Paolo VI Catechesi 16469

Mercoledì, 16 aprile 1969

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Diletti Figli e Figlie!

Uno degli atteggiamenti caratteristici della Chiesa dopo il Concilio è quello d’una particolare attenzione sopra la realtà umana, considerata storicamente; cioè sopra i fatti, gli avvenimenti, i fenomeni del nostro tempo. Una parola del Concilio è entrata nelle nostre abitudini: quella di scrutare «i segni dei tempi». Ecco una espressione, che ha una lontana reminiscenza evangelica: «Non sapete distinguere - chiede una volta Gesù ai suoi ostili e malfidi ascoltatori - i segni dei tempi?» (
Mt 16,4). Il Signore alludeva allora ai prodigi ch’Egli andava compiendo, e che dovevano indicare l’avvento dell’ora messianica. Ma l’espressione ha oggi, sulla stessa linea, se vogliamo, un significato nuovo di grande importanza: la riprese infatti Papa Giovanni XXIII nella Costituzione apostolica, con la quale indisse il Concilio Ecumenico Vaticano II, quando, dopo aver osservato le tristi condizioni spirituali del mondo contemporaneo, volle rianimare la speranza della Chiesa, scrivendo: «A noi piace collocare una fermissima fiducia del divino Salvatore ... che ci esorta a riconoscere i segni dei tempi», così che «vediamo fra tenebre oscure numerosi indizi, i quali sembrano annunciare tempi migliori per la Chiesa e per il genere umano» (A.A.S. 1962, p. 6). I segni dei tempi sono, in questo senso, dei presagi di condizioni migliori.


GIOVANNI XXIII E IL CONCILIO

L’espressione è passata nei documenti conciliari (specialmente nella Costituzione pastorale Gaudium et spes GS 4 la intravediamo nella mirabile pagina del GS 10, poi nel GS 11 così nei GS 42,44 così nel Decreto sull’attività dei Laici, AA 14 nella Costituzione sulla S. Liturgia, SC 43 ecc ). Questa locuzione «i segni dei tempi» ha pertanto acquistato un uso corrente e un significato profondo, molto ampio e molto interessante; e cioè quello della interpretazione teologica della storia contemporanea. Che la storia, considerata nelle sue grandi linee, abbia offerto al pensiero cristiano l’occasione, anzi l’invito a scoprirvi un disegno divino, è ben saputo da sempre: che cosa è la «storia sacra», se non l’identificazione di un pensiero divino, d’un’«economia» trascendente, nello svolgimento degli avvenimenti che conducono a Cristo, e da Cristo derivano? Ma questa scoperta è postuma; è una sintesi, alle volte discutibile nelle sue formulazioni, che lo studioso compie quando gli avvenimenti sono ormai compiuti, e possono essere considerati in una prospettiva d’insieme, e talora collocati deduttivamente in un quadro ideologico derivato da altre fonti dottrinali, che non dalla analisi induttiva degli avvenimenti stessi. Ora invece è offerto al pensiero moderno l’invito a decifrare nella realtà storica, in quella presente specialmente, i «segni», cioè le indicazioni d’un senso ulteriore a quello registrato dall’osservatore passivo.

Questa presenza del «segno» nelle realtà percepite dalla nostra conoscenza immediata meriterebbe una, lunga riflessione. Nel campo religioso il «segno» tiene un posto importantissimo: il regno divino non è ordinariamente accessibile alla nostra conoscenza per via diretta, sperimentale, intuitiva, ma per via di segni (così la conoscenza di Dio è a noi possibile mediante introspezione delle cose, che assumono valore di segno [cfr. Rm 1,20]; così l’ordine soprannaturale ci è comunicato dai sacramenti, che sono segni sensibili d’una realtà invisibile, ecc.); anche il linguaggio umano poi avviene per via di segni fonetici o scritturali convenzionali, con cui il pensiero si trasmette; e così via. In tutto l’universo creato possiamo trovare segni d’un ordine, d’un pensiero, d’una verità, che può fare da ponte metafisico (cioè oltre il quadro della realtà fisica) al mondo ineffabile, ma surreale del «Dio ignoto» (cfr. Ac 17,23, ss.; Rm 8,22; Lumen gentium LG 16). Nella prospettiva, che ora stiamo considerando, si tratta di individuare «nei tempi», cioè nel corso degli avvenimenti, nella storia, quegli aspetti, quei «segni», che ci possono dare qualche notizia d’una immanente Provvidenza (pensiero questo abituale agli spiriti religiosi); ovvero ci possono essere indizi (ed è questo che ora c’interessa) d’un qualche rapporto col «regno di Dio», con la sua azione segreta, ovvero - ancor meglio per il nostro studio e per il nostro dovere - con la possibilità, con la disponibilità, con l’esigenza di un’azione apostolica. Questi indizi sembrano a Noi propriamente «i segni dei tempi».

IL MONDO DIVENTA LIBRO

Donde una serie di conclusioni importanti e interessanti. Il mondo per noi diventa libro. La nostra vita, oggi, è assai impegnata nella continua visione del mondo esteriore. I mezzi di comunicazione sono così cresciuti, così aggressivi, che ci impegnano, ci distraggono, ci distolgono da noi stèssi, ci svuotano dalla nostra coscienza personale. Ecco: facciamo attenzione. Noi possiamo passare dalla posizione di semplici osservatori a quella di critici, di pensatori, di giudici. Quest’attitudine di conoscenza riflessa è della massima importanza per l’anima moderna, se vuole restare anima viva, e non semplice schermo delle mille impressioni a cui è soggetta. E per noi cristiani questo atto riflesso è necessario, se vogliamo scoprire «i segni dei tempi»; perché come insegna il Concilio (Gaudium et spes GS 4), l’interpretazione dei «tempi», cioè della realtà empirica e storica, che ci circonda e ci impressiona, deve essere fatta «alla luce del Vangelo». La scoperta dei «segni dei tempi» è un fatto di coscienza cristiana; risulta da un confronto della fede con la vita; non per sovrapporre artificiosamente e superficialmente un pensiero devoto ai casi della nostra esperienza, ma piuttosto per vedere dove questi casi postulano, per il loro intrinseco dinamismo, per la loro stessa oscurità, e talvolta per la loro stessa immoralità, un raggio di fede, una parola evangelica, che li classifichi, che li redima; ovvero la scoperta dei «segni dei tempi» avviene per farci rilevare dove essi vengono da sé incontro a disegni superiori, che noi sappiamo cristiani e divini (come la ricerca dell’unità, della pace, della giustizia), e dove un’eventuale nostra azione di carità o di apostolato viene a combaciare con una maturazione di circostanze favorevoli, indicatrici che l’ora è venuta pei- un progresso simultaneo del regno di Dio nel regno umano.


IL METODO DA SEGUIRE

Questo metodo Ci sembra indispensabile per ovviare ad alcuni pericoli, a cui l’attraente ricerca dei «‘segni dei tempi» potrebbe esporci. Primo pericolo, quello di un profetismo carismatico, spesso degenerante in fantasia bigotta, che conferisce a coincidenze fortuite e spesso insignificanti interpretazioni miracolistiche. L’avidità di scoprire facilmente «i segni dei tempi» può farci dimenticare l’ambiguità spesso possibile della valutazione dei fatti osservati; e ciò tanto più se dobbiamo riconoscere al «Popolo di Dio», cioè ad ogni credente, un’eventuale capacità di discernere «i segni della presenza o del disegno di Dio» (Gaudium et spes GS 11): «il sensus fidei» può conferire questo dono di sapiente veggenza, ma l’assistenza del magistero gerarchico sarà sempre provvida e decisiva, quando l’ambiguità della interpretazione meritasse d’essere risolta o nella certezza della verità, o nell’utilità del bene comune.

Pericolo secondo sarebbe costituito dall’osservazione puramente fenomenica dei fatti dai quali si desidera estrarre l’indicazione dei «segni dei tempi»; ed è ciò che può avvenire quando tali fatti sono rilevati e classificati in schemi puramente tecnici e sociologici. Che la sociologia sia scienza di grande merito per se stessa e per lo scopo che qui c’interessa, cioè per la ricerca d’un senso superiore e indicativo dei fatti medesimi, volentieri noi ammettiamo. Ma la sociologia non può essere criterio morale a se stante, né può sostituire la teologia. Questo nuovo umanesimo scientifico potrebbe mortificare l’autenticità e l’originalità del nostro cristianesimo e dei suoi valori soprannaturali.


L'ARTE DELLA VIGILANZA CRISTIANA

Altro pericolo potrebbe nascere dal considerare come prevalente l’aspetto storico di questo problema. Vero è che lo studio qui verte sulla storia, verte sul tempo, e cerca di ricavarne segni propri del campo religioso, che per noi tutto è raccolto nell’avvenimento centrale della presenza storica di Cristo nel tempo e nel mondo, donde deriva il Vangelo, la Chiesa e la sua missione di salvezza. Cioè l’elemento immutabile della verità rivelata non dovrebbe soggiacere alla mutabilità .dei tempi, nei quali si diffonde e talvolta fa la sua apparizione con «segni», che non lo alterano, ma lo lasciano intravedere e lo realizzano nell’umanità pellegrina (cfr. CHENU, Les signes des temps, in Nouv. Revue Théol. 1-1-65, 29-39). Ma tutto questo non fa che richiamarci all’attenzione, allo studio dei «segni dei tempi», che devono rendere sagace e moderno il nostro giudizio cristiano e il nostro apostolato in mezzo alla fiumana delle trasformazioni del mondo contemporaneo. È l’antica, sempre viva parola del Signore che risuona ai nostri spiriti: «Vigilate» (Lc 21,36). La vigilanza cristiana sia l’arte per noi nel discernimento dei «segni dei tempi».



LE SOCIETÀ BIBLICHE CATTOLICHE

On April 24 of last year We were pleased to receive the late Cardinal Bea and some of you, who are also present today, at the end of the first conference held in Rome to study how Catholic Biblical Associations and others engaged in the biblical apostolate could implement the very important goals set forth in Chapter Six of the Second Vatican Council’s Constitution on Divine Revelation. It is a great consolation to Us that so many others have joined you in this vital work, and that the study has resulted in practical proposals and programs.

We felt it was a providential thing when Cardinal Bea came to Us not long after the close- of the Ecumenical Council and asked if the Secretariat which he headed might begin studying the implementation of the final chapter in the conciliar document on the Bible. As a Scripture scholar, Cardinal Bea was esteemed by Christians everywhere; as President of the Secretariat for Promoting Christian Unity, he had won the confidence and even affection of leaders and members of Christian Churches and Communities throughout the world.

We were pleased to approve the Cardinal’s request, and We are very grateful that the work for easy access to the Scriptures that he then began has produced such fruitful results: the «Guiding Principles for Interconfessional Cooperation in Translating the Bible», published on Pentecost Sunday of last year; various programs of cooperation with the United Bible Societies which have been approved by Episcopal Conferences in many countries and which make the Scriptures available to people who would not otherwise have them; and finally the proposal for an international Catholic Federation for the Biblical Apostolate, which is intended to serve the Bishops in their pastoral responsibilities concerning wider use and knowledge of the Bible.

We understand that this proposal for the International Catholic Federation has been prepared in consultation with the Secretariat for Promoting Christian Unity and representatives of Sacred Congregations concerned with the various aspects of the biblical apostolate. We trust that the details of the plans will be carefully studied and, after approval of the appropriate authority, will be of service to the Bishops throughout the world.

In the course of each day there are many things to which We must give Our attention for the good of the Church and for the good of souls everywhere, but an occasion like this meeting with you today gives Us the welcome opportunity to stress the fundamental importance of God’s revealed word in all that we do and say. “The word of God should be available at all times”, declared the Second Vatican Council. Yes, always, and easily, and ever more widely. It is not only priests, religious brothers and sisters who should have the Scriptures, read them, meditate on them, and meet Christ our Lord daily in this way. As the Second Vatican Council said, «all the faithful» should have easy access to the Scriptures, in the liturgy, through the Scripture readings and the homily, and also in daily private life. All are called to this meeting with Christ our Lord.

The Second Vatican Council has made it clearer than ever before that We and Our brother Bishops throughout the world have a serious responsibility to do all we can to help provide people with easy access to the Scriptures. When dedicated people like yourselves come forward to help Us in this great task, We rejoice and give heartfelt thanks.

It is a special cause of joy to Us that, as has been said already by Bishop Willebrands, President of the Secretariat for Promoting Christian Unity, cooperation in translating the Scriptures and making them easily accessible to all people results in bringing Christians closer together. If, as has also been said, fraternal collaboration in this work renders the Christian message more credible and appealing to non-Christians, it is clear how much this work should be esteemed by everyone.

For all these reasons, We gladly impart Our special paternal Apostolic Blessing to you, your families and religious communities, your collaborators and supporters.



I SACERDOTI: «LA PUPILLA DEI NOSTRI OCCHI»

Particolari gruppi di sacerdoti partecipano all’udienza odierna, e non vogliamo lasciare di nominarli segnatamente.

Salutiamo anzitutto i più giovani, che hanno iniziato con l’ordinazione, testé ricevuta, la loro santa missione: sono i sacerdoti novelli del Collegio Internazionale «Teresianum» dei Padri Carmelitani scalzi, venuti stamane dal Papa con i familiari, che hanno preso parte ai loro sacrifici come partecipano ora alla loro letizia.

Salutiamo poi i veterani; i dilettissimi sacerdoti che, con pensiero di grande fede, hanno voluto celebrare a Roma il loro XXV anniversario di prima Messa: sono quelli dell’Arcidiocesi di Modena, e quelli della Diocesi di Treviso, accompagnati dai rispettivi Vescovi, i venerati Pastori Monsignor Giuseppe Amici e Monsignor Antonio Mistrorigo, ai quali va la espressione della Nostra affezione e della Nostra stima.

Diletti figli!

Vi ringraziamo per la vostra presenza: incoraggiamo i nuovi sacerdoti, tutti presi dall’arcano stupore dell’immensa grazia loro conferita, di rinnovare il sacrificio di Cristo, di comunicare la sua grazia attraverso i sacramenti, di essere eco fedele della sua voce; ed esprimiamo il Nostro compiacimento ai loro confratelli, che ormai da venticinque anni, con fervore ogni giorno rinnovato, compiono il loro umile, nascosto, insostituibile ministero per la gloria di Dio, al servizio e nell’obbedienza del Vescovo, a bene delle anime, approfondendo il significato del sacerdozio con una dedizione che cresce col crescere degli anni, con una gratitudine che non verrà mai meno.

Voi siete, sacerdoti carissimi, la pupilla dei Nostri occhi; voi siete i collaboratori dei successori degli Apostoli; voi siete il sale della terra, la luce del mondo (cfr. Mt 5,13-14); voi siete i testimoni di Cristo, ai quali è stato affidato il mistero del Regno di Dio (cfr. Mc 4,11). Progredite di virtù in virtù, di santità in santità, di splendore in splendore, per rispecchiare la gloria del Signore (cfr. 2Co 3,18): Cristo ve lo chiede, la Chiesa ne ha bisogno, le anime aspettano questo vostro dono totale per la salvezza del mondo. Sappiate che per questo il Papa vi ama, vi segue, prega per voi, e vi benedice con tutto il Suo affetto di Padre.



LAVORATORI PREMIATI

Ci rallegriamo con Voi, e con quanti hanno partecipato alle vostre pacifiche competizioni: ciò vuol dire che voi lavoratori, in piena conformità con la natura spirituale dell’uomo, da Dio creata a sua immagine e somiglianza, volete vivificare e animare la vostra fatica, volete ampliare le vostre esperienze umane, volete accompagnare l’attività quotidiana, spesso pesante monotona, con l’espressione della genialità artistica e tecnica, con la cultura dell’intelletto, con la tenacia dello studio, la bontà dello svago. La vostra presenza è perciò tanto confortante, e getta una luce particolare sulle forze lavoratrici italiane, tanto benemerite del progresso sociale della Nazione; essa parla di impegno, di qualificazione, di elevazione costante; e, con testimonianza degli «anziani», parla soprattutto di fedeltà, di attaccamento, di coscienza del dovere compiuto, quella che sola dà pace e serenità all’esistenza umana, specie quando è illuminata da una fede cosciente e coerente, nel rispetto della volontà di Dio.



ASSOCIAZIONE CATTOLICA DI PROPAGANDISTI SPAGNUOLI

Venerable Hermano,

Señor Presidente y Señores

de la «Asociación Católica Nacional de Propagandistas»

No habéis querido que trascurriese el sesenta aniversario de fundación de vuestra organización, sin poner de relieve en esta visita, que agradecemos cordialmente, los sentimientos e ideales que os caracterizan.

En vuestro ya largo camino hay nombres e iniciativas que sintetizan un espíritu de fé dinámica y reflejan vuestras ansias de servir a la Iglesia como ella quiere ser servida. ¿Qué deseamos de vosotros? En síntesis, que apliquéis con fidelidad cuanto el Concilio ha dicho, particularmente en las Constituciones Lumen Gentium y Gaudium et spes, sobre la formación y actividad de los seglares, dando sin desmayo testimonio de Cristo, honrando siempre la verdad, la justicia y la caridad.

Os confiamos una invitación anhelante: mirad y preparad, con esperanza y amor, a los jóvenes. Cuánto nos preocupa que su ardor de vida se ilumine con una energía sobrenatural, que transluzcan con personalidad responsable su conciencia cristiana en la sociedad temporal, que acrecienten su educación cívica y política con un patriotismo abierto. a la comunidad internacional, sin egoísmos ni violencias, en el respeto de la libertad y de la dignidad de las personas.

A vosotros, a la gran familia de la «Asociación Católica Nacional de Propagandistas» Nuestra complacencia por el fecundo pasado y, en prenda de copiosos dones celestiales que animen la tarea que os incumbe, Nuestra especial Bendición Apostólica.

Un «segno dei tempi»

Il tema di queste Nostre parole, sempre semplici e familiari com’è costume in queste udienze generali, si riferisce a realtà storiche, che non esitiamo a definire altamente significative e importanti.

Ecco che Ci è offerta oggi l’occasione per darne a voi una prova, che riempie il Nostro animo di profonda commozione e di alti pensieri. Ecco un «segno dei tempi».

È a Noi rivolto invito ufficiale di recarCi a Ginevra per intervenire alla celebrazione del cinquantesimo anniversario della fondazione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro; celebrazione, che è prevista per la prima metà del prossimo mese di giugno.

A tale invito, tanto inatteso ed onorifico, e tanto rispondente ai Nostri sentimenti di stima per così benemerito e così rappresentativo Organismo Internazionale, e tanto congeniale con la Nostra missione di giustizia, di pace e di fraternità, abbiamo deciso di rispondere, con umile riconoscenza, affermativamente.



Mercoledì, 23 aprile 1969

23469

Diletti Figli e Figlie!

Parliamo ancora del Concilio. Ne dovremo parlare ancora per lungo tempo. La nostra età è segnata da questo avvenimento. Non vi torni a noia questo Nostro frequente ricorso ad esso, che informa di sé la vita della Chiesa. Non foss’altro per il linguaggio nuovo ch’esso ha messo in onore nell’insegnamento della dottrina cristiana. Nuove locuzioni, anche se anteriori al Concilio e reperibili nella letteratura tradizionale, sono diventate d’uso corrente, e hanno assunto significati caratteristici, importanti sia per il pensiero teologico, sia per l’ordinaria conversazione fra noi credenti.


LA «CONSECRATIO MUNDI»

Una di queste locuzioni suona così: «consecratio mundi», la consacrazione del mondo. Questa espressione ha radici lontane, ma si deve al Papa Pio XII di venerata memoria il merito d’averla resa particolarmente espressiva in ordine all’apostolato dei Laici. La troviamo nel discorso che quel grande Papa pronunciò in occasione del secondo Congresso mondiale dell’apostolato dei Laici (vedi: Discorsi, XIX, p. 459, e A.A.S. 1957, p. 427); ma egli vi aveva fatto riferimento anche in altre occasioni (cfr. Discorsi III, p. 460; XIII, 295; XV, 590, etc.); più esplicitamente allora, il 5 ottobre 1957, affermava che la «consecratio mundi», per quanto riguarda l’essenziale, è l’opera dei Laici . . . «che si sono intimamente inseriti nella vita economica e sociale». Noi stessi usammo di tale locuzione nella Nostra pastorale del 1962, all’arcidiocesi di Milano (cfr. Rivista Dioc. 1962, p. 263). E l’espressione passò (nuova prova della coerente continuità dell’insegnamento ecclesiastico) nei documenti del Concilio: «. . . i Laici, dice la Costituzione dogmatica sulla Chiesa, consacrano a Dio il mondo stesso» (Lumen Gentium
LG 34 cfr. anche LG 31 LG 35 LG 36 Apost. actuos. AGD 7 etc.).

Per valutare questa espressione dovremmo analizzare il significato di tre termini: consacrazione, mondo, Laici; termini che sono densi di contenuto, e non sono sempre usati in senso univoco. Qui a Noi basti ricordare che per consacrazione intendiamo, non già una separazione d’una cosa da ciò ch’è profano per riservarla esclusivamente, o particolarmente alla Divinità, ma, in senso più largo, il ristabilimento d’una relazione a Dio d’una cosa secondo l’ordine suo proprio, secondo l’esigenza della natura della cosa stessa, nel disegno voluto da Dio (cfr. LAZZATI, in Studium, 1959, PP 791-805 CONGAR, Jésus Christ, p. 215 ss.). E per mondo intendiamo il complesso dei valori naturali, positivi, che sono nell’ordine temporale, o, come dice in questo senso il Concilio (Gaudium et Spes GS 2): «l’intera famiglia umana nel contesto di tutte quelle realtà, entro le quali essa vive». E col termine «Laici» che cosa intendiamo? Si è fatta grande discussione per precisare il significato ecclesiale di questa parola, per giungere a questa definizione descrittiva: Laico è un fedele, appartenente al Popolo di Dio, distinto dalla Gerarchia, la quale è separata dalle attività temporali (cfr. Ac 6,4) e presiede alla comunità dispensandole i «misteri di Dio» (cfr. 1Co 4,1 2Co 6,4), e che invece ha un rapporto determinato e temporale col mondo profano (cfr. E. SCHILLEBEECKX, La Chiesa del Vat. II, p. 960, ss.).

Dalla semplice considerazione di questi termini sembra sorgere una difficoltà: come si può oggi pensare ad una consecratio mundi, quando la Chiesa ha riconosciuto l’autonomia dell’ordine temporale, cioè il mondo come a sé stante, avente fini suoi propri, sue proprie leggi, suoi propri mezzi (cfr. Apost. act., n. 7); Gaudium et Spes, n. 42; etc.? È ormai a tutti nota la posizione nuova assunta dalla Chiesa rispetto alle realtà terrestri; esse hanno una natura che fruisce d’un ordine, avente, nel quadro della creazione, ragione di fine, anche se subordinato a quello del quadro della redenzione; il mondo è per sé profano, staccato dalla concezione unitaria della cristianità medioevale; è sovrano nel campo suo proprio, campo che copre tutto il ‘mondo umano. Come si può pensare a una sua consacrazione? non si ritorna così ad una concezione sacrale, clericale del mondo?



I DOVERI DEL LAICO CRISTIANO

Ecco la risposta; ed ecco la novità concettuale e sommamente importante nel campo pratico: la Chiesa accetta di riconoscere il mondo come tale, libero cioè, autonomo, sovrano, in un certo senso, autosufficiente; non cerca di farne strumento per i suoi fini religiosi e tanto meno per una sua potenza d’ordine temporale; la Chiesa ammette anche per i suoi fedeli del Laicato cattolico, quando agiscono nel terreno della realtà temporale, una certa emancipazione, attribuisce loro una libertà d’azione e una loro propria responsabilità, accorda loro fiducia. Pio XII ha anche parlato d’una «legittima laicità dello Stato» (A.A.S., 1958, p. 220). Il Concilio raccomanderà ai Pastori di riconoscere e promuovere «la dignità e la responsabilità dei Laici» (Lumen Gentium, n. 3i’), ma aggiungerà, proprio parlando dei Laici ed ai Laici che «la vocazione cristiana è per natura sua una vocazione all’apostolato» (Apost. actuos., n. 2) e mentre loro concede, anzi raccomanda di agire nel mondo profano con perfetta osservanza dei doveri a quello inerenti, li incarica di portarvi dentro tre cose (parliamo molto empiricamente); e cioè: l’ordine corrispondente ai valori naturali, propri del mondo profano (valori culturali, professionali, tecnici, politici, ecc.), l’onestà e la bravura, potremmo dire, la competenza e la dedizione, l’arte di sviluppare debitamente e realizzare quegli stessi valori. Il Laico cattolico dovrebbe essere, anche a questo solo riguardo, un perfetto cittadino del mondo, un elemento positivo e costruttore, un uomo meritevole di stima e di fiducia, una persona amorosa della società e del suo Paese. Noi confidiamo che di lui si possa sempre pensare così; e auguriamo ch’egli non ceda al conformismo di tanti movimenti perturbatori, che oggi attraversano, in vario modo, il mondo moderno. La I Lettera dell’apostolo Pietro, e certe pagine di quelle di S. Paolo (p. es. Rm 13) meriterebbero da parte di molti, che si professano attivi in virtù del loro laicato cattolico, una seria meditazione.


UNA VOCAZIONE DI SANTITÀ

L’altro influsso che la Chiesa, e non solo il Laicato, può esercitare nel mondo profano, lasciandolo tale e nello stesso tempo onorandolo d’una «consecratio», quale il Concilio c’insegna è l’animazione (Apost. actuos., AA 7; Gaudium et Spes GS 42) dei principi cristiani, i quali, se sono nel loro significato verticale, cioè riferito al termine supremo e ultimo dell’umanità, religiosi e soprannaturali, nella loro efficienza, che oggi si dice orizzontale, cioè terrena, sono sommamente umani; sono l’interpretazione, la inesauribile vitalità, la sublimazione della vita umana in quanto tale. Il Concilio parla, a questo proposito, di «compenetrazione della città terrena e della città celeste . . . (per) contribuire a rendere più umana la famiglia degli uomini e la sua storia» (Gaudium et spes GS 40); e ricorda ai Laici «che devono attivamente partecipare alla vita totale della Chiesa, non solo sono tenuti a impregnare il mondo di spirito cristiano, ma sono altresì chiamati ad essere testimoni di Cristo in ogni circostanza, in mezzo alla società umana» (Gaudium et spes GS 43 Apost. actuos AA 2).

Ed è in questo senso che la Chiesa, e specialmente i Laici cattolici, conferiscono al mondo un nuovo grado di consacrazione, non apportandovi segni specificamente sacri e religiosi (che in certe forme e circostanze vi stanno pur bene), ma coordinandolo, «nell’esercizio dell’apostolato nella fede, nella speranza e nella carità» (Apost. actuos., n. 3), al regno di Dio. «Qui sic ministrat, Christo ministrat, chi così serve il prossimo, serve Cristo», dice in una sua bella pagina S. Agostino (In Io. tract. 51, n. 12; PL 35, 1768). È la santità, che s’irradia sul mondo e nel mondo. È, anzi sia, questa la vocazione del tempo nostro. Di noi tutti, Figli carissimi, con la Nostra Benedizione Apostolica.



LE MAESTRE DELLA SCUOLA «MATER DIVINAE GRATIAE»

Nel salutare Voi, dilette Figlie, Noi salutiamo tutte le famiglie religiose che voi rappresentate e in particolare salutiamo le circa settemila giovani - fra novizie, juniores, postulanti, alunne delle scuole apostoliche -, le quali, in 264 case di formazione, si preparano, sotto la vostra guida, a compiere la loro donazione al Signore, A voi ed a loro «è aperta la Nostra bocca, è dilatato il Nostro cuore» (2Co 6,11). È il saluto del Padre Comune.

Ed è un saluto che si traduce e si concreta in una parola di orientamento; a voi che siete chiamate al delicato ufficio della formazione, ad esse che, insieme con voi, sono incamminate sul severo e gaudioso monte della perfezione. Nel mentre richiamiamo la vostra attenzione sul contenuto della recente Istruzione della Nostra Sacra Congregazione per i Religiosi e gli Istituti Secolari, ordinata a fornire gli elementi necessari ed utili per un sano «aggiornamento della formazione religiosa», non possiamo non additare, a voi maestre sedute in cattedra, la Cattedra dell’unico infallibile Maestro (cfr. Mt 23,8), il quale a tutte le anime che hanno lasciato tutto per trovare il Tutto, ha detto una sola irreformabile parola: «Chi vuol seguirmi, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8,34). Seguire Cristo, vuol dire pensare come Cristo, amare come Cristo, soffrire come Cristo, imitare Cristo. È l’essenza della vita religiosa, come lo è del resto della vita cristiana (cfr. Lumen Gentium LG 40).

Senza questo continuo sforzo di imitazione del Modello di tutti i predestinati - una imitazione che conduce al fastigio della carità -, il cui raggiungimento «è singolarmente favorito dalla pratica dei consigli evangelici» (ivi, 45), non è né pensabile né possibile la scalata alla vetta della santità.

Lo stesso si deve dire, con le debite distanze, nei riguardi dei fondatori e delle fondatrici, le cui leggi, approvate dalla Chiesa, costituiscono il binario sicuro per non fallire l’altissima mèta. Il disprezzo della regola, o anche solo la inosservanza, finisce per snervare a poco a poco la forza della disciplina, per favorire il capriccio e l’arbitrio, per annullare l’autocontrollo, e con ciò stesso per rendere molto più difficile, se non impossibile, il raggiungimento di quella perfezione, per la quale le famiglie religiose sono state istituite.

Alla scuola di questi due maestri - quello divino, che è l’istitutore della vita religiosa, e quello terreno, cui dovete la vostra Congregazione - voi dovete ispirare la vostra opera di formazione, se desiderate che essa risulti solida ed efficace. Non lasciatevi fuorviare dalle voci fallaci di novità non sempre buone e non sempre collaudate. Modernità, sì, ma non disgiunta da una. equilibrata conservazione di quelle leggi che formano l’essenza della vita religiosa; aggiornamento, sì, ma non al punto di andare al di là delle norme precettive ed eterne del messaggio evangelico; adeguamento ai tempi, sì, ma non in maniera e in misura tali da indulgere alle istanze del mondo: anche voi, come tutte le anime consacrate a Dio, vivete e operate nel mondo, ma non siete del mondo (cfr. Jn 15,19). Vogliamo ricordarvi, dilette Figlie, con le parole del Concilio, che «il più idoneo aggiornamento alle esigenze del nostro tempo non avrà effetto, se non sarà animato da un rinnovamento spirituale» (Perfectae caritatis PC 2e).

Con questi pensieri nella mente e nel cuore, Noi vi auguriamo, dilette Figlie, di essere e di apparire quello che il vostro nome indica e significa: madri maestre. Non solamente madri, perché potreste peccare di eccessiva indulgenza e tenerezza; non esclusivamente maestre, perché non compireste bene il vostro dovere, del quale mutilereste l’estensione e svisereste la sostanza; ma madri e maestre, in armonica convivenza.

La «Madre della Divina Grazia», alla quale si intitola la vostra Scuola - benemerita istituzione, dovuta al Nostro caro Monsignor Paolo Philippe - sia la vostra maestra e il vostro modello. Questo vi auguriamo con fervido cuore; a questo vi confortiamo con la Nostra Benedizione.



Sabato, 26 aprile 1969

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Diletti Figli e Figlie!

Ci sia consentito rivolgervi una discreta domanda: diciamo discreta, perché la risposta non la dovrete dare a Noi, o ad alcun altro, ma a voi, nell’interno della vostra personale riflessione. E la domanda è questa: perché siete venuti a questa Udienza? Prima di andare oltre, Noi dobbiamo dirvi la Nostra riconoscenza per la vostra visita: siamo felici di accogliervi, di vedervi, di benedirvi. Vorremmo anzi meglio godere della vostra presenza: trattenervi, conoscervi, parlarvi, rispondere ai vostri desideri, se ciò fosse materialmente possibile. Sappiate tuttavia che, sebbene oberati da altre occupazioni, Noi vi riceviamo molto volentieri, come un padre riceve i suoi figli, come un pastore i suoi fedeli. E in questo sentimento Nostro voi potete già trovare una prima risposta alla domanda, che vi abbiamo rivolta: perché siete venuti a questo incontro? Siamo Noi a rispondere: perché ciò fa a Noi piacere; perché voi qui non siete forestieri, perché, se voi siete cattolici, qui voi siete di casa, voi avete un titolo e, in un certo senso, diritto ad essere ricevuti, per il rapporto spirituale, vero e profondo, che a Noi vi unisce, e che è bello, è gradito, è benefico mettere in essere, mettere in evidenza, il rapporto di comunione, caratteristico e proprio, che intercede fra membri della stessa famiglia, la Chiesa, nella medesima fede, nella medesima carità, subito pronte, questa fede e questa carità, ad esprimersi in una medesima voce, la preghiera, in una medesima esperienza di amore, quella di sentirsi fratelli, in Cristo: una cosa sola.


SENTIRSI FRATELLI IN CRISTO

Non è così? Forse qualcuno penserà che egli è arrivato qua, spinto da motivi più semplici e fors’anche banali, come può essere la curiosità, o come può essere quella psicologia, che gli usi moderni, la coltura di tutti, l’opportunità e la facilità di viaggiare rendono comune, la psicologia turistica, potremmo dire. Venendo a Roma, per qualsiasi ragione, sia pure una ragione di svago, ognuno può dire: vado a vedere il Papa. Un interesse intelligente e legittimo questo può essere; ma di per sé superficiale, e fors’anche puramente profano. Ma se voi interrogate un po’ più intimamente la vostra coscienza, troverete che sotto questo motivo, punto impegnativo, si nasconde un altro tacito motivo, quello, ad esempio, di provare quale impressione può fare vedere il Papa, visitare questa Basilica; entrare cioè in questa atmosfera, che ciascuno avverte non essere quella d’un luogo semplicemente interessante per la sua singolarità, per il quadro storico e artistico, che esso presenta, come quella d’un museo, o d’un centro singolare e strano, attraente forse, ma che fa sentire al visitatore quanto egli vi sia forestiero. Qui, per chi è venuto con animo attento, si avverte che esiste qualche cosa di misterioso, di vivo, di relativo a colui che è penetrato qua dentro. Il visitatore, cioè ciascuno di voi, può sentire un fascino speciale, che interiormente lo attrae, lo commuove, lo riguarda personalmente, forse lo turba, certo lo interroga. L’ambiente solleva quella domanda, che Noi vi facevamo da principio: perché sei venuto? la quale domanda, se bene si osserva, si risolve in un’altra, che scende profondamente nell’anima: tu ci credi? Tu sei davvero capace di comprendere perché sei qui, e come qui bisogna contenersi? Nasce cioè nel cuore un’esigenza: quella di profittare del momento prezioso, e di uniformare i propri sentimenti all’esperienza spirituale presente, alla quale sarebbe stolto sottrarsi.


PIETRA VIVA

Vi diremo Noi, cari visitatori, come conviene rispondere all’interrogazione, che Noi, non senza un affettuoso intento pedagogico e spirituale, vi abbiamo rivolta. Voi siete venuti per «videre Petrum», per vedere Pietro (
Ga 1,18), come dice San Paolo del suo viaggio a Gerusalemme: cioè per avere la visione, e, in certa misura, l’esperienza sensibile e personale di questo fenomeno, che è Pietro, sì, il Papa, ma non tanto perché anche Egli persona come tutti gli altri uomini, ma perché Egli è Simone «pietrificato»; cioè perché in lui si realizza il prodigioso carisma d’una solidità, d’una fermezza, d’una stabilità, carica d’una promessa divina, e resa, in certo modo, evidente dalla sopravvivenza storica, per la quale, Egli il povero e debole, ma ardente di fede e di amore a Gesù, il Signore, è ancora qui, nel suo umile successore a fare che cosa? a fare ciò che Gesù ha decretato: «Su questa pietra fonderò la mia Chiesa» (Mt 16,18), a fare cioè da base, da fondamento, da sostegno a quella immensa e travagliata famiglia umana, che appunto Cristo ha definito la sua Chiesa. Qui voi venite quasi a toccare con mano che questo «segno e strumento» dell’unione ristabilita degli uomini con Dio, e per di più dell’unità degli uomini fra loro, che è la Chiesa (cfr. Lumen Gentium LG 1) esiste ancora, e che la roccia, la pietra, su cui è costruita non è corrosa dai secoli, né dal turbine delle tempeste storiche, ma è sempre egualmente, miracolosamente ferma. Anzi, ed anche questo è prodigio, che qui traspare e riempie lo spirito di chi sa vedere e meditare, questa è pietra viva, cioè non immobile come cosa morta e priva di spirito; è pietra da cui scaturisce una sorgente sempre fresca, sempre nuova, sempre idonea a saziare la sete della comunità umana che intorno si riunisce e forma l’edificio della Chiesa; forma anzi, passando ad altra immagine non meno vera di quella dell’edificio, forma il «Corpo mistico di Cristo», il quale ancora Chiesa si chiama.

Figli e visitatori carissimi, basti così la Nostra parola quest’oggi. Ma non basti la vostra riflessione sul significato della vostra venuta in questa Udienza. Pensate alla origine, alla natura, alla missione spirituale, alla vicenda storica della Chiesa, come appunto il Concilio, proprio in questa Basilica, ci ha invitato a fare, con la promulgazione della sua grande Costituzione dogmatica sulla Chiesa. Rinnovate qui, sulla tomba di Simone-Pietro, il vostro atto di fede. Ripetete la vostra promessa di fedeltà. Riempite i vostri cuori di quell’amore, che fu nel cuore di Cristo stesso: «dilexit Ecclesiam», amò la Chiesa (Ep 5,25); e andate poi pensosi e felici della vostra visita a S. Pietro e al Papa, umile suo successore, con la Nostra Benedizione Apostolica.



SALUTO A UN PELLEGRINAGGIO DI DESIO

Il saluto che diamo al folto gruppo di cittadini di Desio, la cui presenza qui suscita nell’animo Nostro tanti cari ricordi, vuole essere particolarmente affettuoso.

Venuti, in pio pellegrinaggio, in questa Nostra Casa che il vostro glorioso Concittadino, Pio XI di f. m., era solito chiamare la Casa del Padre Comune, Noi vi accogliamo con lo stesso grande cuore di Colui che fu ad un tempo Nostro Maestro e Nostro Predecessore su questa Cattedra.

Uno è il pensiero che ha guidato i vostri passi dalla città di Desio, un pensiero squisitamente filiale: quello di recarsi sulla tomba del Papa desiano, nel trentesimo del Suo pio trapasso e nel quarantesimo di quella Conciliazione, con la quale, per far Nostra una sua felice espressione, Egli ebbe il conforto di «ridonare Dio all’Italia e l’Italia a Dio».

Voi comprendete perciò tutta la grandezza di quel Pontefice. Per questo siete qui a riaffermare a Noi, chiamati a continuare la Sua pacifica missione nel mondo, l’attestato di devozione a Cristo e al Suo Vicario in terra. Noi ve ne ringraziamo, diletti Figli, e nel ricambiare sentimenti e voti, auspichiamo che quella pace, così faticosamente raggiunta, arrida sempre, con la protezione del Dio della Pace, al dilettissimo popolo italiano, feconda come si è dimostrata di benessere spirituale ai domestici focolari non meno che alla compagine nazionale.

Nel salutare voi - sacerdoti, autorità, fedeli - intendiamo salutare anche tutti i figli, sebbene lontani, della vostra operosa e religiosa città, e ricordando in particolare colui che da lunghi anni vi è stato solerte pastore, il venerando e caro Monsignor Giovanni Bandera, al nuovo Prevosto Sac. Luigi Castelli, ai Sacerdoti, alle Autorità e a tutti i fedeli di Desio beneauguriamo e paternamente benediciamo.



GRUPPI DI BRESCIA

Noi, Figli carissimi, siamo a conoscenza e seguiamo con il Nostro affetto le attività sociali e cristiane, realizzate nelle vostre zone dai «Villaggi della Famiglia», il cui nome dice tutto un programma di nobili finalità.

Siamo ben lieti di esprimere, in questa circostanza, la Nostra compiacenza e il Nostro elogio al Padre Ottorino Marcolini d.O., il quale, sulla scia del messaggio dell’indimenticabile Card. Giulio Bevilacqua, vuole rendere presente ed operante l’ideale evangelico di fraternità e di solidarietà, in modo tale che i vari villaggi abbiano lo spirito della vera Famiglia di Dio, che è la Chiesa, e siano testimonianza dell’azione sociale e cristiana dei cattolici bresciani, specialmente nell’ambito delle comunità familiari.

Salutiamo anche di cuore, insieme con tutti quelli che collaborano attivamente alla provvida iniziativa, i Confratelli della San Vincenzo di Brescia, i Rappresentanti dell’Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti, gli apprendisti della scuola «O.M. - Fiat», i giovani, ospiti del Centro Sociale della «Cassa di Risparmio delle Province Lombarde», con l’augurio che la vostra attività e la vostra vita, nella serenità, nella pace e nella letizia cristiana, siano testimonianza di carità, oggi sempre più necessaria.

Con questi voti e in pegno della Nostra benevolenza, Noi vi impartiamo la Nostra Benedizione Apostolica, che estendiamo alle vostre famiglie e a tutti i vostri cari.




Paolo VI Catechesi 16469