Paolo VI Catechesi 8666

Mercoledì, 8 giugno 1966

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Diletti Figli e Figlie!

Noi ripetiamo continuamente, dopo il Concilio specialmente, ai Nostri visitatori e ripetiamo oggi anche a voi la domanda: sapete che cosa è la Chiesa? Subito cento risposte vengono alle labbra; ma Noi chiediamo ancora: avete ben compreso il significato non solo di questa parola «Chiesa», che vuol dire assemblea, riunione, società, ma la realtà indicata da questa parola: in realtà, che cosa è la Chiesa?

Vi presentiamo questa domanda, perché Ci sembra che nessun momento e nessun luogo siano più propizi di questo momento e di questo luogo per fare sorgere negli animi di tutti i presenti tale questione; non solo, ma per dare alla questione una vera, una densa risposta. Che cosa è la Chiesa? Diciamo intanto che manca d’intuizione esatta colui che non intravede subito la difficoltà di dare alla domanda un’adeguata risposta; e la difficoltà cresce - fate attenzione! - man mano che meglio si conosce la Chiesa, perché ci si accorge che noi non siamo in grado di sapere ogni cosa a riguardo della Chiesa: nella sua profonda realtà v’è qualche cosa che sfugge alla misura della nostra comprensione; la Chiesa, perché è opera di Dio, perché è animata dall’azione dello Spirito Santo, e perché non è una società composta soltanto da uomini di questa terra? ma anche dalle anime dei fedeli defunti e dei Santi in cielo; la Chiesa è un mistero!

Sì, è un mistero. Il Concilio l’ha ripetuto. Ma allora non potremo farci mai un concetto, se non adeguato, almeno corrispondente alla realtà vera, essenziale della Chiesa? Sì, che potremo, anzi dovremo. Sappiamo che la Chiesa è chiamata con diversi nomi - abbiamo già ricordato alcuni di questi -; e qual è quello ch’è più usato, e che più si avvicina alla verità? Voi certamente già lo conoscete, anche perché se ne è tanto parlato in questi anni, dopo che Papa Pio XII, nel 1943, pubblicò una grande Enciclica, ch’è come un trattato sulla Chiesa, e fu intitolata l’Enciclica sul Corpo mistico. La Chiesa è il Corpo mistico di Cristo. È San Paolo che ha dato questa definizione, e ne ha fatto più d’una volta uso nelle sue lettere: il Corpo di Cristo, egli scrive, «quod est ecclesia», che è la Chiesa (
Col 1,24). Cristo, egli diceva, «est caput corporis ecclesiae», è il Capo del Corpo della Chiesa (ib. 18); e aggiungeva: «Multi unum corpus sumus in Christo», noi, che siamo una moltitudine, formiamo un solo corpo in Cristo (Rm 12,5). Eccetera. Non Ci fermeremo a commentare questa celebre e feconda espressione, se non per fare un’altra domanda: che cosa intendeva dire San Paolo, quando paragonava la Chiesa ad un corpo, ad un essere vivente, unico, organizzato, avente Cristo come suo capo?

Esplorando un po’ questa nuova domanda si arriva ad un nuovo titolo, essenziale questo e pieno di significati, dato alla Chiesa; un titolo, che pure conosciamo, e sul quale per ora ci fermeremo: la Chiesa è una comunione (cfr. Hamer). Che cosa vuol dire in questo caso: comunione? Noi vi rimandiamo al paragrafo del catechismo, che parla della «sanctorum communionem», la comunione dei santi. Chiesa vuol dire comunione dei santi. E comunione dei santi vuol dire una duplice partecipazione vitale: la incorporazione dei cristiani nella vita di Cristo, e la circolazione della medesima carità in tutta la compagine dei fedeli, in questo mondo e nell’altro. Unione a Cristo ed in Cristo; e unione fra i cristiani, nella Chiesa (cfr. Piolanti, Il mistero della com. dei santi, p. 357 ss.).

Dottrina difficile? dottrina stupenda.

Dottrina speculativa? dottrina viva.

Sì, dottrina viva; che dovrebbe essere viva nel popolo cristiano. Forse manchiamo ancora d’una comprensione adeguata di questo insegnamento capitale della Chiesa: vi abbiamo mai fermato veramente la nostra attenzione? Noi siamo realmente viventi in Cristo (ecco perché la partecipazione al mistero eucaristico si chiama comunione); e noi siamo realmente membra d’un medesimo organismo sociale e spirituale, che chiamiamo Chiesa. E forse manchiamo ancora d’una pedagogia, d’una formazione, che ci abitui a pensare e ad agire come parti, come cellule, come figli e fratelli di questa comunione ecclesiale.

Qual è la nostra capacità di «amare il prossimo come noi stessi»? qual è la nostra attitudine alla concordia, al perdono delle offese, alla rinuncia circa le gelosie, le liti, le discriminazioni, gli egoismi di nazionalità, di lingua, di classe, di razza, d’interessi economici? qual è il genio cristiano, se non quello della concordia, dell’unione, della pace, della generosità, della carità? La Chiesa è corpo; la Chiesa è comunione!

Figli carissimi! Che la meditazione sulla Chiesa vi faccia scoprire questa sua esigenza interiore d’unità, di comunione; e vi faccia pregustare l’intima verità della parola, ben nota, del Salmo: «Quanto è bello e giocondo che fratelli abitino insieme» (Ps 132,1): questo vi ottenga la Nostra Benedizione Apostolica.



Mercoledì, 15 giugno 1966

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Diletti Figli e Figlie!

Il nostro desiderio di offrire ai partecipanti di queste udienze generali un pensiero sulla Chiesa (come una volta - e forse anche adesso! - i visitatori dei luoghi celebri e sacri cercavano di portar via con sé un frammento a ricordo di quel luogo e di quella visita) Ci fa indugiare ancora sopra le figure, mediante le quali la Sacra Scrittura ci rivela qualche cosa della Chiesa, e ci aiuta a pensare alla Chiesa stessa, come a realtà cara e conosciuta. Ebbene Noi oggi vi invitiamo a pensare alla Chiesa, come la vedreste attraverso il cristallo trasparente di due figure note, ma sempre singolari: la Chiesa mistica Sposa di Cristo e la Chiesa Madre dei cristiani. E vi aiutino questi nomi eletti, ma strani (il primo specialmente) a riflettere e a capire qualche cosa della dottrina, tanto vasta e profonda, che alla Chiesa si riferisce, e che Noi non pretendiamo certo di trattare in queste familiari conversazioni.

Perché la Chiesa è chiamata Sposa? Sposa di Cristo, s’intende. L’uso di questo appellativo, riferito al Popolo ebraico, risale all’antico Testamento, dove il rapporto fra Dio e il suo Popolo è più volte raffigurato nell’amore nuziale. È bene ricordare come nell’antico Testamento Dio si afferma, sì, Creatore trascendente, Legislatore esigente e Giudice severo; ma poi anche si rivela Amore sempre vigile e tenerissimo. Amore preveniente e gratuito; Amore fedele e misericordioso; Amore soave e inebriante; Amore, che castiga, che perdona e che salva; e così via (cfr.
Lm 2,2 Os 6,6 Is 49,15 Is 54,4-10 Ez 16,59-63 etc.).

Nel nuovo Testamento l’immagine dello Sposo è dal Precursore riferita a Gesù (Jn 3,28-29; e cfr. nelle parabole: Mt 22,2-14 Mt 25,1-13). Egli stesso, una volta, si paragona ad uno Sposo che fa lieti i suoi amici (Mt 9,14-15). Ma è ancora San Paolo che dà all’immagine il suo significato ecclesiologico più preciso, nel famoso passo della lettera agli Efesini: «. . . Cristo ha amato la Chiesa . . .» (Ep 5,21-32); immagine, che sarà trasferita dall’Apocalisse nella gloria eterna lasciandoci intravedere nelle nozze dell’Agnello l’unione beata di Cristo con l’umanità redenta, insignita del titolo e della dignità di sua mistica Sposa (Ap 19,7-9 cfr. Vonier, l'Esprit et l’Epouse p. Ed. Cerf, Ap 1947).

Che cosa c’insegna questa allegoria, che ci autorizza a chiamare la Chiesa Sposa di Cristo? C’insegna l’amore sopra ogni amore che Cristo ha avuto per la Chiesa, un amore, che può essere in qualche modo significato dal connubio umano, ma ch’è più di esso sostanziale ed abissale: dicano i teologi, dicano i mistici quale sia l’unione fra Cristo e l’umanità, derivante dall’Incarnazione (coniunctio nuptialis, scriveva S. Agostino, Verbum et caro, P.L. 36, 495), e derivante dal sacrificio della Redenzione: Cristo «se ipsum tradidit pro ea, s’immolò per la Chiesa» (Ep 5,25). Si è detto spesso che la Chiesa è un mistero; sì, ma ora possiamo sapere almeno di quale natura sia questo mistero; è un mistero di carità, d’innamoramento di Dio, mediante Cristo, nello Spirito Santo, del mondo dell’umanità, cioè della Chiesa; l’epigrafe della Chiesa può essere: Sic Deus dilexit, così Dio amò (Jn 3,16); propter nimiam charitatem, per il troppo amore (Ep 2,4); ovvero: Cristo ci amò Christus dilexit nos (Ep 5,2 2Th 2,15); ecc. C’insegna pertanto l’unione intima e indissolubile e insieme la distinzione di Cristo e della Chiesa. C’insegna che la Chiesa non è principio, né fine a se stessa; ella è di Cristo; da Lui riceve la sua dignità, la sua virtù santificatrice, la sua umile ed eccelsa regalità. C’insegna che la Chiesa non è solo strumento della salvezza, ma termine della salvezza, perché in essa termina il disegno e la carità del Signore; in lei si celebra l’apoteosi dell’umanità vittoriosa nel cielo (cfr. l’inno della Dedicazione: «Sposaeque ritu cingeris . . .»).

Ci pensino coloro che per la Chiesa non hanno che giudizi di critica, o di antipatia; ci pensino coloro che la giudicano un diaframma inutile fra l’uomo e Dio, e non ricordano ch’essa è il punto d’incontro dell’amore di Cristo per noi; la casa delle nozze, cioè la santa Chiesa; «Nuptiarum domum, id est sanctam Ecclesiam», scriveva S. Gregorio Magno (Hom. 38; P.L. 76, 1287).

E allora, pensando a questa necessità, che noi abbiamo della Chiesa, l’altra immagine subentra alla prima: la Chiesa è madre nostra; a lei tutto dobbiamo: alla vita nuova, quella della grazia, quella che farà la nostra eterna felicità, ella ci ha generati; ci ha dato la fede, e col suo magistero ce la conserva univoca, integra e feconda; ci ha dato la grazia; ella è la dispensatrice dei sacramenti; ci ha dato la carità, l’«agape», la società dei fratelli; ella ci unisce, ci educa all’amore, all’umanesimo vero, alla comprensione e all’edificazione di se stessa; ella ci guida, ci difende, ci allinea sui sentieri della speranza, ci anticipa il desiderio escatologico della vita futura e ce ne fa pregustare la felicità. Dal suo magistero, dal suo ministero «ogni fedele è sostenuto in maniera effettiva nel dono di se stesso a Cristo; . . . mediante la rete ch’essa va tessendo, ognuno si trova realmente collegato a tutti i suoi fratelli; . . . mediante la voce umana che insegna e che comanda, ognuno ascolta, ancor oggi, la voce del suo Signore» (cfr. De Lubac, Médit. 205).

Vengono alla mente le parole di S. Ambrogio: «Mater ergo viventium Ecclesia est» (P.L. 15, 1585). La madre degli uomini vivi. Bisogna pensarci, figli carissimi. Bisogna goderne. Bisogna invidiare a Santa Caterina morente le parole conclusive della sua vita infiammata: «Io, in verità, ho consumata e data la vita nella Chiesa e per la santa Chiesa: la quale cosa mi è singolarissima grazia» (Joergensen, 518-519).

Cosi Noi, così voi, carissimi Figli; con la Nostra Benedizione Apostolica.




Mercoledì, 22 giugno 1966

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Diletti Figli e Figlie!

Noi andiamo cercando, in questi brevi colloqui settimanali, di capire qualche cosa della grande e profonda dottrina, che il recente Concilio ecumenico ha proclamato circa la santa Chiesa, e che impegnerà per l’avvenire lo studio, la preghiera, l’attività della Chiesa stessa. Ci contentiamo, in questa sede, di citare i nomi, i titoli, le immagini, con cui la Chiesa è chiamata; e a Noi pare che ogni espressione nominale, riferita dalla sacra Scrittura e dal Concilio alla Chiesa, sia quasi un lampo di luce, una rivelazione; un’apertura verso qualche migliore intelligenza della grande verità, anzi della grande realtà, che è questa nostra santa e benedetta Chiesa di Dio. «Come il Signore, dice S. Giovanni Crisostomo, così anche la Chiesa è chiamata con molti nomi» (Hom. de capto Eutropio, PG. latine 28, 402).

Volete voi quest’oggi fermare, un istante, la vostra attenzione sopra un titolo stupendo, luminoso, ma abbagliante per la sua stessa luce, che il Concilio ha attribuito alla Chiesa? e il titolo è questo: lume delle genti; cioè faro delle nazioni, luce dei popoli. È con questa espressione «lumen gentium» che si apre, e perciò s’intitola, la Costituzione dogmatica del Concilio Ecumenico Vaticano secondo sulla Chiesa, il documento certamente più importante, che il Concilio medesimo abbia promulgato. La Chiesa è chiamata il lume delle genti.

Donde viene questo nome? È stato Papa Giovanni XXIII, di venerata memoria, ad applicarlo alla Chiesa, proprio per il fatto ch’essa era da lui convocata al Concilio. Nel radiomessaggio, che quel Nostro amato Predecessore lanciò al mondo un mese prima dell’apertura del Concilio, il giorno 11 settembre 1962, Egli applicò alla Chiesa l’acclamazione, che la liturgia del Sabato santo rivolge al cero riacceso, simbolo di Cristo risorto, donde viene conforto di chiarezza e di speranza alla comunità dei fedeli. avvolta nell’oscurità della notte. Disse allora Papa Giovanni XXIII: «Ci torna qui opportuno e felice un richiamo al simbolismo del cero pasquale. Ad un tocco della liturgia, ecco risuona il suo nome: Lumen Christi. La Chiesa di Gesù da tutti i punti della terra risponde: Deo gratias, Deo gratias, come dire: sì; lumen Christi; lumen Ecclesiae; lumen gentium» (Discorsi 1962, p. 521, 527).

Questa sola espressione della luce, riferita alla rivelazione di Dio, al popolo eletto, poi al Verbo incarnato, cioè a Cristo, in relazione alla salvezza del mondo, meriterebbe uno studio senza fine (cfr. Is
Is 42,6; Ac 13,47; Jn 1,5; etc.). Ciò che a noi interessa è il duplice passaggio della luce del mondo, ch’è Cristo, dapprima alla Chiesa, poi dalla Chiesa al mondo. Tutti ricordiamo le sublimi parole di Gesù: «Io sono la luce del mondo; chi mi segue non camminerà nelle tenebre, ma avrà lume di vita» (Jn 8,12); ripetute poi: «Mentre sono nel mondo, Io sono la luce del mondo» (Jn 9,5); «Io sono venuto luce al mondo affinché chiunque crede in me, non resti nelle tenebre» (Jn 12,46).

Dunque: Cristo è la sorgente della luce; è la luce.

Ma come giunge a noi questa luce?

Il Signore ha voluto stabilire un sistema, disporre un ordine, per cui la sua luce giungesse a noi mediante un servizio umano, mediante un riflesso qualificato e autorizzato, e cioè mediante il magistero e il ministero apostolico. Egli infatti disse agli Apostoli: «Voi siete la luce del mondo» (Mt 5,14); e mediante una trasparenza interiore di Cristo stesso, emanante dall’intero corpo mistico e visibile della Chiesa, quasi ch’essa fosse l’ostensorio di Cristo; così che è essa stessa chiamata «sacramento», segno sacro cioè e tramite dell’unione di Dio con l’umanità (cfr. Cost. Lumen Gentium LG 1).

«Chi ascolta voi, disse Gesù riferendosi ai discepoli elevati a funzioni gerarchiche, ascolta me; e chi disprezza voi, disprezza me» (Lc 10,16). Praticamente perciò noi non potremo arrivare a Cristo, se non cercandolo e trovandolo nella sua Chiesa. Ricordiamo ancora la famosa esortazione di S. Giovanni Crisostomo: «Non ti allontanare dalla Chiesa! Nulla è più forte di essa! La tua speranza è la Chiesa, il tuo rifugio è la Chiesa. Essa è più alta del cielo e più vasta della terra. Essa non invecchia mai, ma sempre vigoreggia» (ib.). Un altro grande dottore orientale, Origene, fin dalla prima metà del terzo secolo, commentando la Genesi, diceva: «Se vogliamo essere noi pure come il cielo, avremo in noi i luminari che ci possono illuminare: Cristo e la sua Chiesa. Egli infatti è la luce del mondo, che illumina pure la Chiesa con la sua luce; . . . e la Chiesa, preso il lume di Cristo, illumina tutti quelli che si trovano nella notte dell’ignoranza (In Gen. Hom. 1, 5; P. G. 12, 150).

Da ciò quest’altro fatto: la Chiesa riverbera la luce di Cristo sul mondo. Dice il, Concilio che il volto della Chiesa è così luminoso, che il mondo ne è rischiarato (Const. Lumen Gentium LG 1). Come avviene questo fatto? Avviene mediante l’annuncio del Vangelo, si sa. Ma avviene anche in un altro modo, con l’irradiazione esteriore di certi caratteri, di certe note, che derivano da proprietà essenziali e intrinseche della Chiesa, e che ne manifestano, agli occhi del mondo, l’autenticità. Sono le famose quattro note caratteristiche ed esclusive della Chiesa; voi le conoscete: l’apostolicità, l’unità, la cattolicità e la santità. Nel «Credo» sono proclamate come distintive della fisionomia della vera Chiesa. Essa porta in sé e diffonde d’intorno a sé l’apologia di se stessa. Chi la guarda, chi la studia con occhio amoroso della verità, deve riconoscere che essa, indipendentemente dagli uomini, che la compongono, e dai modi pratici, con cui si presenta, reca con sé un messaggio di luce universale ed unico, liberatore e necessario, divino. È la faticosa e vittoriosa scoperta, per citare un esempio grande e tipico, del Newman (cfr. Denz. Schoenm., DS 2888).

Con questa avvertenza, Figli carissimi, che a ciascuno di noi (fedeli) è dato potere e dovere di mettere in risalto quelle note, che formano la bellezza e l’attrattiva della Chiesa, mostrando con la nostra adesione e con la nostra testimonianza come davvero la Chiesa di Cristo sia una, sia santa, sia cattolica, sia apostolica. A ricevere e a diffondere questo «Lume delle Genti» vi esorti e vi abiliti la Nostra Benedizione Apostolica.

Il seguente saluto in lingua latina l’Augusto Pontefice dirige a un Pellegrinaggio dell’Arcidiocesi di Lubiana:

Salutem ex animo dicimus Slovenicis peregrinis ex archidioecesi Labacensi, qui, ductore Canonico Iosepho Kvas, Romam petierunt Sancti Petri sepulcrum veneraturi, iidemque Nos, obsequii causa filiorumque more, invisere voluerunt.

Vos igitur, dilecti filii, quos libentissime praesentes conspicimus, paterna benevolentia et caritate excipimus, vobisque flagrantissima proferimus vota, ut ex hoc catholicae religionis fastigio novas hauriatis vires ad virtutis semitam securo gressu et impensiore usque studio terendam.

Affluentia denique caelestis gratiae auxilia precantes, «ut ambuletis digne Deo per omnia placentes, in omni opere bono fructificantes et crescentes in scientia Dei . . .» (Col 1,10) vobis omnibus atque cunctis propinquis vestris, domi reditum vestrum expectantibus, Apostolicam Benedictionem peramanter impertimus.

Il sacro ministero per i lavoratori

Il numeroso gruppo di sacerdoti, che partecipano alla III Settimana di studio sulla Pastorale nel mondo del lavoro, merita che Ci fermiamo un istante, per esprimere loro il Nostro saluto e il Nostro augurio particolare. Vi accogliamo con paterna benevolenza, diletti figli: perché siete sacerdoti, e, come tali, secondo le parole del Decreto Conciliare sul Ministero e la vita sacerdotale, «promossi al servizio di Cristo Maestro, Sacerdote e Re, partecipando al Suo ministero, per il quale la Chiesa qui in terra è incessantemente edificata in Popolo di Dio, Corpo di Cristo e Tempio dello Spirito Santo» (n. 1); ma a questo titolo di predilezione del Nostro cuore voi aggiungete quello dell’apostolato, che siete chiamati a svolgere: apostolato difficile, arduo, delicato: che suppone completa formazione intellettuale e spirituale, forza e amabilità di carattere, doti naturali non comuni, svolgendosi tra i lavoratori delle industrie e delle fabbriche. Che voi vogliate adempiere sempre meglio, con rigorosa «qualificazione» spirituale e apostolica questo vostro compito, Ce lo dice la vostra numerosa partecipazione alla III Settimana di Studio pastorale, promossa dall’ONARMO sotto il provvido patronato della Conferenza Episcopale Italiana.

Avete dedicato le vostre giornate di studio ad un tema quanto mai stimolante e ricco di interessi e di sviluppi: «La catechesi del Cappellano nella comunità di lavoro». Esso scolpisce efficacemente la vostra missione, e definisce, anzi, l’unica ragion d’essere della vostra presenza nel mondo del lavoro: di fatto, principalmente per questo la Chiesa manda i suoi sacerdoti, ben preparati, affinché siano «sale della terra, luce del mondo» attraverso la loro parola, che deve rispecchiare fedelmente l’insegnamento di Cristo; lo stesso esempio e il contatto quotidiano diventano catechesi, convalidando con la forza della testimonianza vissuta la verità insegnata e predicata.

Non abbiamo purtroppo tempo di soffermarci, come pur avremmo voluto, su un tema tanto importante: avremmo potuto con voi vedere come possiate oggi presentare con nuovo vigore l’intatto messaggio evangelico, per far capire anche ai lontani come solo in esso ci sia il segreto della verità, della completezza, della totalità, vi si trovi la risposta a tutti gli interrogativi, e l’esaudimento di tutte le attese, che si agitano nel cuore dell’uomo; avremmo voluto con voi esaminare le forme, che questa catechesi deve rivestire, gli strumenti, di cui si può servire, le occasioni, che può cogliere per presentare il Verbo, opportune, importune (cfr. 2Tm 4,2). Ma ci sono tutti gli atti del Concilio Ecumenico a indicarvi su quale direzione, con quale metodo agire; c’è la Nostra Enciclica Ecclesiam Suam, colla quale abbiamo voluto andare in cerca dei punti di contatto, che le varie situazioni del mondo contemporaneo, come altrettanti cerchi concentrici, offrono al colloquio della Chiesa col mondo.

Noi sappiamo che avete fatto tesoro di tali indicazioni in questa opportuna Settimana di studio, e che cercate di orientare su di esse il vostro lavoro. Ve ne siamo grati, e vi auguriamo di raccogliere frutti sempre più consolanti dal vostro generoso ministero sacerdotale. Vi segue il Nostro affetto profondo, vi conforta la Nostra preghiera, vi incoraggia l’Apostolica Benedizione, che a tutti impartiamo di gran cuore, unitamente all’Assistente Centrale e ai benemeriti Dirigenti nazionali e regionali dell’ONARMO.




Mercoledì, 28 giugno 1966

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Diletti Figli e Figlie!

Oggi il Nostro pensiero è rivolto alla festa che domani celebreremo, quella dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, e che interessa principalmente ed enormemente la Chiesa di Roma, la quale venera in questi due Martiri i suoi luminari, come già scriveva S. Ambrogio: «Dies factus est Petrus, dies Paulus . . .». Luce è diventato Pietro, luce Paolo (De virginitate, 19; P. L. 16, 313). «L’odierna festività, commenta San Leone Magno, oltre la venerazione che ha riscosso in tutto il mondo, dev’essere celebrata con speciale e propria venerazione dalla nostra Città, affinché dove è stato glorificato il transito dei due principali Apostoli, ivi, nel giorno del loro martirio, sia il primato della letizia» (Serm. 82, P. L. 54, 422). Si potrebbe facilmente raccogliere un’antologia di testi letterari e liturgici che celebrano insieme e la dignità di questi sommi fra gli Apostoli, e l’autorità della loro testimonianza di parola e di sangue, e il fatto che Roma raccolse il loro ministero, il loro martirio, le loro tombe, e poi la storia, per cui la loro memoria e la Chiesa da loro derivata e l’autorità della successione pontificia li ha resi, come li definisce Prudenzio (a. 405): «patroni del mondo» (P. L. 60, 257).

Ciò che ora a Noi preme è raccomandare a voi, carissimi Figli, che rendendo visita al Papa onorate l’apostolo Pietro, di cui egli è umile successore e l’apostolo Paolo, di cui egli ha implorato la protezione assumendone il nome, di avere sempre in grande venerazione questi massimi e santissimi seguaci e annunciatori di Cristo, fondamenti della Chiesa, non solo romana, ma universale. La devozione agli Apostoli Pietro e Paolo ha avuto un’immensa importanza nella formazione della mentalità cattolica e nello sviluppo della spiritualità della Chiesa, e, com’è ovvio, in quella romana specialmente; l’ha avuta nella determinazione di grandi fatti storici, come pure nella disciplina canonica ed economica della cristianità medioevale. Questa devozione acquista oggi una nuova importanza nella ecclesiologia moderna, sia per la dottrina teologica circa la costituzione unitaria e gerarchica della Chiesa (cfr. Denz. Schoen.
DS 942), sia per il dialogo ecumenico, a riguardo specialmente dell’apostolicità della Chiesa, delle potestà conferite a Pietro e della loro trasmissibilità, sia per le ricerche e per le discussioni archeologiche di questi ultimi anni.

Bisogna, Figli carissimi amorosi della Chiesa di Cristo, riaccendere debitamente, nella pietà personale e nel culto liturgico, la devozione agli Apostoli e specialmente ai santi Pietro e Paolo: da loro è venuto a noi nella forma più autorevole e venerabile il messaggio di Cristo, da loro abbiamo tante pagine indimenticabili del nuovo Testamento, da loro la fede, che non tanto per la sede geografica e storica in cui ha messo radice e da cui s’è irradiata (cfr. Rm 1,8), ma per l’autorità che la professa e il carattere unitario che riveste, si è detta romana, non per essere qui limitata, ma per meglio qualificarsi cattolica. L’amore agli Apostoli Pietro e Paolo ci aiuterà a meglio comprendere come la fedeltà ferma e filiale a questa benedetta loro sede romana non restringe le dimensioni universali della Chiesa di Cristo, non mortifica la vitalità e l’originalità delle comunità diffuse nel mondo, non impone superflui e pesanti vincoli giuridici; sì bene pone la base ferma e sicura dell’edificio ecclesiastico, offre il punto onorevole e indiscutibile dell’unità cattolica, e alimenta la carità della famiglia cristiana.

Ci aiuta a ripensare queste semplici e fondamentali verità la festa odierna (28 giugno, trasferita al 3 luglio), dedicata a quella grande figura di maestro, di Vescovo, di martire († 200), che fu Sant’Ireneo, discepolo di Policarpo di Smirne e poi pastore e gloria della Chiesa di Lione nella Gallia. Rileggiamo il suo celebre testo (tanto apprezzato anche dal Duchesne, Eglises séparées, p. 119): «. . . a questa Chiesa - fondata e costituita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo - in grazia della sua sovraeminente posizione debbono confluire i fedeli di tutti i Paesi, perché in essa si è sempre conservata la tradizione apostolica» (Adv. haereses, 3, 3, 2; PG. 7, 848).

Così la pensava un altro Santo, uno dei Padri della Chiesa del quarto secolo, a Noi molto caro, San Gaudenzio, discepolo di S. Ambrogio e Vescovo di Brescia: «Teniamo vive, fratelli, le memorie dei Santi Apostoli; teniamole vive con la fede, con l’azione, con la condotta, con la parola . . .» (Serm. XX, p. 238).

Così essi, gli Apostoli, vi aiutino e, mediante la Nostra Benedizione, vi benedicano.




Mercoledì, 6 luglio 1966

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Diletti Figli e Figlie!

Oggi, giorno ottavo dalla festa degli Apostoli Pietro e Paolo, Ci sembra doveroso fermare ancora la vostra attenzione e la vostra devozione sopra la memoria di questi Santi, che la Chiesa di Roma considera suoi principali fondatori e maestri, suoi martiri gloriosi qui in terra e suoi protettori in cielo; e che la Chiesa universale giustamente onora in modo particolare come primi strumenti e rappresentanti di quella comunicazione storica e ministeriale, che la congiunge a Cristo, la successione apostolica.

Sebbene la liturgia non ci parli più di questo prolungamento della festa nel giorno ottavo, ce ne fa invito il luogo in cui siamo, la basilica dedicata a San Pietro, costruita sull’area dove sorgeva l’antica basilica, edificata da Costantino, poco dopo d’aver dato libertà d’esistenza alla Chiesa, sull’umile tomba del Principe degli Apostoli, tomba che doveva essere prossima al posto del suo martirio (cfr. M. Guarducci, La tomba di San Pietro, Studium 1959).

L’interesse archeologico, storico, artistico, religioso di questo luogo è tale che ogni cattolico fedele e istruito deve averlo carissimo, non solo come monumento d’incomparabile importanza, ma come santuario di fede e di preghiera, e come punto simbolico, ed anche effettivo d’incontro della cattolicità della Chiesa con la sua propria unità. Difficile dire quale altro punto della faccia della terra possa risvegliare pari interesse spirituale. Possa questa udienza fortificare nei vostri spiriti l’amore a questa Basilica, a ciò che di sacro specialmente essa contiene e rappresenta; non consideratela soltanto come un museo di cose belle e curiose, né come un prodigio d’architettura e di storia, ma luogo dove il mistero parla e il sacro si effonde, e dove lo spirito riceve impulso a meditare, a salire, a sperare, a pregare.

La devozione ai due grandi Apostoli deve far parte della nostra vita religiosa, e quella a San Pietro deve trovare qui le sue tradizionali e personali effusioni.

Ne abbiamo motivo anche da un fatto recente, che Ci sembra significativo e stimolante, sebbene riguardi la Chiesa greco-ortodossa; anzi per ciò maggiormente degno d’essere da noi notato con gaudio.

Recentemente la rivista ufficiale della Chiesa di Grecia, intitolata Ekklisia (15 aprile 1966) ha pubblicato un nuovo Ufficio «del glorioso e dell’assai illustre apostolo e primo corifeo Pietro», fissandolo, come era nelle antiche officiature greco-orientali, al giorno 28 agosto, e restando, come nella Chiesa cattolica, il 29 giugno festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo. Da quanto sappiamo questo Ufficio è stato composto da un monaco del Monte Athos, Gerasimo Mikrayannatis, innografo del patriarcato ecumenico ortodosso, e pubblicato con l’approvazione del santo Sinodo della Grecia. Questo Ufficio ricava da antichi testi, ch’erano scomparsi dalle edizioni dei libri liturgici greci, espressioni bellissime in onore dell’apostolo Pietro e della missione a lui affidata. Ne citiamo, ad esempio, qualcuna:

- Pietro, pietra infrangibile della Chiesa.

- Avendo confessato il Cristo in virtù della rivelazione del Padre, tu hai dal Padre ricevuto una grande autorità sugli uomini.

- Tu sei diventato, o Pietro, colui che, fra gli apostoli, occupi il primo posto (Protokathedros).

- La pietra, che è il fondamento della Chiesa.

- Salve, fondamento della Chiesa e base inconcussa, divino araldo che hai le chiavi del regno dei cieli.

- Pietro, corifeo dei gloriosi apostoli. Etc.

Sono espressioni pie e poetiche. Esprimiamo la Nostra compiacenza! Rimeriti San Pietro così vera e gentile pietà. Tali espressioni poi portano a noi l’eco di antiche e venerabili tradizioni, e, scomparse dopo il XIV secolo dai testi liturgici, a causa della polemica antilatina, rinnovano ora la voce autentica e nobile della pietà della Chiesa orientale; e come sono un felice e fedele ricordo di tempi antichi, così sembrano a Noi un lieto segno di tempi nuovi. Esse costituiscono un’armonia di voci orientali e occidentali, che ritornano con comune esultanza e fraterna fede a celebrare la figura e la missione dell’apostolo Pietro, e svegliano nella nostra pietà la venerazione e la fiducia verso questo «corifeo degli apostoli» e fondamento della Chiesa, del quale qui custodiamo la tomba, onoriamo la memoria, ereditiamo la fede, ripetiamo la confessione a Cristo Signore.

La Nostra Benedizione confermi ed accresca in voi il culto all’Apostolo Pietro.

Gli eletti sodalizi delle «Figlie di Maria»

Partecipa a questa Udienza anche il cospicuo gruppo delle «Figlie di Maria», venute da ogni regione d’Italia per prendere parte al Convegno Nazionale, indetto per la celebrazione del primo centenario di fondazione del loro Sodalizio. Vi salutiamo di cuore, e il Nostro saluto va ai degnissimi Canonici Regolari Lateranensi, che religiosamente curano la Congregazione fin dalle origini, agli assistenti e alle dirigenti, e all’immensa schiera delle Figlie di Maria d’Italia e del mondo, spiritualmente unite con voi nella commemorazione di una data tanto significativa e importante. Cento anni! É un grande momento: cento anni di attività, di preghiera, di lavoro, anni in cui i vostri Sodalizi hanno acquistato l’incomparabile merito di formare per la Chiesa e per la società anime generose, anime forti, anime liete; fervorose nella pietà, ardimentose nell’apostolato, temprate nel carattere, delicate nel riserbo, gioiose nei contatti umani, benefiche e compassionevoli verso i poveri, fedeli nel dovere. Dalle vostre file sono uscite in questi cento anni delle Sante come M. Maria Mazzarello e Suor Bertilla Boscardin, delle Beate come Elena Guerra, che proprio qui, in questa Basilica, furono proposte al culto e alla ammirazione di tutta la Chiesa; con esse è una falange di ottime madri di famiglia, di anime consacrate a Dio, di professioniste, di operaie: di rurali, che, nei vari campi della vita ecclesiale e della attività civile, hanno dato gloria al Signore, e corrisposto generosamente alla loro vocazione.

È giusto dunque che siate fiere di questo vanto. A voi, che raccogliete esempi tanto luminosi, la consegna di rimanere fedeli, di puntare a conquiste spirituali sempre più nobili, alte e pure: è la Madonna Santissima, che a ciò vi esorta, brillando davanti a voi, che vi fregiate del nome di figlie sue, come la Madre della Chiesa, secondo il titolo che il Concilio Ecumenico Vaticano II ha lumeggiato: Madre per averci donato il Cristo, nostro Fratello e Salvatore, Madre per la cooperazione prestata nell’opera della Redenzione, Madre perché maternamente sollecita a ottenerci costantemente le grazie per la salvezza eterna.

Vi guidi Essa nel cammino intrapreso, affinché sempre facciate onore alla vostra qualifica; a tanto vi accompagna la Nostra Apostolica Benedizione, con la Nostra preghiera e il Nostro incoraggiamento.





Paolo VI Catechesi 8666