Paolo VI Catechesi 7170

Mercoledì, 7 gennaio 1970

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Diletti Figli e Figlie!

Pare a noi doveroso ricercare ancora nello spirito e nell’insegnamento del recente Concilio il tema di questo familiare colloquio. Noi supponiamo che voi, cari visitatori, abbiate in cuore una ovvia e legittima curiosità: che cosa sta pensando il Papa? qual è il filo delle sue riflessioni? Ecco la Nostra risposta: Noi continuiamo a pensare al Concilio. Questo avvenimento non si è concluso al termine dei suoi lavori, come un fatto storico, chiuso nel tempo; esso è stato un principio d’un rinnovamento della Chiesa, il quale deve svolgersi successivamente e attingere la vita della grande e intera comunità ecclesiale. Il Concilio ha lasciato un corpo d’insegnamenti, che non dobbiamo dimenticare; dobbiamo ricordarli, conoscerli, applicarli. Il Concilio deve continuare nella meditazione della Chiesa, infonderle una nuova mentalità, imprimerle un nuovo comportamento, rinnovarla, diffonderla, santificarla.



RINNOVAMENTO PERSONALE

Sappiamo bene che un’intera letteratura è scaturita dal Concilio e continua a offrirci opere nuove. Sappiamo parimente bene che opere ed istituzioni sono sorte dopo il Concilio, ed in virtù delle sue prescrizioni; e tutti sanno quanti e quali sviluppi dottrinali derivano dal Concilio ed alimentino gli studi e la cultura. Invochiamo lo Spirito Santo affinché questo processo dottrinale e canonico proceda felicemente. Ma qui ora Noi ci domandiamo: che cosa può fare e deve fare il singolo fedele in ordine al Concilio? Che cosa la singola comunità ecclesiale ? La risposta ci porta a considerare, in modo speciale, le esigenze morali derivanti dagli insegnamenti e dalla celebrazione stessa del Concilio. Cioè, dobbiamo tutti riflettere quale applicazione coerente, sia nel modo di pensare, sia in quello di agire, noi dobbiamo promuovere in ordine al Concilio, ammesso che ciascuno di noi voglia attribuire a questo grande fatto un’importanza pratica e benefica, non solo per tutta la Chiesa, ma altresì per la nostra vita morale, per il rinnovamento della nostra concreta e personale professione cristiana.

Sarà bene iniziare questa riflessione tracciandole subito una via retta per evitare due eventuali e pericolose deviazioni. La prima deviazione è quella di credere che il Concilio ha aperto un’era talmente nuova da autorizzare una svalutazione, un distacco, un’intolleranza verso la tradizione della Chiesa. Esiste in molti uno stato d’animo di radicale insofferenza verso lo «ieri» della Chiesa: uomini, istituzioni, costumi, dottrine, tutto è senz’altro accantonato, se porta l’impronta del passato. È così che uno spirito critico implacabile condanna in questi irrefrenabili innovatori tutto il «sistema» ecclesiastico di ieri: essi non vedono più che colpe e difetti, inabilità e inefficienza nelle espressioni della vita cattolica degli anni trascorsi; con conseguenze che si presterebbero a molte e gravi considerazioni, e che oscurano quel senso storico della vita della Chiesa, ch’è pur preziosa caratteristica della nostra cultura. Esso è sostituito da una facile simpatia a tutto ciò ch’è fuori della Chiesa; l’avversario diventa simpatico ed esemplare, l’amico invece diventa antipatico e intollerabile. Se questo processo non è moderato, esso dà luogo perfino alla persuasione che sia lecito prospettare l’ipotesi d’una Chiesa del tutto diversa da quella odierna e nostra; una Chiesa inventata, si dice, per i tempi nuovi, dove sia abolito ogni vincolo di obbedienza molesta, ogni limite alla libertà personale, ogni forma d’impegnativa sacralità. Questa deviazione è pur troppo possibile; ma è da sperare che la sua stessa evidente eccessiva misura ne denunci l’errore: non certo a questa disintegrazione della realtà storica, istituzionale e collaudata vuol tendere l’aggiornamento», cioè il rinnovamento della Chiesa, patrocinato dal Concilio.

Altra deviazione sarebbe data dal confondere la consuetudine con la tradizione, e dal credere perciò che il Concilio sia ormai da considerarsi chiuso e inefficiente, e che i veri nemici della Chiesa promuovono e accolgono le novità derivanti dal Concilio stesso. La tradizione, cioè la consuetudine, dicono, deve prevalere. Anch’essi questi difensori dell’immobilismo formale del costume ecclesiastico, forse per eccesso d’amore, finiscono per esprimerlo questo amore in polemiche con gli amici di casa, quasi questi, più che altri, fossero infedeli e pericolosi.



LA VOCE DEI PASTORI

E allora la retta via qual è? È quella che l’autorità responsabile dei Pastori della Chiesa, e nostra, traccia davanti alla comunità ecclesiale. La voce pastorale non tace. I buoni la ascoltano. Non la ignorano, non la trascurano. Siamo fermamente persuasi, nel Signore, che la Chiesa possa non solo conservare i suoi quadri efficienti e compiere la sua missione di salvezza e di pace, in quest’ora critica della sua storia e grave per quella del mondo, se la funzione pastorale avrà libero, chiaro, forte ed amoroso il suo esercizio e se la comunità del Clero e dei Fedeli lo capirà e lo asseconderà.

E dove si dirige questa via?

La domanda entra nell’ordine di idee, che Noi proponevamo all’inizio di queste parole, cioè tende a sapere quale linea morale e spirituale (fermiamoci a questa, per ora) offre il Concilio alla Chiesa; perché è appunto su questa linea che si muovono i passi della guida pastorale.



CRISTO AL VERTICE DELLA NOSTRA VITA

Accenniamo appena, per concludere, ad alcuni criteri preliminari. Questo, ad esempio, che è di tutta evidenza e di tutta necessità: la coerenza. Il cristiano deve ricomporre la sua unità spirituale e morale; non basta chiamarsi cristiani, bisogna vivere da cristiani. È l’antica massima fondamentale dell’Apostolo: Iustus ex fide vivit, l’uomo giusto, il cristiano autentico, deriva la norma, lo stile, la forza della sua vita dalla fede. Non vive solo con la fede, ma secondo la fede. Questo è un principio basilare. Se ne potrà parlare altre volte. Questo è il cardine del rinnovamento voluto dal Concilio.

Potremmo aggiungere due altri criteri fondamentali; li enunciamo appena, per non tediarvi più a lungo con questo discorso. Eccoli: bisogna mettere Cristo al vertice, al centro, alla sorgente della nostra vita; cioè del nostro pensiero, del nostro costume. Egli deve essere il Maestro, l’esempio, il pane della nostra vita personale. E bisogna entrare nella concezione comunitaria della vita cristiana, anche di quella interiore e personale; cioè bisogna entrare nell’ordine della carità. La carità è il distintivo di coloro che seguono Cristo; ricordiamolo sempre (Cfr.
Jn 13,35).

Renda fecondi in voi questi accenni fugaci la Nostra Benedizione Apostolica.




Mercoledì, 14 gennaio 1970

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Diletti Figli e Figlie,

Nessuno sfugge in quest’ora della nostra storia alla vertigine dell’incertezza. Lo sappiamo: troppe cose cambiano intorno a noi; il senso del mutamento passa dalle cose agli spiriti. Il bisogno d’aderire alla realtà mette in dubbio le nostre idee acquisite, le nostre posizioni interiori, le nostre abitudini; perché la realtà esteriore è in continuo cambiamento, il mondo in progressiva trasformazione. L’esperienza delle cose nuove, dei fatti in movimento, delle idee originali ci attrae, e diventa spesso criterio di verità. Crediamo d’essere liberi, perché ci affranchiamo da ciò che abbiamo imparato, perché ci sottraiamo all’obbedienza e alla normalità, perché ci fidiamo del nuovo e dell’ignoto; e spesso non ci accorgiamo di diventare seguaci delle idee altrui, imitatori delle mode imposte dagli altri, gregari di chi più osa e più si distacca dal senso comune. Chi definisce teoricamente questo, oggi tanto diffuso, atteggiamento, parlerà di relativismo: cioè noi diventiamo relativi a ciò che fuori di noi ci circonda e ci condiziona; parlerà di storicismo: cioè noi ci arrendiamo alla fugacità del tempo e non abbiamo più il gusto delle cose che restano e che conservano la loro ragione d’essere; parlerà d’esistenzialismo: cioè troverà in ciò che esiste o in ciò che si fa il criterio superiore di valutazione, senza cercarne la misura nella verità e nell’onestà. E così via. Ma parlando col linguaggio semplice del senso comune dovremo riconoscere che un fenomeno di debolezza c’investe tutti; un’inquietudine abituale e interiore ci toglie la sicurezza, la soddisfazione di ciò che siamo e di ciò che facciamo; poniamo la nostra speranza nella trasformazione, nella rivoluzione, nella metamorfosi radicale del patrimonio, che la tradizione e il progresso stesso ci hanno procurato. Vero è che noi oggi abbiamo anche molte buone ragioni per tendere a qualche innovazione: noi abbiamo ora, più che in passato, l’avvertenza delle tante cose imperfette e ingiuste, che esistono, resistono e alle volte crescono d’intorno a noi; e ci facciamo dovere di rimediare e d’inventare cose migliori.



LA VIRTÙ DELLA FORTEZZA

Ma in questo turbamento spesso si resta disorientati. Non si sa più che cosa sia bene pensare e fare. Dobbiamo essere riconoscenti a quelli che studiano, pensano, vedono, insegnano e guidano con vero senso umano. Si riabilita dinanzi a noi la ragione: il bene dell’uomo non può essere che ragionevole (Cfr. S. TH.,
II-II 123,1). E si riabilita il magistero di chi con responsabilità e con sapienza insegna agli altri il valore delle cose e il senso dei fini. Possiamo aggiungere: si riabilita l’autorità, cioè la funzione di chi legittimamente presta agli altri il servizio della guida e dell’ordine. Ma ancora aggiungiamo: dobbiamo stima ed appoggio a chi, personalmente, o nell’esercizio dei propri doveri si mantiene forte. La fortezza non è virtù oggi abbastanza onorata: suppone principi, suppone logica, suppone libertà personale, suppone spesso impopolarità e sacrificio, suppone fedeltà a qualche impegno irreversibile, a qualche scelta irrevocabile, a qualche legge indiscutibile.

Figli carissimi, non vogliamo fare in questo momento né l’analisi, né la critica del nostro tempo. Accenniamo appena alla confusione, che invade tante zone del pensiero moderno e dell’attività odierna, per ricordare come pur troppo una certa confusione penetri anche nella vita religiosa e nello sforzo stesso, che la Chiesa, dopo il Concilio, sta facendo per ritrovare se stessa, per migliorare se stessa. L’esame di coscienza, provocato dal Concilio, sta producendo, noi crediamo, ottimi frutti: tutto, si può dire, è sottoposto a riflessione, e molte cose sono in via di revisione; voi lo sapete, voi lo vedete; e se lo Spirito Santo assiste la Chiesa nel suo duplice intento fondamentale d’essere cioè quale Cristo la vuole, e di abilitarsi sempre meglio, facendo uso delle sue tradizioni istituzionali e delle sue esperienze spirituali, a infondere nel mondo moderno le energie della fede e della grazia, il suo volto apparirà tutt’oggi giovane e sereno, con lo sguardo che tutto vede, la storia passata, il dramma presente, la speranza, e con la bellezza della santità e della conformità al suo divino prototipo, il Figlio di Dio fattosi Figlio dell’uomo (Cfr. Rm 8,29).

LA BASE DEL CONCILIO

Questa è la base: il Concilio. Dovere nostro è di attenerci a questa grande parola, che la Chiesa, nella pienezza della sua coscienza e della sua autorità, nell’invocazione e nell’obbedienza al carisma dello Spirito Santo, che l’assiste e la fiancheggia, nella visione del mondo, in cui vive e per cui vive, ha pronunciata per questa ora della storia. Nel Concilio è la chiarezza; nel dopo-Concilio sia la fortezza.

Perché, voi lo sapete, voi lo vedete, il risveglio, non solo autorizzato, ma promosso dal Concilio, tende ad assopirsi in molti cristiani e in molte forme di vita cristiana; l’indolenza ci vince, la pigrizia sembra togliere e sciogliere ogni questione; ovvero il risveglio si traduce in spirito critico corroditore e demolitore; impugna l’obbedienza, e lascia all’arbitrio modellare a piacimento una comoda concezione della Chiesa, più conforme allo spirito e al costume del mondo, che non alle esigenze del suo genio soprannaturale e della sua missione apostolica.

Per questo vi diciamo: stiamo al Concilio. Esso ci deve togliere quel senso d’incertezza, che tanto turba oggi l’umanità. Pellegrini nel tempo, noi abbiamo la nostra lampada che rischiara il cammino. Noi vorremmo infondere in voi quel conforto che viene dalla sicurezza di sapere che si cammina per la buona strada. Lo diciamo a voi, Sacerdoti, assaliti da tanti dubbi sul vostro essere, nella Chiesa e nel mondo; non temete, rileggete la pagina del Concilio, che vi riguarda, e andate avanti con fiducia e con coraggio. Lo diciamo a voi, Religiosi; anche voi aggrediti dalle critiche alla scelta magnanima, che qualifica la vostra vita: avete scelto «l’ottima parte», e se voi siete fedeli e forti nella vostra singolare vocazione, «nessuno ve la toglierà» (Cfr. Lc 10,12); non temete. A voi, giovani, militanti per la contestazione: le ragioni di giustizia e di libertà, che vi fanno aspirare ad una nuova, più vera e più fraterna vita sociale, non saranno eluse ed inoperanti, solo che le tante energie, di cui disponete e di cui molte volte alcuni fra voi più animosi fanno forse inconsciamente sperpero fuori e contro il nome di Cristo, le vogliate convogliare nell’alveo della autentica vita ecclesiale; non temete che la Chiesa non vi sappia accogliere e comprendere, e che la fermezza dei suoi principi possa paralizzare la vostra vivacità; essi sono cardini e non ceppi; non temete! Voi tutti, fedeli fervorosi e pensosi del Popolo di Dio: sappiate aderire con fermezza alla santa Chiesa, di cui voi siete membra vive e sante; e non temete; ascoltate, sopra il frastuono oggi circostante, la voce sicura e ineffabile, perché divina, di Cristo: «Abbiate fiducia, Io ho vinto il mondo» (Jn 16,33).

Con la Nostra Apostolica Benedizione.



Mercoledì, 21 gennaio 1970

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Diletti Figli e Figlie!

Tutta la Chiesa nel mondo sta celebrando la «settimana di preghiera per l’unità», per la reintegrazione cioè nell’unica Chiesa voluta da Cristo di tutti i Cristiani, insigniti dell’onore e della responsabilità di questo nome e tuttora suddivisi in tante frazioni e separati fra di loro e dalla comunione con la Chiesa. Man mano che cresce l’evidenza di questo fondamentale dovere che chiunque si chiama Cristiano sia per ciò stesso obbligato a conservare, come scrive S. Paolo, «l’unità dello spirito nel vincolo della pace: un corpo solo, un solo spirito, come in unica speranza siete stati chiamati; uno è il Signore, una la fede, uno il battesimo, uno Iddio e Padre di tutti» (
Ep 4,3-6), cresce insieme la coscienza, il desiderio, il bisogno di restaurare ciò che la Chiesa essenzialmente è, cioè una comunione (Cfr. HAMER, L’Eglise est une communion, Cerf 1962), cresce il disagio, il dolore della insostenibile frantumazione del nome cristiano, cresce l’impazienza di vedere e di godere gli effetti dell’ecumenismo; ma nello stesso tempo si avvertono le difficoltà a raggiungere una riconciliazione sincera ed effettiva fra i Cristiani: sono passati secoli, che hanno cristallizzato questa anormale condizione storica; si sono fatte discussioni e polemiche senza fine da tutte le parti; si sono affermate personalità di grande rilievo intellettuale, morale e spirituale, che hanno difeso e illustrato la propria distinta posizione; sono state fissate composizioni pratiche, di compromesso politico-religioso, evidentemente contrario all’unità cristiana e all’autonomia della Chiesa, come quello di attribuire a differenti territori geografici differenti denominazioni cristiane, e a Principi secolari il dominio in campo religioso (così avvenne con la contrastata pace di Westfalia, dopo la guerra dei trent’anni, a Münster, nel 1648, stabilendo l’assurdo principio: cuius regio eius et religio); si è formata nelle varie Chiese separate e nelle diverse confessioni cristiane una tradizione, una mentalità, una. buona fede; si sono scritti volumi e volumi in difesa di dati sistemi teologici, uno differente dall’altro; si è rivestita la propria Chiesa d’un manto d’intangibile ortodossia; ovvero si è dato pacifico corso al principio del libero esame, autorizzando ogni personale e arbitraria interpretazione della Bibbia, negando autorità al magistero cattolico e accettando quello d’innumerevoli e contrastanti maestri . . . Dov’è, dov’è l’unità della fede, della carità, della comunione ecclesiale?



TENTATIVI ARBITRARI

Le difficoltà sembrano insormontabili! L’ecumenismo sembra consumarsi in un conato illusorio! Anche perché i generosi tentativi dell’ecumenismo moderno acattolico, dovendo riconoscere a ciascuna denominazione cristiana la propria credenza, risveglia, sì, e stimola il problema dell’unità, ma non può risolverlo senza quell’autorità e quel carisma precisamente dell’unità, che noi riteniamo essere la divina prerogativa di Pietro. Ma Pietro allora, dicono, alcuni, non potrebbe rinunciare a tante sue esigenze, e non potrebbero cattolici e dissidenti celebrare insieme l’atto più alto e definitivo della religione cristiana, l’Eucaristia, e proclamare finalmente raggiunta la sospirata unità? Pur troppo non così. Non per questa via di fatto, l’intercomunione, come ora si dice, si può conseguire l’unità: come lo sarebbe senza una medesima fede, senza un identico e valido sacerdozio? È di questi giorni la chiara ed autorevole notificazione del Segretariato per l’unione dei cristiani che ricorda il divieto dell’intercomunione (salvo per casi speciali e determinati), e diffida i Cattolici a farvi ricorso. Non è una via buona; è una deviazione.

Voi ci chiederete allora se non siamo dinanzi ad un problema insolubile, tanto sono numerose e gravi le difficoltà, e tanto sono vani, anzi dannosi i tentativi abusivi e conformisti per una fittizia unità.

No, Figli carissimi, non dobbiamo disperare nell’esito felice dell’ecumenismo promosso dal recente Concilio Vaticano, anche se arduo, lento e graduale. Vi ricordiamo innanzi tutto che molto, moltissimo ha già guadagnato la causa dell’ecumenismo. Non foss’altro l’idea, che ci sembra ormai vittoriosa: il cristianesimo è uno solo. L’unità è voluta da Cristo. Una Chiesa unica la deve esprimere. La causa religiosa ne ha bisogno. Se questo è il dovere e l’interesse dei Cristiani, l’unità dovrà ristabilirsi. Da un movimento storico e spirituale centrifugo siamo già passati ad un orientamento centripeto. Anche passi notevoli affinché l’orientamento diventi movimento verso la comunione ecclesiale e universale sono stati fatti e sono oggi fervorosamente in corso.

La popolarità dell’idea ecumenica si diffonde e guadagna gli spiriti retti e credenti. Il Popolo di Dio pensa, prega, opera, attende e soffre per la sua piena ed autentica unità. A Roma, quest’anno, il Nostro Cardinale Vicario ha promosso una più intensa e generale celebrazione di questa Settimana per l’Unità di tutti i Cristiani. A livello ufficiale e rappresentativo sono in corso studi, incontri, discussioni, proposte per risolvere le delicate e molteplici questioni relative alle divisioni che ancora non consentono riconciliazioni e reintegrazioni nell’unica Chiesa. Si parla molto di carità fra Cristiani tuttora separati, non più di disprezzo, di diffidenza, di indifferenza. Iniziative comuni nel campo culturale, sociale, caritativo già trovano fraterna e leale collaborazione fra cattolici e acattolici. Già da tutte le parti si cerca di meglio conoscersi, di rispettarsi, di aiutarsi. La prospettiva che quanto è di vero, di buono, di bello nelle differenti espressioni cristiane potrà essere conservato e integrato nella pienezza d’una medesima confessione di fede, di carità, di comunione ecclesiale si delinea in una sincera possibilità, che attende anime grandi, di pastori, di maestri, di artisti, di santi per il compimento di tanto prodigio.

E altro ancora, a comune conforto, si potrebbe dire a prova d’un ecumenismo positivo e progressivo. Ma ripetiamo: la via è lunga, la via è scabrosa, per fare a noi stessi, cattolici, una domanda: che cosa possiamo fare per abbreviare e appianare la via? Ciascuno la ponga a se stesso: io, che cosa posso fare per favorire la causa evangelica dell’unico ovile e del Pastore posto a rappresentare l’unico, sommo e invisibile Pastore, ch’è Cristo Signore? (Cfr. Jn 10,16).



UN ESAME DI COSCIENZA

È un esame di coscienza, che ci dobbiamo tutti proporre. Risposta generica, e per tutti valida. Procuriamo d’essere cattolici veri. Cattolici convinti. Cattolici fermi. Cattolici buoni. Non può essere un cattolicesimo diluito, approssimativo, mascherato, e tanto meno se smentito nel costume quello che avvicinerà noi ai Fratelli separati, ed i Fratelli separati a noi. Un mimetismo religioso e morale verso forme di facile e discutibile vita cristiana non abilita alla testimonianza, né all’apostolato, e neppure attrae a sé per le vie della stima, dell’esempio, della fiducia; serve solo a svilire la causa di Cristo e della sua Chiesa. Torna a proposito l’insegnamento del Concilio, e proprio1 in ordine all’ecumenismo: affinché sia efficace l’attrattiva all’unità nella Chiesa di Cristo «tutti i Cattolici devono tendere alla perfezione cristiana» (Unitatis redintegratio UR 4). Potremmo a questo punto concludere elencando le virtù che da parte nostra possono appianare la via per l’incontro con i Fratelli cristiani tuttora da noi separati: prima virtù, l’unità fra di noi cattolici: ogni divisione, ogni litigio, ogni separatismo, ogni egoismo in seno alla nostra comunione cattolica colpisce la causa ecumenica, ritarda e arresta il cammino per l’incontro felice, smentisce la Chiesa, i cui membri si caratterizzano, come ci ha insegnato il Signore, dalla dilezione scambievole (Cfr. Jn 13,35). Altre virtù: la fermezza e la semplicità della fede, nutrita dalla Parola di Dio e dal Pane Eucaristico; l’umiltà, poi, per il dono che ci è stato fatto d’averla integra e vera: la bontà a tutti aperta e generosa; lo spirito di servizio e di sacrificio; l’amore a Cristo, a Cristo crocifisso e risorto.

E alla fine, lo sappiamo, come sempre, occorre la preghiera. L’impresa, come dicevamo, è così superiore alle nostre forze, che la forza del Signore è indispensabile. Invocarla dobbiamo, piamente, umilmente, fiduciosamente. Tutti, e sempre.

Su questi pensieri, su questi propositi scenda la Nostra Apostolica Benedizione.

Movimento dei Focolari da varie nazioni

Siamo lieti di salutare con un cenno di particolare distinzione i centoventi volontari del Movimento dei Focolari, che sono venuti dalla Spagna, dal Portogallo, dalla Francia, dal Belgio, dall’Olanda, dall’Inghilterra, dalla Svizzera e dalla Germania per partecipare ad un corso di formazione specifica.

Diletti figli, vi diamo il Nostro cordiale e paterno benvenuto.

Sappiamo che, in questi giorni, vi dedicate all’approfondimento della Sacra Scrittura e della vita spirituale; che discutete sui problemi di maggiore incidenza sulla società di oggi, per comprenderli sempre meglio e darvi la risposta necessaria; sappiamo ancora che vi scambiate fraternamente le esperienze di apostolato, che ciascuno di voi ha acquisito nel suo lavoro in mezzo ai vari ambienti sociali.

Desideriamo esprimervi il Nostro compiacimento per il significato e il valore che la vostra presenza assume. Effettivamente, il vostro manipolo di generosi, che si dedicano ai pensieri del Regno di Dio per maturarsi interiormente, per affilare le armi, diciamo così, per la loro futura attività, e per essere sempre meglio abilitati alla testimonianza che la Chiesa e il mondo si aspettano da voi, è uno spettacolo che conforta e allieta: voi rappresentate una realtà viva, profonda, esaltante, quella delle anime che, in ogni Paese, in ogni condizione e in ogni campo sociale, si dedicano a Cristo e agli uomini, facendo fruttificare in pienezza i loro talenti.

Vi conforti nel quotidiano impegno il Nostro incoraggiamento e la Nostra preghiera: e non abbiate timore, la grazia di Dio è con voi a fortificarvi e a sostenervi, nella certezza che «Colui, il quale ha iniziato in voi opera così eccellente, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù» (Ph 1,6).

Vous, jeunes «volontaires» européens du «Mouvement des Focolari», Nous vous encourageons volontiers à vous ressourcer à la Parole de Dieu, pour vous préparer profondément à votre apostolat de charité. A tous Nous donnons de tout coeur Notre paternelle Bénédiction Apostolique.

I corsi dell’OASI

Queridos filhos do Brasil e demais peregrinos aqui presen- tes, de língua portuguesa.

Com grande alegria e afecto vos saudamos a todos.

Muitos de vós vieram dos «Oasis», da vida apostólica quotidiana, da pátria longínqua, ao «deserto» deste encentro romano, de Animadores do Movimento, para, em fraterna intimidade, melhor ouvirem a voz do Senhor, a falar-lhes ao coração (Cfr. Os Os 2,16). E, certamente que Ele falou e disse muitas coisas - sobre o ideal de servir, em disponibilidade total, os irmãos jovens, tão numerosos e ricos de generosidade, no imenso e belo Brasil.

Levai todos, Filhos caríssimos, para a juventude das vossas terras, como lembranca do Papa, a certeza de que Ele a estima muito e confia nela. E a vós, jovens aqui presentes, esta palavra: sede sempre almas de fogo, a aquecer e a animar, com o amor de Deus, os vossos ambientes; amor divino fundado na esperanca, a florir em fortaleza cristá e em sede de justica e paz no Reino de Cristo; e, sobretudo, testemunhado em prudencia e temperanca de vida, vivida em grata esplendorosa, para que frutifiquem os bons propósitos que animam o vosso entusiasmo juvenil.

A tanto vos ajude e conforte a Nossa Bênção Apostólica.

Mercoledì, 28 gennaio 1970

28170
Diletti Figli e Figlie!

Noi andiamo cercando, in questi anni dopo il Concilio, lo stile della nostra vita morale, l’arte nuova della nostra attività in ordine alla nostra fede, il modo con cui interpretare nella pratica la nostra professione cristiana. E tutti avvertiamo, primo, che la Chiesa, la teologia circa la Chiesa, deve esercitare un influsso preminente nella nostra concezione religiosa, e che dalla dottrina della Chiesa, dall’idea che noi ci facciamo della Chiesa deve dipendere grande parte della nostra condotta e della nostra religiosità. La Chiesa deve dare l’impronta caratteristica nuova alla nostra adesione al cristianesimo. Quello che il Concilio ci ha insegnato sulla Chiesa investe la forma della nostra moralità.

Secondo. Noi avvertiamo che il Concilio ha sviluppato l’insegnamento della Chiesa su diversi aspetti della vita umana, dai quali la persona risulta esaltata, ingrandita, affrancata, collocata in un certo senso al centro del sistema dottrinale e pratico della religione cristiana. Il Concilio parla di vocazione, di coscienza, di libertà, di responsabilità, di perfezione dell’uomo. L’antropologia viene innalzata e nobilitata, non certo a discapito della teologia e della cristologia; ché anzi da queste altre dottrine essa deriva la sua luce e la sua consistenza; ma certo è che l’uomo esce gigante dal Concilio, e capace di misurare vittoriosamente la sua statura e la sua efficienza con quelle che l’umanesimo profano contemporaneo attribuisce al suo tipo idolatrico di uomo pensante, operante, trafficante, gaudente, sofferente del mondo moderno.

Se così ci appare, in sintesi estremamente semplificatrice, ma esatta, l’insegnamento morale del Concilio, Noi osiamo offrire alla vostra riflessione una formula: la Chiesa è un’obbedienza, un’obbedienza liberatrice. Una formula paradossale, a prima vista poco attraente. Ma esaminatela un po’: un’obbedienza liberatrice.



PONTE TRA DIO E L'UMANITÀ

Che la Chiesa sia un’obbedienza, nel senso generale di questo termine, è chiaro. Sappiamo che la Chiesa è una società, è una comunione, è un Popolo organizzato e governato pastoralmente: tutto ciò implica un’adesione qualificata? un’obbedienza. Questo sul piano, come ora si dice, orizzontale. Tanto più si deve dire sul piano verticale. La Chiesa è segno, il sacramento, il ponte tra Dio e l’umanità; tra Dio che proietta la luce della sua rivelazione sopra l’umanità, che, entrando, mediante la fede, nel cono di quella luce, rivive alla grazia, acquista un nuovo principio di vita, ed è chiamata ed aiutata a vivere in forma soprannaturale. Cioè la Chiesa, tramite Cristo, è un rapporto ben determinato con Dio. La volontà di Dio, la nuova sua volontà a riguardo dell’uomo, la carità, diventa un rapporto assai esigente. Al « fiat » divino, che instaura l’economia della salvezza, deve rispondere il «fiat» umano, che accetta di entrare in tale sublimante economia. Maria insegna: «Sia fatto di me secondo la tua parola» (la parola dell’angelo annunciatore) (
Lc 1,38). Gesù insegna: «Non chiunque mi dice: Signore! Signore! entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio, che è nei cieli» (Mt 7,21). Fare la volontà del Padre è la condizione, è la norma; l’obbedienza è la virtù morale fondamentale che fonda le nostre relazioni con Cristo e con Dio: la Chiesa le instaura, e ci apre le labbra a ripetere la preghiera evangelica: fiat voluntas Tua.

LA REGOLA DELLA FEDE

E la dimostrazione che l’obbedienza sia legge costituzionale della Chiesa, reperibile in ogni catechismo ed in ogni libro di spiritualità e di socialità cattolica, si documenta con innumerevoli testi, anche quando l’obbedienza è considerata come virtù particolare, cioè come sottomissione di uomini ad altri uomini, nell’esercizio dell’autorità; perché, come in ogni società, l’autorità esiste, l’autorità è indispensabile; con questo duplice carattere: che l’autorità nella Chiesa non sorge dalla base, né, per sé, dal numero, ma deriva dall’originaria e immutabile istituzione di Cristo, come tutti sanno; e che l’autorità nella Chiesa ha per oggetto non solo le azioni esterne di chi ne accetta la guida, ma, in una certa misura, anche alcune e non piccole azioni interne, come, ad esempio, la regola della fede: libera l’adesione alla fede, ma poi vincolante la norma della fede stessa, norma di cui la Chiesa è garante e tutrice. Dice S. Paolo: «. . . le armi della nostra milizia sono . . . potenti in Dio . . . distruggendo noi i falsi ragionamenti . . . e sottomettendo ogni intelligenza all’obbedienza di Cristo; potendo noi anche punire ogni disobbedienza, quando la vostra obbedienza non sia completa» (2Co 10,5-6). Così l’Apostolo della libertà: «di quella libertà, egli dice, con cui Cristo ci ha liberati» (Ga 4,31); «perché, egli ripete ai primi cristiani, voi siete chiamati a libertà . . .» (Ibid. 5. 13).

Donde la domanda: come si spiega questo doppio linguaggio? quale è il significato di queste parole: obbedienza e libertà? Quale il loro valore pratico? E veramente qui si dovrebbe fare una lezione esegetica, cioè di chiarimento dei termini scritturali, che ora ci interessano, e specialmente su due, che nei testi biblici hanno sensi diversi, quelli di legge e di libertà.

Ma per ora a Noi basta notare come la formula, che vi abbiamo enunciato: la Chiesa è un’obbedienza liberatrice, non includa contraddizione. Come l’essere associati ad un ordine costituisce la liberazione da un ordine diverso, e, nel caso umano, da un disordine, e quanto grave e fatale, così l’appartenere all’ordine della Chiesa esige, sì, un’adesione di cosciente e virile uniformità, ma nello stesso tempo conferisce una liberazione dalle catene più pesanti: quelle dell’ignoranza su Dio e sul nostro destino, del peccato, della solitudine, della caducità e della morte; liberazione che mette in azione intensiva, libera e responsabile le facoltà dell’uomo: intelligenza, volontà ed anche ogni ricchezza della sua psiche e della sua capacità autoformatrice, e quindi la sua abilità espressiva nella sfera del bene, della giustizia, dell’amore e dell’arte.



GUARDARSI DALLA STANCHEZZA DELLA VERITÀ

Tutto sta a comprendere veramente che cosa è la Chiesa, qual è l’educazione ch’ella ci vuol dare, qual è la fortuna d’esserle figli, qual è l’esigenza d’esserle fedeli.

Grande tentazione della nostra generazione è quella della stanchezza della verità, che abbiamo il dono di possedere. Molti, che sentono la gravità e l’utilità dei cambiamenti registrati nel campo scientifico, strumentale e sociale, perdono la fiducia nel pensiero speculativo, nella tradizione, nel magistero della Chiesa; diffidano della dottrina cattolica; pensano di affrancarsi dal suo carattere dogmatico; non vorrebbero più definizioni per tutti e per sempre vincolanti; si illudono di ritrovare un’altra libertà, non più apprezzando quella di cui godono, alterando i termini della dottrina sancita dalla Chiesa, o dandovi un’arbitraria e nuova interpretazione, con sfoggio d’erudizione ed ancor più d’insofferenza psicologica, e sognano forse di modellare un tipo nuovo di Chiesa, che risponda alle loro intenzioni, nobili ed alte talvolta, ma non più autentico, quale Cristo la volle e nella esperienza storica sviluppò e maturò. Succede allora che l’obbedienza si allenta, e con essa la libertà, caratteristica del fedele credente ed operante nella, con la, e per la Chiesa, parimente decresce ed è sostituita dall’inavvertito ossequio ad altre obbedienze, che possono diventare pesanti e contrarie alla vera libertà del figlio della Chiesa.

Newman, il grande Newman, alla conclusione della sua famosa apologia pro vita sua, ci dice della sua pace nella sua adesione alla Chiesa cattolica: esempio da ricordare.

Vi conforti tutti nella vostra fedeltà la Nostra Apostolica Benedizione.


Mercoledì, 4 febbraio 1970


Paolo VI Catechesi 7170