Paolo VI Catechesi 30469

Mercoledì, 30 aprile 1969

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Diletti Figli e Figlie!

Oggi, 30 aprile, è festa per noi. Festa di Santa Caterina da Siena. Pio II, Senese pure lui, la proclamò Santa (1461: si ricordi il magnifico affresco del Pinturicchio, che illustra l’avvenimento nella Libreria Piccolomini di Siena); Pio IX la dichiarò seconda Patrona di Roma (1866); Pio XII la volle altresì, con S. Francesco d’Assisi, Patrona d’Italia (1939). Ma un Papa non può inoltre dimenticare quanto il Pontificato Romano e la Chiesa intera devono a questa singolarissima donna, non mai abbastanza studiata e celebrata. È bello che una sua statua sia stata collocata, qualche anno fa, qui vicino a S. Pietro, tra Castel S. Angelo e l’inizio di Via della Conciliazione, quasi correndo verso questo fatidico Vaticano. È bello che tante Famiglie religiose e Associazioni femminili cattoliche l’abbiano protettrice e maestra. Forse anche voi avete di lei qualche meravigliosa notizia, quanto basta almeno per inserire il nome di Santa Caterina da Siena fra i più dolci, i più originali, i più grandi, che la storia ricordi. E si sa: morì giovanissima, qui a Roma; ma i suoi trentatré anni di vita terrena (1347-1380) furono così densi di intensità interiore, così drammatici di attività esteriore, così fecondi di espressioni letterarie, così importanti nella serie degli avvenimenti politici ed ecclesiastici del secolo XIV, che obbligano il teologo, lo storico, il letterato, l’artista a considerare Caterina come un fenomeno unico nel suo genere, e a studiare in lei la maestra delle cose divine, la mistica ispirata e stigmatizzata, la donna ardita, semplice ed abile ad un tempo, che osa iniziative diplomatiche altrettanto candide che sapienti, la scrittrice illetterata, che detta libri e diffonde uno sciame di corrispondenza vivacissima ed apostolica, la vergine estatica nella preghiera e tutta dedita all’assistenza dei sofferenti, capace di conversazione fascinatrice che muta gli interlocutori in discepoli, in amici fedelissimi. Sempre noi dovremo ricordare che fu lei, Caterina, a convincere il giovane Papa francese (aveva quarant’anni) Gregorio XI, debole di salute e timoroso di animo, a lasciare Avignone, dove la Sede Apostolica s’era trasferita, nel 1305, dopo la morte imprevista di Benedetto XI, con Papa Clemente V, e a ritornare nel 1376 in Italia, sempre straziata da acerbe divisioni, a Roma, sebbene turbolenta ed in pessime condizioni. E fu Caterina che, subito morto Gregorio XI, sostenne il successore Urbano VI nei primi frangenti del famoso «scisma d’Occidente», iniziato con l’elezione dell’antipapa Clemente VII.

La sua storia è estremamente complessa e documentata. Sarà sempre troppo lunga per narrarla per disteso; il quadro storico poi, in cui essa si svolge, è così caratterizzato e drammatico, che chiunque si prova a descriverlo, in funzione di questa umile e splendida protagonista, è costretto a scegliere o a sunteggiare.


LA CHIESA CENTRO DELL'ESISTENZA

A noi interessa soprattutto un lato di questa vita eccezionale, quello che crediamo il più caratteristico: il suo amore alla Chiesa. Ed è un lato che investe, dentro e fuori, tutta la personalità di Caterina.. I biografi e gli agiografi non possono fare a meno di notarlo: Caterina è la Santa, che mette nell’amore alla Chiesa, e al Papato specialmente, la sua nota dominante. Si potrebbe riempire un libro di citazioni come questa: «0 Dio eterno, ricevi il sacrificio della vita mia in questo Corpo mistico della santa Chiesa. Io non ho che dare altro se non quello che Tu hai dato a me. Tolle il cuore dunque, e premilo sopra la faccia di questa Sposa . . .» (Lett. 371). «La Chiesa è dunque, scrive lo Joergensen, dal punto di vista intellettuale e morale, il centro dell’esistenza, è la parola d’enigma della vita e ne è il valore assoluto, il valore essenziale. In questo mondo di relatività essa sola è positiva . . .» (p. 511). «La Chiesa è il più grande amore di Caterina. Nessun Santo, forse, ha amato la Chiesa quanto lei . . . ‘Nell’anima di S. Caterina la Chiesa si identifica con Cristo» (TINCANI, p. 39).

In questi brevissimi cenni noi noteremo tre punti. Primo: S. Caterina ha amato la Chiesa nella sua realtà che, come sappiamo, ha un duplice aspetto: uno mistico, spirituale, invisibile, quello essenziale e fuso con Cristo Redentore glorioso, il quale non cessa di effondere il suo Sangue (chi ha parlato tanto del Sangue di Cristo, quanto Caterina?), sul mondo attraverso la sua Chiesa; l’altro umano, storico, istituzionale, concreto, ma non mai disgiunto da quello divino. V’è da chiedersi se mai i nostri moderni critici dell’aspetto istituzionale della Chiesa siano capaci di cogliere questa simultaneità, e se mai dalle loro gravi dissertazioni, o vivisezioni del Corpo mistico di Cristo, che è la Chiesa (non solo celeste, ma terrestre, questa Chiesa nel tempo, giuridica, personificata in uomini composti dell’argilla di Adamo, anche se animati dai doni dello Spirito Santo), verrebbe mai un’espressione simile a quella, tanto spesso citata, che qualifica il Papa: «O Babbo mio, Dolce Cristo in Terra . . .» (Lett. 185). Caterina ama la Chiesa qual è (cfr. TAURISANO, Dialogo, citando CORDOVANI, p. IL).

Altro punto. Caterina non ama la Chiesa per i meriti umani di chi le appartiene, o la rappresenta. Se si pensa in quali condizioni si trovava allora la Chiesa, ben si comprende come il suo amore avesse ben altri motivi; e lo si deduce dal linguaggio libero e franco, con cui Caterina denuncia le piaghe dell’organizzazione ecclesiastica di quel tempo, e ne invoca la riforma. S. Caterina non nasconde i falli degli uomini di Chiesa, ma mentre inveisce contro tanta decadenza, più la considera un motivo e un bisogno di amare di più.


DIGNITÀ DEL SACERDOZIO E FUNZIONE SACRAMENTALE

E allora il motivo vero, ecco un terzo punto, è la missione della Chiesa, è la sua dignità sacerdotale, è «la prima e fondamentale verità che la Chiesa custodisce e comunica alle anime . . . la realtà dell’amore di Dio per le sue creature» (TINCANI, 37). «Questa grandezza - è Caterina che scrive nel meraviglioso capitolo 110 del suo Dialogo - è data in generale ad ogni creatura ragionevole (allude forse al «sacerdozio dei fedeli»); ma tra queste ho eletto (è Dio che parla) i miei ministri per la salute vostra, acciò che per loro vi sia ministrato il Sangue dell’umile e immacolato Agnello Unigenito mio Figliolo. A costoro è dato ministrare il Sole, dando loro il lume della scienza, il caldo della divina carità». Il Concilio non parla diversamente (cfr. Lumen Gentium
LG 24).

Questo è l’amore di Caterina: la Chiesa gerarchica è il ministero indispensabile per la salvezza del mondo. E per questo la sua vita diventerà un dramma, mistico e fisico, di sofferenza, di preghiera, di attività. «La croce in collo e l’olivo in mano» (Lett. 219) diventò la sua missione spirituale e sociale. È celebre la definizione che Caterina diede di se stessa. «Nella Tua natura, Deità eterna, cognoscerò la natura mia» ella dice in una sua orazione (24); «e qual è la natura mia? è il fuoco!» (cfr. JOERGENSEN, 495).


«HO DATO LA VITA PER LA SANTA CHIESA»

Ed è degno di ricordo l’ultimo episodio mistico della sua vita. Estenuata di forze, e vinta dal digiuno e dalla malattia, veniva ogni giorno a S. Pietro, nella sua antica costruzione, la quale aveva nell’atrio un giardino, sulla facciata un mosaico famoso, eseguito da Giotto per il giubileo del 1300, e chiamato la navicella (ora figura all’interno dell’atrio della nuova Basilica) che riproduceva la scena della barca di Pietro, squassata dalla tempesta notturna, e raffigurava l’apostolo che osa andare incontro a Cristo apparso camminante sulle onde; simbolo della vita sempre pericolante e sempre miracolosamente salvata dal divino misterioso Maestro. Un giorno, era il 29 gennaio 1380, circa l’ora di vespro, domenica di Sessagesima, e fu l’ultima visita di Caterina a S. Pietro, parve a Caterina, sempre estaticamente assorta, che Gesù, staccandosi dal mosaico, si appressasse a lei e le ponesse sulle sue deboli spalle la navicella; la navicella pesante ed agitata della Chiesa; e Caterina piegò, come oppressa sotto tanto peso, per terra priva di sensi. Il sacrificio di Caterina, storicamente, parve fallire. Ma chi può dire che quel suo amore bruciante si spense inutilmente, se miriadi di anime vergini e schiere di spiriti sacerdotali e di laici fedeli e operosi lo fecero proprio; e arde ancora, crepitando nelle parole di Caterina: «Gesù dolce, Gesù amore»?

E sia ancor nostro quel fuoco, che ci dia la forza di ripetere la parola e il dono di Caterina: «Io ho dato da vita per la Santa Chiesa» (RAIMONDO DA CAPUA, Vita, III, 4). Con la Nostra Apostolica Benedizione.



GLI STUDI COOPERATIVISTICI

Un paterno saluto rivolgiamo ora ai rappresentanti del Centro Studi della Cooperazione di Milano, venuti a porgerCi l’omaggio filiale della loro devozione.

La Nostra parola, diletti Figli, vuol essere di sincero compiacimento e di incoraggiamento per l’attività di alto valore morale e sociale, che la vostra organizzazione, sorta appena lo scorso anno, si propone di svolgere nel campo della cooperazione. Attività che merita stima, perché, oltre a promuovere un intelligente sforzo comunitario e il soddisfacimento di comuni esigenze, favorisce la comprensione, lo spirito di fraterna collaborazione, il rispetto e la fiducia reciproca, una serena armonia di vita. Valori, questi, intimamente legati con l’affermazione della persona umana e la salvaguardia della sua dignità e delle sue legittime esigenze di libertà di fronte all’invadenza della macchina e del tecnicismo.

È facile comprendere che la cooperazione, per essere valida, ha bisogno di poggiare su principi morali ben saldi. Perciò Noi formuliamo l’augurio che lo spirito cristiano abbia sempre a guidare, corroborare, elevare il vostro lavoro, e dargli quella forza interiore di solidarietà e di fratellanza che l’interesse economico e lo spirito di categoria non possono fornire con pari pienezza.

Intanto Noi, sul cammino da voi intrapreso, vi accompagniamo volentieri con la Nostra preghiera, e di gran cuore vi impartiamo l’Apostolica Benedizione.



FUNZIONARI CATTOLICI DELLA FRANCIA ...




Mercoledì, 7 maggio 1969

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Diletti Figli e Figlie!

Nostro desiderio sarebbe di confermare e di accrescere in voi l’amore alla Chiesa, alla santa Chiesa di Cristo, che è, come voi sapete, il corpo mistico di Cristo, l’estensione nell’umanità e nel tempo del mistero dell’Incarnazione; segno e strumento, per un verso, dell’economia della salvezza; termine e pienezza, per un altro verso, dell’opera redentrice di Cristo medesimo. La Chiesa è mezzo e la Chiesa è fine rispetto al regno di Cristo. Il Concilio ci ha richiamato allo studio e alla coscienza della Chiesa. I figli buoni e fedeli della Chiesa hanno esultato. di questo avvenimento, che ha dato a loro una più ricca e più profonda conoscenza della famiglia spirituale, a cui hanno avvertito la fortuna di appartenere, e hanno meglio compreso come in essa si compia la loro unione con Cristo e con Dio; come in essa prenda espressione e sicurezza la rivelazione della verità; come in essa la speranza sia in parte raggiunta, in parte promessa, ma fin d’ora piena di gaudio e di pace (cfr.
Rm 15,13); come in essa la carità abbia la sua circolazione meravigliosa, da Dio a noi, da noi agli altri uomini, diventati perciò fratelli; e come dalla comunione così generata la carità risalga, con amore nuovo, nostro perché personale, e più che nostro, perché animato dallo Spirito Santo alla sua divina sorgente. La Chiesa è apparsa ai suoi membri coscienti quello che veramente è: la fortuna, la beatitudine, la formola della vita vera, nel tempo, in cammino per l’eternità.


UNA CONTINUA RIFORMA

Ma che cosa è avvenuto? Che nel momento stesso in cui la visione della Chiesa è apparsa ai nostri giorni nella sua verità ideale, ed anche reale, si è tanto di più acuito il senso e il disagio delle sue imperfezioni concrete ed umane. La Chiesa è composta di uomini imperfetti, limitati, peccatori; è un’istituzione sacra e santa, ma costruita con materiale umano, sempre inadeguato e caduco; ed è inserita nel fiume della storia che passa, e perciò è soggetta nelle sue esplicazioni contingenti ai cambiamenti propri del tempo. E allora si è pronunciato un grande e autorevole desiderio di «aggiornamento», di riforma, di autenticità, di «ringiovanimento nella Chiesa» (cfr. Card. Siri, Ed. Paoline); ma insieme si è diffusa in tanti ambienti un’inquietudine, che ha turbato, dopo il Concilio, la conversazione all’interno stesso della Chiesa, e d’intorno a lei il clamore dei pubblicisti. Si è posto così, in termini nuovi e spesso aggressivi, il grande problema della riforma della Chiesa, nella Chiesa.

Questo è uno dei temi più interessanti, più gravi e più urgenti del nostro tempo; e Noi, che non meno d’alcun altro desideriamo la giusta riforma della Chiesa (cfr. Encicl. Ecclesiam suam), pensiamo che sia «un segno dei- tempi», una grazia del Signore, la possibilità che oggi è offerta alla Chiesa di attendere alla sua propria riforma. Opera questa che deve sempre essere in atto di riconoscere la fragilità degli uomini, anche se cristiani, e di correggere le loro eventuali debolezze e le deformazioni del corpo ecclesiastico; inteso nel suo senso genuino, possiamo far nostro il programma d’una continua riforma della Chiesa: Ecclesia semper reformanda (cfr. CONGAR, Vraie et fausse Réforme dans l’Eglise, 2ª ed. p. 409 ss.).


OLTRE GLI ASPETTI ESTERIORI

Ma che cosa avviene nella pubblicità dell’opinione pubblica, pur troppo spesso tanto superficiale, maligna e golosa di scoprire e di creare impressioni sensazionali, e altrettanto irresponsabile quanto asseverante nel sentenziare sui doveri e sulla contumacia della Gerarchia? Avviene che l’osservazione della grande e misteriosa realtà della Chiesa si ferma sugli aspetti esteriori, fenomenici, contingenti di essa, e scoprendovi con dottorale gravità, ma frettolosa facilità gli evidenti difetti, si compiace di trarne scandalo, e di rinfacciare all’autorità della Chiesa l’abbandono .della fede di tanti che, a buon diritto, la vorrebbero degna e perfetta, spirituale e sublime in ogni suo tratto, ma trovandola invece inferiore all’ideale che essa non riesce sempre a personificare degnamente, si fanno un pretesto, anzi talvolta un merito di professare un cristianesimo a loro modo e, in pratica, senza impegni di alcuna sorte, dottrinali, disciplinari, cultuali, comunitari che siano. Se poi sono parecchi a coincidere in questo atteggiamento di libera critica, si uniscono e si affermano in gruppi particolari, che finiscono per dare tendenziale preferenza ad altre ideologie, sia religiose (cfr. modernismo vecchio e nuovo), sia sociali (cfr. marxismo), che non alla autentica fede cristiana.


STRUTTURE COSTITUZIONALI E DERIVATE

Una parola ricorre continuamente in questo polemico riformismo : «le strutture», che nel presente fenomeno di contestazione illuministica assumono il significato di organismi canonici, di istituzioni giuridiche, di enti ecclesiastici tradizionali, di autorità gerarchiche responsabili, di sistemi arcaici determinati, che formano l’ossatura del corpo ecclesiale, di dottrine dogmatiche stabilite, di magistero autorevole, di Curia romana, eccetera. Le strutture corrispondono alla così detta «Chiesa istituzionale», in confronto, e anche in opposizione, alla Chiesa libera e spirituale. Prendono cioè un significato negativo, e contro di esse il nuovo cristianesimo sedicente carismatico o di libera interpretazione biblica lancia deleterie insinuazioni e rivendica arbitrarie facoltà, sia di giudizio, che di azione. Se la religione si spegne, se la Chiesa è disertata, la colpa, si dice, è delle strutture, l’ostacolo è nelle strutture; le strutture sono sclerotizzate, le strutture non derivano da Cristo; liberiamoci dalle strutture, e riavremo un cristianesimo giovane e autentico.


IL VOLTO NUOVO

Che cosa diremo? quale atteggiamento prenderà il nostro amore alla Chiesa?

Faremo innanzi tutto un atto di riflessione su questo termine «strutture», dal significato polivalente, per distinguere così le strutture costituzionali della Chiesa, alle quali dobbiamo rimanere, e non solo per rassegnazione, fermamente attaccati, da quelle derivate, per via di tradizione storica o di sviluppo esplicativo, dalla radice originaria ed essenziale del messaggio evangelico ed apostolico. In queste strutture vi possono essere elementi non necessari alla vera figura e alla permanente vitalità della Chiesa; vi potrebbero essere anche enti o costumi abusivi, o non più idonei al contatto della Chiesa con situazioni storiche e sociali cambiate. Qui la riforma può, e in certi casi deve, essere innovatrice: ma a chi spetta il giudizio, a chi l’autorità e la responsabilità di profondi interventi innovatori? E i facili promotori della abolizione di usi, di forme, di linguaggio, ereditati come «strutture» del passato, hanno sempre il senso storico e psicologico per sostenere certe trasformazioni arbitrarie e iconoclaste, e sanno sostituire al vuoto ch’esse producono nella legittima consuetudine del popolo qualche cosa, che moralmente e religiosamente le equivalgano? Sono poi sempre davvero prive di significato spirituale e di vitalità cristiana alcune istituzioni e costumanze ecclesiali, che la febbre d’una modernità astratta vorrebbe senz’altro distruggere? non potrebbero alcune di esse, sì, ammodernarsi, e conservando, non foss’altro, il valore d’una testimonianza storica, rifiorire in nuova e benefica attività?

Non vogliamo farci avvocati dell’immobilismo e del giuridismo, ché anzi Noi stessi cerchiamo di dare alla Chiesa il volto nuovo, lo spirito vivo, l’autenticità provata alle sue istituzioni; la revisione delle «strutture» vigenti è in pieno e coraggioso, ma meditato sviluppo in tutta la Chiesa responsabile; ma vogliamo porre in guardia i fautori di improvvise semplificazioni chirurgiche e talora sovversive del patrimonio tradizionale della vita ecclesiale, ricordando che la modernità della Chiesa non sempre dipende dal ripudio delle sue «strutture» tradizionali, specialmente se queste sono collaudate da secolari esperienze e tuttora capaci di continua reviviscenza (come la parrocchia, per fare un esempio); e che la autentica giovinezza della Chiesa non si avrà secolarizzando e liberalizzando la vita ecclesiale stessa, cioè affrancandola dalle sue strutture esteriori, fossero pur queste ormai bisognose di intelligenti riforme, quanto piuttosto ravvivando in seno alla Chiesa la corrente dello Spirito vivificante, la vita di preghiera e di grazia, l’esercizio della carità e dell’obbedienza, la santità. La voce del Profeta che abbiamo udito nella passata Quaresima risuona ancora: «Squarciate i vostri cuori e non i vostri vestimenti» (Jl 2,13). Ascoltiamola sempre. Con la Nostra Benedizione Apostolica.



IL CORSO DI PERFEZIONAMENTO PROMOSSO DALL’I.R.I.

Una paterna parola di saluto ai centotredici tecnici che hanno frequentato il settimo Corso di Perfezionamento, svoltosi per iniziativa dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale, accompagnati dal Presidente, Prof. Giuseppe Petrilli, e dai loro Docenti.

Non possiamo non dimostrarvi la Nostra sincera compiacenza nel sapere che avete approfondito la vostra specializzazione in varie città d’Italia, ed ora vi siete riuniti- a Roma per concludere questi mesi di impegno e di studio, prima di tornare nelle vostre Nazioni. Compiacenza la Nostra, accentuata dal fatto che voi provenite da tutti i continenti della terra, dall’Africa, dall’America Latina, dall’Asia e dall’Europa.

La vostra presenza, qui, nella Basilica di San Pietro, è pertanto come un segno visibile della fondamentale fraternità umana che la Chiesa Cattolica propugna; per questo Ci piace ricordare a voi e a tutti i presenti le parole solenni del Concilio Vaticano II, il quale, costatando il caratteristico fenomeno contemporaneo della progressiva unificazione del genere umano, così si esprime: «I vari popoli costituiscono una sola comunità. Essi hanno una sola origine poiché Dio ha fatto abitare l’intero genere umano su tutta la faccia della terra; essi hanno anche un solo fine ultimo, Dio, la cui provvidenza, testimonianza di bontà e disegno di salvezza si estendono a tutti» (Decl. Nostra aetate, NAE 1: A.A.S. 58, 1966, p. 740).

Noi vogliamo anche dire il Nostro plauso alla iniziativa dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale, che ormai perdura da vari anni e che risponde al pressante desiderio da Noi espresso nella Enciclica «Populorum progressio», quando abbiamo invitato i popoli ad accogliere, come dovere di solidarietà umana e cristiana, i giovani desiderosi di perfezionarsi tecnicamente (cfr. Litt. Enc. Populorum progressio PP 67-69, A.A.S. 59, 1967, pp. 290-291).

Tornando in patria, voi porterete la vostra competenza tecnica, l’esperienza fraterna della solidarietà vissuta in questo periodo, il desiderio di contribuire, con la vostra forte giovinezza, alla elevazione umana e spirituale dei vostri connazionali.

Coscienti che dinanzi a Dio Padre non debbono esserci separazioni di razze o di condizioni economiche, ma che tutti sono figli suoi, con uguali diritti e doveri fondamentali, Noi scrivevamo nella citata Enciclica: «Il mondo è malato. Il suo male risiede meno nella dilapidazione delle risorse o nel loro accaparramento da parte di alcuni, che nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli» (Litt. Enc. Populorum progressio PP 66,1 c., p. 289).

È questo l’impegno che Noi vogliamo darvi oggi. Fatevi portatori e realizzatori di questo messaggio di fraternità universale, affinché, superate le barriere delle disuguaglianze sociali ed economiche, gli uomini vivano tra di loro nella pace autentica, fondata sulla giustizia, sulla verità e sull’amore.

Con questi voti, Noi impartiamo a voi, al Presidente dell’I.R.I., ai Docenti, alle vostre famiglie e alle vostre Nazioni la Nostra Apostolica Benedizione.



L’ISTITUTO EUROPEO DEL GIOCATTOLO (in francese)



Mercoledì, 14 maggio 1969

14569
Diletti Figli e Figlie!

Abbiamo altre volte parlato, nelle Udienze generali come questa, di alcune locuzioni, che, dopo il Concilio, hanno avuto particolare fortuna nel linguaggio corrente; una di queste locuzioni è «il pluralismo». Non l’ha inventata il Concilio questa parola, sebbene essa faccia la sua apparizione testuale in alcuni documenti conciliari (cfr. Grav. educ. n. 7; Gaudium et spes
GS 76); ma si può dire che ne ha favorito l’uso mettendone in evidenza il concetto e la realtà, e quindi autorizzandone l’applicazione ai campi più vasti e più diversi del sapere e della vita. Lo incontriamo questo pluralismo nell’inesauribile varietà del cosmo, nella proteiforme molteplicità degli aspetti del mondo contemporaneo, nella parità di dignità e di diritti fondamentali di ogni popolo, anzi di ogni essere umano, di ogni coscienza, nel principio della libertà, a tutti riconoscibile, di professare la propria religione senza indebita ingerenza della potestà civile e fuori dalla sopraffazione razzista o ambientale, nella convenienza di autorizzare ogni lingua ad esprimersi con la sua propria voce liturgica, nella positiva valutazione della molteplicità di fatto delle differenti confessioni cristiane sulla via dell’ecumenismo, nell’onore tributato ad ogni Vescovo, ad ogni Chiesa locale, ad ogni saggia attività del Laicato cattolico, nella legittimità delle diverse enunciazioni delle dottrine teologiche relative ad un’unica verità rivelata e definita dal magistero della Chiesa; e così via. Il mondo è complesso; ogni sua visione contiene una ricchezza di realtà e presenta una molteplicità di aspetti che esigono un pluralismo di concetti, di valutazioni, di comportamento. Un pluralismo scientifico, politico, linguistico, organizzativo, eccetera. Anche nel campo ecclesiale la complessità delle sue componenti dottrinali, gerarchiche, rituali, morali non può esprimersi che in forme e in parole pluralistiche. Il riverente rispetto poi che la nostra religione dà ad ogni momento, ad ogni porzione, ad ogni atto delle sue componenti sia divine, che umane obbliga ad evitare ogni semplicismo livellatore e mortificante. La nostra vita spirituale si svolge in un intreccio molto complicato e molto delicato di realtà, di verità, di doveri, di vibrazioni psicologiche e sentimentali, di cui bisogna tenere conto. La civiltà si misura dalla capacità pluralistica dell’uomo. La santità, si può dire, si svolge in un tessuto sempre più complesso di rapporti spirituali e morali. Tutto è complesso, tutto è profondo, tutto porta le tracce dell’indefinito, ch’è quasi un riflesso dell’Infinito dal Quale tutto ha origine. Chi vede, chi osserva, chi pensa, chi prega si sente sopraffatto dalla moltitudine, dalla grandezza, dalla esplorabilità, dal mistero delle cose. Il pluralismo è nelle cose; poi nei concetti, e nelle parole.

VISIONE TOTALE DELLA VITA

E nello stesso tempo (anche questa è realtà meravigliosa) tutto è da un non meno evidente principio d’unità. L’essere stesso, in ogni sua espressione, è rivolto ad una misteriosa e pur palese unità. È stupendo. Ma lasciamo ai maestri del pensiero inoltrarsi in questo sentiero affascinante e tormentoso. Ci basti un cenno a ciò che interessa il nostro spirito in questo luogo e in questo momento; luogo e momento di -fede; di confronto cioè delle nostre anime con quel mondo religioso, che chiamiamo cristianesimo, anzi, nella sua concretezza, la Chiesa cattolica.

Siamo pluralisti noi? La risposta a questa stessa domanda non può essere che plurale. E cioè: sì, che lo siamo, come dicevamo testé; lo siamo proprio perché cattolici, cioè universali; nessuno schermo pone limite alla considerazione della realtà, della verità. La nostra vocazione è per il Tutto; siamo totalitari nella visione dell’universo, dell’umanità, della storia, del mondo. Per quanto riguarda l’esperienza umana ripetiamo la celebre frase di Terenzio: «Homo sum, et nihil humani a me alienum puto»: sono uomo, e nulla di ciò ch’è umano mi è precluso. Chi teme di perdere la visione completa della vita e il possesso di ciò che vale la pena d’essere posseduto professando sinceramente la religione cattolica, cede ad un pregiudizio inconsulto. Potremmo anzi dire che solo la religione cattolica possiede la visione del tutto, la sapienza superiore del mondo, dell’essere umano, dei destini del tempo e della vita.

Ma ciò che ora preme qui ricordare è la legittimità e il limite del nostro pluralismo religioso. Una parola soltanto, più ad esempio che a spiegazione. Si è fatto da alcuni obiezione al pluralismo introdotto dalla Chiesa dopo il Concilio nella Liturgia, che con Sant’Agostino, in un suo commento al Salmo 44, potremmo paragonare alla veste sontuosa della regina biblica: «La veste - si chiede Sant’Agostino - di questa regina (la Chiesa) qual è? È preziosa e varia: i misteri della dottrina in tutte le diverse lingue. V’è una lingua africana, un’altra siriaca, un’altra greca, un’altra ebraica, ed altre ancora: fanno queste lingue il tessuto variopinto della veste di questa regina. Ma siccome tutta la varietà della veste si accorda in unità, così anche tutte le lingue in una sola fede. Vi sia pure varietà nella veste, ma non scissura» (Enarr. in PS 44,24 PL 36,509).

UNIVOCA È LA PAROLA DI DIO

Così potremmo dire del pluralismo teologico. Ma qui il discorso dev’essere molto più prudente, per le leggi stesse della verità rivelata, dell’interpretazione della Parola di Dio. Si può sostenere l’inadeguatezza d’ogni parola umana a esprimere la profondità insondabile del contenuto teologico d’una formola dogmatica (cfr. Rm 11,33 ss.; DS 806 432); e sostenere la virtuosità interpretativa di una medesima verità dogmatica nell’annuncio cherigmatico, cioè apologetico, catechistico, oratorio, parenetico, e cioè la legittimità delle varie scuole teologiche e spirituali; ma non saremmo fedeli all’univocità della Parola di Dio, al magistero, che ne deriva, della Chiesa, se ci arrogassimo la licenza d’un «libero esame», di un’interpretazione soggettiva, d’una subordinazione della dottrina definita ai criteri delle scienze profane, e tanto meno alla moda dell’opinione pubblica, ai gusti e alle deviazioni (oggi tanto pronunciate) della mentalità speculativa e pratica della letteratura corrente. Sappiamo quanto sia esigente la Chiesa cattolica su questo punto decisivo dei nostri rapporti con Cristo, con la tradizione, col destino relativo alla nostra salvezza. La fede non è pluralistica. La fede, anche per quanto riguarda l’involucro delle formole che la esprimono, è molto delicata ed esigente; e la Chiesa vigila ed esige che la parola enunciante la fede non ne tradisca la verità sostanziale. Dovremmo farle rimprovero d’essere osservante della lineare esigenza del Vangelo: «Che la vostra parola sia: si, sì, no, no», come dice Gesù (Mt 5,37 Jc 5,12); cioè chiara, diritta, onesta, univoca, senza sottintesi, senza reticenze, senza incoerenze, senza errori?

Figli carissimi, siate aperti a tutta la verità, immensa, ricchissima, sempre capace di approfondimenti e di applicazioni nuove; a quella che lo Spirito Santo Lui stesso c’insegna (Jn 15,13), e di cui la Chiesa maestra è custode ed interprete autorizzata (cfr. Ga 1,8); ma siate voi stessi fieri e gelosi e felici dell’unità perenne e feconda della fede in cui solo è verità e salvezza. A ciò vi conforti la Nostra Benedizione Apostolica.

IL CONVEGNO DEGLI ECONOMI CATTOLICI

E ora un particolare saluto agli oltre cinquecento partecipanti al Convegno Nazionale degli Economi Cattolici, organizzato dall’omonimo Centro Nazionale.

Vi rivediamo con piacere, diletti Figli, e vi diciamo il Nostro sincero apprezzamento per l’opera intelligente, esperta, saggia, generosa, nascosta eppur tanto preziosa e necessaria, che voi svolgete a beneficio dei numerosi enti ecclesiastici di varia denominazione e delle comunità religiose, di cui vi occupate o fate parte, curandone la parte economica, anche nei suoi aspetti più umili. È un atto di amore, quello che voi compite: è un servizio reso ai fratelli, siano essi i piccoli, gli orfani, i sofferenti, i malati, gli anziani, i senza tetto, siano coloro che, come voi e con voi - parliamo agli Economi ed Econome delle Famiglie Religiose - partecipano all’unico grande ideale di essere i testimoni in terra dei valori insostituibili e permanenti del Regno Celeste.

Il vostro lavoro riveste pertanto un valore non trascurabile: ricordatevi che, al di là dell’aspetto tecnico, dei difficili bilanci, delle esigenze e delle difficoltà quotidiane, della sempre necessaria correttezza sul piano della giustizia e della carità, voi servite l’uomo, come ha sottolineato la Costituzione conciliare sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, trattando dello sviluppo economico: col dedicarvi a miglio,rare sempre più le vostre prestazioni anche dal punto di vista del rendimento, voi siete al servizio «dell’uomo integralmente considerato, tenendo cioè conto delle sue necessità di ordine materiale e delle sue esigenze per la vita intellettuale, morale, spirituale e religiosa» (Gaudium et spes GS 64). Ma vi diciamo di più: voi siete al servizio di Cristo stesso, il quale si è misticamente adombrato in ciascuno dei nostri fratelli, specie dei più piccoli e sofferenti (cfr. Mt 25,40), e ha promesso l’adeguata mercede a chi darà ai suoi anche solo un bicchier d’acqua in suo nome (cfr. Mc 9,40).

Con questo spirito continuate la vostra nobile missione: a tanto vi incoraggia il Papa, che prega per voi, vi stima e vi benedice.



Mercoledì, 21 maggio 1969

21569
Diletti Figli e Figlie,

Noi siamo tutti così dominati dalle immagini, dalle notizie, dall’avvenimento del viaggio spaziale, che sta svolgendosi in questi giorni, che non possiamo esimerci dal farne oggetto della nostra breve meditazione quest’oggi.

Gli occhi o, meglio, i pensieri del mondo seguono, ancora una volta, ma forse questa volta con più intenso interesse, l’itinerario stupefacente degli astronauti, che vanno con impensabile velocità ad esplorare da vicino il satellite della nostra terra, la luna quieta amica delle nostre notti, dalla faccia mutevole, fredda ed argentea. Si guarda, si ammira, si riflette, si spera, si prega. L’orizzonte diventa astronomico, e non solo per la nostra osservazione sensibile, ma per la dilatazione della nostra mentalità. L’astronomia è sempre stata una grande maestra di pensiero, che le comuni nozioni scarse ed empiriche, e per di più prese a prestito dalle dottrine altrui, riempivano di immagini fantastiche, di sogni inverosimili, di sistemi scientifici ipotetici e discutibili, di superstizioni senza numero, tanto che nella cultura corrente si può dire che la scienza del cielo è presso che dimenticata e ridotta a consuete ed elementari notizie. Gli antichi ne sapevano più di noi, se non di astronomia, certo di astrologia. Una delle difficoltà alla comprensione, ad esempio, della Divina Commedia, è quel continuo richiamo, che Dante frammischia al suo sublime poema, circa i fenomeni dell’orizzonte celeste. I nostri scienziati moderni certamente conoscono cose meravigliose sul cielo, sul cosmo, sulle sue strutture cronologiche e matematiche, ed oggi, più che mai, sulla sua composizione fisica e sulla sua evoluzione dinamica; ma rispetto alla società essi sono degli iniziati, che studiano, parlano, vivono da sé. Gli interessi dell’uomo gravitano più che mai sulla terra, nel minuscolo arco dei nostri giorni e nell’immediato trambusto delle nostre sperimentali vicende.

IL LINGUAGGIO DEL COSMO

Ed ecco che, come si aprisse una finestra nella stanza della nostra vita consueta, siamo invitati a guardare fuori, nello spazio, nel cielo, nel cosmo. E siccome questo è un fenomeno umano, che ha appunto per teatro il cielo, i nostri pensieri abituali sono quasi fermati. e fissati nel vuoto che ci sta davanti. Siamo non già incantati, né divertiti; siamo turbati. Un quadro di realtà immenso, misterioso, che credevamo poter dimenticare, perché da noi, non astronomi, lontano, irraggiungibile, non sperimentabile, ci si presenta invece davanti. Il raggio di visione va oltre misura, si spinge nelle profondità dello spazio, l’universo ci dice almeno che esso esiste. In certe notti limpide d’estate abbiamo forse anche noi, contemplando le innumerevoli stelle che trapuntano di scintille la volta immensa del cielo, pensato o tentato di pensare al mistero dell’universo; forse la meravigliosa e misteriosa visione esteriore ha preso voce interiore con le note elegiache del canto notturno del pastore leopardiano, errante nelle solitudini sconfinate dell’Asia; forse il senso incombente dell’infinito, che vince lo spazio ed il tempo, ha dato anche a noi un fremito metafisico dell’oceano dell’essere, in cui la nostra minima vita si trova, ma che vita, coscienza, spirito si chiama.

Non sarà inutile lasciarci invadere un momento da simili impressioni del muto linguaggio della suprema realtà da noi percepibile, il cosmo, anche se la perfezione strumentale che oggi ce le trasmette attenua il senso che le deve in ogni caso dominare, la meraviglia, cioè la sorpresa della scoperta, della conquista e del mistero, ancor più presente, circa le cose, il mondo, l’universo.

UN CANTICO DEL SALMISTA

Ammirare, ammirare dobbiamo. E per non rendere vano questo felice sforzo del nostro spirito, su due sentieri, Figli carissimi, Noi vi esortiamo a dirigerlo. Verso l’uomo, primo sentiero della nostra ammirazione. Chi è l’uomo, capace di opere simili? di concepirle, di organizzarle, di compierle, di commisurarle alle sproporzionate difficoltà ch’esse presentano, e alla sempre piccola statura del proprio essere, piccolo, limitato e vulnerabile? Come possiede tanta capacità di studio, di conoscenze, di dominio scientifico e tecnico sulle cose, sul mondo? E come, debole e condizionato com’è, trova il coraggio di osare simili imprese? Ancor più che la faccia della luna, la faccia dell’uomo s’illumina davanti a noi; nessun altro essere a noi noto, nessun animale, anche più forte e più perfetto nei suoi istinti vitali, può essere messo a confronto con l’essere prodigioso che noi uomini siamo. V’è qualche cosa nell’uomo che supera l’uomo, v’è un riflesso che sa di mistero, che sa di divino. Le parole, ben note alla nostra conversazione con Dio, vengono alle labbra spontaneamente: «Quando io contemplo i cieli, opera delle tue mani, (o Signore,) la luna e le stelle che Tu vi hai seminate, che cosa è mai l’uomo perché tu ti ricordi di lui? Eppure di poco Tu l’hai fatto inferiore agli Angeli, di gloria e di onore Tu l’hai coronato; e Tu l’hai posto a capo delle opere delle Tue mani; tutto hai messo sotto i suoi piedi» (
Ps 8,4-7). Ma come? ma perché? Risponde ancora l’incantevole salmoldia: «Tu hai diffuso sopra di noi la luce del Tuo volto, o Signore!» (Ps 4,7). Ecco: l’uomo porta in sé il riflesso di Dio! A sua immagine è stato creato: «Creò Iddio l’uomo ad immagine sua . . . : maschio e femmina li creò. E li benedisse Iddio dicendo: crescete e moltiplicatevi e popolate la terra e dominatela . . .» (Gen. 1, 27-28). Questa origine divina, questa potestà dominatrice dell’uomo s’illuminano alla nostra mente, diremmo, alla prova dei fatti; questi fatti che stiamo in questi giorni contemplando, che dell’uomo non fanno tanto l’orgoglio, quanto la dignità; non lo insuperbiscono come principio causa di se stesso, ma lo magnificano come capolavoro e come collaboratore di Dio (cfr. 1Co 3,9). Dovremo ricordarcene sempre.

IL PRINCIPIO CREATORE

L’altro sentiero della nostra ammirazione è Dio stesso. Se siamo davvero intelligenti, se cioè non fermiamo la nostra commossa attenzione allo schermo fisico delle cose, al loro quadro scientifico, ma vi leggiamo dentro, nel loro segreto ultra-fisico (cioè metafisico) e cerchiamo di capire qualche cosa di quello che sono, subito comprendiamo una verità lampante; esse non sono causa di se stesse! E allora, come mai esistono? come mai sono così grandi? così ordinate, così belle, così unite? Una razionalità cogente ci obbliga ad arrivare sulle soglie di quella suprema sapienza, che chiamiamo religione. Una rivelazione naturale, e oggi, in un’ora di trionfo scientifico, ci riconduce alla Fonte del tutto, all’uno necessario, al Principio creatore, al Dio vivente. Non lasciamoci sfuggire, Figli carissimi, un’occasione come questa per ritrovarci umili, pii, buoni, religiosi e felici, davanti a segni così evidenti, per chi vuoi vedere, della somma Presenza nel nostro mondo e nella nostra vita. Adoriamo in silenzio.

Ed insieme, noi credenti, noi cristiani. Con la Nostra Benedizione Apostolica.




Paolo VI Catechesi 30469