Paolo VI Catechesi 26106

Mercoledì, 26 ottobre 1966 - I DONI DELLO SPIRITO SANTO A TUTTI I CREDENTI

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Diletti Figli e Figlie!

Questa udienza settimanale è diventata una lezione sulla Chiesa; una lezione elementare; ma, Noi speriamo, sostanziale, e presentata per avviare un pensiero, una riflessione, piuttosto che per dare insegnamenti organici e completi. Così piace a Noi ora offrire alla vostra considerazione alcuni fatti, i quali svegliano in noi il concetto della Chiesa, e ci dànno il conforto di ravvisarla viva, buona, operante, stimolando in noi al tempo stesso un migliore desiderio d’esserle figli non ignari, non pigri, non degeneri.

Noi dicevamo: la Chiesa è un «segno». Cioè chi la guarda con occhio limpido, chi la osserva, chi la studia si accorge ch’essa rappresenta un fatto, un fenomeno singolare; vede ch’essa ha un «significato». Segno di che? quale significato? Il Concilio ce lo ha ricordato e ripetuto: segno di Cristo; la Chiesa significa Cristo. Dove e come la Chiesa significa Cristo? Perché possiamo dire che la Chiesa è il «sacramento», cioè il segno sacro di Cristo?


Figli carissimi! abituatevi ad osservare. Alla scuola del Signore bisogna essere vigilanti ed intelligenti, per non meritare il rimprovero che un giorno Gesù fece ai suoi discepoli: «Siete anche voi privi d’intelligenza?» (
Mt 15,16). Ecco: noi sappiamo che Gesù è la Parola di Dio fatta uomo; Egli è il Rivelatore, Egli è il Maestro. E sappiamo che Gesù ha trasfuso Se stesso, come Parola di Dio, nei suoi discepoli e ne ha fatto degli apostoli; ha impresso in loro la virtù dinamica della sua stessa missione; ne ha fatto dei «testimoni», li ha incaricati di diffondere l’annuncio del regno di Dio, di continuare la sua evangelizzazione; li ha inebriati, a Pentecoste, di Spirito Santo; e se li ha qualificati come portatori della sua parola (cfr. Ac 14,11), autorizzati a promuovere e a guidare l’espansione del Vangelo, Egli, il Signore, ha dato a tutti i credenti il medesimo dono dello Spirito col medesimo obbligo, subordinato e moderato dalla gerarchia responsabile della comunità dei fedeli, di «profetare» («I vostri figli e le vostre figlie profeteranno», ricorda S. Pietro nel discorso di Pentecoste, Ac 2,17), cioè di annunciare il Vangelo, di testimoniare Gesù Cristo, di allargare la Chiesa. È un fatto caratteristico, indice d’un’essenziale ragione d’essere, della Chiesa nascente, quello della sua innata forza espansiva. Dicono, ad esempio; gli Atti degli Apostoli, narrando la dispersione dei primi fedeli fuggiti da Gerusalemme dopo l’uccisione di Stefano e l’assalto della prima persecuzione, che «coloro che s’erano dispersi, andavano di luogo in luogo evangelizzando la parola di Dio» (Ac 8,4). È caratteristico, diciamo, e indicativo: la Chiesa è una società in movimento, è un corpo religioso che deve espandersi; la Chiesa è mandata; la Chiesa è missionaria.

Questa è una verità fondamentale, che il Concilio ha così chiaramente e fortemente riaffermata, e che certo tutti voi avrete sentito cento volte ripetere, e con maggiore insistenza domenica scorsa, in occasione della giornata missionaria.


L'ORIGINARIA VIRTÙ DI PERSUASIONE DI APOSTOLATO DI SACRIFICIO

Ma è appunto qui che dobbiamo fermare l’attenzione. Che cosa ci dice questo rinato fervore missionario? che cosa significa questa moderna maturazione della coscienza missionaria? che cosa indica l’estensione d’una vocazione missionaria a tutti i credenti? che cosa manifesta questa imputazione, o meglio questa onorifica attribuzione dell’obbligo dell’apostolato a ogni singolo figlio della Chiesa? Tutto questo significa che nella Chiesa persevera il mandato iniziale conferitole da Cristo; anzi persevera Cristo stesso. Dove la Chiesa è missionaria, essa diventa segno di Cristo (cfr. Decr. Ad Gentes AGD 15 AGD 20 AGD 21 AGD 40).

E che cosa ci dice questo segno missionario di Cristo? Ci dice che la fede, oggi, con tutte le opposizioni, le critiche, le sfavorevoli condizioni che la minacciano, non è spenta, ma conserva la sua originaria virtù di persuasione, di apostolato, di sacrificio. Ci dice che Cristo sta tuttora operando il suo misterioso lavoro di attrattiva delle anime, di risposta alle loro insaziate aspirazioni, di vocazione alla testimonianza e alla santità. Ci dice che Cristo mantiene la sua solenne promessa: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Ci dice che l’abbandono del cristianesimo da parte di tanti uomini, figli della civiltà cristiana, trova compensi in altre parti dell’umanità; e a questo riguardo risuona terribile la voce del Signore: «Io vi dico . . . che molti verranno dall’Oriente e dall’Occidente, e sederanno a convito con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno gettati nelle tenebre esteriori, dove sarà pianto e stridore di denti» (Mt 8,11). Ci dice ancora che questa presenza di Cristo nel mondo, nella storia, nelle anime ci è significata senza clamore e senza gloria, ma con insuperabile bellezza umana e spirituale, da umili uomini e donne: che percepiscono la voce arcana del Maestro invitante e incitante: «Vieni!»; e che si strappano alle loro famiglie, alle loro occupazioni, alle loro terrene speranze, e partono, alla ventura, nel sogno paradossale e sublime di convertire il mondo, e nella previsione di dover faticare, soffrire, morire, senza lode mondana, senza premio umano, senza sapere che cosa sarà di loro; anime eroiche votate a Cristo, votate all’amore! Ora l’opera missionaria è prudente, è organizzata, è sostenuta; ma, a bene osservarla, rimane tuttora quella follia, che solo la stoltezza della Croce rende sapiente.


NEL CIELO SFOLGORANTE DELLA STORIA LA CHIESA CI PRESENTA IL SIGNORE

Oh, salutiamo insieme la Chiesa missionaria; questa Chiesa sparsa per i quattro venti (cfr. Didaché, 10, 5), cui solo la fede e la carità tengono insieme; questa Chiesa dei valorosi sacerdoti, laici, suore, catechisti, collaboratori, tutti operanti nella pazienza e nella bontà per «piantare» la Chiesa medesima; salutiamola nelle sue nuove formazioni indigene, intente al mutuo arricchimento: della Chiesa, con le espressioni autoctone della loro civiltà, e di questa civiltà, con i tesori della verità e della grazia proprie del cristianesimo; salutiamola nelle sue retrovie, nelle sue organizzazioni, che la generano e la sostengono; salutiamola nel coro dell’intera cattolicità, che di essa si gloria, ad essa guarda in esempio, per essa si riconosce vivente e progrediente, e dietro ad essa ammira,come in segno e come in sogno, Chi appare sull’immenso cielo della storia, maestoso e misterioso, il Figlio dell’uomo e Figlio di Dio, Gesù eterno, che dice: «Non temere. Io sono il Primo e l’Ultimo, ed il Vivente: e fui morto, ed ecco sono vivo per i secoli dei secoli» (Ap 1,17-18).

Ringraziamo la Chiesa missionaria, che fa balenare davanti ai nostri spiriti questa meravigliosa ed esaltante visione di Cristo; promettiamole di esserle solidali con le nostre preghiere e con la nostra collaborazione; mentre a lei, la Chiesa missionaria, ed a voi, Figli carissimi, diamo la Nostra Apostolica Benedizione.



Mercoledì, 2 novembre 1966

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Fratelli e Figli carissimi!

Che cosa stiamo facendo? Stiamo compiendo un atto di memoria e di pietà; stiamo ricordando i nostri Defunti e pregando per la loro eterna pace. Siamo tutti abituati a questo esercizio di carità religiosa, che proviene dalla nostra educazione cristiana, e che si alimenta della nostra partecipazione alla vita liturgica della Chiesa, e dalla nostra personale sensibilità dei vincoli che ancora ci uniscono con coloro che sono scomparsi dalla scena di questo mondo. Ma oggi il ricordo dei Defunti e l’invito a offrire per loro i nostri suffragi si fanno più espliciti e più gravi; così che la memoria dei Morti si trasforma facilmente nella meditazione della morte.

La quale, Fratelli e Figli carissimi, è sempre grande, profonda e oscura, come un oceano notturno; e la maggior parte degli uomini rifugge dal fermarvi il pensiero, non avendo nella propria ragione lume sufficiente per non essere terrorizzati. Ascoltiamo, ad esempio, la voce d’un celebre saggio a questo proposito: «Io vedo questi paurosi spazi dell’universo che mi circondano, ed io mi trovo attaccato ad un cantuccio di questa immensità, senza ch’io sappia perché io sia collocato in questo luogo piuttosto che in un altro, né perché il poco tempo che m’è dato da vivere mi sia assegnato a questo punto, piuttosto che in un altro da tutta l’eternità che mi ha preceduto e di tutta quella che mi succede. Io non vedo che estensioni infinite da ogni parte, che mi racchiudono come un atomo e come un’ombra che non dura che un istante senza ritorno. Tutto ciò ch’io conosco è che devo ben presto morire; ma ciò ch’io più ignoro è questa morte stessa, a cui non mi è dato sfuggire» (Pascal, Pensées, 194).

Ma ringraziamo la nostra religione, che non solo toglie l’angosciosa paura che circonda il mistero della morte, ma ci educa altresì a guardarla con sereno realismo ed a trarne indispensabili insegnamenti per ben valutare ogni cosa del nostro transito nel tempo e per avere dei nostri Morti qualche consolante notizia. La religione fa della morte una lampada: essa rischiara quanto basta i problemi circa la sopravvivenza dell’uomo oltre la sua fine temporale, così che questa vita temporale non sia accecata dal dubbio e sconvolta dalla disperazione, ma acquisti invece il suo senso escatologico e il suo pieno significato morale; essa ci fa pazienti e sapienti a superare ogni smarrimento nel dolore, e ogni arbitraria e miope filosofia; essa ci stimola a bene vivere e ci conforta alla ricerca e all’attesa d’una futura comunione con Cristo e con le persone che ci furono care; offre insomma una visione generale della esistenza nostra e del mondo, che rinfranca lo spirito in un incomparabile equilibrio di sentimenti e di pensieri, e gli infonde un senso profondo di gratitudine e di ammirazione verso il Dio vivo, Creatore dell’universo e Padre nostro onnipotente.

Ma come accendere questa lampada, dare cioè alla morte un potere di luce, mentre di per sé la morte è la grande tenebra, «umbra mortis» (
Lc 1,79 Mt 4,16), ed è la nostra suprema nemica, «novissima inimica», la dice S. Paolo (1Co 15,26)? Questa prodigiosa accensione è possibile, è facile anzi al cristiano che considera la morte nel quadro dei nuovi rapporti che Cristo ha stabilito fra noi e Lui, e, Lui mediatore, fra noi e Dio. Sarà utile, per studio di semplicità, classificare tali rapporti secondo il trinomio delle virtù teologali, chiedendo a ciascuna delle tre virtù, che hanno Dio come principio e come termine, di parlarci sulla nostra morte; e vedremo che questo fatale e orrendo episodio della nostra esistenza, questo tremendo castigo, cambierà aspetto, rimanendo materialmente, ma provvisoriamente lo stesso. La fede ci dirà che Dio è la vita, e che Cristo, vita Lui stesso, ha inserito la nostra umile, effimera, corruttibile vita in quella divina; ci parlerà della risurrezione di Cristo e della nostra; ci parlerà dell’eterna beatitudine, alla quale, se fedeli, se santamente operosi, siamo destinati.

E la speranza, fondata sulla bontà traboccante di Dio, sulla sua infallibile promessa, sulla misericordia a noi ottenuta da Cristo, ci anticiperà il senso reale delle acquisizioni future, ci farà garanzia oltre le nostre forze di poter meritare la fortuna sperata, e placherà la ribellione del nostro dolore per l’oltraggio, l’irrisione, l’assurdo della morte a tutti i nostri istinti vitali, con non fallace conforto. E la carità finalmente - la carità che «numquam excidit», che non verrà meno giammai (1Co 13,8) - ci farà intravedere la mano amorosa del Padre, anche quando il suo gesto misterioso è per noi acerbissimo strappo, c’insegnerà a collegare la nostra morte a quella di Cristo, alla sua immolazione infinitamente amorosa e a farne oblazione umile e magnanima; e con tante altre lezioni ci ammonirà a vedere nella morte un obbligante invito alla bontà, umile, saggia, sollecita, generosa; e questo non solo per la nostra conversione alle esigenze del bene, ma altresì per il vantaggio altrui, per il suffragio cioè di coloro che la morte corporale ha staccato fisicamente da noi, ma non ha sottratto alla circolazione della carità, instaurata da Cristo, mediante la quale il messaggio della nostra memoria, della nostra pietà, del nostro amore può, per vie a noi ignote, giungere ancora alle anime che «dormiunt in somno pacis», dormono nel sonno della pace (Can. della Messa), in attesa del finale, eterno risveglio.

E qui fermiamoci un istante per ricordarci che questo tributo di carità verso i Defunti può avere titoli diversi, che spesso lo trasformano in dovere. Dovere di riconoscenza: quanto dobbiamo ai nostri Morti! Di quale eredità di amore, di ricordi, di esempi siamo loro debitori! E dovere di fedeltà: la vita è storia; e storia è tradizione; tradizione, che per uomini credenti e civili, dev’essere logica, deve tendere ad una continuità ed a uno sviluppo: deve impedire che vadano dispersi insegnamenti, esperienze, sforzi, sacrifici compiuti a nostro vantaggio dai nostri maggiori. Dovere di amore e di pietà: pochi altri doveri sono impegnativi come quello classico del culto alla memoria dei Morti, e fanno altrettanto nobile il cuore dell’uomo che lo adempie: il costume, la storia, la letteratura ce lo dimostrano.

Ciascuno pertanto ricordi nei suoi suffragi - orazioni, elemosine, opere buone - le persone passate all’altra vita, alle quali parentela, amicizia, conoscenza, gratitudine, cittadinanza lo congiunsero. Dobbiamo ricordare tutti quelli che a noi hanno fatto del bene, o prestato servizio; tutti quelli che con la loro vita e con la loro morte hanno a noi dato il nome, la dignità, la libertà, l’ordine, la religione e la fede, che fanno della nostra società il suo e nostro patrimonio più civile e più alto. Perché non avremo memoria dei Morti nelle immani tragedie delle ultime guerre; perché non quelli dei troppi conflitti civili o militari del nostro secolo inquieto e violento; perché non quelli, la cui rimembranza è, per qualche verso, maggiormente associata alle grandi cause dell’umanità - la giustizia, la libertà, la fratellanza, la pace - amici o nemici che tra loro fossero in vita? È stata, ad esempio, ricordata religiosamente in questi giorni la ricorrenza decennale degli avvenimenti d’Ungheria; abbiamo ogni giorno tristi notizie di caduti per attentati e per combattimenti nel Vietnam . . . Per tutti la nostra memoria sia pia e supplichevole davanti alla misericordia di Dio; e sia ammonitrice davanti alla nostra coscienza di uomini ancora presenti in questa fugacissima scena del tempo, di quanti specialmente hanno responsabilità nelle sorti dei popoli: non sorgono forse i Morti a giudicare i vivi, a intimare loro di spegnere l’orgoglio e l’odio e di abbassare le armi e di cessare le oppressioni e le insidie; non si levano essi forse a svegliare in tutti una nuova onda di buona volontà per cercare ancora le vie della pace nella giustizia e nel rispetto dei diritti sacri e fondamentali della persona umana e dei popoli civili? Salga per noi dalle tombe la pace! E discenda sui nostri Morti parimente la pace. La pace di Cristo per noi nel tempo; la pace di Cristo per loro nell’eternità.



Mercoledì, 9 novembre 1966

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Diletti Figli e Figlie!

Pensate un istante con Noi. La grande questione, che il Concilio ha posto davanti alla coscienza del Popolo di Dio, (il quale nel suo pieno e perfetto significato altro non è se non la Chiesa, una, santa, cattolica ed apostolica), e anche davanti alla considerazione del mondo, è quella del rapporto fra Cristo e la Chiesa. Questo rapporto può essere variamente cercato e definito. La Chiesa, ad esempio, si è detto che è la istituzione fondata da Cristo, com’Egli stesso ebbe a dire: «Io fonderò la mia Chiesa» (
Mt 16,18); ma una fondazione viva, tanto che il Concilio la chiama «l’organismo visibile, col quale Cristo diffonde per tutti la verità e la grazia» (Lumen Gentium LG 8); la continuazione perciò di Cristo nella storia, l’estensione, la ripetizione, per analogia, del mistero dell’Incarnazione (ibid. LG 8); il Corpo mistico di Cristo. La Chiesa perciò è tramite ed è termine, sotto diversi aspetti, dell’azione divina salvatrice nell’umanità. È comunicazione, è segno, è presenza di Cristo. Fra Cristo e la Chiesa esiste un rapporto molteplice, che ci fa pensare ad un connubio, ad una mistica identità. Ecco perché la Chiesa è chiamata dal Concilio medesimo «quasi un sacramento universale della salvezza» (Lumen Gentium LG 48) e «sacramento dell’unità» (Sacros. Conc. SC 26; Lumen Gentium LG 1 LG 9).

Sacramento, dicemmo altra volta, vuol dire segno. Segno è qualche cosa che copre, e che nello stesso tempo scopre e rivela una realtà. Una realtà non immediatamente conosciuta, ma indicata, manifestata dal segno: significata. Se la Chiesa è sacramento, cioè segno sacro, può diventare molto interessante esplorare questo segno, cioè ricercare Cristo «significato» nella Chiesa. La ricerca potrà essere condotta per varie vie, come pure dicemmo. Indichiamo oggi una delle vie più dirette, insegnataci dal Signore stesso.

Egli ha detto: «Da questo tutti conosceranno - attenzione: qui è il segno! - che voi siete miei discepoli, se vi amerete, come Io vi ho amati, scambievolmente» (Jn 13,35). Questa è per Noi una delle parole più dense e più forti del Signore; è il suo testamento, è il suo desiderio più profondo, quello per cui Egli desidera sopravvivere e rivivere nel tempo, dopo il suo passaggio al Padre, oltre il tempo. La carità - la agàpe, la dilectio - fra i seguaci del Signore, la carità, intensa ed estesa all’infinito, come fu la sua carità, è il grande e nuovo precetto della scuola cristiana: dove è in atto, la fedeltà al Maestro è autenticata; e se davvero la nostra carità tende a imitare (non possiamo mai dire: eguagliare!) quella sconfinata e divina di Gesù, Gesù è rappresentato, Gesù è presente. La nostra carità diventa segno; segno di Cristo.

Figli carissimi! Abbiamo noi sotto gli occhi simili segni di Cristo? Abbiamo noi nella Chiesa fatti caritativi, che ci fanno intravedere la sua presenza fra nomi? La Chiesa è ancor oggi convalidata nel suo possesso di Cristo dalla carità? Quella carità fondata sull’amor di Dio, quella carità che risolve tutti i contrasti della convivenza umana, quella carità, che si dona senza limiti e senza compenso? Sì, sì, diletti Figli di questa santa Chiesa cattolica; ella è tutta lucente di tali segni, di tali testimonianze! Aprite gli occhi e osservate quante luci di quella carità irradiano dal suo mantello; dal suo abito storico e concreto, vogliamo dire, un abito non tutto egualmente splendido e nuovo, un abito antico e tanto umano, che sempre ha bisogno d’essere riparato e rinnovato (come ha cercato di fare il Concilio), ma tutto smaltato dalle gemme scintillanti di quella presenza di Cristo, che la vera carità chiama ancora fra noi. Osservate quante vocazioni di uomini e di donne ancor oggi immolano vite giovani e fiorenti all’esercizio e alla testimonianza della carità. Osservate quanti umili preti dànno la loro esistenza di parroci, di cappellani, di maestri per animare di carità il Popolo di Dio; quanti Vescovi altro non fanno che promuoverla questa carità, che servirla, che impersonarla, che sacrificarvi se stessi!

Noi abbiamo, fra tante angustie e amarezze, questo quotidiano, superlativo conforto di vedere ogni giorno scintillare gli esempi della carità eroica nella santa Chiesa; e potremmo fare il giornale della carità, che sarebbe il documento quotidiano di quei segni commoventi e meravigliosi dell’attualità di Cristo fra noi.

Questi segni sono, per fortuna, dappertutto: nelle nostre istituzioni di assistenza, nelle nostre case di cura agli infermi, nelle nostre scuole, nella formazione cristiana dei fanciulli e dei giovani all’opera buona, nelle missioni; e se davvero uno spirito di carità suggerisce queste molteplici attività, Cristo vi appare, perché sono cristianesimo vissuto. E anche quando l’intenzione religiosa non fosse palese, ma palese è la bontà dell’azione, come in questi giorni vediamo avvenire in aiuto alle popolazioni colpite dalle tremende alluvioni, non scorgiamo noi nel sentimento generoso e nel gesto fraterno di tale solidarietà uno stile, un’umanità, che ci dicono essere, almeno in queste nobilissime manifestazioni, tuttora cristiana la nostra civiltà? I «segni» lo dimostrano.

E per noi credenti hanno poi questo di bello simili atti di generosità e di carità, che tutti li possiamo compiere con quello spirito che li trasfigura; tutti abbiamo una certa capacità di fare della nostra Chiesa, a cui abbiamo la fortuna di appartenere, un segno; un segno di Cristo; di rendere così presente Cristo nel nostro tempo e nel nostro ambiente. Lo dice il Concilio: «Lo spirito di povertà e di carità è la gloria e la testimonianza della Chiesa di Cristo» (Gaudium et Spes GS 88).

A voi, Figli carissimi, con la Nostra Benedizione, l’invito a moltiplicare questi segni di sovrumano valore: ne godrà l’anima che li compie; ne godrà il fratello che li riceve; ne godrà il mondo che li ammira; ne godrà la Chiesa, che vi si ritrova felicemente di Cristo.


Mercoledì, 16 novembre 1966

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Diletti Figli e Figlie!

Noi invitiamo la vostra attenzione a considerare la parola del Signore, che sembra risonare perennemente in questa Basilica, e che voi, guardando la fascia circolare delle iscrizioni cubitali, che la decorano in alto di solenni e parlanti mosaici, potere leggere, come se fosse stata pronunciata per essere qui proclamata: «Aedificabo Ecclesiam meam» (
Mt 16,18), edificherò la mia Chiesa. Edificherò: avete mai esplorato il senso di questa parola?

È una parola profetica; ha per soggetto Cristo e si riferisce al futuro; ha per oggetto la Chiesa, che viene raffigurata in un edificio in costruzione. Cristo è l’architetto di questo edificio; anzi l’operaio: Io edificherò. Voi sapete che questa immagine della Chiesa-edificio è fra quelle più ripetute e più espressive; la usa San Paolo (1Co 3,9 Ep 2,20-22); la spiega San Pietro (1P 2,5); entrambi sviluppandone il concetto relativamente al materiale della costruzione; materiale formato dai fedeli stessi «lapides vivi» pietre vive, donde non può che risultare un edificio vivo, una «domus spiritualis», una casa spirituale, un insieme armonico e unitario, un ordine visibile, organico, sociale, un’umanità sacra, dove abita Dio; ecco la «domus Dei» (cfr. Gn 28,17), la casa di Dio; che la lettera agli Ebrei ancora più chiaramente indicherà altro non essere che noi stessi, seguaci di Cristo; «domus sumus nos», noi siamo la casa di Cristo (He 3,3-6). E sapete anche che questa immagine simbolica dell’edificio riferita alla Chiesa è fra quelle ricordate nella costituzione relativa alla Chiesa medesima dal Concilium (Lumen Gentium LG 6); ed è poi l’immagine che più facilmente ricorre nel linguaggio comune, che chiama chiesa l’edificio materiale, dove la Chiesa, cioè l’assemblea dei fedeli, si riunisce e si esprime quale edificio spirituale.

Ma non è di questo aspetto del simbolo che Noi vi vogliamo ora parlare. Vi vogliamo invitare a riflettere sopra la forza espressiva del termine usato da Cristo: «costruirò». Questo termine indica l’azione permanente del Signore rispetto alla sua Chiesa, indica il carattere dinamico che la vita della Chiesa, raffigurata in un edificio in costruzione, assume; indica lo sviluppo continuo, che le è prestabilito dal concetto di lavoro che deve svolgersi secondo un disegno concreto, visibile, bene architettato da Cristo stesso, e non lasciato all’arbitrio di fantasiosi operai. Bisogna che la Chiesa sia costruita; essa è sempre un edificio incompleto, che prolunga nel tempo il suo piano di esecuzione determinato.

Se ricordiamo che l’azione di Cristo, dopo la sua ascensione, si compie, per suo divino mandato, dalla Chiesa stessa, da chi nella Chiesa ha funzione promotrice di continuare l’opera di Gesù, questa concezione perfettiva della Chiesa medesima diventa molto istruttiva per noi; diventa programmatica, se pensiamo che tutti siamo chiamati a collaborare alla mistica e positiva costruzione. E a Noi sembra opportuno il richiamo a questo concetto fondamentale della vita ecclesiastica per meglio uniformare i nostri animi alle linee direttive che devono guidare il nostro pensiero e la nostra azione in questo periodo post-conciliare. Dobbiamo con Cristo e per Cristo costruire la Chiesa. È a tutti noto che il Concilio ha messo la Chiesa in movimento in tutti i campi della sua vitalità, dando a noi tutti il senso d’un rinnovamento, d’una fatica nuova da compiere, d’un sviluppo da realizzare; senso che riempie i cuori di fervore e di speranza, non senza qualche trepidazione per la buona impostazione e per il buon esito di questo rinnovamento.

Diremo dapprima che non possiamo condividere la diffidenza e il disagio di coloro che ostacolano tale rinnovamento, quasi fosse un’offesa alla stabilità dell’ordine ecclesiastico, e quasi che la fedeltà alla tradizione significasse immobilità ed inerzia, e quasi che la Chiesa nel tempo avesse raggiunto la sua definitiva e completa espressione. La parola di Cristo invece è profetica: costruirò. L’opera attende d’essere continuata. Oggi tutti dobbiamo essere operai della Chiesa, cioè membri attivi, apostoli, missionari. Non spettatori indifferenti, non critici preziosi e oziosi.

Ma d’altro canto non bisogna cedere alla tentazione di credere che le novità, derivate dalle dottrine e dai decreti conciliari, possano autorizzare qualsiasi arbitrario cambiamento e possano giustificare iniziative libere e irresponsabili, incoerenti col disegno della costruzione da eseguire. Bisogna essere profondamente convinti che non si può demolire la Chiesa di ieri per costruirne una nuova oggi; non si può dimenticare e impugnare ciò che la Chiesa ha finora insegnato con autorità per sostituire alla dottrina sicura teorie e concezioni nuove, personali ed arbitrarie; non si può mutuare dalle opinioni correnti, mutevoli e profane del tempo nostro, il criterio di pensiero e di azione della comunità ecclesiastica, quasi che tali opinioni fossero il «sensus fidelium», la testimonianza alla verità cristiana, che i fedeli stessi, guidati dal magistero della Chiesa, hanno facoltà e dovere di professare; non si possono sciogliere le questioni difficili o svigorire le leggi esigenti con adattamenti storicisti ad interpretazioni soggettive, abbandonando come vecchi e superati i canoni dogmatici, cioè chiari, stabili, autorevoli, dell’insegnamento della Chiesa ed eludendo le esigenze immutabili della Parola di Dio e della sua rigorosa enunciazione tradizionale. Bisogna continuare la costruzione della Chiesa fondando i suoi nuovi incrementi sul disegno prestabilito da Cristo e sull’edificio esistente, con fiducia e con fedeltà.

Questa psicologia positiva deve guidare l’opera costruttiva della Chiesa dopo il Concilio. Noi siamo lieti di vederne la maturazione in tanti fenomeni della vita odierna della Chiesa. L’opera delle Conferenze episcopali, ad esempio, prelude ed inaugura un nuovo e fecondo periodo della storia della Chiesa. L’azione dei Laici, spontanea e coordinata con i piani direttivi della Gerarchia responsabile, è fatto molto consolante e molto promettente. L’attività caritativa, dappertutto in risveglio, è già un fatto degno di plauso e d’incoraggiamento: con quale piacere vediamo i Giovani all’avanguardia di tale attività! L’esempio dato dalla nostra Gioventù nell’opera di soccorso agli alluvionati, in questi giorni, è segno splendido di costruttiva vita cristiana!

Costruire, edificare la vita cattolica; con coraggio, con ordine, con pazienza. Sia questa anche per voi la consegna che a voi dà la Nostra Benedizione Apostolica.

Ai Rettori dei Santuari Mariani

Ci offre particolare motivo di consolazione il sapere che sono presenti a questa udienza i venerati Rettori dei numerosi Santuari Mariani d’Italia, i quali partecipano al loro secondo Convegno Nazionale. Vi salutiamo con vivissima cordialità, rivolgendo il Nostro pensiero commosso ai Santuari da cui provenite, grandi e celebrati templi o chiese più umili e modeste, ma tutti innalzati nel nome della Vergine Santa, tutti testimoni di antichi fatti miracolosi e di una onda continua di devozione, che ad essi si è rivolta attraverso i secoli; innumerevoli generazioni sono salite verso di essi per onorare la Vergine, nelle sue preziose o modeste icone, e vi hanno trovato grazia e conforto, luce di fede e forza di conversione, rifugio dalle avversità della vita, e dalle crisi dell’anima.

Vorremmo aver più tempo da dedicare a voi, per dirvi la stima che nutriamo per voi, le aspettative che abbiamo, le speranze che collochiamo nella vostra opera generosa.

Sappiamo che avete proseguito nel presente Congresso lo studio volonteroso e associato di far corrispondere i Santuari mariani alla loro sempre più spiccata funzione integrativa della vita pastorale, secondo quanto vi abbiamo detto lo scorso anno in occasione del vostro primo Convegno, affinché essi corrispondano in tutto allo spirito del Concilio Ecumenico. Ce ne compiacciamo di cuore, e vi incoraggiamo a continuare su questo solco con volontà costante, e con un preciso programma di azione.

Anche per ciò che riguarda le vostre competenze, occorre uscire dalla routine della consuetudine intangibile, o dell’improvvisazione di comodo, o della fastosità che non lascia traccia. I fedeli, che accorrono ai Santuari, spinti dai motivi più vari - da quelli più tragici e sofferti fino a quelli artistici o turistici - hanno il diritto di trovare presso di voi l’appropriata assistenza spirituale, l’ordinata catechesi liturgica, l’educazione alla coscienza comunitaria; scocca per essi un’ora di grazia, che bisogna saper favorire e assecondare con i mezzi a disposizione, che sono numerosi e straordinari. Vi lodiamo per il molto che è stato fatto, vi incoraggiamo per il molto che resta da fare.

Le difficoltà ci sono, non le ignoriamo; gli ostacoli di varia natura, altrettanto; ma avete con voi una formidabile Avvocata, la Vergine Santa, la Madre della Chiesa, che vi assiste con tutte le dovizie della sua intercessione, della sua potenza, della sua irresistibile efficacia, di cui voi siete i testimoni continuamente commossi e stupefatti. Noi La preghiamo per voi, gratissimi per le invocazioni che a Lei fate salire secondo le Nostre intenzioni. Ci ottenga Ella i doni della continua benevolenza e misericordia del Signore, dei quali è pegno e riverbero la Nostra Benedizione Apostolica.

Le Pie Unioni dell'O.N.A.R.M.O.

Porgiamo un particolare benvenuto agli ottocento associati alle Comunità di Lavoro dette anche Pie Unioni, che fanno capo all’O.N.A.R.M.O., qui venuti, accompagnati dal Nostro diletto Monsignor Abramo Freschi, dalle varie parrocchie dell’Abruzzo, della Toscana, del Lazio e della Campania per portarci a nome di tutti l’espressione della loro fede e della loro carità. Vi accogliamo con paterno compiacimento, e vi ringraziamo dei doni generosi, frutto e simbolo del vostro lavoro, che avete voluto portaCi, con vero sacrificio, tanto più prezioso e meritorio nel momento presente.

Le Comunità di Lavoro dell’O.N.A.R.M.O. vogliono operare silenziosamente, ma con grande efficacia e dedizione, nell’ambito delle singole parrocchie, per fare onore al nome cristiano in tutte le forme possibili: con l’aiuto caritativo a chi è nel bisogno, con l’assistenza tecnica e sociale, con l’istruzione professionale e l’aggiornamento agrario, in una parola, con uno sforzo costante per la elevazione spirituale, morale e professionale degli iscritti. Soprattutto esse si preoccupano di favorire una conveniente istruzione religiosa e alimentare una solida e coerente vita cristiana presso tutti gli associati.

Queste belle iniziative, che sappiamo tanto seguite e apprezzate da voi e dai vostri amici, Ci procurano viva consolazione, e Ci dicono che le vostre Comunità di lavoro sono vive e attive, sono operanti e necessarie, sono utili e tempestive, proprio come l’azione del lievito che profuma il pane, di cui ci ha parlato il Vangelo di domenica scorsa (Mt 13,33). Approfittando dei mezzi, che vi sono messi a disposizione con tanta larghezza, sappiate essere anche voi lievito fermentante nell’ambiente che vi circonda, lievito che profuma e edifica con la forza della fede, con la consapevolezza della speranza, con la spinta della carità, lievito che agisce efficacemente e insensibilmente con l’esempio, con la fedeltà, con l’impegno. È questo il compito che il Concilio Ecumenico ha affidato ai laici, quando ha detto che la loro vocazione è quella di «cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Essi - ha continuato - vivono nel mondo, cioè implicati . . . nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta. Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall’interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo con l’esercizio del proprio dovere e sotto la guida dello spirito evangelico, e, in questo modo, a manifestare Cristo agli altri» (Cost. Lumen Gentium LG 31).

Che bel programma per tutti voi! Noi siamo certi che esso entrerà sempre di più nella vostra vita, pur nella fatica e nel sacrificio quotidiano, e vi sarà motivo di grande letizia nell’anima, e di copiosi meriti eterni. A tanto vi conforti la Nostra particolare Benedizione Apostolica, che di cuore impartiamo a voi qui presenti, ai vostri colleghi, e specialmente ai vostri diletti familiari, particolarmente ai piccoli, agli anziani, ai sofferenti.





Paolo VI Catechesi 26106