Paolo VI Catechesi 17115

Mercoledì, 17 novembre 1965

17115

Diletti Figli e Figlie,

La vostra visita odierna a questa Basilica coincide con la vigilia della festa commemorativa della sua dedicazione, ossia della sua consacrazione. Voi sapete che l’uso di celebrare con solennità la consacrazione d’un tempio è fra i più antichi nella storia del culto cattolico; appena l’esistenza legale e con essa la libertà fu riconosciuta alla Chiesa da Costantino (questo Imperatore, oggi tanto avversato da quelli stessi che patrocinano la libertà religiosa, da lui inaugurata!), subito incominciò la costruzione di edifici pubblici per il culto sacro; e non più secondo il tipo del santuario pagano, il fanum, l’edicola in onore d’una divinità, e non atta a contenere una comunità orante che rimaneva al di fuori (ricordate Orazio: «odi pro-fanum vulgus et arceo . . .»), ma secondo il tipo cristiano, la domus ecclesiae, la casa per l’assemblea dei fedeli. Anche questa Basilica fu fra le prime a sorgere alla luce del sole, e sempre per merito di Costantino: «Augustus Constantinus fecit Basilicam beato Petra», si legge nel famoso Liber Pontificalis al tempo di Papa Silvestro; e l’intenzione prima fu quella d’onorare e di proteggere la tomba dell’Apostolo, la quale appunto era assegnata in questa località vaticana, umilissima in origine, e poi, nel secondo secolo, distinta da una piccola edicola funeraria, quella che gli archeologi identificano col «trofeo» menzionato dal presbitero Gaio, verso il trecento. Storia lunga e commovente quella della prima basilica, e tristemente finita quando il Bramante e Giulio II decisero di demolirla per costruire un nuovo monumentale edificio (che doveva essere ancora più grande dell’attuale Basilica, costruita poi da Michelangelo; cfr. Pastor, III, 732); storia perciò felicemente ripresa da questo incomparabile tempio, ancor oggi il maggiore della cristianità. Fu consacrato da Papa Urbano VIII, nel 1626; ed è appunto questo atto, che conferisce all’immensa mole il suo pieno carattere sacro, che domani con il rito della concelebrazione per la Sessione pubblica del Concilio ecumenico sarà commemorato.

Questo vi ricordiamo, Figli carissimi, affinché la visita a San Pietro non sia una semplice escursione turistica e artistica, rischiarata da qualche reminiscenza storica e da qualche sentimento di curiosità e di ammirazione per le dimensioni e per le singolarità dell'insigne monumento, ma sia un vero atto di culto, dal quale ognuno possa riportare la genuina impressione spirituale d’un tempio cattolico, impressione che qui, appunto per le dimensioni dell’edificio, per la sua storia, per la sua peculiare funzione, può diventare vivissima e caratteristica.

Moltissimi sono i pensieri che dovrebbero invadere uno spirito attento e credente quando visita una chiesa consacrata, questa specialmente. Quali pensieri? Fra i molti scegliamone tre. Il primo si riferisce alla materialità dell’edificio: ecco un’opera, quanto mai materiale, fabbricata per lo spirito. La materia qui, più che altrove, diventa linguaggio dello spirito; diventa sacramento, cioè segno sacro; per capirne il segreto significato bisogna pensare a questa finalità che la pervade e che le conferisce il suo più alto valore.

Il culto, ch’è appunto offerta delle umili cose della terra, alla gloria del Dio del cielo, domina tutta l’opera, che da profana così diventa sacra, da insignificante parlante, da materiale spirituale. Se questo sforzo di far parlare, di far cantare l’opera materiale è compiuto con bravura l’opera diventa artistica; perché l’arte propriamente consiste nel sollevare cose ed espressioni sensibili a significato spirituale. E qui, dove le forme materiali e sensibili sono così cospicue e poderose, lo sforzo per renderle parlanti con la voce arcana raggiunge un grado massimo, quasi enfatico, quasi estatico: il visitatore dirà se questo sforzo risponde o no ai suoi gusti e alle sue attitudini spirituali, ma non potrà negare che qui la potenza dell’arte vuole raggiungere un livello superiore, e ciò non per vanità profana ma per ardore religioso, per amore alla gloria di Cristo e di Dio. Questo dobbiamo pensare!

Il secondo pensiero, suggerito dall’ampiezza stessa di questa aula magnifica, ci ricorda che una chiesa-edificio è per la Chiesa-comunità. È per accogliere i fedeli e farne, almeno durame la preghiera, «un Cuor solo e un’anima sola». È la casa della carità per i fratelli. Un’intenzione ecumenica riempie l’atmosfera contenuta nelle pareti, rigorosamente definite e distintive, d’un tempio cattolico: vorremmo tutti presenti, tutti fedeli, tutti fratelli. Vorremmo una comunione totale. Ogni assenza qui ci fa soffrire. Tutti e ognuno qua sono spiritualmente invitati; per ciascuno v’è un ricordo, una preghiera, un filo di congiunzione nella carità. E il pensiero si approfondisce e si trasforma: la chiesa-edificio è immagine, è simbolo della Chiesa-comunità. Anzi la vera Chiesa è la comunità, è il Popolo, di Dio. Ascoltiamo San Pietro, proprio qui sulla sua tomba, che ancora ammonisce i cristiani: «. . . ipsi tamquam lapides vivi superaedificamini, domus spiritualis . . .» (
1P 2,5), voi pure come pietre vive siete edificati sopra (di lui, Cristo), come una casa spirituale. Se una chiesa è il luogo d’una presenza divina, questo «luogo» è l’assemblea dei fedeli, è l’anima d’ogni fedele. Voi siete tempio di Dio, dirà San Paolo (1Co 3,16). Riflettendo su queste parole, che qui acquistano un’eco interiore per chi le sappia ascoltare, la distrazione esteriore, il fascino della grandezza e della sontuosità, che sorprende il visitatore, cede al fascino interiore della vocazione spirituale alla quale ogni cristiano in grazia di Dio è chiamato, e lo incanta e lo inebria di commoventi sentimenti, proprii della pietà cattolica.

E viene allora un terzo pensiero: quello della presenza. In un tempio aleggia una Presenza, la presenza di Dio. È il mistero dell’antico Tempio di Gerusalemme, abitazione terrena del Dio del cielo e della terra, Mistero, che per noi si è svelato e reso ancor più profondo dalla presenza sacramentale di Cristo nell’Eucaristia; e da un’altra presenza, tacita questa, ma non senza precisa relazione con quella di Cristo e di Dio, la presenza della tomba del martire, o delle sue reliquie, la quale, nella nostra liturgia, è richiesta per la consacrazione d’una chiesa. Così che venerando colui ch’è morto per la fede, il martire, incontriamo l’autore della fede, Cristo Gesti (cfr. He 12,2), e con lui il Padre celeste, al quale ogni nostro culto è rivolto (cfr. Congar, Le Mystère du Temple).

E così, lasciandovi a questi pensieri, affinché li abbiate a ricordare in relazione al nostro odierno incontro, tutti di cuore vi benediciamo.





Mercoledì, 24 novembre 1965

24115

Diletti Figli e Figlie!

La parola, intorno alla quale deve svolgersi la vostra meditazione, visitando questa Basilica, onorando qui la tomba del Principe degli Apostoli e incontrandovi col suo umile Successore, è quella, tanto ovvia, ma tanto strana, usata da Cristo per qualificare il discepolo prescelto a fungere da suo Vicario; la parola «pietra». Disse il Signore a Simone, figlio di Giovanni: «Tu ti chiamerai Cephas, che vuol dire Pietra» (cfr.
Jn 1,42 Mt 16,18). È il caso di dire, quasi a commento, un’altra parola del Signore: «I vostri orecchi hanno udito l’adempimento di questo passo della Scrittura» (Lc 4,21). L’adempimento è qui. Qui è la Pietra di Gesù. Ora: che cosa intendeva dire Gesù con questa parola, trasformatrice del discepolo Simone, e profetica circa la sua missione? Questo cambiamento del nome, in corrispondenza alla dichiarazione del discepolo stesso circa il Maestro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16), che cosa significa? San Leone Magno spiega: «Sicut Pater meus tibi manifestavit divinitatem meam, ita et Ego tibi notam facio excellentiam tuam»; come il Padre mio ti ha manifestato la mia divinità, così anch’Io ti faccio nota la tua dignità» (Serm. IV, 2); ma il termine «dignità», riferito a Pietro non dice tutto. Il pensiero di Cristo si riferiva alla fermezza, alla stabilità, alla perennità della sua proclamazione circa la realtà messianica e divina di Gesù, cioè si riferiva alle qualità che la fede di Simone-Pietro doveva avere; e ciò non solo in relazione al destino personale di Simone-Pietro stesso, ma in relazione altresì a tutta la Chiesa, che Gesù soggiunse di voler costruire su quella pietra: perciò «la situazione di Pietro nella Chiesa è quella della roccia sulla quale è costruito un edificio» (Lagrange, St. Matth., 324).

Dunque il soggetto più ovvio di meditazione, qui, dove la parola del Signore sembra trovare la sua conferma storica e sensibile, è questa fermezza, è questa stabilità, è questa perennità riferita ad una dottrina, ad una fede, ad un magistero. Diciamo semplicemente: ad una verità; ad una verità-fondamento del grande e misterioso fatto, che si chiama Chiesa; ad una verità fissa, - fissa in se stessa, e fissa nel magistero che la propone; verità dalla quale deriva l’economia della nostra salvezza. La meditazione può fermarsi qui; ed è meravigliosa e fecondissima.

Ma questa meditazione sulla verità-pietra, a cui è legato il nostro destino supremo, la nostra salvezza, - oggi - voi forse lo sapete, e forse ne fate l’esperienza - solleva negli animi opposti sentimenti. Per alcuni il sentimento risultante dal contatto spirituale, qui offerto con la verità della fede, resa certa, solida, fissa, stabile, invincibile da Cristo, è quello di una grande gioia, quella del naufrago che arriva al porto, quella del pensatore che giunge alla luce, anzi al «fuoco» (ricordate: proprio come ieri, 23 novembre 1654, il «fuoco» di Pascal: «Certezza. Certezza. Sentimento. Gioia. Pace. Dio di Gesù Cristo . . . Gioia, gioia, gioia; pianti di gioia!»); o quella del semplice fedele, che sa d’essere al sicuro e di poter costruire la sua vita su buon fondamento. Ma per altri, purtroppo, non è così. L’incontro con una verità insegnata d’autorità, e sigillata in dogmi immutabili, non dà questa felice impressione, ma piuttosto quella sgradevole d’un’imposizione molesta e indebita al pensiero, alla propria autonomia spirituale. Perché così? Questa è una delle domande più difficili, perché risale ad un segreto di Dio: la fede è atto del nostro spirito, ma è atto che non può compiersi senza un misterioso soccorso divino, senza una grazia; e nulla è più libero che il dono della grazia; grazia si chiama appunto perché dono gratuito. Anche a Pietro; Gesù lo nota espressamente alla confessione fatta da Pietro della divinità del Messia: «Te l’ha rivelata il Padre mio, ch’è nei cieli» (Mt 16,17).

E poi: il perché di questa diffidenza dello spirito di certe persone verso il carattere di certezza e di immutabilità delle verità religiose insegnate dal magistero della Chiesa proviene da molte altre cause, che sarebbe lungo e difficile esporre qui. Diremo semplicemente che la mentalità di non pochi uomini, studiosi specialmente, non è predisposta ad accogliere il dono luminoso delle verità dogmatiche della Chiesa. Lo stesso progresso scientifico, che mostra quanto siano mutevoli le verità così dette scientifiche, genera un atteggiamento di sospensione, di provvisorietà intellettuale, e talora d’incertezza sistematica, che sembra molto saggia e che impedisce non solo di aderire alla dottrina perennemente vera della fede, ma altresì di ammettere come legittima, come «moderna» tale adesione.

Lo «spirito del tempo», come si dice, prevale nell’uso del pensiero, che non si fonda più sui principii logici e obbiettivi, dai quali la verità può scaturire, ma su quelli psicologici estremamente mutevoli e, se lasciati soli, orientati verso il progressivo e tormentato disfacimento del contenuto mentale. Ovvero in alcuni l’uso del pensiero si modella sulla storia, ch’è ancora il tempo, che muta e che passa, e si contenta di affermare ciò che oggi pare vero, ma che domani forse cambierà: è il relativismo storico, che assorbe molti spiriti, pur tanto nobili e intelligenti, e che si affaccia talora anche a certi cenacoli di studiosi di questioni religiose e li distacca, insensibilmente ma gravemente qualche volta, dalla fede genuina di Cristo e della Chiesa.

Voi, carissimi Figli, che pellegrinate a questa cattedra della verità cattolica, abbiate cara la devozione a Pietro, cioè al santo Apostolo, che c’insegna la stabilità delle verità divine e la conseguente stabilità della nostra adesione a tali verità. Il nome di Pietro dev’essere in tal modo comunicato ad ogni cristiano; come carisma, cioè dono che il Signore non nega a chi ha avuto la fortuna di ricevere il battesimo; e come impegno, cioè dovere che ogni battezzato deve professare per essere degno della eccelsa qualifica di «fedele».

E ricordate la parola di Cristo: «Chiunque ascolta le mie parole e le mette in pratica, sarà paragonato all’uomo saggio, che ha fabbricato la sua casa sulla roccia» (Mt 7,24).

Qui è la roccia, diletti Figli; qui è Pietro: ed è in suo nome che vi benediciamo.

Saluto a parlamentari del Cile

Señor Presidente de la Cámara de Diputados,

Señores Senadores y Diputados, Señor Embajador:

Deseamos, en primer lugar, expresaros Nuestro saludo de bienvenida, al que unimos Nuestros sentimientos de gratitud por el homenaje que, con vuestra presencia, queréis rendir a la Cátedra de San Pedro.

En esta distinguida Delegación, vemos representadas dos Instituciones fundamentales en la vida y en el gobierno de la noble Nación Chilena: la Cámara de Senadores y la Cámara de Diputados. Y ello precisamente nos brinda la grata oportunidad de testimoniar - come pudimos hacerlo al recibir al Señor Presidente de vuestra República - nuestra afectuosa estima hacia un País de tan gloriosas y límpidas tradiciones.

Habéis llegado al Centro visible de la Iglesia, la que siempre se esforzó, con sus enseñanzas y realizaciones, por la educación cívica de los pueblos, por la defensa solícita y el respeto de los legítimos derechos y de las libertades humanas, por la prosperidad de las naciones.

Sabemos que os anima en vuestra alta y ardua misión, el ideal de contribuir al pacifico y cresciente desarrollo del orden temporal, sólido y fecundo, mediante una armoniosa colaboración de mentes y de voluntades que disminuye diferencias y respeta los valores universales e intangibles del espíritu y del orden moral, herencia preciosa de Chile. Os animamos a proseguir en esta sublime y delicada tarea.

Si en algo podemos insistir es en que los principios y postulados ético-religiosos, que se fundamentan en Dios, sigan influyendo en las soluciones a los problemas de la vida individual, familiar y social de vuestra Patria, teniendo presente que, cuanto más estrecha y ordenada es la relación con la fuente y norma de verdad, de justicia y de amor, más tutelados serán los derechos, más generosa la entrega al servicio de los demás, más viva y operante la responsabilidad de cada uno, resultando más fácil y fructuosa la convivencia de la comunidad nacional.

Con estos ardientes deseos, Nos complacemos en invocar sobre vosotros y vuestras familias, sobre las Instituciones que representáis, sobre todo el querido pueblo Chileno con su Presidente, los más escogidos dones del Cielo.





Mercoledì, 1° dicembre 1965

11265

Diletti Figli e Figlie!

Chi, venendo a questa Udienza, a questo incontro con l’umile, ma autentico successore dell’Apostolo Pietro, sulla cui tomba noi ci troviamo, non si contenta di guardare la scena esteriore, che gli si presenta davanti, per quanto unica e parlante con cento voci pur degne d’ascolto e di riflessione, ma cerca di entrare nella sfera delle verità interiori, qui significate e qui eloquenti circa il mistero della Chiesa e della sua prodigiosa concentrazione in questo punto locale, storico, giuridico, spirituale, e quindi della sua altrettanto prodigiosa irradiazione universale; può darsi che arrivi, se fedele, se pio, se attento, ad avvertire la presenza d’un segreto ambientale; d’un segreto, che solo dovrebbe essere noto a Cristo e a Pietro, ma che l’evangelista Giovanni ha saputo cogliere e registrare all’ultima pagina del suo Vangelo, e che perciò è reperibile a chi sa meditare il Vangelo, e sa vederne il riflesso perenne nella storia, che da esso direttamente deriva.

Il segreto, che forma il Nostro personale conforto e il Nostro personale tormento, è contenuto ed espresso in una semplice, ma formidabile sillaba, che suona «più, plus, pléon» (
Jn 21,15), e che Gesù ha unito, in maniera tanto inattesa, ma tanto luminosa, al verbo «amare», esigendo e suscitando in quel Simone Pietro, che nella notte della passione del Signore aveva dato la triste prova della sua debolezza, e che Gesù, quasi per cancellare quella colpa ed il suo penoso ricordo, riconfermava nell’ufficio di supremo Pastore del suo mistico gregge. Disse infatti il Signore risorto, nella famosa apparizione sul lago di Tiberiade: «Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?»; e costoro erano gli altri Apostoli, tra cui il prediletto, l’Evangelista che ci racconta la scena. Ebbene: quel «più», che mette Pietro a confronto con i migliori e maggiori seguaci di Cristo, è parola tremenda. Esige e suscita, dicevamo, un primato d’amore, che deve distinguere Pietro nel misterioso rapporto che intercede fra lui e Cristo, e che lo deve caratterizzare nel rapporto anch’esso misterioso, ma visibile questo, che fa di Pietro il primo Pastore nella santa Chiesa e della santa Chiesa. Al primato d’autorità, già conferito a Simone Pietro, Gesti vuole che corrisponda un primato di carità: potestà totalmente gratuita quella, virtù questa, dove un grande dono, una grande grazia, una grande capacità di amare deve confondersi con il più grande sforzo, il più grande slancio del cuore umano chiamato a tale sommità d’amore.

Vi dicevamo che questo è un segreto; sì, perché si riferisce all’aspetto più interiore e più personale della investitura di Pietro a Vicario di Cristo, e forma il principio, se così possiamo dire, della pedagogia e della psicologia dell’Apostolo eletto ad essere primo; primo nell’amore a Cristo, per essere primo nel governo della Chiesa, e cioè nell’amore alla Chiesa. Scoprire questo segreto fa capire molte cose. Bisognerebbe ricordare Santa Caterina da Siena, e i Santi che hanno saputo leggere nel cuore della Chiesa e vedere nel Papa, come ora spesso si ricorda, «colui che presiede alla carità».

Il che vuol dire, Figli carissimi, che qua venendo voi arrivate in una casa vostra, in una famiglia vostra; in quel porto, in quel rifugio, dove forse avete desiderato trovarvi in momenti amari, ma orientativi della vita, per essere sicuri di non essere soli al mondo, di non essere orfani, e dimenticati e disprezzati. Qui si può pensare d’essere accolti, compresi, istruiti, guidati, confortati, perdonati, riabilitati, allietati, vivificati; in una parola: amati. Amati di amore divino e di amore umano.

Diciamo una cosa molto bella per voi, per ciascuno di voi, e per quanti avranno la sorte e il coraggio di varcare le soglie della casa di Pietro; la casa dell’amore di Cristo e degli uomini. Ma sappiamo ch’è insieme, cosa molto difficile, per Noi; perché amare, come il Signore vuole che ami il Pastore, il Pastore primo specialmente, è davvero difficile: esige cuore immenso, cuore fermo, cuore ardente, cuore eroico. È il Nostro studio e la Nostra angustia! Ma Noi, rispondendo umilissimamente al Signore: «Tu sai che io ti amo», come allora rispose Pietro, confidiamo di mormorare, estraendola dalla Nostra coscienza, la Nostra più profonda parola, e così confidiamo di celebrare in Noi, per la Chiesa, la misericordia amorosa di Cristo.

Venendo a questa Udienza può darsi che voi sappiate un po’ penetrare questo segreto di Pietro, e che subito vogliate esserne e partecipi e felici. Così vi conceda Cristo Signore, mediante la Nostra Benedizione Apostolica.




Mercoledì, 15 dicembre 1965

15125

Questa è un’udienza insolita, un'Udienza straordinaria, fuori classe, di quelle che meriterebbero un protocollo speciale, non tanto di solennità esteriore, quanto di spirituale accoglienza. Meriterebbe grandi commenti; inviterebbe a grandi pensieri. Perché si tratta di Artisti; di Artisti del Teatro e del Cinema; di Operatori dello Spettacolo; e per ,di più di «anziani», di benemeriti cioè, di rinomati personaggi dello Spettacolo. Saremmo tentati di nominare le varie Associazioni componenti quella generale, che tutti vi conduce: e l’Associazione Nazionale degli Esercenti-Cinema, e l’Associazione Cattolica Esercenti Cinema (A.N.E.C. e A.C.E.C.), poi quella delle Attività teatrali (U.N.A.T.) e dell’esercizio teatrale (A.N.E.T.) e degli Enti sinfonici e lirici (A.N.E.L.S.) e degli Impresari lirici (A.N.A.D.I.L.), delle attività concertistiche (A.I.A.C.), dei circhi (E.N.C.) e degli Spettacoli viaggianti (A.N.E.S.V.), ecc. Tante sono codeste formazioni, che basta ricordarle per comprendere quale complesso di attività, di interessi, di influssi morali, sociali, artistici si concentri sotto le vostre magiche sigle. E poi: siete molti, moltissimi, - lo vediamo - come persone; e quali nomi! Se ne facciamo ora uno solo, quello di Emma Grammatica, è per onorare la memoria d’una Artista testé defunta, che voi tutti certo avete stimata e ammirata, e che Noi stessi - caso singolare, e per Noi commovente - abbiamo conosciuta personalmente sotto il velo della gentile bontà e della sincera pietà: onore e pace all’anima sua! E basti questo accenno singolare per farci pensare a quale gente voi siete: nomi celebri; ormai la pubblicità vi avvolge d’un nimbo di fama e di popolarità, che mette il vostro nome sulle labbra di quanti s’interessano agli spettacoli; e, si può dire, san tutti; è il popolo; voi siete personaggi pubblici e celebri; e tanto basta perché Noi Ci sentiamo onorati della visita che Ci fate, e perché Noi vi dobbiamo ringraziare d’averci, in codesta maniera, fatti partecipi della ricorrenza, che voi celebrate, quella del XX anniversario dell’Associazione, che tutti vi riunisce, l’A.G.I.S.; e partecipi altresì della circostanza, che dà splendore alla celebrazione, la premiazione cioè degli Anziani delle varie categorie delle persone impegnate nello spettacolo. Non solo Noi non disdegniamo l’invito, che così Ci fate, a partecipare alle vostre commemorazioni; ma, con questa Udienza, lo onoriamo della Nostra presenza e - per quanto breve e semplice - della Nostra parola. Non siamo né colleghi, né clienti; ma non siamo degli estranei - come pensosi osservatori del vostro mondo e di quanto da esso si irradia - alla realtà culturale, artistica, pedagogica, spirituale, che voi formate e rappresentate. Vi diremo anzi che siamo a codesta realtà assai attenti e interessati.

Abbiamo sempre presenti, sì, nell’animo le voci discordanti che dal nostro campo - il campo religioso e cristiano - si levano a giudicare lo spettacolo, sia per denunciarne la profanità ed il, pericolo (da Tertulliano a Bossuet e Pascal), sia per elogiarne la magia espressiva e, per certe forme, la sacralità; ma per Noi ora le questioni relative alle vostre professioni si concentrano nella valutazione artistico-pastorale, che i Nostri Predecessori hanno fatto propria a vostro riguardo; ed è una valutazione altamente positiva, piena di ammirazione e di fiducia, anche se sempre vigilante ed esigente, la quale attribuisce al vostro mondo altissimi riconoscimenti e superlative funzioni, non solo puramente estetiche e ricreative, ma umane, sociali cioè e spirituali d’innegabile importanza. Il Concilio stesso, voi lo sapete, ha mostrato la sua simpatia per ogni forma d’arte, e non solo sotto l’aspetto religioso e culturale, ma anche sotto l’aspetto del civile progresso (cfr. ad es. la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo moderno, n. 62).

Questo vi dica come Noi consideriamo prezioso questo incontro. Esso avviene sotto i segni dell’amicizia e della speranza. Avremmo nel cuore parole nuove e buone per voi; parole dense di significati reconditi, quelli che cercano di leggere in fondo allo spirito e in fondo alle cose, e che, mentre svelano le indefinite ricchezze della vostra versatilità espressiva e rappresentativa, ne fanno avvertire il potere di suggestione, il fascino propriamente artistico e di conseguenza la responsabilità ch’essa viene ad assumere verso gli spiriti, che tale fascino subiscono: voi siete il veicolo più potente di suggestione su gli uomini, sui vostri spettatori; voi siete il tramite incantevole di sentimenti, di passioni, di esperienze, di fantasie, e di idee, che travasate in quanti vi osservano; cosa stupenda, cosa tremenda; certamente voi vi pensate; ed è ciò che aggiunge un merito, una grandezza tutta particolare alla vostra arte, se davvero la sapete rendere corresponsabile della vita del vostro pubblico; non veleno, ma balsamo; non vertigine, ma visione.

Una parola Ci viene spontanea alle labbra; coraggio! date alla vostra arte le ali del genio, della bellezza, dell’energia spirituale; coraggio; ché il popolo a cui vi dirigete ha bisogno del vostro carisma artistico, e non solo per il suo sollievo ricreativo, ma per la sua coscienza di erede e di candidato d’un’incomparabile missione artistica nella storia dell’umana e cristiana civiltà.

Ed un’altra parimente Ci sale dal cuore, più umile questa e più confidenziale: Figli tutti, voi Anziani specialmente, siete stanchi? siete alle volte delusi, alle volte pensosi dello strano pluralismo a cui la vostra arte assoggetta il vostro spirito? non sentite a volte il desiderio di levare ogni maschera dal vostro volto e di sentirvi voi stessi? chi siete veramente? chi siamo? qual è finalmente la verità della vita? Signori! se mai questo bisogno d’intima e personale sincerità vi sorprende, se questo anelito di verità personale ed esistenziale vi assale, pensate che Cristo vi è vicino e che ha una parola d’ineffabile gioia anche per voi, proprio per voi! E Noi, con la Nostra Benedizione Apostolica, vi auguriamo di sentirla, quella parola!

* * *

Quale può essere il tema delle Nostre parole se non il Concilio, ancora il Concilio, che proprio una settimana fa abbiamo felicemente chiuso? Penserà forse qualcuno che s’è già parlato tanto del Concilio, da molti ed in molti sensi: non sarebbe tempo di farla finita e di cambiare tema?

Figli carissimi! comprendiamo benissimo lo stato d’animo di coloro che la pensano così; anzi diremo che è Nostro proposito rinunciare, durante queste Udienze di carattere familiare, ai commenti postumi del grande avvenimento: lasciamo i commenti ai competenti, ai critici, agli storici; e invece di volgere lo sguardo al passato, noi guardiamo al presente, ed un poco anche all’avvenire; ma non possiamo prescindere dal Concilio.

Perché? Per la semplice ragione che il Concilio, di natura sua, è un fatto che deve durare. Se davvero esso è stato un atto importante, storico e, sotto certi aspetti, decisivo per la vita della Chiesa, è chiaro che noi lo troveremo sui nostri passi ancora per lungo tempo; ed è bene che sia così. Il Concilio non è un evento effimero e passeggero, come tanti eventi sono nella cronaca della Chiesa e del mondo; è un evento che prolunga i suoi effetti ben oltre il periodo della sua effettiva celebrazione. Deve durare, deve farsi sentire, deve influire sulla vita della Chiesa, e cioè sulla nostra, se davvero noi vogliamo essere buoni e fedeli membri della Chiesa stessa.

Faremo ora due semplici osservazioni. La prima riguarda appunto l’atteggiamento che dobbiamo assumere rispetto al «Post-Concilio», come già si dice. Perché tra i vari atteggiamenti possibili dovremo scegliere quello buono. Dicevamo, innanzi tutto, non buono, non logico, non «ecclesiale», l’atteggiamento di coloro che pensano di ritornare, a Concilio finito, come prima; di rientrare nelle abitudini religiose e morali anteriori al Concilio, e forse non già per il valore di tali abitudini; molte, moltissime anzi, delle quali sono e saranno da conservare e da difendere, perché facenti parte o del «deposito della fede», inalienabile e irreformabile, o perché costituenti il patrimonio genuino e prezioso d’una tradizione cattolica, che sarebbe stolto e irriverente cambiare o dissipare; ma per la tranquillità, per la pigrizia; per il riposo, che quelle abitudini di prima sembrano concedere e garantire. Questo stato d’animo non sarebbe conforme allo spirito rinnovatore del Concilio e non sarebbe degno di figli fervorosi e intelligenti della Chiesa. Non quindi il nostro.

Vi è un altro atteggiamento opposto: il «conciliarismo», cioè quello che vorrebbe un Concilio permanente. E non parliamo ora delle sue maggiori e famose affermazioni storiche e giuridiche riguardanti la dottrina della somma potestà direttiva della Chiesa; a questo riguardo dobbiamo rallegrarci delle soluzioni costituzionali emanate dal Concilio Vaticano primo, circa la potestà pontificia, e dal Concilio Vaticano secondo, circa la potestà dei Vescovi congiuntamente a quella del Papa. Alludiamo piuttosto allo stato d’animo di coloro che vorrebbero «mettere in discussione» permanente verità e leggi ormai chiare e stabilite, continuare il processo dialettico del Concilio, attribuendosi competenza e autorità di introdurre criteri innovatori proprii, o sovvertitori, nell’analisi dei dogmi, degli statuti, dei riti, della spiritualità della Chiesa cattolica, per uniformare il suo pensiero e la sua vita allo spirito dei tempi. Sarà sempre lecito ed encomiabile che Pastori e Dottori non consentano al Popolo di Dio un’adesione puramente passiva alla dottrina e al costume della Chiesa, ma procurino piuttosto di animarla di convinzioni vive, di studi nuovi, di espressioni originali; ma tutto questo suppone una sicura fedeltà alla realtà religiosa e morale, ormai garantita dal magistero della Chiesa cattolica. Sarebbe smentita la sua natura e la sua missione, se così non fosse.

Il che vuol dire che l’atteggiamento buono, quello che i fedeli della Chiesa devono oggi assumere rispetto al Concilio, non è quello di «mettere in discussione», cioè di mettere in dubbio e sotto inchiesta le cose, che esso ci ha insegnate, ma quello di metterle in pratica; di studiarle, di capirle, e di applicarle nel contesto effettivo della vita cristiana. Se questo mancasse, a che cosa sarebbe servito il Concilio? Questo significa che il periodo Post-conciliare è importantissimo; e se il Concilio impegnava direttamente i Padri conciliari, cioè la Gerarchia avente autorità di magistero e di governo, il post-Concilio impegna tutti e ciascuno, Clero e Fedeli.

E qui faremo la Nostra seconda osservazione. Essa riguarda le «novità» del Concilio, gli effetti visibili cioè, che il Concilio intende produrre. A questo proposito bisogna ricordare che non tutti gli effetti conciliari sono visibili ed esteriori, e che perciò essi sono tali da tradursi in trasformazioni sensibili (come lo sono, ad esempio, i cambiamenti di alcuni riti liturgici). Il rinnovamento conciliare non si misura tanto dai cambiamenti di usi e di norme esteriori, quanto nel cambiamento di certe abitudini mentali, di certa inerzia interiore, di certa resistenza del cuore allo spirito veramente cristiano. Il cambiamento primo, e fra tutti il più importante, è quello che comunemente chiamiamo la «conversione» del cuore. Bisogna, come dice San Paolo, «rinnovarsi spiritualmente nella mentalità» (Eph, 4, 23); pensare in maniera nuova. Qui comincia la riforma, qui l’aggiornamento.

E cioè: dobbiamo entrare in una fase di docilità interiore alla voce di Dio, in una fase di buona volontà e di fervore, che l’amore a Cristo e alla sua Chiesa, un grande e nuovo amore, deve caratterizzare. Questo vi diciamo, accompagnando la parola e l’augurio con la Nostra Apostolica Benedizione.




Mercoledì, 22 dicembre 1965

22125

Diletti Figli e Figlie!

Viene spontaneo alle Nostre labbra l’augurio del buon Natale. Pochi giorni ci separano dalla celebrazione della grande festa, la quale, sotto tanti aspetti diversi, occupa gli animi di tutti; e per tutti suscita il medesimo augurio: buon Natale!

Lo facciamo Nostro questo augurio per voi; e a voi lo ripetiamo come espressione della Nostra riconoscenza per la visita, che voi oggi Ci fate: «Buon Natale a voi, carissimi figli e visitatori!», e a voi lo ripetiamo come eco del cuore, che all’incontro presente si riempie d’affezione per tutti e ciascuno di voi, e la effonde nel voto più cordiale e più buono: buon Natale!

Ma Noi dobbiamo invitarvi ad avvertire una nota profonda e, in certo senso, originale, che risuona in questo comunissimo voto. La potete scoprire da voi stessi questa nota, se vi domandate: qual è il Natale che il Papa può dire buono, e fare per ciò oggetto del Suo augurio? Che cosa il Papa può desiderare per noi in occasione della ricorrenza commemorativa della nascita di Gesù Cristo nel mondo? Se vi ponete, diciamo, questa domanda, comprendete subito che il Papa non può prescindere, nel Suo augurio, da un riferimento diretto all’origine, all’essenza, al significato, al valore della festa, che stiamo per celebrare; e cioè non può prescindere dal riportarci alla venuta di Cristo nel mondo, e dal trarre da questo fatto, da questo mistero il contenuto, lo scopo del Suo augurio natalizio. È così. I bambini lo capiscono subito, e pensano al loro presepio: un buon Natale vuol dire un bel presepio.

Sì, è così. Il Nostro augurio vuole polarizzare i vostri animi nel punto essenziale della festa: l’incarnazione del Verbo di Dio in Cristo Gesù. E se fissiamo aspirazioni e pensieri in questo straordinario avvenimento, la meditazione si fa luminosa e non finirebbe più. Non finirebbe più di considerare il mistero in se stesso, intorno al quale si concentra la teologia, la storia, il senso del mondo; ma non finirebbe più altresì di considerare l’importanza che tale mistero ha per noi tutti e per ciascuno di noi: Egli rischiara la nostra vita, i sentieri del nostro cammino nel tempo, le cose ed i fatti che ci circondano. Dice l’Evangelista Giovanni (secondo l’interpretazione comune): «Egli era la luce vera, che illumina ogni uomo che viene al mondo» (
Jn 1,9). E perciò, come quando in un ambiente oscuro è acceso un lume, gli occhi di tutti si rivolgono, con gioia, con riconoscenza, verso quel lume, così i nostri spiriti dovrebbero rivolgersi verso Cristo, che, venendo nella scena opaca e confusa del mondo, tutta dolcemente e misteriosamente la rischiara, e la rende comprensibile e - senza nascondere i punti negativi - bella la fa apparire. In Cristo tutto acquista verità, ordine, significato, finalità.

Sant’Ambrogio, scrivendo sulla verginità, in una celebre, bellissima pagina, esclama: «Noi abbiamo tutto in Cristo. Ogni anima a Lui si avvicini..., ogni cosa Cristo è per noi, omnia Christus est nobis» (P.L. 16, 291). Accenniamo appena, per avviare la vostra meditazione natalizia; ed oggi, quasi a preparazione del Natale e per dare al Nostro augurio un’intenzione particolare, diremo qual è il Nostro migliore voto per voi: che abbiate il desiderio di Cristo. Il desiderio di Cristo!

Egli è stato desiderato, aspettato, invocato lungo tutti i secoli dell’Antico Testamento; Egli è stato «il desiderato da tutte le genti»; Egli è venuto a soddisfare le aspirazioni messianiche d’un Popolo eletto ed educato da Dio per attendere, per prefigurare, per annunciare, per accogliere l’inviato da Dio; Egli è stato fatto intravedere da lontano all’«uomo dei desideri» (Dan. 9, 3; e 10, 19), il profeta Daniele: Egli è il termine della tensione storica e spirituale dell’umanità; verso di Lui si rivolge la timida, ma ormai fiduciosa domanda dei Gentili stessi, capitati nella sfera della sua presenza: «Volumus Iesum videre», vogliamo vedere Gesù (Jn 12,21).

Il desiderio di Cristo, Figli carissimi, è la migliore disposizione d’animo per celebrare bene il Natale. Ricordiamo una legge dell’economia della salvezza portata da Cristo: essa è meravigliosamente gratuita, .universale, facilmente accessibile; ma ad una condizione, d’essere desiderata, preparata, accolta. La luce è per tutti; sì, per tutti quelli che aprono gli occhi per goderne il raggio giocondo e benefico. Così Cristo; così il Natale: esso è vero, esso è salutare per chi desidera ritrovarvi la conoscenza migliore, l’umore maggiore, la presenza più nostra e più viva di Cristo Gesù. E questo è l’augurio che la Nostra Benedizione Apostolica vuol rendere per voi efficace e felice.





Paolo VI Catechesi 17115