Paolo VI Catechesi 23116

Mercoledì, 23 novembre 1966

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Diletti Figli e Figlie!

Avrete anche voi avvertito che il Concilio ha suscitato una quantità di questioni, di discussioni, di novità; in tutta la Chiesa, e anche fuori di essa, s’è fatto molto parlare, molto studiare, molto operare; opinioni, dottrine, decreti, innovazioni hanno dato a tutti l’impressione che il Concilio ha messo tante cose in movimento: idee, abitudini, istituzioni, tutto il nostro mondo spirituale s’è come risvegliato, stimolando ogni fedele, ogni persona intelligente a pensare, a capire il cristianesimo e la religione. Se fosse a voi domandato quale sia l’aspetto principale, l’idea centrale, la chiave di tutto questo fatto complesso e dinamico, che cosa rispondereste? la riforma liturgica? l’ecumenismo? il contatto del cattolicesimo col mondo moderno? Sì, questi sono capitoli principali del grande «tomo» conciliare; ma è certo che fra tutti primeggia la dottrina sulla Chiesa, il suo mistero, la sua compagine, la sua missione. Ora Noi domandiamo a voi: per comprendere la Chiesa a quale principio bisogna risalire, a quale punto focale bisogna fermare lo sguardo? Non v’è dubbio: a Cristo; a Nostro Signore Gesù Cristo.

LE RIVELATRICI DOTTRINE DI SAN PAOLO

È vero che il Concilio non ha trattato espressamente dogmi relativi a Gesù Cristo, come i celebri Concilii dei primi secoli, Nicea, Efeso, Calcedonia; ha trattato piuttosto, come tema centrale, la Chiesa; ma appunto perché ha cercato di vedere e di capire la Chiesa nel suo cuore, nella sua interiorità, nella vitale causalità, piuttosto che nei suoi aspetti storici e giuridici, il Concilio è stato felicemente obbligato a tutto riferire a Cristo Signore, come al Fondatore, non solo, ma come al Capo, alla sorgente, all’operatore, all’animatore, mediante lo Spirito Santo, del mistico suo Corpo, che è la Chiesa.

Citiamo soltanto un testo: «Capo - ecco la parola da ricordare e da meditare -, capo di questo Corpo è Cristo. Egli è l’immagine dell’invisibile Iddio, e in Lui è stato tutto creato. Egli va innanzi a tutti, e tutte le cose sussistono in Lui. Egli è il capo del Corpo, che è la Chiesa. Egli è il Principio, il primogenito dei redivivi, affinché in tutto Egli abbia il primato (cfr.
Col 1,15-18). Con la grandezza della sua potenza domina sulle cose celesti e terrestri e con la sovraeminente perfezione e operazione sua riempie di ricchezze tutto il suo corpo glorioso (cfr. Ep 1,18-23)» (Lumen Gentium LG 7). Si potrebbero moltiplicare le citazioni. San Paolo sarebbe soddisfatto di vedere accolte e proclamate dal Concilio, con impressionanti riferimenti testuali, le sue rivelatrici dottrine su Cristo Signore.

E allora: se vogliamo comprendere, dicevamo, la dottrina centrale del Concilio, dobbiamo comprendere la Chiesa; ma per comprendere la Chiesa, dobbiamo tutto riferire a Cristo. Noi dicevamo che la Chiesa è, nel tempo, in continua costruzione. Bisogna ancora ricordare: chi è il vero architetto, il vero costruttore. Gesù riferisce a se stesso questa perenne operazione. «Io costruirò». Bisogna che riflettiamo alla posizione unica di Cristo nella Chiesa e nel mondo.


IL PRIMATO INEFFABILE DEL FIGLIO DI DIO NOSTRO SALVATORE

Egli è il capo. Perché è il principio: nulla è nella Chiesa, nell’umanità redenta e da redimere, che a Lui non si riferisca e da Lui non provenga. L’incarnazione porta la natura umana al suo grado più alto: in Cristo l’uomo si realizza in una suprema espressione: in «forma Dei» e «imago Dei» (cfr. 2Co 4,4). E perciò Cristo è il prototipo, il modello, l’esempio d’ogni umana perfezione. Non solo: è il Redentore, e perciò l’unico mediatore primario e sufficiente fra Dio e l’uomo; è l’autore della grazia, nessuno si salva senza di Lui; tutti dipendiamo dalla sua pienezza (Jn 1,16). Per tre ragioni, scrive S. Tommaso, Cristo è capo della Chiesa: perché primo nell’ordine delle cose essenziali; primo nella perfezione, nella tipicità; e primo nell’efficacia della sua azione salvatrice (S. Th. III 8,1).

V’è da meditare senza fine. Dobbiamo spingere il nostro pensiero, la nostra pietà in questa direzione, verso Cristo; e, in un certo senso (cioè quello che riconosce, in Lui, il primo, l’unico, il sommo, il necessario, l’universale) verso Lui solo. Non è da temere, così fissando in Cristo la nostra teologia, il nostro culto, la nostra vita spirituale, che venga meno la nostra devozione alla Madonna ed ai Santi: essa prende piuttosto la sua ragion d’essere, la sua proporzione e anche la sua attrattiva e la sua bellezza, proprio con ammirazione e con fiducia verso l’irradiazione dell’unica luce, ch’è Cristo.

Così non è da temere che l’esaltazione del Capo invisibile della Chiesa debba diminuire la giusta valutazione del capo visibile: che cosa sarebbe questo «uomo peccatore» (Lc 5,8) se non fosse di quello l’umile discepolo, il servitore, il ministro, lo strumento? Tutto egli deriva da Cristo, e quanto più da Lui riceve di autorità, di potere ministeriale della sua verità e della sua grazia, tanto più si inabissa nella confessione sovrana di Cristo; ed è allora che Cristo nel suo vicario appare maggiormente vivente ed operante.


UNA SUBLIME PREGHIERA NEL LIBRO DELLA «IMITAZIONE DI CRISTO»

Vi è una pagina dell’Imitazione di Cristo, che raccomandiamo alla vostra considerazione, anzi alla vostra pietà, come quella che può esprimere in accenti di preghiera e di emozione interiore questa collocazione superiore e centrale di Cristo nel quadro religioso, risultante dalla teologia conciliare. Eccone alcune frasi: «Dammi, dolcissimo e amatissimo Gesù, di posare in Te al di sopra d’ogni creatura, al di sopra d’ogni salute e bellezza, al di sopra d’ogni gloria ed onore, al di sopra d’ogni potenza e dignità, al di sopra d’ogni scienza e sagacia, al di sopra di tutte le ricchezze e le arti, al di sopra d’ogni letizia ed esultanza, al di sopra d’ogni fama e lode, al di sopra d’ogni soavità e consolazione, al di sopra d’ogni speranza e promessa . . . al di sopra di tutte le cose visibili ed invisibili, e al di sopra di tutto ciò che non sii Tu, o mio Dio!» (3, 21).

Così, Figli carissimi, dobbiamo imparare a giudicare, a sentire, a pregare Nostro Signor Gesù Cristo. E così vi sostenga e vi guidi la Nostra Benedizione Apostolica.

L’Associazione Cristiana degli Artigiani Italiani

Una parola particolare meritano i rappresentanti dell’Associazione Cristiana degli Artigiani Italiani, che partecipano in questi giorni al loro Convegno Nazionale. Siamo lietissimi di accogliervi, diletti Figli, in questa circostanza che rinnova al Nostro spirito la letizia del ricordo di precedenti incontri, avuti con voi. Vorremmo avere maggior tempo da dedicarvi, per potervi ripetere la simpatia con cui guardiamo al vostro movimento; la soddisfazione, che esso Ci procura con la sua dichiarata e rinnovata volontà di mettere al primo posto i valori della fede vissuta; la sollecitudine, che per esso nutriamo, affinché la vasta e benemerita categoria degli artigiani abbia tutte le provvidenze sociali, sindacali, tecniche, che essa merita per la sua serietà e il suo indiscutibile prestigio.

Vi abbiamo altra volta tracciato un programma di azione, spiegando diffusamente il Nostro pensiero; e sappiamo che a quelle parole voi amate tornare spesso, per ispirarvi la vostra azione. Ve ne ringraziamo, diletti Figli, e ve lo confermiamo con stima immutata per voi e per il vostro lavoro, così utile, così vario, così personale, così pregiato. Vi raccomandiamo oggi unicamente una cosa, che Ci sta molto a cuore: sappiate procedere uniti, solidali, nel difendere la dignità e l’indipendenza del lavoro artigiano, nell’avvalorare le vostre richieste, nel prepararvi un avvenire sempre più sicuro e sereno, secondo le parole che avete scelto a tema del vostro Convegno: «Per un artigianato moderno, professionalmente qualificato ed economicamente valido». Sappiate procedere uniti, soprattutto nell’impegno di far penetrare sempre più a fondo nella organizzazione, come nella vostra vita, i principi sociali cristiani, alla cui volonterosa applicazione sono in massima parte legati la nobiltà, il rispetto, il frutto del vostro lavoro.

A tanto vi confortino la Nostra sempre grande benevolenza, la Nostra memore preghiera, e la propiziatrice Benedizione Apostolica, che di cuore impartiamo alla Presidenza Nazionale, a voi e a tutti i membri dell’ACAI, e alle vostre dilette famiglie.

Ai Dirigenti e alle Maestranze di benemerita azienda

Ci sentiamo in dovere di rivolgere il Nostro saluto ai Dirigenti, agli Impiegati e alle Maestranze delle «Confezioni Monti», qui venuti, con i titolari della Ditta, dagli Stabilimenti di Pescara e di Roseto degli Abruzzi. Diletti Figli, dobbiamo anzitutto ringraziarvi dei doni, che Ci avete portati, e che destineremo subito a quanti sono stati tragicamente provati dalle recenti alluvioni, e che ancora oggi lottano contro dolorose avversità. La Nostra carità non potrebbe giungere a tutti, se non fosse sostenuta dalle offerte di tante persone buone che, come voi, Ci sono larghe di aiuto. Dio vi benedica!

Desideriamo anche esprimervi il Nostro compiacimento per la rinnovata professione di fedeltà a Cristo e alla Chiesa, che voi volete mantenere con propositi che tanto vi fanno onore. Noi vi incoraggiamo con tutto il cuore: anche dai luoghi di lavoro, ove l’uomo dona il meglio di sé, delle sue capacità, delle sue energie, deve salire a Dio l’inno della gratitudine e dell’amore, attraverso l’attività accettata come strumento di collaborazione alla divina opera creatrice, come mezzo di purificazione e di ascesi per la fatica quotidiana ch’essa comporta, e come vincolo di solidarietà verso i fratelli e la società. La dottrina sociale cristiana esalta, come nessun’altra al mondo, la dignità della persona umana dei lavoratori, la loro grandezza davanti a Dio e al mondo.

Sappiate ispirarvi sempre là, per trovare forza, consolazione, letizia: è il Nostro paterno augurio, a cui si accompagna la propiziatrice Benedizione Apostolica, che di cuore impartiamo a voi, qui presenti, ai vostri colleghi di lavoro e di impiego, e a tutti i vostri cari, specialmente ai vostri figliuoli, lieta promessa di un domani sempre migliore.




Mercoledì, 30 novembre 1966

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Diletti Figli e Figlie!

A Voi, cari visitatori e cari pellegrini, Noi domandiamo candidamente: che cosa desiderate? che cosa sperate avere da Noi? perché venite? Questa interrogazione non è che la ripetizione della domanda, che a ciascuno di voi è stata rivolta nel giorno in cui per la prima volta vi siete presentati sulle soglie d’un tempio cattolico: che cosa chiedi tu alla Chiesa di Dio? E la domanda elementare che un portinaio, un custode, un padrone di casa fa ad un visitatore sconosciuto: che cosa desidera? La domanda da elementare si fa importante e decisiva, quando il nuovo arrivato alla vita umana bussa alla casa della Chiesa di Dio e chiede . . . Che cosa chiede? La fede. Ma la fede, insiste chi è dentro la casa benedetta, che cosa ti dà? a che ti serve? E la risposta del nuovo venuto si fa grande e implorante: la vita eterna! Così si apre il rito del santo battesimo, con quella maestosa semplicità che dà veramente l’impressione d’una porta che si apre su una meravigliosa dimora, una porta di salvezza, una porta per chi arriva da lontano, per chi non ha altra vera casa in questo mondo, una porta per avere rifugio, pace, felicità, una porta sulla vera, sull’eterna vita. Voi ricordate.

Ebbene a Noi pare che la scena si ripeta tutte le volte che vediamo gente come voi, anime come voi, che vengono a questa casa del Papa, e domandano di entrare, di vedere, di stare, di sentirsi a casa propria, membri di diritto della grande famiglia cattolica, figli e fratelli amatissimi d’una comunità incomparabile, la Chiesa, la vera Chiesa. Non è il sacramento del battesimo, già da voi ricevuto e irrepetibile, che qui si rinnova; è il sacramento della Chiesa, che ogni altro dono divino comprende e dispensa, che si adombra nel vostro cammino verso questa meta beata e nella Nostra domanda: che cosa venite qua a cercare? e qual è la chiave per entrare qua dentro? Se voi comprendete bene il senso di codesta venuta e di questo incontro, la risposta, che tutto dice e che autorizza l’entrata, è ancora quella precedente il rito battesimale: la fede; veniamo a cercare la fede. Non è questa la casa della fede?

Sì, Figli carissimi, questa è la casa della fede. Con la fede si entra, con la fede si abita, con la fede si vive qui. Perciò Noi chiediamo al Signore, che Ci ha voluto suo Ministro e suo Vicario, che Ci dia la grazia di trasmettere a voi, come dono di questa udienza, un’effusione, un lampo almeno di fede che rischiari le vostre anime, che si proietti sulle vostre vite, che vi dia il gaudio interiore della certezza senza dubbio della verità che fa vivere. La fede: si fa ora molto discorrere sulla fede, anche perché questo termine serve per esprimere cento cose diverse; ma non tutti hanno un concetto esatto del significato di questa parola, che sta al centro della nostra religione; ed anche chi la adopera secondo il suo genuino significato s’accorge che la parola «fede» può riferirsi alla virtù soggettiva e soprannaturale, mediante la quale noi crediamo, cioè aderiamo alle cose rivelate; e può riferirsi, come al termine oggettivo di tale adesione, alla Parola di Dio rivelata, ai dogmi che la definiscono. Si vede perciò che la fede è la via attraverso la quale la Verità divina entra nell’anima. È la condizione, anzi il principio della giustificazione, cioè della vita nuova; della vita soprannaturale, che Dio conferisce a chi crede, a chi si fida di Lui. «Senza la fede, è scritto nell’epistola agli Ebrei, è impossibile piacere a Dio» (11, 6); mentre «colui che crederà, e sarà battezzato, si salverà» (
Mc 16,16). La fede è la base indispensabile della nostra salvezza, ed è il fondamento dell’unità della Chiesa; è l’elemento primo della sua coesione interiore, dell’univocità del suo pensiero e della sua dottrina: «una è la fede», dice S. Paolo (Ep 4,5). Non avremo mai dato sufficiente importanza alla fede, e non avremo mai studiato abbastanza l’immensa, delicata, difficile e stupenda dottrina relativa alla fede, e al suo essenziale rapporto con la Chiesa, che è, come dice il Concilio, una «comunità di fede» (cfr. Lumen Gentium LG 8).

Ma anche nel tempo nostro la fede è bersaglio di tante negazioni («Non di tutti è la fede», scrive S. Paolo: 2 Thess. 2Th 3,2), ed è campo di tante controversie anche fra i credenti. Forse sono giunti anche a voi echi di opinioni errate, che osano sostenere interpretazioni arbitrarie e offensive di verità sacrosante della fede cattolica; sì, sono, ad esempio, sentite voci - poche, per verità, ma sparse nel mondo -, che tentano deformare dottrine fondamentali, chiaramente professate dalla Chiesa di Dio, - circa, ad esempio, la risurrezione di Cristo, la realtà della sua vera presenza nell’Eucaristia, ed anche la verginità della Madonna e di conseguenza il mistero augusto dell’Incarnazione, eccetera -. E ciò che spaventa non è soltanto la gravità di queste false affermazioni, ma altresì l’audacia irreverente e temeraria, con cui sono pronunciate, lasciando intravedere che si insinua qua e là il criterio di giudicare la verità della fede a piacimento, secondo la propria capacità di intendere e il proprio gusto d’interloquire nel campo teologico e religioso.

Se questo triste fenomeno, che turba il rinnovamento spirituale post-conciliare e sconcerta il dialogo ecumenico, Ci rende dolorosamente pensosi e comprensivi delle difficoltà, che la mentalità moderna incontra nell’adesione limpida e ferma alla unica e vera fede (cfr. Gaudium et Spes GS 57 in fine), Ci conferma nella persuasione che la fede non è possibile senza un duplice, ben diverso, ma concorrente ausilio: la grazia - la fede è una grazia -, e l’assistenza del magistero (Papa e Vescovi) della Chiesa, stabilito da Cristo e assistito dallo Spirito Santo.

Ed è per la convinzione che qui, dalla cattedra dell’Apostolo della fede, con la grazia del Signore, può venire alla vostra fede questo duplice provvidenziale ausilio, che voi siete qua venuti. Per avere lume, per avere sicurezza, per avere il gaudio della fede, «gaudium fidei», di cui scrive S. Paolo (Ph 1,25).

Ed è questo ineffabile dono, sì, che Noi imploriamo per voi dal Signore, quasi a rendere festivo e memorabile questo incontro, e quasi per raccogliere, con la vostra ricerca della fede che dà la vita eterna, la vostra promessa di apprezzarla, di difenderla, di viverla, la nostra fede. Oggi e sempre. Con la Nostra Apostolica Benedizione.

La Vostra presenza, dilette Figlie in Cristo, Ci procura tanta consolazione: anzitutto perché, qui davanti a Noi, e davanti a codesta folla di fedeli che assiepano l’udienza di oggi, siete come il segno visibile, lasciateCi dire, come le ambasciatrici, le portavoci di tutte le vostre Comunità e Istituti: e cinquecento Superiore vogliono dire altrettante Comunità religiose, minuscole o grandiose non importa, ma tutte animate da persone, che si sono consacrate al servizio di nostro Signore e dei fratelli, che hanno fatto della vita una donazione continua e disinteressata, e perciò ilare, lieta, ardente, fervorosa, sempre rinnovata e sempre inedita, pura, coraggiosa, trascinatrice. Dio vi benedica, e benedica tutte le vostre Suore, esercito pacifico e silenzioso, a cui tanto deve la Chiesa e la stessa società!

Ci procurate consolazione, inoltre, perché la vostra presenza a questo Corso di aggiornamento, dai temi tanto stimolanti, Ci dice che volete compiere sempre meglio la vostra missione; volete far sì che al vostro nome di «Madri» corrisponda sempre più una reale disposizione sollecita e tenerissima verso tutte le necessità delle vostre Suore, che così vi chiamano e in voi debbono avere una madre, e volete adeguare infine le vostre Comunità al pensiero del Concilio, che vi è stato chiaramente indicato nel capo VI della Costituzione «de Ecclesia», e nel Decreto «Perfectae caritatis», sul rinnovamento della vita religiosa.

L’impulso, dato dal Concilio Ecumenico a tutti i membri dell’intera Chiesa, continua meravigliosamente a operare nel mondo. Voi qui ne siete un’altra, consolantissima prova. Noi vi auguriamo di comprenderne a fondo lo spirito, e di farlo vivere sempre meglio nelle vostre Comunità, alle quali con voi impartiamo di gran cuore la Nostra Apostolica Benedizione.

Le famiglie religiose del P. Charles de Foucauld (in francese)



Mercoledì, 7 dicembre 1966 - PERENNE E ATTIVA LA COSTRUZIONE DELLA CHIESA

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Diletti Figli e Figlie!

Voi sapete che la Chiesa, in questo periodo successivo al Concilio, sta compiendo uno sforzo di rinnovamento, in ogni senso: nella conoscenza dei testi conciliari, cercando di studiarli, di capirli, di divulgarli, progredendo così nella conoscenza e nella coscienza di se stessa e cercando di meglio comprendere il disegno di Dio in ordine alla nostra vocazione cristiana, in ordine al modo di vivere questo nostro passaggio nel tempo e nel mondo, e in ordine al destino finale della nostra esistenza; Cristo, la Chiesa medesima, la Parola rivelata di Dio, il contenuto e lo stile del nostro colloquio con Dio, i rapporti del fedele cattolico con i cristiani disuniti e con i seguaci d’altre religioni, anzi col mondo profano e non credente; tutto il nostro ordinamento religioso, in una parola, è messo sotto studio al fine di dare nuovo incremento alla nostra fede, alla nostra speranza, alla nostra carità.

E sapete che Noi, in questi familiari incontri settimanali, cerchiamo di destare l’attenzione dei Nostri visitatori sopra questo presente atteggiamento della Chiesa: di ricerca, di risveglio, di rinnovamento, di progresso. Abbiamo scelto un’immagine scritturale per indicare tale attitudine della Chiesa, atteggiamento che deve essere d’ogni figlio della Chiesa stessa, dev’essere anche il vostro. L’immagine è quella della costruzione: bisogna, diciamo, costruire la Chiesa; bisogna restaurarla, bisogna edificarla, bisogna ampliarla. Il disegno completo della sua costruzione non è ancora stato eseguito.

Abbiamo davanti alla mente una parola espressiva di San Paolo ai Corinti, avidi di penetrare nella conoscenza e nell’esperienza del primo annuncio cristiano: «Voi, poiché siete amanti dei doni spirituali, cercate di averne in abbondanza per l’edificazione della Chiesa» (
1Co 14,12).


EVITARE OGNI PIGRIZIA SPIRITUALE

Qui sorge una domanda: chi ha ricevuto la fede, e si trova vitalmente inserito nella Chiesa, non è già in possesso di quanto occorre per salvarsi? La tentazione sorge, variamente assecondata dal cattolico e dal protestante: non basta la fede? Riflettiamo ora sopra il cattolico, sopra di noi figli della nostra santa Chiesa. Non è forse vero che noi siamo spesso accusati d’essere così soddisfatti di saperci nella verità e di sentirci così bene guidati ed assistiti dal magistero e dal ministero della Chiesa da esimerci dal fare altri sforzi nella ricerca della verità stessa? Abbiamo la felice impressione d’essere imbarcati sulla nave della salvezza, e non pensiamo ad altro: essa ci porta da sé al porto finale; basta che il fortunato viaggiatore si mantenga tranquillo e compia qualche modesta osservanza abituale per essere a posto e per non provare altri tormenti spirituali: sul mistero di Dio, sul destino della nostra vita, sulla profondità delle verità e dei problemi religiosi. La sicurezza di appartenere alla Chiesa cattolica si risolverebbe in una pigrizia spirituale, in un’illusione di tutto conoscere e di tutto possedere circa quanto riguarda la religione, in una staticità facilmente inclinata al formalismo, al dogmatismo. Il cattolico, si dice, non studia, non ricerca, non soffre, non sperimenta il sublime tormento del dubbio, del tentativo, del continuo movimento spirituale. Non è più grande Ulisse, teso «a divenir del mondo esperto - e delli vizi umani e del valore» (Dante, Inf. 26), che la tranquilla Penelope?

Non bisogna lasciarsi incantare da facili schemi del genere. A Noi basterà ora dire che la sicurezza della fede garantitaci dalla Chiesa cattolica non deve rendere inerte lo spirito nella ricerca e nell’approfondimento delle verità, che la fede ci fa percepire. Per due motivi: primo, perché non essendo le verità della fede di per se stesse evidenti, ma accettate per l’autorità di Dio rivelante e accolte dal nostro spirito mediante un atto di volontà, esse esigono un continuo esercizio dell’anima credente per tenere vivo e sincero l’atto di fede; e ciò si dica del fedele studioso e contemplativo, che esercita e adatta le sue facoltà per meglio abilitarle all’atto di fede, come pure si dica dell’uomo moderno, la cui educazione mentale è tutt’altro che incline a credere, mentre è tutta rivolta al vedere, al sapere per via di evidenza e di prove razionali. E secondo, perché le verità della fede sono abissi, che non avremo mai finito di esplorare.


«LA FEDE È LA BASE DI CIÒ CHE SI SPERA»

Approfondire la conoscenza di ciò che la fede ci presenta in modo oscuro, implicito, iniziale, resta sempre un dovere da compiere; dovere tanto più urgente e tanto più grato, in quanto non parte per noi dall’incertezza, non cammina senza direzione e senza guida, ma è gioiosamente e continuamente rivolto a rispondere alla esortazione dell’Apostolo Paolo, che vuole che noi «progrediamo nella scienza di Dio» (Col 1,10), e dell’Apostolo Pietro, che ci ripete la stessa parola: «Crescete nella cognizione di Dio» (2P 3,18). Potremmo aggiungere una terza considerazione: «La fede è la base di ciò che si spera» (He 11,1), cioè è tutta rivolta ad una prossima rivelazione, è resa vigilante da una continua attesa escatologica; e se davvero è accolta nello spirito del credente, lo obbliga ad uno stato d’animo di perenne aspettativa, di insonne ricerca. Tutto questo ci ricorda che per essere veramente fedeli dobbiamo vigilare sempre nella ricerca e nell’attesa di Dio, e per essere veramente cattolici dobbiamo sempre aspirare al progresso spirituale e apostolico della Chiesa di Dio. Questi pensieri si possono adattare al presente periodo dell’Avvento, che sempre ci pone nella ricerca e nell’attesa di Cristo. E voglia il Signore che anche a ciò servano, con la Nostra Benedizione Apostolica.



Mercoledì, 14 dicembre 1966 - COME INTENDERE IL «REGALE SACERDOTIUM» DEL POPOLO DI DIO

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Diletti Figli e Figlie!

L'atto di fede, che ciascuno di voi pronuncia nel cuore visitando la tomba di San Pietro, e qui, presente il Papa, di lui umile successore, recitando il «Credo» alla fine di questa udienza, assume un significato più esplicito e più impegnativo, dopo il Concilio. È bene che ne abbiate l’avvertenza.



Il Concilio, come sapete, riconosce a tutti i Fedeli una dignità «sacerdotale» e una funzione «profetica» (cfr. Lumen Gentium
LG 10 LG 11 LG 12 ecc.); termini solenni, non nuovi, ma usati ora con una elevatezza di significato, che dev’essere meditata, con lo stupore e col gaudio appropriati al disegno di bontà e di grandezza instaurato da Dio nell’economia della salvezza; e significato che mostra un primo, grande dovere derivante dalla partecipazione a tali doni, a tali carismi, conferiti al Popolo di Dio: quello della testimonianza. Il dovere di testimoniare la propria fede è una delle prescrizioni e delle esortazioni, che il Concilio proclama e ripete con frequenza nei suoi documenti. Il cristiano, che si pone alla scuola del Concilio, deve sentirsi stimolato ad una nuova, più chiara, più intensa, più apostolica professione della propria fede. Lo spirito del Concilio, si direbbe, soffia nelle anime per riaccendere in esse una più viva fiamma di fede. La fede del cristiano deve non solo crescere, ma manifestarsi; deve studiarsi di diventare esemplare, comunicativa, documentata da quella espressione, che oggi giustamente chiamiamo testimonianza.

In che cosa consiste questa testimonianza? «Il Popolo di Dio, dice il Concilio, partecipa dell’ufficio profetico di Cristo col diffondere la viva testimonianza di Lui, soprattutto per mezzo d’una vita di fede e di carità» (ibid. 12). La vita, la vita veramente cristiana, è la prima e principale testimonianza che il cristiano, rinnovato dal Concilio, deve dare con maggiore coscienza e più decisa volontà.

È cosa ovvia; ma non è piccola cosa. Perché dare testimonianza a Cristo con la propria vita indica innanzi tutto un’adesione piena e ferma alla sua Parola e alla sua Chiesa; indica cioè una fede forte e nutrita, personale ed amata. Che cosa sarebbe una testimonianza priva di questa essenziale premessa? Occorre una coerenza con Cristo: la fede. E poi una seconda coerenza: con noi stessi: la pratica della fede. La testimonianza esige una coerenza fra pensiero e azione; fra la propria fede e le proprie opere. Questa è la testimonianza della propria condotta; cioè della maniera particolare con cui il cristiano dà stile, dà forma, dà legge al proprio modo di giudicare e di agire. Un cristiano si deve vedere che è tale, ancor prima che ascoltarlo, dal suo tenore di vita. Questo apostolato tranquillo e connaturato, l’apostolato dell’esempio, è a tutti accessibile, è per tutti doveroso, ed è oggi più che mai necessario. Bisogna predicare in silenzio con la semplicità e con lo splendore del proprio contegno.


PROFESSIONE COSTANTE DELLA FEDE PRINCIPIO DI VITA MORALE

Il Concilio è molto esigente a tale riguardo. Si può dire che tale esigenza forma il sustrato della Costituzione pastorale circa la Chiesa e il mondo moderno. Il fedele vive in mezzo alla società; egli deve, prima ancora di svolgere opera attiva di apostolato, irradiare d’intorno a sé il proprio segreto, la propria fede. La sua vita deve apparire concepita secondo la formula vera, la formula buona, onesta, felice, quella di Cristo. Chi pensasse di nascondere la propria personalità cristiana per riguardo all’ambiente profano, in cui vive, cederebbe al «rispetto umano» di antica memoria e meriterebbe il. rimprovero del Signore: «Chi mi avrà negato davanti agli uomini, anch’Io lo rinnegherò davanti al Padre mio, ch’è nei cieli» (Mt 10,33).

La fede reclama una professione. Anche sotto questo aspetto del suo rapporto con l’attività pratica di chi la possiede si vede come la fede non sia inerte e statica, ma principio di vita morale.

Si presenta a questo punto la famosa questione della fede e delle opere: non dice San Paolo che siamo salvati per grazia, mediante la fede, dono di Dio, e non dalle opere nostre? (cfr. Ep 2,8-9 Rm 3,24-25 ecc). Il senso della dottrina capitale dell’Apostolo è ben chiaro; egli vuole insegnare che la nostra salvezza viene da Dio, a cui aderiamo mediante la fede; Dio Padre, per Gesù Cristo, nello Spirito Santo, è la prima causa della nostra giustificazione. Egli è giusto e giustificante (Rm 3,26); le opere, cioè le prescrizioni della legge mosaica, non valgono a salvarci; così non basterebbero le nostre virtù puramente umane a meritarci la salute eterna.


LA PIÙ CONVINCENTE APOLOGIA DEL CRISTIANESIMO

Ma ciò non significa che basti la fede senza le opere buone (cfr. Iac. 2, 20) per essere salvi; ché anzi il bene operare è richiesto sia come predisposizione alla luce della fede: «Chi opera secondo la verità si accosta alla luce», dice il Signore (Jn 3,21); e sia come conseguenza ed esigenza della vita nuova, in noi generata dalla fede e dalla grazia. È ciò che ancora il Concilio, esaltando la vocazione alla santità per tutti i fedeli, santificati dal battesimo, ricorda con forte parola: «I seguaci di Cristo . . . devono, con l’aiuto di Dio, mantenere e perfezionare, vivendola, la santità che hanno ricevuta» nel battesimo della fede (Lumen Gentium LG 40). Ed è così riconfermata la dottrina del Concilio Tridentino, che tante affermazioni ha dovuto fare su questo aspetto essenziale della vita cristiana, concludendo tuttavia anch’esso sul riconoscimento della prima causa della nostra salvezza in quel Dio «la cui bontà verso tutti gli uomini è così grande, da volere che siano considerati loro meriti i suoi stessi doni» (Denz. Schön, DS 1548; cfr. S. Th. II-II 113,0).

Del resto, è ovvio; il buon senso ha la sua teologia: un cristiano autentico dev’essere un galantuomo. L’impegno verso Dio reclama un impegno d’onestà ineccepibile. Nulla scredita maggiormente la religione quanto la sua dissociazione dalle virtù morali. Gesù stesso ha avuto parole d’implacabile severità per il fariseismo, la professione, cioè, ufficiale e meticolosa d’una religiosità esteriore e formale disgiunta dalle virtù basilari della moralità: «la giustizia, la misericordia e la fedeltà» (Mt 23,23).

Tutto questo dice a noi, Figli carissimi, che dobbiamo dare oggi, e proprio auspice il Concilio, coscienza ed energia maggiori alla rettitudine morale della nostra vita; un tono, un timbro cristiano corrispondente alla nostra fede; questa è la testimonianza che la Chiesa attende da noi, questa l’apologia di Cristo, forse la più convincente, che il .mondo oggi possa ascoltare. La Nostra Benedizione sia con voi.



Mercoledì, 21 dicembre 1966

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Diletti Figli e Figlie!

Questa udienza nell’imminenza del Santo Natale non Ci consente di pensare ad altro e di parlare d’altro che del grande fatto, del grande mistero dell’Incarnazione, della nascita di nostro Signor Gesù Cristo, due volte generato, come diceva un’iscrizione nell’antica Basilica di San Pietro: senza madre in cielo, senza padre in terra, cioè Figlio eterno di Dio Padre, e Figlio nel tempo di Maria, uno nella Persona divina del Verbo, che associa alla sua divinità l’umanità di Gesù l’uomo-Dio, nostro Salvatore, nostro Maestro, nostro fratello, Sacerdote sommo fra cielo e terra, centro della storia e dell’universo. Chi avverte la realtà di questo avvenimento non può occuparsi d’altro; e quanto più esso supera la nostra capacità di comprensione tanto più attrae ed impegna la nostra avidità di contemplazione; tutto in Cristo si concentra, tutto s’illumina. E la grande meraviglia è poi questa, che ciascuno di noi è interessato al fatto prodigioso; esso ci tocca personalmente, e non in modo accidentale e fortuito, ma in modo essenziale; il nostro destino è collegato con esso; nessuno di noi può prescindere dal rapporto che la nascita di Cristo stabilisce fra Lui e ognuno di noi.

Se non che questo non è il momento per sostare in simile meditazione, di cui Ci basta qui fare ricordo per esortarvi a cercare nella prossima celebrazione della dolcissima festa ciò che ne costituisce il punto focale, il mistero cioè della venuta di Cristo fra noi. Tante sono le esteriorità che ornano e abbelliscono il Natale, che spesso il suo significato vero ci resta nascosto, così che ciò che abbiamo accumulato di feste, di riti, di lumi, di canti, di doni, di pranzi, di giochi intorno al Natale per farcene gustare la serena bellezza finisce talvolta per ostacolare il godimento del suo valore spirituale. Questo fatto, sembra a Noi, ha una sua spiegazione indulgente e legittima: se il Signore, Noi pensiamo, è venuto a questo mondo, fra noi, piccolo e povero, partecipe anche Lui della nostra scena terrena, vuol dire che possiamo andare a Lui per i sentieri comuni della nostra esperienza vissuta e sensibile; la maestà e l’ineffabilità di Dio si sono velate delle nostre sembianze umane; la sua umanità ci ha tolto il timore e la fatica di cercare per vie angeliche, più alte e difficili, l’incontro con Lui. Celebre, a questo proposito, la parola del grande dottore dell’Incarnazione, S. Leone Magno: il Figlio di Dio «invisibilis in suis, visibilis est factus in nostris», invisibile di sua natura, si è fatto visibile nella nostra (Sermo 22, 2 - PL. 54, 195). E questa è grande cosa: vuol dire che tutta la nostra espressività umana: logica, sentimentale, simbolica, artistica, popolare . . . può servire, se bene usata, al linguaggio religioso, senza profanarne la sacralità: è questa la giustificazione teologica dell’apparato esteriore liturgico, dell’arte, e, nel caso nostro, del decoro natalizio e specialmente del presepio.

La rappresentazione scenica del racconto evangelico sulla nascita di Gesù a Betlemme ha nel modo scelto da Dio per immettersi nel dramma umano la sua giustificazione. Il Prefazio della Messa natatalizia ce lo insegna: «Dum visibiliter Deum cognoscimus, per hunc in invisibilium amorem rapiamur», mentre veniamo a conoscere Dio in modo visibile, siamo da Lui attratti all’amore delle cose invisibili. E allora: se noi ci chiediamo qual è la via centrale e diritta del nostro mondo terreno, che ci porta a quell’umanità di Cristo, nella quale troviamo la rivelazione di Dio e la nostra salvezza, la risposta è pronta e bellissima: quella via è la Madonna, è Maria Santissima, è la Madre di Cristo, e perciò Madre di Dio e Madre nostra. Questo volevamo ricordare a voi in questa attesa del Natale.

Se vogliamo entrare nello spirito del Natale, nel segreto del Natale, nel godimento del Natale, dobbiamo avvicinarci a Maria, la cristifera, la portatrice di Cristo nel mondo. Dalla maternità virginale di Maria possiamo introdurci alla umanità di Cristo Uomo-Dio. Questa è la migliore stagione liturgica del culto alla Madonna. Dovremmo meditare ciò che il Concilio c’insegna sul culto che le è dovuto, e dovremmo lasciare che le nostre anime fossero invase dal fervore e dalla poesia, che tale culto suscita ed esige.

Uno dei grandi Padri greci, S. Cirillo Alessandrino, il protagonista del Concilio di Efeso (a. 431), nel quale fu proclamata Maria Madre di Dio, essendo di Gesù Cristo riconosciuta la divinità, pronunciando «la più celebre predica che su Maria abbia l’antichità» (Bardenhewer, Patrologie, 321; cfr. Grisar, Roma . . . I, 338, 2), esclama: «Salve, o Maria, Madre di Dio, tesoro venerando di tutto il mondo, lucerna che mai non si spegne, fulgida corona della verginità, tempio indistruttibile, madre e vergine ad un tempo; da Te infatti è nato Colui, del quale dice il Vangelo: benedetto quegli che viene nel nome del Signore» (PG. 77, 1054). Così dovremmo ripetere noi, traendo dai nostri cuori, ciascuno da sé e tutti insieme, la medesima lode, quale voce gentile e affettuosa per la Donna benedetta, che portò la Luce della salvezza del mondo.

È ciò che, a ricordo di questa Udienza, vi raccomandiamo, mentre a tutti impartiamo la Nostra Benedizione Apostolica.


Mercoledì, 28 dicembre 1966 - L’ISPIRATA DECISIONE DI S. FRANCESCO D’ASSISI


Paolo VI Catechesi 23116