Paolo VI Catechesi 25669

Mercoledì, 25 giugno 1969

25669
Diletti Figli e Figlie!

In queste brevi conversazioni delle Udienze generali Ci sembra ancora doveroso ripensare al Concilio. E per ora lo facciamo senza risalire ai suoi vari e specifici insegnamenti, ma con alcune osservazioni d’indole molto sommaria. Questa, ad esempio, che tutti possono fare da sé: il Concilio ha prodotto nel popolo cristiano una mentalità, una sua mentalità. È chiaro che al fondo di questa mentalità si trova una convinzione molto buona, un postulato, un’idea di base che alcuni ammettono come già acquisita, altri, più avveduti, come da acquisire, da realizzare. E questa convinzione ci dice che il Concilio vuole una professione cristiana più seria, più autentica, più vera. Un approfondimento nella sincerità. E questa idea, dicevamo, è molto buona, Possiamo e dobbiamo farla nostra, perché da essa è partito il Concilio, come, del resto, da questa aspirazione ad una perfetta interpretazione della vita cristiana, sia nel pensiero che nella condotta, parte continuamente l’azione didattica, santificatrice e pastorale della Chiesa. Ma, dopo il Concilio, come si esprime questa rinnovata mentalità? Dove si dirige la sua ricerca d’un cristianesimo autentico, vivo e adatto per i nostri tempi? Si esprime in vari modi. Uno di questi modi è quello di ritenere ormai facile l’adesione al cristianesimo; e quindi di tendere a renderlo facile.

L’ESSENZA DEL MESSAGGIO EVANGELICO

Un cristianesimo facile: questa Ci sembra una delle aspirazioni più ovvie e più diffuse, dopo il Concilio. Facilità: la parola è seducente; ed è anche, in un certo senso, accettabile, ma può essere ambigua. Può costituire una bellissima apologia della vita cristiana, a intenderla come si deve; e potrebbe essere un travisamento, una concezione di comodo, un «minimismo» fatale. Bisogna fare attenzione.

Che il messaggio cristiano si presenti nella sua origine, nella sua essenza, nella intenzione salvatrice, nel disegno misericordioso che tutto lo pervade, come facile, felice, accettevole e comportabile, è fuori dubbio. È una delle più sicure e confortanti certezze della nostra religione; sì, ben compreso, il cristianesimo è facile. Bisogna pensarlo così, presentarlo così, viverlo così. Lo ha detto Gesù stesso: «Il mio giogo è soave ed il mio peso è leggero» (
Mt 11,30). Lo ha ripetuto, rimproverando ai Farisei, meticolosi e intransigenti, del suo tempo: «Compongono pesanti e insopportabili fardelli e li impongono sulle spalle degli uomini» (Mt 23,4 cfr. Mt 15,2, ss.). E una delle idee maestre di San Paolo non è stata quella di esonerare i nuovi cristiani dalla difficile, complicata e ormai superflua osservanza delle prescrizioni legali del Testamento anteriore a Cristo?

IL SOMMO PRECETTO DELL’AMOR DI DIO

Si vorrebbe qualche cosa di simile anche per il nostro tempo, che è orientato verso concezioni spirituali semplici e fondamentali. Sintetiche e a tutti accessibili: non ha il Signore condensato nel sommo precetto dell’amor di Dio e in quello, che lo segue e ne deriva, dell’amore del prossimo, «tutta la legge ed i profeti» (Mt 22,40)? Lo esige la spiritualità dell’uomo moderno, quella dei giovani specialmente; lo reclama un’esigenza pratica d’apostolato e di penetrazione missionaria. Semplificare e spiritualizzare, cioè rendere facile l’adesione al cristianesimo; questa è la mentalità che sembra scaturire dal Concilio: niente giuridismo, niente dogmatismo, niente ascetismo, niente autoritarismo, si dice con troppa disinvoltura: bisogna aprire le porte ad un cristianesimo facile. Si tende così ad emancipare la vita cristiana dalle così dette «strutture»; si tende a dare alle verità misteriose della fede una dimensione contenibile nel linguaggio corrente e comprensibile dalla forma mentale moderna, svincolandole dalle formulazioni scolastiche tradizionali e sancite dal magistero autorevole della Chiesa; si tende ad assimilare la nostra dottrina cattolica a quella delle altre concezioni religiose; si tende a sciogliere i vincoli della morale cristiana, qualificati volgarmente come «tabu», e delle sue pratiche esigenze di formazione pedagogica e di osservanza disciplinare, per concedere al cristiano, fosse pur egli un ministro dei «misteri di Dio» (1Co 4,1 2Co 6,4) o un seguace della perfezione evangelica (cfr. Mt 19,21 Lc 14,33), una così detta integrazione con il modo di vivere della gente comune. Si vuole, ripetiamo, un cristianesimo facile, nella fede e nel costume.

Ma non si va oltre il confine di quell’autenticità, a cui tutti aspiriamo? Quel Gesù, che ci ha portato il suo vangelo di bontà, di gaudio e di pace, non ci ha forse anche esortati ad entrare «per la porta stretta» (Mt 7,13)? E non ha forse preteso una fede nella sua parola, che va oltre la capacità della nostra intelligenza? (cfr. Jn 6,62-67). E non ha Egli detto che «chi è fedele nel poco, è fedele ,anche nel molto» (Lc 16,10)? Non ha fatto Egli consistere l’opera della sua redenzione nel mistero della Croce, stoltezza e scandalo (1Co 1,23) per questo mondo, mentre è condizione della nostra salvezza il parteciparvi?

PIENEZZA DI RISPETTO PER LA LEGGE DIVINA

Qui la lezione si fa lunga e difficile. Sorge la domanda: ma allora il cristianesimo non è facile? Allora non è accettabile da noi moderni, e non è più presentabile al mondo contemporaneo? Rinunciamo in questo momento a risolvere debitamente questa grave, ma non profonda difficoltà. Ricordiamo soltanto che il costo delle cose facili, se belle, se perfette, se rese tali superando ostacoli formidabili, è sempre alto. Pensiamo, per esempio, a questa legge, che presiede a tutto lo sforzo della coltura e del progresso, quando abbiamo occasione di viaggiare in aeroplano: volare, com’è facile! ma quanti studi, quante fatiche, quanti rischi, quanti sacrifici esso è costato!

E poi, per stare al nostro tema, ci domandiamo: il cristianesimo sarebbe fatto per i temperamenti deboli di forza umana e per i fiacchi di coscienza morale? Per gli uomini imbelli, tiepidi, conformisti, e non curanti delle austere esigenze del Regno di Dio? Ci domandiamo alle volte se non sia da cercare fra le cause della diminuzione delle vocazioni alla sequela generosa di Cristo, senza riserve e senza ritorni, quella della presentazione superficiale d’un cristianesimo edulcorato, senza eroismo e senza sacrificio, senza la Croce, privo perciò della grandezza morale d’un amore totale. E Ci chiediamo anche se fra i motivi delle obbiezioni, sollevate nei confronti dell’Enciclica «Humanae vitae», non vi sia anche quello d’un segreto pensiero: abolire una legge difficile per rendere la vita più facile. (Ma se è legge, che ha in Dio il suo fondamento, come si fa?).

Noi ripeteremo: sì, il cristianesimo è facile; ed è saggio, è doveroso appianare ogni sentiero che ad esso conduce, con ogni possibile agevolazione. Ed è ciò che la Chiesa, dopo il Concilio, cerca in ogni modo di fare, ma senza tradire la realtà del cristianesimo. Il quale è davvero facile a qualche condizione: per gli umili, che ricorrono all’aiuto della grazia, con la preghiera, con i sacramenti, con la fiducia in Dio, «che non permetterà, dice S. Paolo, che siate tentati sopra le vostre forze, ma con la tentazione vi offrirà modo . . . di superarla» (1Co 10,13); e per i coraggiosi, che sanno volere ed amare, amare soprattutto. Diciamo con S. Agostino: il giogo di Cristo è soave, per chi ama; duro per chi non ama: «amanti, suave est; non amanti, durum est» (Serm. 30; PL 38, 192).

Procurate, Figli carissimi, di fare questa felice esperienza: rendere facile mediante l’amore la vita cristiana! Con la Nostra Apostolica Benedizione.


IL CAPITOLO SPECIALE DEI MINORI CONVENTUALI

Nunc autem vos alloquimur, dilecti Filii ex Ordine Fratrum Minorum Conventualium, qui ex omnibus orbis regionibus Romam convenistis ad Capitulum Generale speciale celebrandum. Paterna cum benevolentia vos coram excipimus ac plurimi aestimamus propositum, quod vos huc hodie adduxit, ut Beati Petri Successori fidem, caritatem et observantiam vestram obtestaremini.

Capitulum speciale, sicut ceterae religiosae familiae, indixistis, ut, Concilii Oecumenici Vaticani II normis obtemperantes; renovationi consuleretis disciplinae vestrae; atque hac de causa a Nobis verba quaedam certe exspectatis, quae vos in suscepto opere ducant, illuminent, conforment. Nihil aliud vobis aptius proponere putamus, quam ut in vestram memoriam revocemus monitum ipsius Concilii, vi cuius vitae religiosae renovatio complectitur «continuum reditum ad omnis vitae christianae fontes primigeniamque institutorum inspirationem et aptationem ipsorum ad mutatas temporum condiciones» (Decr. Perfectae caritatis PC 2). Quare operam dantes ut facies externa Vestri Ordinis ad nostrorum temporum rationem accommodetur, prorsus necesse est, ut ad Legiferum Patrem vestrum semper intueamini, novasque normas apparetis numquam contra, semper vero secundum eius spiritum, qui est spiritus orationis, austeritatis vitae, paupertatis, ac praesertim incensissimi amoris erga Iesum Christum et proximos. Qua in re, Iesu Christi gratiam ac Sancti Francisci deprecationem certe scitis vobis numquam fore defuturas.

Haec ut feliciter eveniant, preces Nostras pro vobis libenter ad Deum fundimus, et Apostolicam Benedictionem vobis impertimus.


I CAPPELLANI DELL'O.N.A.R.M.O.

Ed ora un particolarissimo saluto, pieno di affetto, ai circa quattrocento sacerdoti, che partecipano alla sesta Settimana di studio sulla Pastorale nel mondo del lavoro, promossa dalla benemerita O.N.A.R.M.O. Il tema, scelto quest’anno, esigerebbe ben più ampio svolgimento di quanto l’esiguità del tempo a Nostra disposizione purtroppo Ci permetta: di fatto, «la povertà evangelica e l’apostolato sacerdotale nell’attuale evoluzione del mondo del lavoro» è argomento importante, ampio, impegnativo, diremmo cruciale e tormentoso, ma pur esaltante e vitale, perché il suo approfondimento pone la vostra azione di ministero di fronte alle proprie esigenze di assoluta autenticità, secondo lo spirito del Vangelo, e l’aiuta a conseguire pienamente la propria validità ed efficacia. Ci compiacciamo di cuore per tale scelta, che in,dica nella Direzione e in tutta la vasta compagine dell’O.N.A.R.M.O. una viva sensibilità dei problemi dell’ora.

Lo spirito di povertà, che il Concilio ha definito «gloria e segno della Chiesa di Cristo» (Gaudium et spes GS 88), è la consegna del momento, è l’impegno che tutti vi chiama, è la testimonianza che quanti oggi faticano, lavorano, soffrono, e quanti patiscono nella disuguaglianza e nella sfiducia, hanno il diritto di attendersi dai cristiani, in modo particolare dai sacerdoti. Lo spirito di povertà è l’annuncio del Vangelo per il mondo di oggi, che non vuole parole ma fatti, che non si accontenta di dichiarazioni ma penetra perspicacemente nelle intenzioni e sa leggervi quanto siano rette e sincere. Ne abbiamo parlato esplicitamente già fin dalla Nostra prima Enciclica Ecclesiam suam, quando abbiamo chiesto a Pastori e fedeli di educare alla povertà il linguaggio e la condotta, avendo in sé lo stesso sentire di Cristo (cfr. Ph 2,5), e ricordato «quei criteri direttivi che devono fondare la nostra fiducia più su l’aiuto di Dio e sui beni dello spirito, che non sui mezzi temporali», ribadendo che di questi tanto dobbiamo «limitare e subordinare il possesso e l’uso quanto è utile al conveniente esercizio della nostra missione apostolica» (A.A.S. 56 [1964] p. 634). Dal canto suo, il Decreto conciliare sul ministero e la vita sacerdotale ha chiaramente esortato i sacerdoti allo spirito e alla pratica della povertà, perché così «possono conformarsi a Cristo in modo più evidente, ed essere in grado di svolgere con maggiore prontezza il sacro ministero» (Presbyterorum ordinis PO 17).

Voi, carissimi sacerdoti, Cappellani del lavoro, avete la responsabilità assillante e l’onore impareggiabile di rappresentare Cristo fra i vostri operai, fra i vostri artigiani e lavoratori, della cui salvezza dovrete un giorno rendere conto davanti a Dio: fate che, attraverso il diaframma della vostra povertà, della vostra dolcezza, della vostra comprensione, della vostra disponibilità, di tutto quanto fa della vita dei sacerdoti una vita di uomini crocifissi, essi vedano il Cristo in mezzo a loro, scoprano il suo volto e il suo amore, per potersi aprire a Lui, accoglierlo nelle loro anime come nelle loro famiglie, e far-Gli onore con la propria condotta di vita. A tanto e sì grave compito vi incoraggia il Papa, e vi conforta con la Sua paterna Apostolica Benedizione.


GIORNALISTI CATTOLICI DEL BELGIO


GRUPPO DI SINDACI DELL’AMERICA

We are indeed honored by this visit, and We bid a cordial welcome to two very distinguished groups: one representing the United States Conference of Mayors, and the other a Mission of the Inter-American Communal Organization which links Mayors of North, Central and South America in collaboration between their cities and communes.

Chosen by the votes of your fellow-citizens, you strive to build up and improve, not only your own cities, but others in your native land or even in other countries. This praiseworthy endeavour contributes towards the high purpose of civic, national, and world peace, and We assure you of Our prayerful good wishes for the success of your important efforts.

Upon each of you and your families, upon your colleagues in the Conference and the Organization, and upon the peoples of your cities and communes, We invoke God’s richest blessing.



Mercoledì, 2 luglio 1969

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Diletti Figli e Figlie!

È nostro desiderio di accogliere le grandi parole del Concilio, quelle che ne definiscono lo spirito, e in sintesi dinamica formano la mentalità di quanti, dentro e fuori della Chiesa, al Concilio si riferiscono. Una di queste parole è quella di novità. È una parola semplice, usatissima, molto simpatica agli uomini del nostro tempo. Portata nel campo religioso è meravigliosamente feconda, ma, male intesa, può diventare esplosiva. Ma è parola che ci è stata data come un ordine, come un programma. Anzi ci è stata annunciata come una speranza. È una parola rimbalzata fino a noi dalle pagine della sacra Scrittura: «Ecco (dice il Signore). Io farò cose nuove»; è il Profeta Isaia che così parla; a lui fa eco S. Paolo (
2Co 5,17), e poi l’Apocalisse: «Ecco ch’io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5). E Gesù, il Maestro, non è Lui stesso un innovatore? «Voi avete udito ciò ch’è stato detto agli antichi . . . Ma io vi dico . .» (Mt 5), Egli ripete nel discorso della montagna. Il battesimo, cioè l’inizio della vita cristiana, non è anch’esso una rigenerazione? «Noi dobbiamo camminare in novità di vita» (Rm 6,4). E così tutta la tradizione del cristianesimo, teso verso la sua perfezione; essa riprende continuamente il concetto di novità, quando parla di conversione, di riforma, di ‘ascetica, di perfezione. Il cristianesimo è come un albero, sempre in primavera, in via di nuovi fiori, nuovi frutti; è una concezione dinamica, è una vitalità inesausta, è una bellezza.


UNO SPIRITO NUOVO

E il Concilio ci si è presentato proprio così. Due termini lo hanno qualificato; rinnovamento (cfr. Lumen Gentium LG 8 in fine; Optatam totius, introd.), e aggiornamento; termine questo, a cui Papa Giovanni ha dato libero corso, ed è entrato ormai nel linguaggio corrente, e non solo in Italia (cfr. A.A.S., 1963, p. 750); due termini che parlano di novità; l’uno riferendosi piuttosto al campo interiore, spirituale; l’altro a quello esteriore, canonico, istituzionale.

A noi preme moltissimo che questo «spirito di rinnovamento» (è così che si esprime il Concilio: Optatam totius, in fine) sia da tutti compreso e tenuto vivo. Esso risponde all’aspetto saliente del nostro tempo, ch’è tutto in rapida ed enorme trasformazione, cioè in via di produrre novità in ogni settore della vita moderna. Sorge infatti spontaneo nella mente il confronto: tutto il mondo si cambia e la religione no? non si produce fra la realtà della vita e il cristianesimo, quello cattolico specialmente, una difformità, un distacco, un’incomprensione reciproca, una mutua ostilità, l’una corre, l’altro sta fermo: come possono andare d’accordo? come può pretendere il cristianesimo d'influire oggi sulla vita? Ed ecco la ragione delle riforme intraprese dalla Chiesa, specialmente dopo il Concilio; ecco l’Episcopato intento a promuovere il rinnovamento corrispondente ai bisogni presenti (cfr. messaggio dell’Episcopato Trentino e Altoatesino al Clero, 1967); ecco gli Ordini Religiosi pronti a riformare i loro Statuti; ecco il Laicato cattolico qualificarsi e articolarsi agli ordinamenti ecclesiali; ecco la riforma liturgica, da cui tutti conoscono l’estensione e l’importanza; ecco l’educazione cristiana riesaminare i metodi della sua pedagogia; ecco tutta la legislazione canonica in via di revisione rinnovatrice. E quante altre consolanti e promettenti novità germogliano nella Chiesa per attestarne la vitalità nuova, che anche in questi anni tanto scabrosi per la religione dimostra l’animazione continua dello Spirito Santo! Lo sviluppo dell’ecumenismo, guidato dalla fede e dalla carità, basta da solo a segnare un progresso quasi imprevedibile nella via e nella vita della Chiesa. La speranza, ch’è lo sguardo della Chiesa verso l’avvenire, riempie il suo cuore, e dice com’esso palpiti in nuova ed amorosa attesa. La Chiesa non è vecchia, è antica; il tempo non la piega, e, se essa è fedele ai principi intrinseci ed estrinseci della sua misteriosa esistenza, la ringiovanisce. Essa non teme il nuovo; ne vive. Come un albero dalla sicura e feconda radice, essa trae da sé ad ogni ciclo storico la sua primavera.

Forse voi ricorderete ciò che il Card. Suhard, Arcivescovo di Parigi, scriveva nel 1947 in una sua lettera pastorale, rimasta famosa «Esser ou déclin de l’Eglise»: «La guerra non è un intermezzo, ma un epilogo . . . L’era che s’inaugura dopo di essa prende figura d’un prologo . .». Non diversamente possiamo dire del Concilio. Il Concilio ha segnato l’apertura d’un prossimo ciclo. Ora nessuno può negare che questo ciclo manchi di caratteri nuovi, come dicevamo. Ma qui l’esame delle novità ci obbliga a domandarci se tutti i fenomeni nuovi post-conciliari sono buoni.

Noi potremmo limitarci ad invitare il nostro buon giudizio a tentare questo esame. V’è chi ha osservato che la novità non sempre tende al meglio. Per sé la novità significa cambiamento. Il cambiamento dev’essere giudicato non tanto per sé, quanto per il suo contenuto, per la sua finalità. Il nuovo oggi ci porta ad un cristianesimo davvero migliore? quali criteri possono aiutarci a giudicare della bontà di ciò ch’è nuovo nella vita della Chiesa? v’è chi osserva fenomeni non di progresso nuovo, ma di decadenza nuova; v’è chi parla non di evoluzione, ma di rivoluzione, non di incremento, ma di decomposizione.


RITORNO ALLA SORGENTE

La questione del «nuovo» nella vita cattolica è estremamente complessa. Limitiamoci ad un solo rilievo, che è questo: il nuovo non può essere nella Chiesa prodotto da una rottura con la tradizione. La mentalità rivoluzionaria è parecchio entrata anche nella mentalità di tanti cristiani, di buoni cristiani. La rottura a noi concessa è quella della conversione, la rottura col peccato, non col patrimonio di fede e di vita, di cui siamo eredi responsabili e fortunati. Le innovazioni necessarie ed opportune, alle quali dobbiamo aspirare, non possono venire da un distacco arbitrario dalla viva radice, che ci ha trasmesso Cristo dal momento in cui è apparso nel mondo ed ha fatto della Chiesa «segno e strumento» della validità della nostra unione con Dio (Lumen Gentium LG 1). Anzi la novità per noi consiste essenzialmente, di solito, proprio in un ritorno alla tradizione genuina e alla sua sorgente, ch’è il Vangelo. «Il rinnovamento della vita religiosa . . . comporta . . . il continuo ritorno alle fonti, insegna il Concilio (Perf. carit., n. 2); e ciò che esso insegna per i Religiosi vale in genere per tutto il Popolo di Dio. Chi sostituisce la propria esperienza spirituale, il proprio sentimento di fede soggettiva, la propria personale interpretazione della Parola di Dio produce certamente una novità, ma è una rovina. Così chi disprezza la storia della Chiesa, in ciò che ha di ministero carismatico per la tutela e la trasmissione della dottrina e del costume cristiano, può creare novità attraenti, ma che difettano di virtù vitale e salvifica: la nostra religione, che è la verità, che è la realtà divina nella storia dell’uomo, non si inventa, e nemmeno, propriamente parlando, si scopre; la si riceve, e per antica che sia è sempre viva, sempre nuova; perenne cioè, e sempre atta a fiorire in nuove e genuine espressioni. «È chiaro, dice il Concilio, che la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti da non potere indipendentemente sussistere» (Dei Verbum DV 10).


NON IMMOBILISMO MA STABILE PRIMAVERA

Questo, dirà forse qualche impaziente contestatore, è immobilismo; questa è la sclerosi che cristallizza il cristianesimo in formole rigide e superate; noi vogliamo un cristianesimo vivo. Sì, un cristianesimo vivo; e lo vogliamo noi pure, e più di tutti. E qui non vi faremo la lezione, sarebbe troppo lunga, circa i metodi, mediante i quali si può vivificare, e risuscitare se occorre, il nostro cristianesimo; indichiamo solo alcuni paragrafi di questa operazione, che può essere piccola ed umile, ovvero clamorosa e gigantesca. Ecco: il primo rinnovamento, ricordiamolo bene, è interiore, è personale (cfr. Lumen Gentium LG 7-15 Unit. redint. LG 4-7). «Rinnovatevi nello spirito della vostra mente», raccomanda San Paolo (Ep 4,23): questa è la vera, la prima, la nostra novità cristiana; tutti e ciascuno vi dobbiamo tendere. Poi, se vi piace riflettervi, la novità nella vita cristiana, e nella Chiesa, può avvenire per purificazione, operazione questa in corso, anzi sempre in corso; per approfondimento: chi può dire di aver tutto capito, tutto valorizzato nel tesoro di parola, di grazia, di mistero, che portiamo con noi? quanto può crescere ancora il cristianesimo per questa via! E poi per applicazione: non si tratta tanto di inventare un cristianesimo nuovo per i tempi nuovi, quanto di dare al cristianesimo autentico i riferimenti nuovi, di cui esso è capace e di cui noi abbiamo bisogno. Non vi pare? A voi la Nostra Benedizione Apostolica.


LE CUSTODI DELLA VITA UMANA

La nostra parola di paterno saluto si rivolge ora ad un folto L gruppo di associate alla Federazione Nazionale dei Collegi, delle Ostetriche, venute a Roma per celebrare, con fede e pietà, la Festa della Visitazione di Maria Santissima, loro celeste protettrice. Vogliamo in questo momento ricordarvi i gravi doveri affidati a voi da Dio, dalla società civile e, in modo particolare, dalle famiglie, doveri che promanano dai principi affermati solennemente dal Concilio Vaticano II, quando ha proclamato che «Dio, autore della vita, ha affidato agli uomini l’altissima missione di proteggere la vita: missione che deve essere adempiuta in modo umano; perciò la vita, una volta concepita, deve essere protetta con la massima cura» (Cost. Past. Gaudium et spes GS 51). E quei principi sono stati, come sapete, da Noi ribaditi nella Enciclica Humanae Vitae, allo scopo di difendere la dignità della persona umana.

Siete quindi le custodi della vita umana, la quale si rinnova nel mondo, portandovi, col sorriso di un bimbo, la gioia (cfr. Jn 16,21) e la speranza di un futuro migliore.

La Chiesa ha sempre seguito e segue con materno interessamento e trepidazione i problemi umani e morali implicati nella vostra attività professionale (cfr. PIO XII, Alloc. Conventui Unionis Italicae inter Obstetrices, A.A.S. 43 [1951] pp. 835-854; PAOLO VI, Alloc. ad Conventum Societatis Italicae de Obstetricia, deque Gynecologia, A.A.S. 58 [1966] pp. 1166-1170); e Noi stessi Ci rivolgiamo anche a voi, quando trattando il problema della natalità, manifestiamo la Nostra altissima stima a tutti quei membri del personale sanitario, ai quali, nell’esercizio della loro professione, più di ogni interesse umano, stanno a cuore le superiori esigenze della vocazione cristiana (cfr. PAOLO VI, Lett. Enc. Humanae Vitae HV 27, A.A.S. 60 [1968] p. 500).

Questa vocazione cristiana comporta in voi, oltre che una seria competenza, profondo spirito di sacrificio, serena comprensione, costante pazienza, ferma fortezza, tenerezza materna, in breve, donazione e carità. Quelle virtù che l’Evangelista San Luca ha messo in risalto, con pochi tratti, nella Vergine Santissima, la quale, conoscendo la particolare situazione della parente Elisabetta, «si mise in viaggio, in tutta fretta, per la montagna, verso una città della Giudea» (cfr. Lc 1,39). Mentre vi presentiamo Maria, come sicura protettrice, ma anche come incomparabile modello, invochiamo dal Signore i copiosi doni della sua benevolenza sulla vostra attività, e vi impartiamo la Nostra confortatrice Apostolica Benedizione.



Mercoledì, 9 luglio 1969 IL LIBERO ARBITRIO NEL PENSIERO CATTOLICO

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Diletti Figli e Figlie!

Non vogliamo ancora una volta, in questa familiare conversazione, richiamarci al Concilio, osservando, come altra volta dicevamo, la mentalità che esso ha generata: una mentalità aperta su alcuni aspetti della vita cristiana, dei quali faremo bene a prendere coscienza e a delineare nei loro giusti termini, non isolandoli come concetti astratti, o come forme di vita a sé stanti, ma considerandoli nel disegno armonico della concezione genuina, rinnovata e globale del cattolicesimo.

Uno di questi aspetti è quello della libertà. Il Concilio ha parlato di libertà, riferendola a molte cose. La libertà è una parola magica. Essa dev’essere studiata con diligenza seria e serena, se non si vuole spegnerne la luce e farne un termine di confusione equivoca e pericolosa. Nessuno di noi vorrà confonderla con l’indifferenza ideologica e religiosa, tanto meno con l’individualismo eretto a sistema, o con l’irresponsabilità, il capriccio e l’anarchia. Vi sarebbe una lunga lezione da fare circa le distinzioni e le riserve sopra una parola di moda, che sembra avere stretta parentela con la libertà, la parola rivoluzione, con certi suoi derivati, oggi molto diffusi.


Ma considerata nel suo concetto umano e razionale, come autodeterminazione, come libero arbitrio, noi saremo fra i primi ad esaltare la libertà, a riconoscerne l’esistenza, a rivendicarne la tradizione nel pensiero cattolico, che ha sempre riconosciuto questa prerogativa essenziale dell’uomo. Basti ricordare l’Enciclica Libertas del 1888, di Papa Leone XIII. L’uomo è libero, perché dotato di ragione, e come tale giudice e padrone delle proprie azioni. Contro le teorie deterministiche e fatalistiche, sia a carattere interiore, psicologico, sia a carattere esteriore, sociologico, la Chiesa ha sempre sostenuto che l’uomo normale è libero, e perciò responsabile delle proprie azioni. Ella ha imparato questa verità non solo dagli insegnamenti della saggezza umana, ma altresì e soprattutto da quelli della rivelazione; ella ha ravvisato nella libertà uno dei segni primigenii della somiglianza dell’uomo a Dio, ricordando fra le moltissime questa parola riassuntiva della Sacra Scrittura: «Iddio da principio creò l’uomo, e lo lasciò in mano del suo arbitrio» (Eccli. 15, 14;
Dt 30,19). Ognuno vede come da questa premessa derivi la nozione di responsabilità, di merito e di peccato; e come a questa condizione dell’uomo sia collegato il dramma della sua caduta ‘e della redenzione riparatrice. Anzi la Chiesa cattolica ha sostenuto che nemmeno l’abuso iniziale, che il primo uomo fece della sua libertà, il peccato originale, ha compromesso nei suoi infelici eredi in modo totale, come sostenne un tempo la Riforma protestante, la capacità dell’uomo d’agire liberamente (cfr. S. AGOSTINO, De libero arbitrio, II, PL 32, 1239, ss.; Retract., ib. 595, ss.; S. TH., ; DS 1486 (776), DS 1521 (793); etc.).

Come pure la Chiesa ha sempre sostenuto che «nessuno può essere costretto con la forza ad abbracciare la fede» (Dich. Dignitatis humanae DH 12); ed anche ha affermato, durante la sua lunga storia, a prezzo di oppressioni e di persecuzioni, la libertà per ciascuno di professare la sua religione: nessuno, ella dice, dev’essere impedito, nessuno dev’essere costretto, in ordine alla propria coscienza religiosa (DH 2).


LA RESPONSABILITÀ PERSONALE

Semplificando assai l’immensa e complessa materia relativa, alla libertà, possiamo innanzi tutto osservare che il Concilio non ha affatto scoperto, o inventato la libertà; esso ne ha rivendicato alla coscienza personale i diritti inalienabili, li ha suffragati con la magnifica teologia del nuovo Testamento, li ha proclamati per tutti nell’ambito del civile consorzio; cioè ha sostenuto, oltre che l’esistenza, l’esercizio della libertà in due direzioni principali: la direzione personale, ammettendo per ogni uomo un alto grado di autonomia, riconoscendone il dominio alla coscienza, regola prossima e indeclinabile (cfr. Rm 14,23) dell’azione morale, tanto perciò più bisognosa d’essere illuminata dalla verità e sostenuta dalla grazia (cfr. Ga 5,1 Jn 8,36), quanto più da sola essa oggi tende a determinarsi (cfr. Gaudium et spes GS 16 GS 17); e la direzione sociale, esigendo, come dicevamo, una vera e pubblica libertà religiosa, nel rispetto però dei diritti altrui e dell’ordine pubblico (Dign. hum., n. 7 ecc.), e sostenendo il «principio di sussidiarietà» (GS 86), il quale, in una società bene organizzata, mira a lasciare la più ampia libertà possibile alle persone e agli enti subalterni, e a rendere obbligatorio solo ciò che è necessario per un bene importante, non altrimenti raggiungibile, e in genere per il bene comune (Dign. hum., n. 7).

La mentalità favorita dagli insegnamenti del Concilio porta il gioco della libertà, più che prima praticamente non fosse, nel foro interiore della coscienza, tende perciò a temperare l’ingerenza della legge esteriore, ma tende ad accrescere quella della legge interiore, quella della responsabilità personale, quella della riflessione sui massimi doveri dell’uomo, che sono la virile rettitudine nella pratica del bene fino alla perfezione della santità, e il senso della legge naturale, cioè della razionalità morale ontologica, che oggi tanto si ammira negli eroi antichi (cfr. ad esempio, nei protagonisti della tragedia greca) e nei moderni (nei campioni, ad esempio, della resistenza, della bontà e del sacrificio), mentre poi se ne discute, fino a dubitare della sua esistenza e della sua permanenza, (si vedano, ad esempio, certe contestazioni ai riferimenti alla legge naturale nella nostra Enciclica «Humanae vitae»). Sappiamo come il Vangelo abbia accentuato l’interiorità dell’obbligazione morale, come ne abbia fissato l’incomparabile sintesi nel precetto sommo e troppo oggi dimenticato dell’amore totale a Dio, dal quale deriva, per via di motivazione e di somiglianza, l’amore del prossimo, allargato a tutti, parenti, amici, estranei, lontani e nemici, cioè a tutta l’umanità. Questo indirizzo morale in favore della persona e della libertà particolare autorizza una più ampia e spontanea, ed anche più precoce esplicazione della libertà; genera un lecito pluralismo di costumi, in ciò ch’essi hanno di contingente; e favorisce la ricchezza delle libere e legittime espressioni locali, linguistiche, culturali; allarga, anche nell’interno della Chiesa, quella libertà di studi e d’iniziative, di cui già molto godevano i figli affezionati e fedeli (si veda, ad esempio, la molteplicità delle istituzioni organizzative, caritative, religiose, culturali, missionarie, che l’autorità della Chiesa, anche prima del Concilio, non solo permetteva, ma favoriva), e di cui oggi si ha tanto vivace desiderio ed in cui speriamo sia verace promessa di autentica vita cattolica.


PREROGATIVE DELLA COSCIENZA ADERENTE ALLA LEGGE

Avremo quindi un periodo nella vita della Chiesa, e perciò in quella d’ogni suo figlio, di maggiore libertà, cioè di minori obbligazioni legali e di minori inibizioni interiori. Sarà ridotta la disciplina formale, abolita ogni arbitraria intolleranza, ogni assolutismo; sarà semplificata la legge positiva, temperato l’esercizio dell’autorità, sarà promosso il senso di quella libertà cristiana, che tanto interessò la prima generazione cristiana, quando essa si seppe esonerata dall’osservanza della legge mosaica e delle sue complicate prescrizioni rituali (cfr. Ga 5,1). Noi dobbiamo perciò educarci all’uso schietto e magnanimo della libertà del cristiano, sottratto al dominio delle passioni (cfr. Rm 8,21) e alla servitù del peccato (Jn 8,34), e interiormente animato dal gioioso impulso dello Spirito Santo, giacché, come dice San Paolo, «coloro che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio» (Rm 8,14).

Ma dovremo nello stesso tempo essere coscienti che la nostra libertà cristiana non ci sottrae alla legge di Dio, nelle sue supreme esigenze di umana saggezza, di sequela evangelica, d’ascetismo penitenziale, e d’obbedienza all’ordine comunitario, proprio della società ecclesiale. La libertà cristiana non è carismatica, nel senso arbitrario, che oggi alcuni si arrogano: siate «liberi, c’insegna l’apostolo Pietro, senza farvi della libertà un mantello per coprire la vostra malizia, ma come servi di Dio» (1P 2,16); non è la sfida spregiudicata alla norma vigente nella società civile, la cui autorità, - è San Paolo che parla, - obbliga in coscienza (Rm 13,1-7), e nella società ecclesiastica, plasmata dalla fede e dalla carità, e governata da un’autorità rivestita di poteri non provenienti dalla base, ma da origine divina, per istituzione di Cristo e successione apostolica; poteri, se occorre indiscutibili (Lc 10,16 1Jn 4,6), e gravi (1Co 4, 2l), anche se sempre rivolti piuttosto che al dominio (cfr. 2Co 1,23 1Co 13,10), all’edificazione, cioè alla liberazione spirituale dei fedeli.

Dunque riassumiamo: il nostro tempo, di cui il Concilio si fa interprete e guida, reclama libertà. Noi dobbiamo sentirci felici e pensosi di questa nostra fortuna storica. Dove poi troveremo la vera libertà, se non nella vita cristiana? Ora la vita cristiana esige una comunità organizzata, esige una Chiesa, secondo il pensiero di Cristo, esige un ordine, esige una libera ma sincera obbedienza; esige perciò un’autorità, la quale custodisca e insegni la verità rivelata (2Co 10,5); perché questa verità è l’intima e profonda radice della libertà, come ha detto Gesù: «la verità vi farà liberi» (Jn 8,32). Ricordatelo, Figli carissimi. Con la Nostra Apostolica Benedizione.



IL MOVIMENTO DELL’OASI

Siamo lieti di dire una parola di benvenuto e di incoraggiamento ai sessanta sacerdoti, religiosi, religiose e laici, provenienti da varie Nazioni dell’America Meridionale, d’Africa e d’Europa, che partecipano ad un corso di Animatori del Movimento OASI. Vi è fra essi il Vescovo di Coimbra, Monsignor Francisco Rendeiro, e il Padre Rotondi, direttore del Movimento.

La vostra azione si vuole specializzare nell’apostolato giovanile, e per tale scopo ne state studiando l’aggiornamento alla luce degli insegnamenti del Concilio Vaticano II. La vostra è perciò un’azione tanto benemerita e necessaria: fermenti nuovi agitano il mondo dei giovani, esplodendo talora in forme che non possono certo essere approvate; ma è pur vero che i giovani di oggi hanno sete di autenticità, di lealtà, di verità, non amano scendere a compromessi, vogliono andare in fondo alle cose perché vedono attorno a sé necessità, sofferenze, ingiustizie. Beati quei giovani che trovano sul loro cammino chi, come voi, li può aiutare a capire se stessi, a migliorarsi, a donarsi per alti ideali costruttivi, vissuti nel possesso pacificante della grazia divina.

A tanto il Concilio ha chiamato i giovani, a più riprese, riconoscendo che il loro influsso è di capitale importanza per la Chiesa e per la società (Gauditim et spes, n. GS 7 GS 8; Apostolicam actuositatem, n. AA 12 AA 33; Gravissimum educationis GE 2) a tanto li ha esortati il messaggio finale ad essi rivolto, invitandoli alla fede nella vita, alle supreme certezze della Rivelazione, alla gioia dell’apostolato, affinché allarghino il cuore alle dimensioni del mondo. Noi vi esprimiamo perciò il Nostro compiacimento per la risposta che il Movimento OASI dà alle sollecitudini della Chiesa in un campo tanto delicato e promettente e invocando su di voi la pienezza dei doni divini, di cuore vi impartiamo la Nostra Benedizione.




Paolo VI Catechesi 25669