caso, costosa, intrepida; e ci ricorda infine che il martire di Cristo non è un eroe a noi estraneo, ma è per noi, è nostro. «L’esempio della morte dei martiri - scrive Pascal - ci riguarda; perché essi sono nostre membra. Noi abbiamo un legame comune con essi: la loro risoluzione può formare la nostra, non solamente con l’esempio, ma perché essa ha forse meritato la nostra» (Pensées, 481).

E questo si riferisce al secondo aiuto che i martiri ci danno: la loro intercessione: È stata la certezza di questa loro azione presso Dio in nostro favore, che ha dato origine nella Chiesa al culto dei Santi. Essi ci possono ottenere in dono ciò che noi in essi ammiriamo: la loro fede, il loro coraggio, il loro amore a Cristo.

E voi allora, cari Pellegrini e Visitatori, alla tomba di San Pietro, Apostolo e Martire di Cristo, presente l’umile successore del Pescatore diventato Vescovo di Roma, raccogliete le voci stimolanti e i favori incoraggianti, che da lui ci vengono, perché la vostra fede cattolica abbia, per suo esempio e per suo merito, la pienezza e la fortezza che le convengono. Questo vuole ottenervi, a ricordo di questa udienza, la Nostra Benedizione Apostolica.

Saluto paterno a cospicui gruppi di militanti nelle attività cattoliche

Riportiamo i vari saluti rivolti da Sua Santità ad alcuni gruppi partecipanti alla stessa udienza.

Fra i tanti gruppi di questa udienza generale non possiamo non distinguerne alcuni che avrebbero desiderato e meritato un’udienza particolare; ma valga questo incontro, reso più grandioso ed edificante dalla presenza di tanti Pellegrini e Visitatori, a compensarli della mancanza di un’accoglienza speciale; e valga l’assicurazione del Nostro vivo compiacimento per questa loro visita per fare di quest’udienza un momento memorabile e pieno di spirituale significato.

Diamo tuttavia un saluto speciale, innanzi tutto, alla schiera, forte di circa 1.200 Giovani, della nostra Gioventù Italiana di Azione Cattolica, vincitori nella Gara di Cultura Religiosa. Il loro numero, che Ci fa pensare a quello immenso di loro compagni tra i quali essi sono stati scelti, e poi la causa della loro venuta a Roma, il premio cioè della Gara nello studio della nostra Religione, Ci obbligano ad esprimere loro la Nostra lode ed il Nostro incoraggiamento. Come pure dobbiamo dire il Nostro elogio ai promotori della Gara stessa: Dirigenti, Assistenti, Maestri che siano. Un’attività di tanto merito basta a qualificare per ottimo il programma formativo della Gioventù Italiana di Azione Cattolica; non possiamo non incoraggiarlo di tutto cuore. A voi specialmente, carissimi Giovani, diciamo la Nostra soddisfazione, perché nulla potrebbe conciliare a voi la Nostra affezione, quanto l’interesse che voi ponete nel dare alla vostra istruzione religiosa un carattere di serietà, di impegno, di amore; questo indica la vostra sensibilità per i più alti valori dello spirito, dice la vostra maturità per la comprensione dei grandi bisogni del nostro tempo e dimostra quali davvero voi volete essere nella vita: cattolici veri ed intelligenti, figli della Chiesa viva, e uomini capaci di infondere nella società quei fermenti cristiani, che solo la cultura religiosa può fornire, e che soli possono rigenerarla civilmente e cristianamente. Bravi, dunque; perseverate, con la Nostra Benedizione.

Poi saluteremo con cordiale attenzione il Pellegrinaggio dei Giovani appartenenti ai Circoli Giovanili dell’Arcidiocesi di Milano. Salute a voi, carissimi! Salute al vostro Promotore, a Noi ben noto, Don Lorenzo Longoni, ed a quanti vi assistono e vi dirigono. Abbiamo visto le vostre origini, durante il Nostro ministero pastorale a Milano; potete ben pensare con quale cuore ancora vi ricordiamo e con quanto gaudio vi vediamo perseveranti, cresciuti di numero e di attività! Ricordiamo la missione educativa ed associativa che vi siete scelta; e confidiamo ch’essa davvero riesca a conservare nella linea della professione cristiana i migliori giovani cresciuti nei nostri magnifici oratorii parrocchiali ed a introdurli nella vita adulta e professionale con la formazione adeguata ai bisogni del nostro tempo e degli ambienti di lavoro, in cui sono destinati a vivere, forti, coscienti, uniti, capaci non di subire, ma di imprimere alla società circostante un chiaro impulso morale e cristiano. L’aver voi scelto il tema dell’amicizia come tema del vostro studio depone per la bontà dei vostri programmi e per la saggezza dei vostri metodi e dei vostri propositi. Anche a voi diremo: Coraggio, continuate, con la più filiale adesione alle direttive del vostro Arcivescovo e con la Nostra Benedizione.

Poi: altro Gruppo giovanile, meritevole del Nostro paterno incoraggiamento: quello che qui Ci porta i Delegati del Convegno Nazionale della Lega Missionaria Studenti. Questi Studenti volonterosi ed esemplari si sono prefissi, Noi lo sappiamo, di studiare «il razzismo oggi nel mondo»; segno questo dell’ampiezza di vedute con la quale studiano i problemi missionari; segno pertanto della serietà della loro attività missionaria; e segno per Noi assai consolante della rispondenza che la Lega Missionaria pone alla grande esortazione che il Concilio Ecumenico dirige ai Cristiani intelligenti e volonterosi in favore della causa delle Missioni. Che siano Giovani, che siano Studenti ad interessarsi di tale causa Ci fa immenso piacere e Ci suggerisce ogni migliore augurio per questa Gioventù e per quanti la assistono. Portate, Studenti carissimi, alle vostre associazioni il Nostro incoraggiante saluto e la Nostra Benedizione.

Merita quindi un Nostro particolare saluto il gruppo delle Dirigenti dell’Unione Donne di Azione Cattolica, riunite a Roma per studiare un tema quanto mai delicato ed importante: quello della Famiglia e della Vocazione, congiuntamente. Quello che la famiglia può fare per la vocazione, in senso lato, dei suoi figli è uno dei punti fondamentali della pedagogia familiare, non mai abbastanza studiato nelle sue componenti psicologiche e morali; quando poi per vocazione s’intenda la scelta del servizio a Cristo e alla Chiesa con la consacrazione totale della persona a questo ideale di santità e di sacrificio, il compito della famiglia si fa più complesso e problematico non solo per il rispetto dovuto alla libertà del figliuolo, ma altresì al fattore imponderabile della grazia ispiratrice della vocazione. Ma non è chi non veda come tale compito sia importantissimo: la famiglia è il vaso di coltura del fiore della vocazione; come facilmente lo può troncare, così facilmente lo può coltivare; e nel bisogno immenso che la Chiesa ha oggi di anime pure e generose, che si consacrino al Signore, questa prima cura che assiste e non impedisce non spinge, ma non ritarda il germogliare d’una vocazione, acquista un’importanza straordinaria, che iscrive l’azione della famiglia tra i coefficienti più attivi e più meritori dell’efficienza apostolica della Chiesa nel mondo odierno. Superfluo dire che siamo gratissimi alle Donne Cattoliche del loro interessamento a questo problema e che Noi stessi invochiamo lo Spirito Santo affinché infonda nelle famiglie cristiane la stima, il senso, il gusto della vocazione dei loro figliuoli e che benedica quei Genitori che sanno degnamente offrire i loro tesori migliori, cioè i loro figliuoli, al Signore: ricorderanno che il Signore non si lascia vincere in generosità; le sue grazie saranno copiose su quelle case che sono state nido sacro al sorgere d’una vocazione.

Altro Gruppo degno di nota: quello del CIF, cioè del Centro Italiano Femminile, che ha promosso un Corso Nazionale di studio circa i problemi dell’educazione civica nazionale. Vediamo da questo come il CIF è fedele agli scopi fondamentali del suo programma. Aprire alla Donna la conoscenza dei problemi della società moderna e allenarla a partecipare coscientemente alla vita civica e sociale è quanto di più opportuno, anzi di più urgente si può fare oggi per il mondo femminile; e se questo studio e questo avviamento sono compiuti, com’è da credere, al lume della dottrina e della saggezza della Chiesa, il servizio del CIF risulta d’inestimabile valore; lo incoraggiamo e lo benediciamo.

Diremo parimente la Nostra compiacenza ed il Nostro encomio alle brave e care Religiose qui presenti, le quali hanno partecipato al settimo Convegno per le Religiose Assistenti Sociali. Sono un centinaio; e Noi pensiamo al bene che da tale numero e da tale preparazione può risultare. Un fatto come questo è un vero sintomo di quell’«aggiornamento» che la Chiesa promuove col Concilio; volentieri lo benediciamo e invochiamo dal Signore i migliori risultati. Alle Religiose promotrici e alle Religiose partecipanti al Convegno i Nostri voti migliori.




Mercoledì, 10 novembre 1965

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Abbiamo presente Firenze a quest’udienza generale; Firenze, qui rappresentata dal suo insigne Pastore, da Noi tanto venerato, il Signor Cardinale Ermenegildo Florit, Arcivescovo di quella insigne Arcidiocesi. Egli guida a Noi un Pellegrinaggio grande nel numero, sono circa cinquecento persone, più grande nel significato: è il Pellegrinaggio dei Dirigenti e del Personale del celebre Arciospedale di Santa Maria Nuova e degli Stabilimenti sanitari riuniti di Firenze. Presiede al Pellegrinaggio l’illustre e bravo Dottor Enzo Pezzati, appunto come Presidente dell’Arciospedale, lo accompagnano circa quaranta Medici, quattrocento fra Impiegati ed Infermieri, e sono con loro dieci Cappellati e quarantacinque Religiose della Congregazione delle Oblate di Santa Maria Nuova.

Di gran cuore accogliamo e salutiamo una visita tanto preziosa. Non possiamo non ricordare la storia ed il merito di questa Istituzione. A Firenze tutto è storia, tutto è gloria! Ecco qui un’opera che si collega a memorie dantesche: fondata da quel Folco Portinari, che fu padre alla Beatrice di Dante, ci porta nel cuore d’un prodigioso secolo fiorentino: il Duecento, celebre non solo per le sue travagliate vicende e per gli albori della sua arte - e primo più che albore, meriggio, quello della Divina Commedia -, ma altresì per le sue testimonianze di pietà e di santità cristiana. Ecco questa che, sorta allora per iniziativa di carità privata, può ben dirsi uno dei più antichi grandi Ospedali europei. Un’altra istituzione, quella delle Oblate fiorentine, fondata da Monna Tessa, nutrice di Beatrice, s’innesta nella prima, forma una delle prime famiglie religiose dedicate all’assistenza agli infermi, e rinomata anch’essa per esempi di mirabile carità, vive tuttora perpetuando una tradizione di silenziosa bontà, di pia gentilezza, di fiorentina e cristiana umanità. Piccole origini, ma sempre viva la radice, ora l’albero è cresciuto fino a diventare uno dei maggiori e migliori Ospedali italiani.

Come non Ci diremo felici ed onorati per questo incontro, che Ci dà modo di esprimere la Nostra ammirazione e la Nostra affezione per la Città di Firenze? Come non diremo a questi Fiorentini, che stanno celebrando il settimo centenario della nascita di Dante, che Noi siamo spiritualmente presente a così importante e significativa rievocazione? E come non augureremo Noi a questi Fiorentini, e con loro a tutti i loro concittadini, di essere ancor oggi fedeli alle loro meravigliose tradizioni? E prima fra esse quella che li fa figli della Santa Chiesa, credenti in Cristo, devoti alla Madonna Santissima, e bravi sempre a tradurre la loro fede religiosa in opere di carità e di bellezza?

L’augurio viene dal cuore del Papa, ultimo certamente nel valore, come lo è per ora nel tempo, ma pur sempre Vicario di Cristo, e legato perciò a Firenze da innumerevoli titoli di amicizia e di venerazione; e mentre per voi, qui presenti, Egli auspica ogni migliore prosperità, per le vostre persone e per la grande vostra istituzione ospedaliera, per tutti i Fiorentini, voi compresi, invoca la divina protezione e la chiama dal Cielo con una speciale Benedizione Apostolica.

A tutti i Gruppi e fedeli presenti l’Augusto Pontefice rivolge quindi la sua Esortazione paterna che riassume poi in varie lingue.

A voi, che venite a trovarci in questo periodo di grande tensione operativa e spirituale per la prossima conclusione del Concilio ecumenico, Noi ripeteremo l’invito che, scrivendo ai Vescovi, abbiamo rivolto in questi giorni a tutta la Chiesa, a tutti i fedeli, a quelli specialmente, come voi, che vogliono tenersi col cuore vicino al Papa e condividere con Lui i grandi momenti della vita della Chiesa, come quello che stiamo trascorrendo certamente è. E l’invito è quello solito: pregate. L’invito solito, cento volto ripetuto, cento volte conosciuto. Vi sarà forse qualcuno che penserà ad una mancanza di novità, di originalità, mormorando fra sé: il Papa non sa fare altra raccomandazione che quella di pregare; ottima cosa, ma è sempre la stessa cosa.

Ebbene Noi invertiamo questo facile commento: è sempre la stessa cosa, ma è ottima cosa. E se è ottima, è, sotto certi aspetti, sempre nuova, non mai esaurita nella sua profonda totalità.

E non può esaurirsi. Bisogna riflettere alla funzione della preghiera nel grande disegno delle causalità, che reggono l’ordine del mondo; l’ordine, diciamo, teologico-umano, la realtà superiore della nostra vita, il governo della nostra storia, della nostra salvezza. Ora, sappiamo - per dire le cose con estrema semplicità - che in questo ordine tutto dipende da Dio e tutto dipende da noi, ma per diverso motivo. Tutto dipende da Dio, perché Lui è la sorgente prima ed unica d’ogni cosa, anche nel regno della libertà umana; e tutto dipende dall’uomo in quanto egli liberamente sceglie la posizione che vuole rispetto all’azione di Dio; cioè Dio è causa, l’uomo condizione. Perché l’azione di Dio si svolga nel campo dei nostri interessi in maniera a noi favorevole, dobbiamo metterci in condizione - in fase, direbbe il linguaggio meccanico moderno - per agevolare, per rendere possibile l’intervento divino misericordioso. Questo studio, questo sforzo di metterci in condizione d’essere favoriti dall’operazione di Dio in noi, si chiama preghiera. La preghiera fa parte cioè del sistema generale dei nostri rapporti con Dio e dell’economia essenziale della nostra salvezza. Perciò il Signore tanto l’ha a noi raccomandata, come se Egli l’aspettasse da noi per concederci le sue grazie; essa è la causa dispositiva della sua misericordia verso di noi. «Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; picchiate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve; chi cerca trova; e a chi picchia sarà aperto» (
Mt 7,7-8).

Questo ci fa pensare che Dio è estremamente buono, e che veglia continuamente sopra di noi per vedere se siamo almeno capaci di desiderare, non fosse di meritare, i suoi favori. Ci ricorda che non viviamo in un mondo governato da un determinismo impersonale, cieco e insensibile, da un fatalismo spietato e inflessibile; ma viviamo sotto lo sguardo amoroso d’un Padre, che come Padre - cioè come sommo Principio sovrano, ma buono, ma accessibile, ma vicino e nostro - vuole essere trattato. Questo è semplice; ma fondamentale e sublime; e sarebbe facilmente da noi dimenticato, da noi che ci illudiamo tanto facilmente d’essere autosufficienti, se non fossimo continuamente richiamati al dovere, anzi al bisogno della orazione. Il bisogno dell’orazione cresce in proporzione dell’importanza e della difficoltà di ciò che vogliamo conseguire. Adesso a Noi preme di conseguire una conclusione felice del grande Concilio ecumenico in atto; ed ecco perché invitiamo i buoni a pregare.

E qui potremmo fare un’altra osservazione molto comune, ma molto interessante, circa l’efficacia impetrativa, dell’orazione; e cioè: questa efficacia vale non solo per colui che prega; vale altresì (in misura a noi non calcolabile, ma effettiva) per altri, per coloro per cui si prega. È trasmissibile. Vale a dire che la preghiera può assumere proporzioni immense; quelle delle cause buone per le quali a Dio è rivolta. Il che significa che la preghiera può essere carità per il prossimo, può essere - come sapete - apostolato. E significa ancora che la preghiera è una buona ginnastica per la dilatazione del cuore; essa allarga la sfera ristretta degli interessi personali e spesso egoisti, e la distende ai grandi interessi del prossimo, a quelli della Chiesa e del mondo. È un’arte di amare, la preghiera; è carità spirituale; è il mezzo per cui tutti sono resi idonei all’amore del prossimo, alla partecipazione personale alle grandi cause del regno di Dio.

Ecco perché ancora una volta abbiamo esortato tutti alla preghiera; il Concilio ha bisogno d’essere benedetto dal Signore, soprattutto al suo epilogo; non deve venir meno all’ultima ora la ricchezza d’i grazie, che lo ha finora accompagnato. E Noi speriamo che la Nostra esortazione troverà ascolto in voi qui presenti, per primi; e poi in tante anime buone, pie e generose; in tante case religiose votate all’orazione; in tanti luoghi di sofferenze, dove il dolore può essere preghiera.

Anche perché la fine del Concilio vuol essere il principio di quella rinascita cristiana, alla quale esso è indirizzato. Un nuovo periodo della vita della Chiesa comincia con la chiusura del Concilio: bisogna che il Popolo di Dio vegli fin d’ora per quel grande momento. Noi lo incoraggiamo con la Nostra Benedizione Apostolica.

Ad un pellegrinaggio di Zagabria, giunto a Roma per assistere alla presa di possesso del Titolo dei Santi Pietro e Paolo all’EUR da parte dell’Arcivescovo di quella città, il Signor Cardinale Francesco Seper - e che è guidato da Monsignor Francesco Kuharic, Vescovo tit. di Meta ed Ausiliare del Cardinale Seper - l’Augusto Pontefice dà uno speciale saluto del quale diamo una nostra traduzione italiana.

Rivolgiamo ai pellegrini dell’Arcidiocesi di Zagabria qui presenti con uno dei loro reverendissimi Vescovi, un particolare paterno saluto. Siete benvenuti, diletti Figli e Figlie, qui nella Basilica di San Pietro, centro spirituale della nostra santa Chiesa. Ciò che or ora abbiamo detto alle migliaia di pellegrini in quest’Aula conciliare, affidiamo premurosamente anche al vostro cuore: «tenete in alto pregio la preghiera, pregate senza tregua, memori delle parole del Signore: "dovete pregare sempre e non smettere mai", giacché l’orazione è come un ponte d’oro che unisce la terra al cielo».

Durante il vostro soggiorno romano avete potuto, in qualche modo, partecipare al Concilio: il grande avvenimento della Chiesa odierna che ha ripercussione mondiale. Siate quindi sempre figli fedeli della santa Chiesa! Compite sempre con gioia ciò che comanda la santa fede; non fate nulla di quanto la fede proibisce, poiché la legge della vostra fede dev’essere anche la legge della vostra vita cristiana. Così vi renderete sempre più degni della costante divina protezione. In pegno della quale Noi impartiamo a voi, diletti Figli e Figlie, e ai vostri cari a casa, con tutto il cuore, la Nostra Apostolica Benedizione.






Paolo VI Catechesi 13105