Paolo VI Catechesi 11370

Mercoledì, 11 marzo 1970

11370
Diletti Figli e Figlie!

Uno degli aspetti meno compresi, potremmo dire meno simpatici, della vita cristiana per noi moderni è la rinuncia. Siamo così stimolati dalla varietà, dalla quantità, dalla disponibilità delle conquiste oggi acquisite per la comodità della vita, per la ricchezza delle sue esperienze, per la sua pienezza e per la sua felicità, che ci sembra assurdo rinunciare a qualche cosa, specialmente se la rinuncia riguarda la formazione, l’educazione, la cultura, il benessere dell’uomo. Noi misuriamo spesso la nostra inserzione nel tempo e nel mondo dalla nostra capacità di provare, di conoscere, di possedere ciò che il tempo ed il mondo ci offrono. A questa esteriore esibizione risponde una interiore avidità di tutto vedere ed avere, di tutto sperimentare e godere. Il progresso che ci circonda trova l’uomo preparato a profittarne, perché maturo, perché libero, perché convinto che così è la vita: la sua perfezione, il suo ideale è l’ampiezza del rapporto fra i beni della civiltà e lo spirito umano. Anche se questo rapporto praticamente si riduce nei limiti delle possibilità concrete, economiche o sociali che siano, ciascuno è portato a concepire la propria esistenza in termini di successo, di ricchezza, di comodità, di piacere. Si vuole godere la vita, anche se le si propone un programma di dignità e di onestà; godere, almeno nei limiti della possibilità e della decenza, ma più che si può. Limitarla, non mai.

Questa, pare a Noi, la mentalità oggi diffusa, umanistica, edonista. Essa penetra, e spesso con chiavi autentiche, anche nella concezione cristiana della vita contemporanea: non è forse, si dice, il cristianesimo la forma migliore della nostra esistenza? non tende esso forse a risolvere tutti i problemi che fanno ingiuste e infelici le sue condizioni? non vuole consolare ogni sofferenza e placare ogni affanno? ed oggi poi non ci educa esso a guardare con simpatia le cose di questa terra, che la scienza e la tecnica e l’organizzazione civile hanno reso così feconda, così prodiga di doni utilissimi, bellissimi, interessantissimi? Anche il cristiano si adagia volentieri sul morbido cuscino degli agi procurati dalla civiltà.



MENTALITÀ CENSURABILE

Ora non ci fermeremo a fare una critica analitica di questa mentalità, censurabile quando diventa prevalente ed esclusiva. Sappiamo tutti, noi pensiamo, come una simile mentalità, invece d’ingrandire l’uomo, lo può impiccolire. Essa restringe la sua visuale di preferenza al campo esterno, al regno dei sensi, all’uomo istintivo, all’ideale borghese o gaudente, al cuore stretto ed egoista. Senza dire che essa non fa l’uomo felice, ma piuttosto incontentabile e piegato o verso l’illusione, o verso il pessimismo. Sono i pensatori, i letterati, gli artisti, che oggi ce lo dicono. Noi lo sapevamo, senza forse troppo rifletterci; Gesù ci aveva avvertito: «La vita d’uomo non dipende dall’abbondanza dei beni che possiede» (
Lc 12,15).

IL PROBLEMA DELLA SCELTA

Non tutto si può avere e godere. La scelta s’impone. «Il regno dei cieli, dice ancora il Signore, è simile ad un mercante che va in cerca di pietre preziose; e trovata una pietra di grande pregio, va, vende tutto ciò che ha, e se la compera» (Mt 13,45-46). Questo concetto della scelta, che include quello della rinuncia, ricorre altre volte nel Vangelo : «Nessuno può servire a due padroni . . . » (Mt 6,24); «entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione . . .» (Mt 7,13). Questo problema della scelta domina l’orientamento della vita cristiana, fino dal suo inizio, cioè dal battesimo, al cui conferimento sono poste, come condizione, alcune rinunce capitali; ricordate? Rinunci a Satana? rinunci alle sue opere e alle sue vanità? ecc.

Perché è da ricordare che non tutto è bene. Questo è semplice e chiaro, ma poi la distinzione fra ciò ch’è bene e ciò ch’è male è nello svolgimento della vita cosa molto difficile, specialmente quando non si vuole ammettere qualche sicuro criterio etico, qualche superiore magistero che abbia da Dio la scienza dell’uomo e dei suoi fini, e quando si fa dell’indifferenza morale un principio pedagogico. Sì, bisogna che l’alunno - e tutti siamo alunni alla scuola della vita - conosca il quadro delle possibilità offerte dal tempo e dall’ambiente in cui si trova; ma deve insieme saper giudicare e sapere scegliere. Lo dice S. Paolo: «Omnia . . probate; quad bonum est tenete, tutto esaminate, e ritenete ciò ch’è bene» (1Th 5,21). Del resto così si fa per ciò che riguarda la salute fisica, scegliendo i cibi sani, le medicine benefiche, l’aria buona, ecc. E così fa il soldato, così fa l’atleta: giudica e sceglie ciò che conviene alla validità delle sue forze; lo sportivo ci dà l’esempio. Ancora S. Paolo, che insegna: «. . . il lottatore si impone in ogni cosa delle astinenze . . .» (1Co 9,25). Bisogna imporsi delle rinunce, accettare una disciplina, scegliere una norma per essere forti, per essere fedeli, per essere cristiani. La croce segna la nostra vita. Dobbiamo comprendere che l’abnegazione cristiana, sì, ci priva di molte cose, mette dei limiti alla nostra esperienza delle cose pericolose e nocive, impone una vigilanza austera di pensiero e di costume; ma ci fa persone veramente libere e vive, e trasforma in virtù la nostra debolezza (Cfr. 2Co 6,9 2Co 12,10).



STATO AUTENTICO DI VITA CRISTIANA

La rinuncia cristiana non è arbitraria e pesante e ormai superata disciplina ascetica e monastica; è uno stile autentico di vita cristiana; primo, perché comporta una classifica gerarchica dei suoi beni; secondo, perché stimola alla opzione della «parte migliore» (Lc 10,42); terzo, perché esercita l’uomo alla padronanza di sé; e finalmente perché instaura quella misteriosa economia della espiazione, che ci fa partecipi della redenzione di Cristo: una parola, che alla rinuncia ormai si riferisce nel linguaggio corrente, ce lo ricorda; la parola «sacrificio», che per sé ci riporta ad un atto misterioso e supremo della religione, ma che, ora nel segno di quella croce, che insieme mortifica e vivifica, vuole indicare appunto un atto generoso e coraggioso, una rinuncia lieta e volontaria, compiuta con intenzione superiore di bene e di amore. Sacrificio: una parola forte, che si declina dai primi «fioretti» del bambino, che vuol essere buono davvero, e si distende su tutte le età ed in tante diverse misure, per distaccarci dai «molti desideri stolti e dannosi» (1 Tim. 1Tm 6,9) e per renderci idonei a dare alla nostra esistenza terrena il significato e il valore d’una «oblazione viva e santa, gradevole a Dio» (Rm 12,1).

Conforti i vostri animi la Nostra Apostolica Benedizione.

Missionari francescani

Salutiamo ora i componenti della Commissione internazionale per le Missioni dell’Ordine dei Frati Minori - in particolar modo il venerabile nostro fratello Lorenzo Graziano, Vescovo titolare di Valabria - e con essi la grande e quanto mai benemerita Famiglia missionaria francescana; e facciamo voti che dagli studi di questo convegno romano essa possa meglio conoscere, nello spirito rinnovatore del Concilio Vaticano II le vie da intraprendere affinché il suo lavoro apostolico ‘sia più qualificato e incisivo.

Ispiratevi, diletti Figli, all’esempio di perenne attualità del vostro serafico Padre, la cui ansia di fratellanza universale trovò sublime dimostrazione nella povertà evangelica: nell’animo, cioè, libero e pronto a servire i fratelli e a diffondere con perfetta letizia il messaggio redentore di Cristo. E sappiate che il Papa vi segue con la preghiera nel vostro ministero missionario, vi accompagna col suo affetto e paternamente vi benedice.

Istituto «Maria SS.ma Assunta»

Abbiamo ora un gruppo che ci sta particolarmente a cuore, per la cura che la Sede Apostolica ha dedicato al loro Istituto: sono le cinquecento alunne del Magistero romano «Maria SS. Assunta» venute col Rettore, col Consiglio di Amministrazione, con i Professori e con le benemerite Missionarie della Scuola per ricordare il XXX anniversario di Fondazione del loro Istituto Universitario Pareggiato. La singolare circostanza, la qualificazione del Corpo Accademico, e il numero delle alunne, avrebbero richiesto maggior tempo di quanto, purtroppo, le Nostre possibilità ci consentano. Ricordiamo le fasi che hanno portato alla fondazione dell’Istituto, quando al fianco di Pio XII di v. m., potemmo vedere con quanto gaudio e con quanta speranza quel grande Pontefice l’abbia visto sorgere.

Quella fondazione anticipava le esigenze, che il Concilio Vaticano II avrebbe istantemente richiesto per la formazione integrale dei Religiosi (Perfectae caritatis PC 18) e per la qualificazione degli insegnanti nelle Scuole Cattoliche (Gravissimum educationis GE 8): e il vedere le vostre schiere, qui presenti, pensare alle ex alunne, che in ogni parte del mondo, svolgono un alto e nobile compito educativo, e talora in posti di alta responsabilità, ci riempie il cuore di profonda gratitudine a Dio, e di elogio vivissimo per quanto l’Istituto ha fatto per la preparazione universitaria delle Religiose, e, da qualche anno, anche delle studenti laiche. Su tutti voi, Docenti, Alunne, Missionarie della Scuola discenda sempre abbondante l’effusione del Divino Spirito, che invochiamo per voi; e in pegno dei suoi doni vi impartiamo la Nostra Benedizione.

Incontro di studi sull’America Latina

Bienvenidos seáis vosotros, ilustres participantes a las Jornadas de estudios que en Roma estáis celebrando sobre «Los procesos de integración en América Latina y en Europa».

Muchas cosas tendríamos que deciros, aplicando a vuestras actividades los principios y ansias de la Iglesia, en particular los expuestos en nuestra Encíclica «Populorum progressio» y en la Constitución Conciliar «Gaudium et spes», sobre el desarrollo, la ayuda y la convivencia de los individuos y Naciones como partes de una gran familia humana, vinculada en identidad de origen y de destino.

La brevedad del tiempo nos impone formularos sólo un deseo: que vuestras orientaciones y decisiones estén siempre inspiradas por un ideal de justicia y de caridad, a fin de que los recursos económicos, culturales y humanos, se empleen con mayor espíritu de equidad, alcancen a todas las categorías sociales y sean un servicio al hombre, integralmente considerado, y a todos los hombres sin distinción de raza ni de continente (Cfr. Gaudium et spes GS 64).

A realizar ese programa, tan humano y cristiano, os alentamos cordialmente mientras que, en prenda de la asistencia divina y en testimonio de nuestra gratitud por vuestra deferente visita, os otorgamos la Bendición Apostólica, extensiva a vuestras familias.


Mercoledì, 18 marzo 1970

18370
Diletti Figli e Figlie!

La nostra riflessione sopra la concezione morale dell’uomo, quale ce la suggerisce il Concilio, ci porta ad una duplice osservazione, notissima l’una e l’altra, ma ora più che mai bisognose di revisione e di chiarezza; l’osservazione circa l’esistenza della legge naturale e l’osservazione circa l’esistenza d’una originale legge morale cristiana. È chiaro che la legge dell’operare, la legge morale, deriva dall’essere umano; dall’essere dipende il dover essere. Ora, chi è l’uomo? Chi è il cristiano? Bisogna avere una nozione, almeno istintiva, intuitiva, della natura dell’uomo per sapere come egli deve agire; e bisogna avere un concetto, almeno generale, dell’uomo fatto cristiano per sapere come egli deve comportarsi da cristiano.

Sono parole elementari; ma esse si riferiscono a questioni molto difficili e complesse, alle quali in questa sede non possiamo certo dare soluzioni proporzionate e adeguate. Vi accenniamo, affinché si sappia che le questioni morali, suscitate dal Concilio, e non solo dal Concilio, ma ancor più dal tumulto delle opinioni e delle esperienze moderne, meritano da chi vuol essere uomo vero e vero cristiano un esame nuovo e una coscienza lucida e forte.


UN DIRITTO SUPERIORE

Facciamo soltanto alcune domande: esiste davvero una legge naturale? La domanda sembra ingenua, tanto facilmente se ne prevede la sicura risposta. Ma ingenua non è, se si pensa alle obiezioni che oggi da tante parti si fanno circa l’esistenza d’una legge naturale; e in parte si capisce perché. Confuso e alterato il concetto dell’uomo, si confonde e si altera quello della sua vita, quello del suo agire, della sua moralità. Ma per noi, che crediamo di poter rispondere, per via di riflessione, illuminata, se volete, da qualche raggio di sapienza cristiana, all’antica massima: «conosci te stesso», il senso immanente della coscienza e ancor più il lume della ragione ci dicono che noi siamo soggetti d’una legge, diritto e dovere insieme, che nasce dal nostro essere, dalla nostra natura, legge non scritta, ma vissuta, non scripta, sed nata lex (CICERONE); quella legge, che San Paolo riconosce anche nei gentili, fuori della luce della rivelazione divina, quando dice che essi sono legge a se stessi, ipsi sibi sunt lex (
Rm 2,14). Del resto nessuno meglio di noi, in questo tempo riformatore e «contestatore», avverte continuamente che la forza segreta dell’inquietudine morale nasce non di rado dall’appello, contenzioso rispetto ad un diritto superiore, più umano, non ancora codificato, ma potente e sorgente dalla scoperta interiore (bene o male decifrata) d’una legge che reclama esprimersi ed affermarsi, la legge naturale. Noi siamo tuttora sensibili al classico e formidabile conflitto della tragedia greca riflesso nel fragile, ma umanissimo cuore di Antigone, che insorge contro l’iniqua e tirannica potenza di Creonte. Noi siamo più che mai fautori della personalità e della dignità umana; e questo perché? Perché riconosciamo nell’uomo un essere che reclama un «dover essere» in forza d’un esigente principio, che chiamiamo legge naturale.


IL «REGNO» DELLA GRAZIA

Una seconda domanda: è sufficiente questa legge naturale a guidare la vita sociale dell’uomo? Non è sufficiente, innanzi tutto, se non diventa legge espressa, in qualche modo codificata, sociale. Essa ha bisogno d’essere formulata, d’essere conosciuta e riconosciuta, sancita da una legittima autorità. Per questo vi sono i legislatori, che devono essere appunto gli interpreti d’un diritto naturale (vero, o presunto) e ne sono i suoi traduttori in pubbliche norme civili.

Ma per noi, edotti dalla dottrina divina circa il destino soprannaturale dell’uomo, circa le tristi conseguenze da lui ereditate a causa del peccato originale, circa la rigenerazione a noi ottenuta e conferita da Cristo per l’integrazione e la pienezza della nostra vita nella sua, la legge naturale non basta; occorre la legge della grazia, che ha una sua propria economia, un suo «regno», al quale normalmente la Chiesa ci introduce, ci educa. Cristo è necessario. Vivere secondo la sua Parola e secondo il suo Spirito è la nostra salvezza.


ASPIRAZIONE DEI GIOVANI D'OGGI VERSO I PRINCIPI FONDAMENTALI

Allora sorge un’altra domanda: in quale rapporto sono le due leggi quella della natura e quella della grazia? Si ignorano a vicenda? Sono in contrasto? Ovvero si integrano l’una l’altra? Troppe cose sarebbero da dire a questo proposito. Riteniamo per ora buona una prima risposta, che risulta da tante pagine dei documenti conciliari: la concezione cristiana della vita riconosce come valide e impegnative le leggi naturali e anche le leggi civili, che in quelle sono fondate e che pertanto diciamo giuste. Contentiamoci d’una citazione: «Molti nostri contemporanei sembrano temere che, se si stabiliscono troppo stretti legami tra l’attività umana e la religione, sia impedita l’autonomia degli uomini, della società, delle scienze. Se per autonomia delle realtà terrene intendiamo che le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l’uomo deve gradualmente scoprire, usare e ordinare, allora si tratta di una esigenza legittima, che non solo è postulata dagli uomini del nostro tempo, ma è altresì conforme al volere del Creatore. Infatti è in virtù della creazione stessa che le cose tutte ricevono la loro propria consistenza, la loro verità, la loro bontà, le loro leggi proprie e il loro ordine. L’uomo è tenuto a rispettare tutto ciò, riconoscendo le esigenze di metodo proprie di ogni singola scienza, o arte» (Gaudium et spes GS 36).

Donde una seconda risposta: la legge propria dell’uomo, cioè la legge naturale, e la legge propria del cristiano, cioè la vita della fede e della carità, la vita della grazia, possono e devono integrarsi nella prassi e nella crescita delle virtù cristiane, per dare all’uomo la sua perfezione (Cfr. SCHÜLLER, La théologie morale peut-elle se passer du droit naturel? in Nouv. Rev. Théol., mai 1966; FUCHS, Teologia e vita morale alla luce del Vaticano II, 1968). E qui due altre domande. Non dovrebbe il cristiano distinguersi nella professione delle fondamentali virtù naturali, quali sono, ad esempio la sincerità e la giustizia? Oh, sì, che lo deve! Anzi dobbiamo augurarci che l’educazione cristiana sia sempre e maggiormente improntata alla coscienza e alla professione di queste virtù naturali, quali sono appunto il rispetto alla verità nella parola e nella condotta, e la fedeltà alla giustizia specialmente nei rapporti sociali (Cfr. Gaudium et spes GS 30); e lo stesso si dica delle altre virtù naturali, che la tradizione classifica quali virtù cardinali (Cfr. S. AMBR., De officiis, 1, 27). E siamo lieti di riscontrare nei giovani d’oggi un forte e fiero richiamo a quei principii morali fondamentali che conferiscono alla vita la sua autentica e diritta statura umana. E dobbiamo anche osservare come questo sforzo di realizzare l’uomo vero può trovare nelle esigenze del Vangelo, in quelle specialmente relative all’austerità personale e ai rapporti umani, uno stimolo potente, una vocazione sovrumana. È questo uno dei fenomeni più belli della nuova generazione, una delle speranze d’un migliore avvenire.


DINAMISMO DELLA LEGGE MORALE

E l’altra domanda (l’ultima, per ora) pone il quesito del dinamismo della legge morale, naturale e cristiana, cioè il suo possibile continuo progresso. Sì, il progresso morale è sempre possibile, anzi è sempre doveroso, ma sempre fermi restando i principii e le norme fondamentali. L’applicazione della legge morale è sempre perfettibile.

L’uomo è sempre «in fieri», in divenire, sia per diventare uomo nel senso crescente della sua definizione, sia per diventare perfetto secondo il Vangelo, cioè santo. La vera storia dell’uomo è quella della sua educazione, della sua emancipazione, come dice il Tommaseo, della sua liberazione, come spesso ambiguamente dice il mondo d’oggi. Tutto sta a vedere qual è la liberazione che conferisce all’uomo la sua pienezza. E ciò che dice della singola persona lo possiamo dire della società umana, della civiltà: essa dev’essere continuamente in via di sviluppo morale, cioè umano e cristiano, che vuol poi dire culturale, sociale, economico, eccetera. Questo significa alla fine che il motore vero della nostra esistenza è il dovere, il quale per noi cristiani prende un nome ancora più forte e più intimo, l’amore; come disse Gesù, «amerai Dio con tutto il cuore, e amerai il prossimo come te stesso; questa è tutta la legge» (Mt 22,37-40).



La Congregazione delle Sacre Stimmate

Il nostro saluto reverente e affettuoso si rivolge ai Padri Capitolari della Congregazione delle Sacre Stimmate di Nostro Signor Gesù Cristo, riuniti per eleggere il Superiore Generale e dare alla loro famiglia religiosa il rinnovamento auspicato dal Concilio, nella linea di fedeltà alle costituzioni. Siamo assai lieti di ricevervi, diletti figli, tanto più perché ricordiamo tuttora con letizia gli incontri che abbiamo avuto con i vostri Confratelli sia a Milano, ove svolgono il loro ministero in due parrocchie e in due Pensionati universitari, sia in Sud Africa, ove ci siamo soffermati nella vostra Missione.

Facciamo voti che la diletta Congregazione degli Stimmatini, dedita a molteplici opere di apostolato educativo e missionario, che nascono dalla contemplazione dell’amore di Cristo Crocifisso, sappia sempre garantire l’efficacia del suo ministero con la ricchezza della vita interiore dei suoi membri, alimentata a così sublimi ideali. Che anch’essi, come l’Apostolo Paolo, possano dire con pienezza di donazione: Mihi autem absit gloriari, nisi in Cruce Domini nostri Iesu Christi ... ego autem stigmata Domini Iesu in corpore meo porto (Ga 6, 14, 16). E questa immolazione per Cristo e per le anime orienti i vostri sforzi nell’aggiornamento voluto dal Concilio, perché i frutti veramente duraturi nella cura delle anime non si ottengono che a prezzo della Croce. Vi segue la Nostra preghiera e vi conforta la Nostra Benedizione, che di cuore estendiamo a tutti i vostri Confratelli, che testimoniano nel mondo l’amore di Cristo.

Alunni milanesi di istituti tecnici

Siamo sinceramente lieti di dedicare stamane un paterno saluto anche al gruppo, proveniente da Milano, dei Professori ed alunni dell’Istituto Tecnico «Carlo Cattaneo» e dell’annesso Civico Istituto Tecnico serale per geometri.

Questo saluto ve lo porgiamo di gran cuore, figli dilettissimi, perché la vostra presenza ci reca il conforto di incontrarci con i rappresentanti di una Scuola, che abbiamo conosciuto da vicino e che molto abbiamo apprezzato durante il periodo del Nostro ministero pastorale di Milano.

È ben naturale che questo incontro susciti in Noi una folla di sentimenti a cui possiamo appena accennare, ma che voi facilmente potrete intuire. Vi diremo grazie anzitutto del vostro delicato pensiero, e insieme volentieri cogliamo l’occasione per far sentire tutto l’affetto e la stima che nutriamo verso i vostri Istituti, verso il corpo insegnante, e in special modo verso il vostro degnissimo Preside, il Professor Natale Visentini, a Noi particolarmente caro, che con l’odierno omaggio al Papa si appresta a concludere un lungo periodo di attività intelligente e instancabile a profitto della gioventù studentesca. A questo benemerito servitore della scuola Noi siamo lieti di rivolgere in questo momento il Nostro plauso cordiale e la Nostra più sincera riconoscenza, mentre formuliamo l’augurio che la Scuola da lui così sapientemente diretta possa continuare a mantenere alto il prestigio che la circonda, aiutando tante anime giovanili ad orientarsi verso quei nobili ideali che soli possono garantire all’esistenza umana la sua bellezza e la sua dignità.

Nel ritornare alla vostra e Nostra cara Milano, diletti figli, dite ai vostri amici, ai vostri familiari e a tutti quelli che non vi hanno potuto personalmente seguire, che il Papa li ha presenti insieme a voi nel suo cuore e nella sua preghiera e a tutti imparte la propiziatrice Apostolica Benedizione.

Il «Laboratorio per l’Altare»

Un grazie particolare al gruppo femminile genovese, detto «Laboratorio per l’Altare», che ci ha portato sette casule per concelebrazione, da esso confezionate, come simbolo e dimostrazione della loro attività. Sappiamo che dedicate il tempo libero alla preparazione di paramenti sacri, destinati alle chiese povere, affinché il Sacrificio Eucaristico possa essere compiuto con tutta la proprietà e il decoro, che esso richiede.

Ci compiacciamo pertanto con voi, che avete assimilato così bene, e con impegno tanto concreto, lo spirito liturgico che il Concilio Vaticano II ha inculcato in tutta la Chiesa, chiamando anche i Laici a una attiva partecipazione; e vi ringraziamo per la carità che vi muove, veramente esemplare e degna di essere non solo indicata all’ammirazione dei presenti, ma anche seguita da una generosa emulazione. Ce lo auguriamo di cuore; e mentre invochiamo su di voi le particolari ricompense del Sommo ed Eterno Sacerdote, Cristo Gesù, a tutte impartiamo la Nostra Apostolica Benedizione, che estendiamo anche ai vostri diletti familiari e alle vostre parrocchie.

Novelli sacerdoti di Gran Bretagna e d’Irlanda

We welcome with a special joy the newly-ordained present here this morning: twelve priests from the Beda College, four from Saint Patrick’s College and two from the International House of Studies of the Missionaries of the Sacred Heart. To al1 of you we address our greetings: Grate and peace to you dear sons in Jesus Christ.

By your priesthood you have been chosen to proclaim in a special way the death of the Lord and his resurrection and his coming. You must live fully his paschal mystery, about which you have studied with such just enthusiasm. You must show that you have passed from death to life yourselves because you love your bothers (1Jn 3,14), and become worthy leaders of a pilgrim people as they journey to the Father.

May the Lord bless you and keep you and make joy abundant in the hearts of your families. May Our Apostolic Blessing sustain you all, faithful in Jesus Christ.



Mercoledì Santo, 25 marzo 1970

25370

Diletti Figli e Figlie,

Mercoledì Santo: pare a Noi che non sia possibile parlare d’altro, in questo preludio del dramma pasquale, che della nostra posizione, come uomini e come cristiani, di fronte al mistero ch’esso, il dramma pasquale, contiene, significa e rinnova, il mistero della nostra salvezza. Mistero divino ed umano; mistero profondo fino alle insondabili ragioni della giustizia e della bontà divina; mistero di Cristo, «che non conosceva peccato e (Dio) lo fece peccato, affinché noi diventassimo in Lui giustizia di Dio» (
2Co 5,21); mistero, nel quale il dolore, che sembra inutile nemico della nostra esistenza, è trasformato nel valore prezioso del nostro riscatto, mistero della morte vittoriosa e sconfitta per il trionfo d’una nuova e superiore forma di vita. In questo mistero è il nodo in cui si stringe ed in cui si scioglie ogni questione delle sorti umane, lo sappiamo o no, lo crediamo o no; noi tutti vi siamo coinvolti.


DOBBIAMO SALVARCI

Ora un’affermazione fondamentale s’impone: tutti abbiamo bisogno di salvezza (Lumen gentium LG 53 1Tm 2,4); nascendo, noi siamo naufraghi in questa inevitabile avventura; dimenticarla è cecità; rifiutarla è perdizione. Dobbiamo salvarci.

Ed allora un’altra logica conclusione: noi dobbiamo avere coscienza di questo bisogno; e cioè, dobbiamo avere coscienza del male; del male nostro, del male che è nel mondo. Non è pessimismo disperato, è realismo; e per noi credenti nella salvezza, che ci viene da Cristo Salvatore, è la diagnosi sincera e salutare, che precede la terapia della salute. Sopra questo aspetto della verità umana faremo bene a chiarire le nostre idee, le quali risentono i disordini d’una duplice confusione, quella generata da un ingenuo e aprioristico ottimismo, al quale ci ha abituato il naturalismo moderno; e quella da un angoscioso pessimismo, di cui ci è triste maestro certo esistenzialismo, che ha spietatamente svelato la radicale miseria dell’umana esperienza, senza sapervi portare altro conforto che quelli d’un rassegnato fatalismo, o d’un drogato edonismo.

Noi che cosa faremo per entrare nel cono di luce della salvezza cristiana? Accetteremo la luce. La quale, proiettando i raggi dello sguardo divino sopra di noi, svela a noi stessi la nostra multiforme rovina; ci dà una previa e salutare, come dicevamo, coscienza del male. Il nostro bene comincia dalla conoscenza del nostro male. Il quale, ahimé!, è come un oceano inondante: «un’ondata dilagò sovra il mio capo; ho detto: sono perduto!», è la voce di Geremia, che ascolteremo gemere in quelle Lamentazioni, che fanno vibrare l’officiatura della Settimana Santa d’incomparabili emozioni; sarà bene che i loro fremiti di desolata verità vengano a pulsare, in questi giorni, nei nostri animi.

Ma noi ora condensiamo in due capitoli questa scienza del male, la quale deve predisporci a partecipare al mistero della salvezza pasquale.


L’INFAUSTA EREDITÀ DI OGNI UOMO

Il primo capitolo ci riguarda tutti personalmente. È quello del male supremo, il peccato. Anch’esso ha una storia grandiosa. La quale ci travolge tutti nell’infausta eredità del famoso peccato originale, causa prima della morte e degli squilibri psico-etici che turbano la nostra vita morale (Cfr. Rm 5). Il battesimo ci ha redenti da questo fatale malanno, ma non ci ha del tutto guariti dalle sue conseguenze, da cui derivano quegli altri mali, dei quali noi stessi siamo stolti fautori; e sono i nostri peccati, attuali, nemici anch’essi mortali della nostra vera vita, ch’è l’unione con Dio, sorgente unica e prima della vita. Discorso difficile, ma inevitabile. Noi moderni stiamo perdendo il senso del peccato. Pio XII, nostro venerato predecessore, ebbe a dire che «forse il più grande peccato del mondo oggi è che gli uomini hanno cominciato a perdere il senso del peccato» (Discorsi e Radiomessaggi, VIII, p. 288). Ed è spiegabile come. Perduto il senso di Dio e la percezione del nostro rapporto con Lui, rapporto continuamente urgente (la legge morale) nel campo del nostro agire e perciò del nostro comportamento responsabile in ordine a Lui, cade anche il senso del peccato; l’uomo pensa d’essersi liberato, ma s’è in realtà liberato dalla bussola direttiva del proprio divenire cosciente e vitale; rimane solo e senza principi assoluti per distinguere il bene dal male e per dare al dovere il suo vigore trascendente; senza Dio, tutto può diventare lecito (Cfr. DOSTOEVSKIJ). Ma un senso oscuro ed inestinguibile d’indegnità e d’incapacità subentra nello spirito di chi agisce senza più riferirsi a Dio; e tanto dovrebbe bastare per non disdegnare, anzi per accogliere con ineffabile gioia l’incontro con Cristo, che dà simultaneamente la coscienza del peccato e quella della sua misericordiosa e vittoriosa riparazione.

Siamo in pieno e autentico cristianesimo; siamo alla prima fase della celebrazione della Pasqua; la penitenza, il pentimento, la dolorosa, ma benefica sincerità con se stessi, e con Dio, la confessione sacramentale; siamo, col figliol prodigo, sulle soglie della casa paterna: «Padre, ho peccato contro il cielo e davanti a te, non sono degno d’essere chiamato tuo figlio!» (Lc 25,19-21). Ecco una scienza del male, che apre la porta alla riconquista del bene. Quanto, quanto vi sarebbe da dire; voi certo già lo sapete.


DOVERE DI RIPARAZIONE

Secondo capitolo di questa dolorosa sapienza: l’avvertenza, e con l’avvertenza la deplorazione, e, per quanto possibile, la riparazione dei mali, che sono nel mondo. Chi ne può mai fare l’elenco? chi misurare la estensione? chi si può dire innocente? «Sappiamo - scrive l’apostolo San Giovanni - che . . . tutto il mondo è posto nel male» (1Jn 5,19). Anche di questo male, dalle mille facce, non dobbiamo essere ignoranti. Come non possiamo consentire con quelli che denunciano fieramente soltanto i mali fuori delle loro persone e delle loro responsabilità, e dimenticano il « mea culpa » per i propri peccati e per le loro proprie corresponsabilità (oggi questo atteggiamento è tanto frequente), così non possiamo approvare quelli che circoscrivono la sensibilità morale al campo della loro personale coscienza, e si disinteressano dei mali, dei dolori, dei bisogni, di cui soffre la società, anche se tali elementi negativi riguardano la sfera temporale, piuttosto che quella strettamente religiosa. La Pasqua ci obbliga a guardare anche questa scena dell’umanità. Quei mali, che hanno annientato la vita terrestre di Cristo, l’empietà, l’ipocrisia, l’ingiustizia, la cattiveria, la delinquenza, la crudeltà, la viltà, la debolezza umana, ecc., sono ancora là; anch’essi, come sono messi in evidenza dalla Passione di Cristo crocifisso, così possono e debbono ricevere un flusso di resipiscenza, di redenzione, di rinascita dal mistero pasquale.

E il solo sguardo, che perciò siamo obbligati a posare sopra i disordini e le sofferenze, che sono nel panorama storico e sociale di questa ora della vita moderna, ci riempie d’immenso dolore, il quale però diventa per noi immenso amore per i nostri fratelli ed immensa fiducia nei carismi redentori della morte e della risurrezione del Signore Gesù.


FISSO LO SGUARDO ALLA «SPES UNICA»

Come rimanere insensibili a ciò che oggi avviene nel mondo? Tanti sono questi stimoli dolorosi, che Noi rinunciamo a farne l’elenco ordinato e completo. Diciamo soltanto che ci colpiscono specialmente i conflitti bellici, che nel Medio e nell’Estremo Oriente, invece di placarsi, si inaspriscono e si prolungano; ci impressionano, come fenomeni irrazionali e come presagi sconfortanti per il futuro, gli armamenti crescenti, che talvolta costituiscono parte notevole del commercio tra grandi potenze industriali e nazioni più deboli, le quali di ben altre forniture avrebbero bisogno; ci sembrano residui ignobili del passato le intransigenze razziste e le inique discriminazioni etniche e sociali; né crediamo che valgono ideali di libertà e di giustizia a coonestare la violenza, la vendetta, la rappresaglia, gli atti di terrorismo e le guerriglie, spesso rivolte contro la legittima autorità, o inflitte a popolazioni inermi; non possiamo che deplorare e auspicare che, per l’onore stesso di Nazioni a Noi care, siano smentiti dai fatti quei casi di torture poliziesche a loro attribuite, di cui s’è tanto parlato, e per cui Noi stessi, non senza positiva speranza, abbiamo interposto qualche doveroso intervento; ci fa acutamente soffrire l’intollerabile e clandestino, ma sciaguratamente tanto organizzato contrabbando di droghe, velenose non meno per la salute fisica che psichica e morale, e diffuse perfino e soprattutto fra la gioventù; ci sembra degradante per una società civile il sequestro di persone per farne prezzo d’acquisto di ricatti venali o vendicativi; ci pesano sempre sul cuore le condizioni d’insufficienza economica e civile dei Popoli in via di sviluppo e di non pochi strati sociali; e ci fa sempre soffrire, anche se la dobbiamo sopportare silenziosamente, la negata libertà religiosa, che, nonostante tanti declamati principi, non trova ancora in alcune regioni sufficiente cittadinanza, e talora nemmeno alcun civile e privato respiro, per la pacifica professione della fede cristiana. Sono questi malanni tanto più dissonanti col mistero pasquale in quanto un fattore volontario li rende delittuosi e deplorevoli. Dovrebbe questo penoso «giro di orizzonte» guardare anche all’area immensa dei dolori patiti, non voluti, da grande parte dell’umanità; vorremmo inviare agli infermi, ai poveri, ai carcerati, agli orfani, alle vedove ... a quanti soffrono e piangono quel conforto, che la Croce offre al dolore umano: una utilità redentrice, una ragione valorizzatrice.

Ma qui fermiamoci; e con gli animi pieni della coscienza dei nostri mali morali, fisici e materiali andiamo verso la «spes unica», la Croce di Cristo, trofeo non più di morte, ma di vita risorta: questa sia la Pasqua, con la Nostra Benedizione Apostolica.



I delegati giovanili delle Opere Missionarie

Il nostro saluto affettuoso si rivolge ora ai Delegati Giovanili Diocesani delle Pontificie Opere Missionarie.

Siamo felici di potervi accogliere, diletti figli, in occasione del vostro primo Convegno Organizzativo, e ci compiacciamo con voi che avete assimilato così bene e con impegno tanto concreto l’insegnamento del Concilio Vaticano II: «Essendo la Chiesa tutta missionaria, essendo l’opera dell’evangelizzazione un dovere fondamentale del popolo di Dio ... tutti i fedeli, avendo coscienza delle proprie responsabilità in ordine alla diffusione del Vangelo, prendano la loro parte nell’opera missionaria presso le genti» (Ad gentes AGD 35).

Purtroppo c’è ancora tanto lavoro da compiere affinché l’idea missionaria investa in pieno, come dovrebbe, la vita di ciascuna comunità di credenti, e da ognuno si comprenda che il dovere di cooperare all’attività missionaria della Chiesa abbraccia tutti i suoi membri, dal Papa che vi parla fino all’ultimo dei fedeli.

Vedete allora quale immenso campo di lavoro è aperto dinanzi a voi, e quanti motivi abbiamo di ringraziarvi per lo zelo che vi muove verso così nobili ideali: zelo veramente esemplare e degno di essere non solo additato all’ammirazione dei presenti, ma anche seguito da una generosa emulazione. Ce lo auguriamo di cuore, figli dilettissimi, mentre imploriamo da Dio su di voi e sulle vostre attività copiose grazie celesti e a tutti impartiamo la Nostra Benedizione Apostolica, che intendiamo estendere anche ai vostri dirigenti e colleghi.

Universitari europei e pellegrini di Strasburgo



Mercoledì, 1° aprile 1970


Paolo VI Catechesi 11370