Paolo VI Catechesi 22267

Mercoledì, 22 febbraio 1967

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Questa udienza generale trova oggi, 22 febbraio, la Basilica di S. Pietro in festa per la celebrazione d'una sua particolare solennità: quella della «Cattedra di San Pietro». Dubiterà qualcuno che si tratti d'una festa di recente istituzione, dovuta allo sviluppo della dottrina circa il Pontificato romano, nel secolo scorso. No, si tratta di un'antichissima festa, che risale al terzo secolo (cf. Lexicon für Th. und K. 6, 66), e che si distingue dalla festa per la memoria anniversaria del martirio dell'Apostolo (29 giugno). Già nel quarto secolo la festa odierna è indicata come «Natale Petri de cathedra» (cf. Radò, Ench. Lit, II, 1375). Fino a pochi anni fa il nostro calendario registrava due feste della Cattedra di S. Pietro, una il 18 gennaio, riferita alla sede di Roma, l'altra il 22 febbraio, riferita alla sede di Antiochia; ma si è visto che questa geminazione non aveva fondamento né storico, né liturgico.

A che cosa si riferisce questo culto? Il primo pensiero corre alla Cattedra materiale, cioè alle reliquie del seggio sul quale l'Apostolo si sarebbe seduto per presiedere all'assemblea dei Fedeli, perché sempre in tutte le comunità cristiane il seggio episcopale era tenuto in grande onore. Si chiama ancor oggi cattedrale la chiesa dove il Vescovo risiede e governa. Ma la questione circa l'autenticità materiale di tali reliquie riguarda piuttosto l'archeologia, che la liturgia; sappiamo che tale questione ha una lunga storia di difficile ricostruzione, e che il grandioso e celebre monumento di bronzo, eretto per ordine di Papa Urbano VIII, ad opera del Bernini, nell'abside di questa Basilica, si chiama «l'altare della Cattedra», il quale, a prescindere dai cimeli archeologici ivi contenuti, vuole onorare principalmente il loro significato: vuole cioè riferirsi a ciò che dalla Cattedra è simboleggiato, la potestà pastorale e magistrale di colui che occupò la Cattedra stessa, considerata piuttosto nella sua origine costitutiva e nella sua tradizione ecclesiastica, che non nella sua entità materiale (cf. Cabrol, in DACL, III, 88: la festa «ricordava l'episcopato di S. Pietro a Roma, piuttosto che la venerazione d'una Cattedra materiale dell'Apostolo»). «Quello che conta e che commuove e la glorificazione di questa "Cattedra", la quale, fra tanto susseguirsi e variare di sistemi, di teorie, di ipotesi, che si contraddicono e cadono l'unta dopo l'altra, è l'unica che, invitta, faccia certa, da duemila anni, la grande famiglia dei cattolici; che anche su questa terra è dato agli uomini di conoscere talune immutabili verità supreme: le vere e sole che appaghino l'angoscioso spirito dell'uomo» (cf. Galassi Paluzzi, S. Pietro in Vat., II, 65).

Dunque: onoreremo nella Cattedra di San Pietro l'autorità che Cristo conferì all'Apostolo, e che nella Cattedra trovo il suo simbolo, il suo concetto popolare e la sua espressione ecclesiale. Come non ricordare che, fin dalla metà del terzo secolo, il grande vescovo e martire africano, San Cipriano, adopera questo termine per indicare la potestà della Chiesa Romana, in virtù della Cattedra di Pietro, donde scaturisce, egli dice, l'unità della gerarchia? (cf. Ep. 59, 16: Bayard, Correspondance, II, 184). E quanto alla festa della Cattedra basti citare una delle frasi dei tre discorsi attribuiti a S. Agostino e ad essa relativi: «L'istituzione della odierna solennità ha preso il nome di Cattedra dai nostri predecessori per il fatto che si dice avere il primo apostolo Pietro occupato la sua Cattedra episcopale. Giustamente dunque le Chiese onorano l'origine di quella sede, che per il bene delle Chiese l'Apostolo accettò» (Serm. 190, I; P.L. 39, 2100).

Noi faremo bene, Figli carissimi, a dare a questa festività la venerazione, che le è propria, ripensando alla insostituibile e provvidenziale funzione del magistero ecclesiastico, il quale ha nel magistero pontificio la sua più autorevole espressione. Si sa, pur troppo, come oggi certe correnti di pensiero, che ancora si dice cattolico, cerchino di attribuire una priorità nella formulazione normativa delle verità di fede alla comunità dei fedeli sulla funzione docente dell'Episcopato e del Pontificato romano, contrariamente agli insegnamenti scritturali e alla dottrina della Chiesa, apertamente confermata nel recente Concilio, e con grave pericolo per la genuina concezione della Chiesa stessa, per la sua interiore sicurezza e per la sua missione evangelizzatrice nel mondo.

Unico nostro maestro è Cristo, che più volte ha rivendicato a Sé questo titolo (
Mt 23,8 Jn 13,14); da Lui solo viene a noi la Parola rivelatrice del Padre (Mt 11,27); da Lui solo la verità liberatrice (lo. 8, 32), che ci apre le vie della salvezza; da Lui solo lo Spirito Paraclito (Jn 15,26), che alimenta la fede e l'amore nella sua Chiesa. Ma è pur Lui che ha voluto istituire uno strumento trasmittente e garante dei suoi insegnamenti, investendo Pietro e gli Apostoli del mandato di trasmettere con autorità e con sicurezza il suo pensiero e la sua volontà. Onorando perciò il magistero gerarchico della Chiesa onoriamo Cristo Maestro e riconosciamo quel mirabile equilibrio di funzioni da Lui stabilito, affinché la sua Chiesa potesse perennemente godere della certezza della verità rivelata, dell'unità della medesima fede, della coscienza della sua autentica vocazione, dell'umiltà di sapersi sempre discepola del divino Maestro, della carità che la compagina in un unico mistico corpo organizzato, e la abilita alla sicura testimonianza del Vangelo.

Voglia il Signore conservare ed accrescere, per i bisogni del nostro tempo, questo culto amoroso, fiducioso e filiale al magistero ecclesiastico stabilito da Cristo; e sia a noi propizio l'Apostolo, che primo ne ebbe il mandato, e che qui ancora, dalla sua Cattedra romana, per mano Nostra, tutti vi benedica.





Mercoledì, 1° marzo 1967

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Diletti Figli e Figlie!

Avrete avuto notizia, o almeno l'eco, della Nostra recente Esortazione in occasione del centenario del martirio dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, ai quali intendiamo dedicare un anno celebrativo, a partire dalla prossima festa del 29 giugno, invitando tutti i Cristiani a offrire a questi due grandi seguaci di Cristo, che possiamo quasi dire fondatori e protettori della Chiesa, l'omaggio della fede, che essi hanno predicata, con la parola e col sangue, e che ci hanno lasciata in eredità. Dovremo perciò spesso parlare della fede, dovremo esporre qualche nozione sulla fede, tutti dovremo conoscere i suoi vari significati, renderci conto delle questioni relative alla fede, conoscere anche le difficoltà, che da tante parti le si oppongono, sperimentare poi, se il Signore ci aiuta, il gaudio, la forza, la luce, che ci vengono dalla fede, e studiare infine in quali modi noi possiamo e dobbiamo professare la nostra fede.

«SIATE FORTI NELLA FEDE . . .» «GARANTIRNE LA INTEGRITÀ E LA CONSERVAZIONE»

Abbiamo scelto questo tema per onorare la ricorrenza centenaria di questa memoria apostolica, perché Ci sembra che esso offra a noi il filo più sicuro e più diretto per comunicare spiritualmente con quei grandi Apostoli; loro stessi ne hanno lasciato pressante raccomandazione; dice, ad esempio, San Pietro, nella sua prima lettera, ai primi cristiani che essi sono «custoditi dalla fede per la salvezza» (
1P 1,5), e che devono essere «forti nella fede» (1P 5,9); San Paolo poi, dopo d'aver svolto ampiamente e ripetutamente la sua dottrina sulla fede, specialmente nelle celebri epistole ai Galati ed ai Romani, è preso dall'ansia di garantire la integrità (cf. Ga 1,8) e la conservazione della fede, specialmente nelle lettere personali, dette pastorali, e ripete le sue raccomandazioni perché ogni errore sia evitato e respinto (cf. Tt 1,10-16; e 2 Tim.), e perché il «depositum» sia custodito (1 Tim. 6, 20), per mezzo dello Spirito Santo (2Tm 1,12 2Tm 1,14). Questo termine, più volte ripetuto da S. Paolo, di «deposito» si riferisce certamente alle verità di fede, insegnate dall'Apostolo, le quali formano un corpo dottrinale, che i Pastori della Chiesa devono conservare, difendere e trasmettere (cf. De Ambroggi, nel commento alle Ep. past., Marietti, 1953, p. 175). Nascono dal «deposito» di S. Paolo alcuni insegnamenti molto importanti; esso indica che esisteva, fino dall'età apostolica, un insieme di verità rivelate, ben determinato e inequivocabile, una sintesi, una specie di catechismo, da insegnarsi e da apprendersi secondo formulazione determinata dal magistero apostolico; e poi da trasmettersi con rigorosa fedeltà; è presupposta così la tradizione, cioè l'insegnamento orale e autorevole della Chiesa primitiva (cf. 2Tm 2,2 1Co 11,2 1Co 11,23 1Co 15,1-3; etc.); e un altro nasce: la trasmissione del «deposito», sempre con vigile attenzione che non si ,alteri l'insegnamento originario, ma con l'ormai insonne studio di meditarlo, di esplorarlo, di renderlo da implicito esplicito, da biblico teologico, da antico sempre attuale (cf. S. Th. II-II 1,7).

LA FEDE PRIMO E STABILE DONO DELL'APOSTOLICITÀ

Così che, Figli carissimi, aderendo alla fede, che la Chiesa ci propone, noi ci mettiamo in comunicazione diretta con gli Apostoli, che vogliamo ricordare; e, mediante essi, con Gesù Cristo, nostro primo e unico Maestro; noi ci mettiamo alla loro scuola, noi annulliamo la distanza dei secoli, che da loro ci separano e facciamo del momento presente una storia vivente, la storia sempre eguale a se stessa propria della Chiesa, mediante l'attuazione, identica e originale insieme, della medesima fede in una immutabile e sempre irradiante verità rivelata. Solo la Chiesa può scrivere, leggere, vivere la sua storia così, lasciando che la fuga dei secoli ne misuri la durata, e che la fissità nell'eterno ne definisca la perenne identità.

Ci si può domandare perché la celebrazione prevista concentri la sua attenzione preferenziale sulla fede, e non su altri aspetti della testimonianza apostolica, ad esempio: sulla loro opera in ordine all'origine della Chiesa, ovvero sulla loro carità. Questa scelta della fede come primo e stabile dono dell'apostolicità si spiega mediante un duplice ordine di motivi: il primo è dato dal fatto che la fede ha ragione di principio nell'economia della nostra salvezza; ragione di principio a riguardo della missione degli Apostoli: essi sono testimoni (cf. Ac 1,8 Ac 2,32 Ac 3,15 Ac 5,32, etc.); il loro primo mandato, la loro missione comincia con l'annuncio del V,angelo che dev'essere accettato con fede (cf. Conc. Vat. II, Lumen Gentium, nn. LG 24 LG 50, etc.); e la funzione d'insegnare, propria degli Apostoli e del magistero ecclesiastico, che da loro deriva, rappresenta la prima delle potestà che reggono la Chiesa, avendo Gesù proclamato, nell'atto di congedare gli Apostoli per la missione loro nel mondo: «Andate e insegnate . . .» (Mt 28,19). Ragione di principio ha parimente la fede a riguardo della nostra inserzione nel piano concepito da Dio per elevarci alla vita nuova, alla vita soprannaturale. Conoscerete certamente qualche cosa della dottrina sulla necessità della fede: «Senza la fede, ripetiamo con l'autore della lettera agli Ebrei, non è possibile piacere a Dio». Il Concilio ce lo ripete (ibid. n. 14); e conoscerete forse qualche cosa della grande discussione su questo tema, proprio in ordine specialmente agli insegnamenti di San Paolo, svolta nel Concilio di Trento (cf. Denz. Schoen. DS 1532 (801)), è ripresa nel Concilio Vaticano primo (ibid. DS 3008, ss. (1789)), dove sempre si ripete che la fede «humanae salutis initium est», è il principio per l'uomo della sua salvezza.

Voi, carissimi Figli, che vi presentate oggi davanti alla Cattedra dell'Apostolo Pietro, accogliete pertanto questa sua prima e solenne lezione sull'importanza, sulla necessità, sulla efficacia della fede; e se mai di questo dono divino, di questa virtù cristiana si fosse in voi offuscato il concetto, cominciate subito a ristabilirlo nella sua dignità e nella sua bellezza nel vostro spirito, cantando con Noi il Credo alla fine di questa udienza, che allora davvero potrà felicemente coronarsi con la Nostra Apostolica Benedizione.


Mercoledì, 8 marzo 1967

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Diletti Figli e Figlie!

L'udienza, alla quale voi partecipate, dovrebbe riuscire nel Nostro desiderio, e fors'anche nel vostro, di conforto alla vostra fede cattolica. Quale altro dono migliore possiamo Noi desiderare per voi? Noi pensiamo all'immenso travaglio, in cui si devono trovare i vostri animi, quasi per forza di cose, immersi come sono nel mare tempestoso della mentalità moderna in ordine alla religione, e più precisamente in ordine alla fede; e pensiamo che voi attendiate, venendo a questo incontro, di godere un momento di tranquillità spirituale, un momento di sicurezza religiosa, un momento di gaudioso respiro nell'interiore esperienza del potere tonificante della fede. Qui è il porto della serenità, qui è la terra ferma della stabilità: e a voi il Nostro voto e la Nostra benedizione vogliono ottenere questo beatificante e determinante conforto.

Il Nostro ministero apostolico Ci dà a tal fine obbligo e potestà. Ed è per diffondere in tutto il Popolo di Dio questo sovrano beneficio, che abbiamo annunciato la prossima celebrazione del centenario del martirio dei Santi Apostoli Pietro e Paolo. Ma intanto possiamo presentare a voi una considerazione, che bene si collega con il periodo Post-conciliare, in cui la Chiesa tutta va studiando e meditando il tesoro dottrinale a noi lasciato dal Vaticano Secondo. E la considerazione riguarda il pensiero che il Concilio ha espresso in ordine alla fede. Sarà questo certamente tema per grande studio da parte dei teologi e degli storici; Noi qui Ci contentiamo di accennarvi appena.

Qual è la dottrina del Concilio Ecumenico Vaticano II sulla fede? Chi pone questa domanda s'accorge subito che l'ultimo Concilio non ha lasciato una trattazione vera e propria sulla fede, come invece altri Concili hanno fatto. Rimane celebre, ad esempio, l'insegnamento del II Concilio d'Orange (a. 529) Concilio «Arausicanum» II, presieduto da S. Cesario d'Arles; non fu Concilio ecumenico, ma ebbe molta importanza per le polemiche e le discussioni, in cui si svolse e per le dottrine che, a seguito di S. Agostino, insegnò, specialmente circa la grazia necessaria per arrivare alla fede giustificante, e che Papa Bonifacio II confermò (cf. Munsi, VIII, 714; 735; Hefele-Leclercq, II; Denz. Schoen.
DS 375, ss. (178)). Così non possiamo dimenticare gli insegnamenti del Concilio di Trento sulla fede, specialmente sulla necessità che la fede sia integrata dalla carità (Denz. Schoen. DS 1559 (319)) e dalla grazia sacramentale (ibid. DS 1561-1566 (821-826)). Parlò poi espressamente della fede il Concilio Vaticano I, nella sua famosa Costituzione «Dei Filius» (a. 1870), specialmente ai capi III e IV, dove sono precisate le funzioni dell'intelligenza e della volontà, operanti con la grazia, nell'atto di fede, e sono indicati i rapporti fra la fede e la ragione (ibid. DS 3008-3020 (1789-1800)): questi insegnamenti hanno dato materia di studio e di discussione alla teologia, all'apologetica, alla spiritualità e anche all'attività pratica della Chiesa fino ai nostri giorni (cf. R. Aubert, Questioni attuali intorno all'atto di fede, in Problemi e Orientamenti di Teol. domm., vol. II, 655 ss.).

Come mai invece il Concilio Ecumenico Vaticano II non ci ha lasciato un «capitolo» espressamente dedicato alla fede, quando essa è tuttora al centro della controversia e della vitalità religiosa? Bisogna fare attenzione. Questa supposta omissione è stata messa in relazione da alcuni con uno dei punti programmatici del recente Concilio, quello cioè di non dare nuove solenni definizioni dogmatiche; il che ha generato in alcuni il sospetto che le definizioni dogmatiche fossero forme superate dell'insegnamento cattolico, e che perciò il Concilio potesse essere considerato come una liberazione dagli antichi dogmi e relativi anatemi. La fede, si dice, non è il dogma verbalmente considerato; questo consiste in formule fisse che tentano di definire e di racchiudere verità immense, ineffabili e inesauribili. E sta bene; anche S. Tommaso c'insegna che l'atto di fede non termina alle formule che la espongono, ma alla realtà a cui esse si riferiscono; ma non senza una visione integrale di questa dottrina (cf. II-II 1,2, ad 2). Inoltre si osserva che la fede ha una virtù dataci dallo Spirito Santo, e perciò sembrerebbe che nessun intermediario debba imporle una disciplina particolare; non si vedrebbe così quale funzione possa avere un magistero che la definisca e la tenga sotto tutela; così che la fede dovrebbe essere libera da vincoli esterni, ed avere per strumento interno di decifrazione la coscienza; e potrebbe perciò avere fra gli uomini differenti concezioni e differenti contenuti.

Non vogliamo pensare che a queste conclusioni si voglia arrivare: la fede resterebbe senza «simboli», che la definiscono e la esprimono; resterebbe senza catechesi univoca e autorevole; resterebbe fonte di divisione e non più d'unione (una fides!), resterebbe senza la guida, stabilita da Cristo, d'un magistero incontestabile, che ne vigila, le espressioni, ne promuove l'insegnamento e la diffusione, ne difende l'integrità, di cui i fedeli si alimentano, e per cui è doverosa la testimonianza.

Vogliamo piuttosto osservare che, se il Concilio non tratta espressamente della fede, ne parla ad ogni pagina, ne riconosce il carattere vitale e soprannaturale, la suppone integra e forte, e costruisce su di essa le sue dottrine. Basterebbe ricordare le affermazioni conciliari sulla necessità congiunta della Chiesa insegnante e della fede (Lumen Gentium, 14, 48), sul senso della fede, sotto la guida del sacro magistero, anima tutto il Popolo di Dio (ibid. 12), sulla doverosa purezza della fede, asserita proprio in funzione del dialogo ecumenico (Unit. red., 11), sull'opera dei Vescovi nell'insegnamento delle verità della fede (Christus Dominus, 36), sull'incontro della fede e della ragione in un'unica verità al livello degli studi superiori (Graviss. educ., 10), sulla sintesi nuova, che s'intravede possibile e magnifica fra la fede antica e la cultura moderna (Gaudium et spes, 57), e così via, per rendersi conto dell'essenziale importanza che il Concilio, coerente con la tradizione dottrinale della Chiesa, attribuisce alla fede, alla vera fede, quella che ha per sorgente Cristo e per canale il magistero della Chiesa.

A voi, dunque, Figli carissimi, cercare, trovare e godere il conforto della fede in questo incontro con Chi della fede vi fa, in nome di Cristo, garanzia; in questa riflessione sul Concilio ecumenico, che alla fede ha dato nuova testimonianza e nuovo splendore; in questa professione del nostro Credo, che ora insieme canteremo e che Noi confermeremo con la Nostra Benedizione Apostolica.




Mercoledì, 15 marzo 1967 IL DESIDERIO DELLA LUCE

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Diletti Figli e Figlie!

Poiché questa Udienza ha luogo nella Basilica di San Pietro, non vi sfugga la nota di tristezza e di mistero che questa chiesa, come ogni altra di rito latino, assume ed ostenta durante il periodo liturgico dedicato alla memoria e al culto della Passione. La nota è palese nello squallore degli altari, spogli d'ogni ornamento, e specialmente nel velo, che copre le sacre immagini e fra tutte la Croce. Gesù, il protagonista del grande dramma della Passione, l'eroe, la vittima, il crocifisso, è nascosto. Quale senso si può dare a questa norma, evidentemente simbolica, della liturgia? Lasciando agli studiosi lo studio delle origini e dei vari significati storici di tale rito (cf. Radò, Ench. lit. II, 1173-1174), un significato appare chiaro alla pietà dei fedeli, ed è il nascondimento di Cristo, della sua divinità specialmente, a causa della opposizione, che gli uomini del suo tempo, e possiamo dire del nostro, manifestano alla sua presenza, alla sua rivelazione. Dice l'Evangelista Giovanni, il quale ci ha lasciato qualche tratto della polemica sempre più fiera ed ostile contro Gesù, e conclusa con la sua uccisione, che Egli, più d'una volta, si sottrasse ai suoi avversari e si nascose: «Abscondit se ab eis» (
Jn 8,59 Jn 12,36 Jn 7,10). Gesù nascosto accusa la nostra cecità, la nostra mala fede, la nostra istintiva tendenza alla negazione dell'intervento di Dio nella nostra vicenda umana; intervento, per giunta, estremamente amoroso, e perciò estremamente obbligante. Siamo così avvertiti della scelta da noi fatta, quella delle tenebre. «Venne la luce del mondo, disse Gesù a Nicodemo; ma gli uomini preferirono le tenebre alla luce» (Jn 3,19). È il dramma della notte sul mondo delle anime, che s'intreccia nello svolgimento della storia della salvezza, e che dalla liturgia sensibilmente simboleggiato risveglia negli spiriti vigilanti il desiderio della luce.

COME ACCOGLIERE LA RIVELAZIONE DI CRISTO

Il desiderio della luce! Il bisogno di vedere, di sapere, di essere razionalmente sicuri, sarà mai perfettamente appagato? Il lume giulivo e rivelatore della Pasqua darà davvero ai nostri spiriti la vittoria della chiarezza e della sicurezza? Qui, Figli carissimi, si presenta un altro aspetto del nostro destino spirituale; aspetto, che può esso pure avere una sua sensibile e simbolica raffigurazione nel velo che in questi giorni di intensa meditazione ci nasconde l'immagine di Cristo. Dobbiamo capire, o meglio riconoscere, l'arte misteriosa con cui Dio si è rivelato al mondo, e con cui il Figlio di Dio fatto uomo si è fatto conoscere dagli uomini. Che il volto di Cristo non sia mai stato opaco e insignificante tutto il Vangelo ce lo dice; ma non da tutti Egli è stato riconosciuto per Quello che era. «I suoli, dice il prologo del Vangelo di S. Giovanni, non lo hanno ricevuto» (Jn 1,11). È uno dei temi ricorrenti in tutto il Nuovo Testamento: la rivelazione cristiana non si presenta in aspetti conoscibili perfettamente e direttamente proporzionati ai nostri sensi e alla nostra ragione; si presenta, nel suo grado superiore, nella Persona di Gesù, nella sua Parola, e deve essere accettata per fede, deve essere creduta; non solo conosciuta, ma accolta con un atto vitale e totale della mente e del cuore, perché è Lui, il Cristo, che l'annuncia; perché solo Lui, come esclamò San Pietro dopo l'incomprensibile discorso di Cafarnao, preannunciatore dell'Eucaristia, solo Lui ha «parole di vita eterna» (Jn 6,68).

Il che significa che la fede, per chi si pone in fase di razionalità logica, di scienza dimostrata, appare oscura. Noi moderni dobbiamo renderci conto di questo aspetto della fede, dal quale nascono tanti problemi. E si capisce perché la fede all'uomo ragionante debba presentare l'obiezione dell'oscurità; la fede manca di evidenza; presenta verità nascoste e velate come le immagini s,acre in questo periodo liturgico. Noi ora vediamo, dice S. Paolo, «per speculum, in aenigmate», come di riflesso, in forma enigmatica (1Co 13,12); e S. Agostino non teme di affermare che la fede consiste nel «credere, quod non vides», nel credere, ciò che non è manifesto (In Io. tr. 40, 9; P.L. 35, 1690). E ciò si spiega sia per il limite proprio della mente umana (cf. S. Th., I-II 47,3), sia per il modo, con cui le verità da credere, ci sono presentate non direttamente e non sotto il lume dell'evidenza, e sia ancora per la profondità inaccessibile delle divine realtà, a cui la fede ci consente di accedere. E dobbiamo ricordare che tra la venuta di Cristo nella scena evangelica e quella ultima di Cristo alla fine del mondo la nostra vita religiosa si realizza per via sacramentale, non per via di esperienza diretta.

VOLONTÀ E GRAZIA NELL'ATTO DI FEDE

Ma perché questa oscurità? È questo il segreto dei disegni di Dio: investigabiles viae Eius; le sue vie non le possiamo rintracciare (Rm 11,33): Dio così vuole esercitarci, durante questa vita, nella fede; la nostra salvezza dipende dall'accettare questo suo piano religioso. Del resto, questo aspetto oscuro della fede ha relazione con alcune conseguenze estremamente importanti della nostra vita religiosa. La prima si è che siamo obbligati a cercare. Il Signore ci è venuto vicino, senza manifestarsi comunemente a coloro che non lo cercano, che non lo desiderano, che non lo studiano e non lo amano: «In mezzo a voi sta Uno, dirà il Precursore, che voi non conoscete» (Jn 1,26). In secondo luogo: se la fede è oscura, la fede è libera. È anche questo uno dei grandi problemi relativi alla fede: la volontà, con la grazia, concorre all'atto di fede. E, se è libera, la fede è meritoria (cf. II-II 2,9 ad 2: cf. Pascal, Pensées, 564).

E non diciamo di più, per ora. Dovremo poi cercare come questa forma di conoscenza, più debole della scienza rispetto alla nostra maniera normale di conoscere, più forte e più alta rispetto alla certezza che introduce nello spirito, sia fonte di luce; di tale luce, che orienta la vita e illumina la visione del mondo. Provate, per la Pasqua, quando il volto crocifisso del Redentore tornerà a polarizzare i nostri sguardi, a chiedere a Lui di fare veramente della fede la lampada del vostro pellegrinaggio terreno. Con la Nostra Apostolica Benedizione.



Mercoledì Santo, 22 marzo 1967

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Diletti Figli e Figlie!

Questa udienza porta oggi d'intorno a Noi molti visitatori e pellegrini che vengono da lontano, e a Roma forse per la prima volta. Dovremmo diffonderci nei saluti; e volentieri diamo a tutti e a ciascuno il Nostro accogliente e benedicente «benvenuto». Ma il motivo principale di codesta presenza Ci suggerisce altro discorso. Se Noi domandiamo ai Nostri visitatori, a quelli d'oltr'alpe specialmente: perché siete venuti? Qual è il motivo del vostro viaggio? Noi crediamo d'indovinare la risposta di molti fra voi: siamo venuti per la Settimana Santa e per assistere a qualche celebrazione romana dei riti pasquali. Questa ragione raddoppia in Noi il piacere di accogliervi, e Ci suggerisce di considerare questa udienza come una preparazione spirituale al prossimo grande triduo liturgico e alla sua conclusione nella festa della Risurrezione di Cristo.

Quale possa essere la preparazione ai prossimi santi giorni non è facile dire in questo breve momento. Dovremmo ricordare che l'assistenza ai riti pasquali non può essere soltanto quella di spettatori che stanno a guardare; la visione esteriore dei riti non ne esprime che molto parzialmente lo svolgimento logico e spirituale, e lascia soltanto intravedere a chi osserva attentamente il significato. La scena cerimoniale è ben poca cosa a confronto della ricchezza religiosa, teologica, psicologica, drammatica, che essa semplicemente presenta e profondamente contiene. E basti questa semplice osservazione per subito concludere che l'assistenza ai riti pasquali esige qualche loro conoscenza, quella almeno che ci può dare un libro, una guida, per poterli seguire senza noia e senza delusione. Non sono uno spettacolo, che gli occhi da soli possono comprendere e gustare.

E questo ora è canto più importante per l'esigenza del criterio pratico fondamentale della recente riforma liturgica, il criterio cioè della partecipazione d'ogni fedele assistente al rito sacro, all'azione in cui si svolge e al mistero di verità e di grazia ch'esso contiene. Non è più consentito assistere ad una celebrazione liturgica con una presenza puramente materiale e passiva; occorre da parte di ognuno e di tutti un'adesione personale, e concorde con la comunità, alla parola divina e all'azione sacra che il rito liturgico sta compiendo (cf. Const. Sacros. Concilium n. 11, 19, 26, ecc.). Noi vogliamo aggiungere qualche cosa di più, in ordine ai riti della Settimana Santa; essi sono così direttamente commemorativi dei misteri della nostra redenzione, anzi così tipicamente rievocatori e rinnovatori degli avvenimenti, in cui s'è compiuta l'opera della nostra salvezza, che essi sembrano reclamare una partecipazione più intensa; osiamo dire uno spirito di comunione. I fedeli fervorosi Ci comprenderanno. Del resto tutto il mistero pasquale conclude alla comunione pasquale. Così che chi vuole davvero impegnare il proprio spirito, nei prossimi giorni, alla piena celebrazione del mistero pasquale dovrà mettersi in un'attitudine nuova e particolare di comunione con Cristo.

Quali saranno i sentimenti prevedibili di questo spirito di comunione con Cristo? Qui dovremmo chiederlo ai Santi, molti dei quali ci hanno lasciato meravigliosi e commoventi documenti delle loro esperienze spirituali di quando hanno cercato di avvicinarsi al Signore per unirsi a Lui nel dramma della sua passione, e poi della sua morte, e infine della sua risurrezione. Ma se ciascuno si accontenta d'interrogare la propria anima, può darsi che egli avverta delle strane reazioni, mentre tenta d'avvicinarsi al Salvatore nell'atto di consumare l'opera della nostra salvezza. Una prima reazione può essere una certa ritrosia, non dovuta soltanto alla riverenza, ma ad una timidezza, ad una paura, ad un ribrezzo davanti al dolore divino e al sangue dell'Agnello redentore del mondo. «Omnes fugerunt» (
Mt 26,56): anche i discepoli fedelissimi, in quel terribile momento, fuggirono tutti. E la reazione comune, del resto, di certo cristianesimo, che vorrebbe espungere dal Vangelo le pagine tragiche della passione per godersi il Vangelo della saggezza, della bellezza, della dolcezza; un cristianesimo senza sofferenza e senza sacrificio.

Un'altra reazione può essere dello sgomento di chi avverte di non conoscere abbastanza Gesù. Quasi noi lo sentiamo ripetere: «Da tanto tempo Io sono con voi, e ancora voi non mi conoscete» (Jn 14,9). Sì, la passione di Cristo è tale rivelazione, da rimanere sbalorditi; tutto essa contiene: sul disegno divino, sulla storia umana, sul destino del mondo, sul mistero del dolore e del male, sulla libertà e il peccato, sulla giustizia e la misericordia, sul prodigio redentore del sacrificio e dell'amore, che S. Paolo affermava di non conoscere «che Cristo, e Cristo crocifisso» (1Co 2,2); e ogni volta che noi tentiamo di metterci in comunione con Lui Redentore, ci sentiamo sopraffatti e ignoranti; vorremmo ricominciare la nostra iniziazione cristiana, vorremmo tentare di guardare il panorama del mondo dall'alto della Croce, o almeno discendere nell'umiltà interiore per confessare, come il Centurione sul Calvario: «Veramente Egli è Figlio di Dio» (Mt 27,55). E forse nessun esercizio spirituale è più corroborante di questo.

Poi finalmente, e per semplificare, accenniamo ad un altro sentimento, che scaturisce dallo spirito di comunione con Cristo pasquale; ed è la gioia, una gioia nuova, profonda, ineffabile, che invade l'anima come nessun'altra felicità; la gioia della fiducia, la gioia del sentirsi chiamare per nome dal Risorto, come la Maria del Vangelo (Jn 20,16), la gioia della vita che non muore. E sia questo sentimento il vostro, carissimi Figli, nel giorno beato di Pasqua, a conclusione dei sacri riti, ai quali vi esortiamo a degnamente partecipare, con la Nostra Apostolica Benedizione.




Mercoledì in albis, 29 marzo 1967 L'APPARIZIONE DI GESÙ NELLA GALILEA

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Diletti Figli e Figlie!

Noi non possiamo dimenticare, parlando a voi dalla tomba dell'apostolo Pietro, la pagina del Vangelo, che Noi abbiamo letta durante la santa Messa, questa mattina, mercoledì dopo Pasqua; pagina impressionante e inebriante, posta a conclusione del racconto evangelico di San Giovanni, nel quale egli ci descrive l'incontro di sette discepoli con Cristo risorto, in una mattina radiosa sul lago di Tiberiade, in Galilea, un Cristo misterioso, ma vivo e reale al punto da provocare su ordine suo una pesca straordinaria, documentata con particolari precisi, e da invitare i discepoli esterrefatti a riunirsi intorno al fuoco, che doveva essere stato acceso dallo stesso Gesù, ed a mangiare con Lui del pane da Lui offerto e del pesce testé arrostito, mentre la presenza misteriosa di Lui teneva gli animi sospesi del piccolo gruppo. «Poi, quando ebbero mangiato - continua il Vangelo - Gesù disse a Simone Pietro: Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu più di costoro?» (
Jn 21,15). Una domanda estremamente carica d'immenso significato, che i conoscitori del Vangelo non cessano d'esplorare e gli amici della psicologia di Cristo non si stancano di indagare. Una domanda affettuosa, ma ammonitrice per Pietro, che aveva con inesperta baldanza professato fedeltà eroica a Gesù, nella notte dell'ultima cena; e poi, poco dopo, tre volte, nel Getsemani, non si svegliò all'accorato invito del Signore di vegliare e pregare con Lui, e tre volte, ancora poco dopo, nell'atrio della casa del sommo Sacerdote, vilmente negò perfino di conoscerlo; e tre volte, singolarissima circostanza, nella storia evangelica, la domanda si ripeté: «Simone di Giovanni, mi ami tu?».

IL PRIMATO DI FEDE E DI AMORE

Che cosa voleva Gesù con quella insolita domanda, proposta all'afflitto discepolo? riabilitarlo? Sì, anche per lui Pietro era necessario un perdono, già accordato forse con lo sguardo dolente a lui diretto da Cristo dopo le sue negazioni (Lc 22,61), col ricordo per lui destinato subito dopo la risurrezione (Marc. 16, 7) e con una prima apparizione, di cui abbiamo solo un cenno nel Vangelo di San Luca (Lc 24,34), ma ancora non abbastanza manifestato, non celebrato nell'amore, come poi sempre dovrà avvenire per chiunque desideri ottenere la remissione dei peccati (cf. Lc 7,47).

Ma indubbiamente il Signore voleva di più. Egli domandava all'Apostolo, primo confessore della fede nella divina messianità di Gesù (cf. Mt 16,16), il complemento che fa viva e operante la fede (Ga 5,6), l'amore, la carità; ciò che farà dire a S. Agostino una delle sue memorabili parole sintetizzanti: «Hoc est enim credere in Christum, diligere Christum»; questo vuoi dire finalmente credere in Cristo, amare Cristo (Enarr. in Ps. 130, 1; P.L. 37, 1704). Ma l'intenzione del Signore, palese in questo interrogatorio sull'amore di Pietro a Gesù, termina ad un'altra e definitiva lezione, insegnamento, comando, investitura insieme; termina al trasferimento dell'amore, che l'Apostolo, con umile sicurezza non più smentita, professava per il suo Maestro e Signore, da Gesù al gregge di Gesù. «Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore», tre volte disse il Signore all'Apostolo, ormai dichiarato suo continuatore, suo vicario nell'ufficio pastorale, che Gesù stesso indicò come sua caratteristica e preferita missione: «Io sono il buon Pastore» (Jn 10,11). Il primato di Pietro, nella guida e nel servizio del popolo cristiano, sarebbe stato un primato pastorale, un primato d'amore. Nell'amore, ormai inestinguibile, di Pietro a Cristo sarebbero fondate la natura e la forza della funzione pastorale del primato apostolico. Dall'amore di Cristo e per l'amore ai seguaci di Cristo la potestà di reggere, di ammaestrare, di santificare la Chiesa di Cristo. Una potestà che non è lecito né contestare, né ingannare (cf. Ac 5); ma una potestà nascente dalla carità, nella carità esercitata e per la carità. Una potestà, di cui Pietro lascerà eredi i suoi successori su questa sua cattedra romana, ed a cui egli darà nel sangue la suprema testimonianza: «Cum autem senueris, extendes manus tuas, et te alius cinget et ducet quo tu non vis»; «quando poi sarai invecchiato, - sono parole di Gesù a Pietro al termine del fatto evangelico ricordato - tenderai le mani, e un altro ti cingerà e ti condurrà dove tu non vorresti. Disse questo (il Signore) per indicare con quale morte egli (Pietro) avrebbe reso gloria a Dio. E, detto ciò, gli soggiunse: Seguimi» (Jn 21,18-19).

INDEFETTIBILE E SUPREMA LA PAROLA DEL MAESTRO: «TU ME SEQUERE»

Sono cose note; ma non fanno palpitare il cuore a ripensarle qui, dove l'apostolo e martire Simone di Giovanni, detto Pietro da Gesù, ebbe il suo umilissimo sepolcro, e sopra questo fu eretta questa Basilica? qui, dove quelle parole di Gesù risuonano ancora, e ancora sono operanti? Le vedete scritte a caratteri cubitali nella grande fascia che gira sopra i pennacchi e sotto i cornicioni interni della Basilica. E non sorge nel pensiero l'idea che ben più grande, ben più potente, ben più bella di questa architettura michelangiolesca è l'architettura, di cui questa vuol essere immagine ed onore, concepita da Cristo Signore, quando disse a Pietro: «Sopra questa pietra costruirò la mia Chiesa» (Mt 16,18), edificata nell'amore? Dura ancora l'edificio escatologico, dura ancora la Chiesa, e sempre la carità è la sua vita. Oh! pregate, Figli carissimi, affinché possiamo tutti comprendere questo prodigioso disegno divino; e pregate affinché Chi a Pietro succede possa ancora e sempre dimostrare, anche con l'evidenza esteriore, oltre che con l'intangibile realtà che in Lui si personifica, ch'Egli è quello che è per l'amore che a Cristo Lo unisce, e per la parola che Cristo a Pietro consegnò: Tu seguimi! Pregate! E la Nostra Benedizione Apostolica sia con voi.



Paolo VI Catechesi 22267