Paolo VI Catechesi 22112

Mercoledì, 22 novembre 1972

22112

Un desiderio arde sempre nel cuore della Chiesa, come una lampada che non si spegne, un desiderio comune della Chiesa come Popolo di Dio, e come coscienza personale d’ogni membro di questo mistico corpo di Cristo; un desiderio, che investe tutta la psicologia dei seguaci del Signore Gesù, e che fa parte d’ogni proposito e di ogni programma di riforma e di rinnovamento, il desiderio di rivestirsi di un autentico stile cristiano.


AUTENTICO STILE CRISTIANO

Stile è dir poco; perché la parola stile si riferisce all’aspetto esteriore d’una cosa; ma in questo nostro caso stile vuol dire il risultato d’uno spirito interiore, vuol dire l’autenticità visibile d’un ordine morale, vuol dire l’espressione d’una mentalità, d’una concezione della vita, d’una coerenza e d’una fedeltà, che si alimentano dalle radici della personalità profonda e vitale di chi si manifesta nel suo proprio stile.

Siamo ancora al vecchio proverbio: l’abito non fa il monaco. Vero. Ma l’abito per sé deve qualificare individualmente e socialmente colui che monaco si professa; può, sì, camuffarlo e rivestirlo d’ipocrisia (Cfr.
Mt 15,7-8), e fargli recitare una parte fittizia che non lo definisce intimamente, come l’artista in teatro: ma l’intenzione stilistica dell’abito non solo tende a dire mediante l’aspetto esteriore chi uno è, ma a dargli altresì una coscienza interiore di chi egli deve essere.


UNA VITA CONFORME ALLA FEDE

Per ciò che ora a noi interessa, ripetiamo, la Chiesa e ogni singolo fedele deve avere uno stile di vita conforme alla sua fede. Tante volte lo abbiamo ripetuto, con le parole di S. Paolo: l’uomo giusto, cioè il cristiano vero, vive traendo dalla fede l’energia ed il criterio della sua autenticità (Cfr. Rm 1,17). Il che comporta, oltre che una «forma» nuova, interiore e originale, soprannaturale di vita, una certa effusione di questa interiorità, una certa visibilità esteriore. Tanto più che proprio il Concilio, ravvivando nel cuore della Chiesa e dei fedeli che la compongono i doni divini della vera religione calata dal cielo, mirava anche a infondere nella Chiesa stessa un grado maggiore di evidenza, chiamandola «sacramento visibile» della unione con Dio (LG 1), dell’unità salvifica (Ibid. LG 9), anzi della salvezza stessa (Ibid. LG 48; Gaudium et Spes GS 45 Ad gentes AGD 5). La Chiesa, mediante il Concilio, è auspicata più riconoscibile, più luminosa, più stilizzata secondo i canoni suoi propri, più vivente del costume delineato e reclamato dalla sua vocazione evangelica.


SULLA LINEA DEL RINNOVAMENTO CONCILIARE

È riuscito questo sforzo di fare apparire la Chiesa più conforme allo stile, al costume che esige la sua vocazione? Si è trasformata o meglio riformata la Chiesa secondo le esigenze rinnovatrici del Concilio? Sì, sembra a noi di potere rispondere, per le tante cose buone, che proprio in questo intento epifanico d’autenticità e di credibilità sono state operate nella Chiesa, e che, già bene avviate, saranno operate. Lo dobbiamo dire a lode e incoraggiamento di quei suoi figli e di quelle sue istituzioni che, appunto per dare alla Chiesa linee meglio corrispondenti alla sua originaria istituzione, alla sua coerente tradizione, alla sua presente missione, hanno pregato, lavorato, sofferto con buono spirito, in questi dieci anni dall’inizio del Concilio.

Ma non possiamo tacere che altri fenomeni si sono nello stesso tempo verificati, che non sono sempre riducibili al piano prefisso di dare, ridare, conservare alla Chiesa lo stile puro, splendido e nuziale (Cfr. Ep 5,27), ch’ella deve, specialmente nel nostro tempo, rivestire per essere, quale dev’essere, amorosa di quel Cristo che l’ha amata fino a dare la sua vita per lei.


DI FRONTE AL MONDO CONTEMPORANEO

Due ottimi principii, illustrati autorevolmente dal Concilio: quello dell’aggiornamento, cioè del proprio rinnovamento, e quello dell’inserimento nell’affannosa e fermentante vita del mondo contemporaneo, ottimi, diciamo, e tuttora validi, non sempre sono stati bene interpretati e bene applicati. In alcuni ambienti si è non riformata e rinnovata la figura ideale della Chiesa, ma si è, almeno concettualmente, deformata. È balenata per alcuni spiriti inquieti e per molti sprovvisti di sufficiente cultura la formula, più o meno radicale, della «Chiesa senza». È: una formula che ha la sua storia: eresie e scismi, durante i secoli, se ne sono ampiamente serviti.

Si è cercato, ad esempio, di avere una Chiesa senza dogmi difficili, togliendo così dal tesoro della fede i misteri del Pensiero divino, e riducendo le Realtà della religione rivelata alla dimensione del cervello umano; processo reduttivo che pur troppo, qua e là continua a svuotare la dottrina cattolica del suo contenuto e della sua certezza. È sorta al fianco di questa prima «senza» un’altra Chiesa senza autorità, sia di magistero, che di governo, quasi fosse una Chiesa liberata e resa accessibile a quanti la vorrebbero puramente spirituale e indifferente a precetti morali oggettivi e sociali. Una Chiesa facile si è così vagheggiata, senza configurazioni gerarchiche, né giuridiche, una Chiesa senza obbedienza, senza norme liturgiche; una Chiesa senza sacrificio. Ma che cosa è una Chiesa senza la Croce?

Sì, vi è chi pensa potersi accontentare di Cristo, ma senza obbligo di contemplare la sua Croce, né di ammettere la sua Risurrezione, e per di più senza entrare nell’esperienza sacramentale e morale della nostra partecipazione a questo mistero pasquale e centrale di morte e di vita, soprannaturale.


LA LEGGE DEL SACRIFICIO

E vi è chi pensa di supplire all’immenso vuoto che è denunciato da questa residua spiritualità senza vera ed esistenziale Redenzione, adottando un altro «senza» cioè togliendo dalla propria vita ogni barriera, ogni distinzione da quella del mondo profano, senza fede, senza speranza, senza carità, senza un costume degno e forte; fidando invece nelle ideologie altrui, e valendosi ancora in certa misura del tesoro di sapienza umana del Vangelo per fare dell’uomo, di sé, della propria personalità e della società stessa l’ideale, anzi l’idolo orientatore dei processi mentali e civili della vita; ma senza Dio, ormai, quale vita può reggere?

Figli e Fratelli carissimi! conserviamo il desiderio d’una vita modellata secondo lo stile cristiano. Lo stile cristiano non è sempre facile; è uno stile esigente, incomodo qualche volta e non sempre alla moda, lo sappiamo. Ma ricordate: esso non dev’essere giudicato solo da ciò che toglie, ma valutato da ciò che dà. E se esso è scolpito in noi dalla legge del sacrificio, cioè della Croce, ricordate, anzi sperimentate voi stessi il paradosso proprio dello stile cristiano, che consiste in una singolare fusione di freno e di spinta, di moderazione e di vitalità, di dolore e di gaudio, simultaneamente. La vita presente trova in questo stile la propria più alta e più piena espressione. «Io sovrabbondo di gaudio, diceva S. Paolo, in ogni nostra tribolazione» (2Co 7,4).

Voglia Iddio aiutare noi tutti a imprimere nella nostra vita moderna un dolce e austero stile nuovo, lo stile cristiano.

Con la nostra Apostolica Benedizione.

I piccoli vincitori del premio della bontà nella scuola

E ora il nostro saluto a voi, alunni della IV classe elementare di Sìnnai, in provincia di Cagliari, che avete ricevuto ieri, in Campidoglio, il premio nazionale per la XXII Giornata della bontà nella Scuola. Sappiamo che lo avete meritato per l’esempio di obbedienza e di operosità, e per l’aiuto concreto prestato a coetanei bisognosi di una Missione dell’America Latina. E perciò, al riconoscimento che giustamente vi è stato tributato, aggiungiamo il nostro, che è al tempo stesso elogio per il bene compiuto, e incoraggiamento a continuare nel vostro impegno. Ne siete liete, vero? Ma soprattutto vi canti in cuore la gioia di sapere che, più di tutti, il Signore è contento di voi, e vi prepara una ricompensa che durerà sempre.

Brave, carissime alunne: la vostra presenza ci dice che oggi, nonostante tutto, la bontà è viva, la bontà è operosa, la bontà edifica, nella scuola e nella famiglia, nella vita della società come della Chiesa. Essa non fa rumore, ma c’è, è una realtà che fa da contrappeso a tanti esempi cattivi, che stringono il cuore. Lode a voi, che date questa lezione e lode ai vostri genitori, ai vostri insegnanti, ai vostri sacerdoti, che a tanto vi allenano e vi educano. La nostra benedizione scenda su di voi, e sulle degne autorità civili e scolastiche, che qui vi hanno accompagnate, e a tutte ottenga ogni più bel dono di Dio!



Mercoledì, 29 novembre 1972

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Noi ci siamo chiesti più volte quali siano i bisogni maggiori della Chiesa, noi che dalla meditata sapienza del Concilio abbiamo approfondito la conoscenza e la coscienza di questo fenomeno umano, polarizzato in Gesù Cristo, definito Popolo di Dio, suo Corpo mistico, di Cristo, in Lui compaginato e articolato (Cfr.
Ep 4,16), destinato a fare del genere umano una società di fratelli, dall’aspetto così luminoso da orientare gli uomini, come segno e strumento, al loro destino religioso (Lumen Gentium LG 1); noi, che dall’esperienza del mondo moderno, gigante meraviglioso di scienza e di potenza, ma a tratti cieco e folle su ciò che più importa, l’amore e la vita; noi, che intravediamo designarsi nei secoli passati e aprirsi al secolo nuovo più chiara, più diritta, più impellente la vocazione santificatrice e missionaria di lei, la Chiesa, e che la sentiamo impegnata a collaborare nel superamento del dislivello sociale, quasi scala, non ostacolo, che ancora separa e contrappone fra loro gli uomini a causa della diversa e spesso ingiusta fruizione del regno della terra, mentre tutti sono invitati, e più lo sono i poveri, al godimento del regno dei cieli; noi, quale bisogno avvertiamo, primo e ultimo, per questa nostra Chiesa benedetta e diletta, quale?

Lo dobbiamo dire, quasi trepidanti e preganti, perché è il suo mistero, e la sua vita, voi lo sapete: lo Spirito, lo Spirito Santo, animatore e santificatore della Chiesa, suo respiro divino, il vento delle sue vele, suo principio unificatore, sua sorgente interiore di luce e di forza, suo sostegno e suo consolatore, sua sorgente di carismi e di canti, sua pace e suo gaudio, suo pegno e preludio di vita beata ed eterna (Cfr. Lumen Gentium LG 5).

La Chiesa ha bisogno della sua perenne Pentecoste; ha bisogno di fuoco nel cuore, di parola sulle labbra, di profezia nello sguardo.

La Chiesa ha bisogno d’essere tempio di Spirito Santo (Cfr. 1Co 3,16-17 1Co 6,19 2Co 6,16), cioè di totale mondezza e di vita interiore; ha bisogno di risentire dentro di sé, nella muta vacuità di noi uomini moderni, tutti estroversi per l’incantesimo della vita esteriore, seducente, affascinante, corruttrice con lusinghe di falsa felicità, di risentire, diciamo, salire dal profondo della sua intima personalità, quasi un pianto, una poesia, una preghiera, un inno, la voce orante cioè dello Spirito, che, come c’insegna S. Paolo, a noi si sostituisce e prega in noi e per noi «con gemiti ineffabili», e che interpreta Lui il discorso che noi da soli non sapremmo rivolgere a Dio (Cfr. Rm 8,26-27).

Ha bisogno la Chiesa di riacquistare l’ansia, il gusto, la certezza della sua verità (Cfr. Jn 16,13), e di ascoltare con inviolabile silenzio e con docile disponibilità la voce, anzi il colloquio parlante nell’assorbimento contemplativo dello Spirito; il Quale insegna «ogni verità» (Ibid. Jn 16,13); e poi ha bisogno la Chiesa di sentir rifluire per tutte le sue umane facoltà l’onda dell’amore, di quell’amore che si chiama carità, e che appunto è diffusa nei nostri cuori proprio «dallo Spirito Santo che a noi è stato dato» (Rm 5,5); e quindi, tutta penetrata di fede, la Chiesa ha bisogno di sperimentare un nuovo stimolo di attivismo, l’espressione nelle opere di questa carità (Cfr. Ga 5,6), anzi la sua pressione, il suo zelo, la sua urgenza (2Co 5,14), la testimonianza, l’apostolato.

Uomini vivi, voi giovani, e voi anime consacrate, voi fratelli nel sacerdozio, ci ascoltate? Di questo ha bisogno la Chiesa. Ha bisogno dello Spirito Santo. Dello Spirito Santo in noi, in ciascuno di noi, e in noi tutti insieme, in noi-Chiesa.

Come mai si è affievolita questa pienezza interiore in tanti spiriti, che pur della Chiesa si dicono? come mai tante schiere di fedeli militanti nel nome e sotto la guida della Chiesa si sono impigrite e diradate? come mai molti si sono fatti apostoli della contestazione, della laicizzazione e della secolarizzazione, quasi pensando di dare più libero corso alle espressioni dello Spirito? o talvolta più fidando nello spirito del mondo, che in quello di Cristo? E ancora: come mai alcuni hanno allentato, anzi denunciato come catene moleste, i vincoli dell’obbedienza ecclesiale e della gelosa adesione alla comunione col ministero della Chiesa, per il pretesto di vivere secondo lo Spirito, affrancati dalle forme e dalle norme proprie delle istituzioni canoniche, di cui il corpo visibile della Chiesa pellegrina, storico ed umano, anche se mistico, deve essere compaginato? Sarebbe forse il ricorso allo Spirito Santo ed ai suoi carismi un pretesto, non forse troppo sincero, per vivere, o per credere di vivere, la religione cristiana in modo autentico, mentre chi di tale pretesto si serve, vive secondo il proprio spirito, il proprio libero esame, la propria arbitraria e spesso effimera interpretazione?

Oh! se cotesto fosse vero Spirito, non saremo noi certamente ad estinguerlo! (1Th 5,19) Ben sappiamo che «lo Spirito soffia dove vuole» (Jn 3,8); e sappiamo che la Chiesa, se è esigente verso i veri fedeli per le sue stabilite osservanze, e se spesso ella si mostra cauta e diffidente verso le possibili illusioni spirituali di chi prospetta fenomeni singolari, ella è e vuol essere estremamente rispettosa delle esperienze soprannaturali concesse ad alcune anime, o dei fatti prodigiosi, che talvolta Iddio si degna miracolosamente inserire nella trama delle naturali vicende.

Ma vogliamo ancora una volta valerci dell’autorità della tradizione,espressa, com’è noto, da S. Agostino, il quale ci ricorda che«nulla deve più temere il cristiano quanto il separarsi dal corpo di Cristo. Se infatti si separa dal corpo di Cristo, non è più membro di Lui; e se non membro di Lui, non è nutrito dallo Spirito di Lui (In Ev. Io. 27, 6; PL 35, 1618) «non vive dello Spirito di Cristo, se non il corpo di Cristo» (Ibid. 26, 13). Perché l’umile e fedele adesione alla Chiesa non solo non ci priva dello Spirito Santo, ma ci mette piuttosto nella migliore e sotto un certo aspetto nell’indispensabile condizione per godere personalmente e collettivamente della sua vivificante circolazione. La quale ciascuno di noi può mettere in attività. Primo con l’invocazione. Dobbiamo avere come prima «devozione» quella allo Spirito Santo (e quella alla Madonna ad essa ci porta, come a Cristo ci porta!). Secondo con il culto dello stato di grazia, si sa. E terzo con la vita tutta penetrata ed al servizio della Carità, che altro non è se non l’effusione dello Spirito Santo. Ecco: di Lui, soprattutto, ha oggi bisogno la Chiesa!

Dite dunque e sempre tutti a Lui: vieni! con la nostra Apostolica Benedizione.


Mercoledì, 6 dicembre 1972

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Oh! Quante cosa vengono sullo schermo della coscienza quando noi ci domandiamo il significato di questa parola «Avvento», che troviamo sulle labbra e sui libri della Chiesa all’inizio del suo anno liturgico! Avvento vuol dire venuta. Venuta di chi? Chi non lo sa? Venuta di Cristo. Chi è Cristo? È Dio, diciamo Dio, fatto uomo. Subito, all’inizio del suo programma religioso, siamo introdotti in un mondo di cose e di fatti straordinari, sbalorditivi. A cominciare dalla prima affermazione, data per sicura, per conosciuta, per accessibile, per inserita in modo inatteso e sorprendente nel corso della storia, come un fatto preciso, identificabile, il quale naturalmente, se vero, assume un’importanza incomparabile, polarizzatrice di tutta l’umanità e di tutti gli avvenimenti di questa terra e di tutti i secoli del suo divenire cosmico e antropologico. Ma chi è Dio?

La grande domanda diventa la prima questione. Chi è Dio? questa interrogazione ci impedisce d’andare avanti, se pur ancora l’uomo d’oggi ne conserva il proposito, nel nostro studio della Bibbia, del Catechismo e del Messale; il Libro della Parola di Dio, il libro che ci spiega e ci condensa il primo, e il libro che ci guida nel colloquio trascendente e vitale con Dio. Anche perché intravediamo che la risposta a questa prima questione coinvolge l’ultima risposta, a cui può aspirare la nostra vita; infatti: «questa è la vita eterna (dirà il Cristo, il Dio fatto uomo) che - gli uomini fedeli - conoscano Te, solo vero Dio, e colui che Tu hai mandato, Gesù Cristo» (
Jn 17,3).

Ora l’uomo d’oggi ha mai il desiderio, ed ha mai l’attitudine di porsi questa domanda? e molta gente del nostro tempo, che ha la sublime ambizione di essere libera, non si avvede d’essere vinta in partenza aderendo, spesso senza alcuna ragione critica, alla moda del dilagante disinteresse circa la questione di Dio, cioè circa il problema religioso? Esiste Dio? e chi è Dio? e quale conoscenza ne può avere l’uomo di Lui? quale rapporto ciascuno di noi deve avere con Lui?

Rispondere a questi interrogativi ci porterebbe a un discorso senza fine e complesso in mille discussioni, le più ardue, e oggi dall’opinione pubblica le più dimenticate, anzi le più avversate. Dio è ignorato, Dio è dimenticato, Dio è negato.

Per noi, in questo istante di colloquio religioso, basta l’avvertimento: bisogna pensare a Dio. Accenniamo appena.

L’indifferenza non è intelligente, non è umana. L’uomo è costituzionalmente fatto per conoscere, per amare, per servire Dio in questa vita e per goderlo eternamente nell’altra futura. Impedire all’uomo l’accesso a Dio significa porre un limite al processo intellettivo, affettivo, operativo dell’essere suo. Significa chiuderlo in se stesso, con tutte le conseguenze illogiche e dolorose che comporta un umanesimo compresso, limitato, cieco, illuso, privo dei supremi motivi per studiare, per amare, per sperare.

Due posizioni dello spirito contemporaneo dovrebbero essere considerate a questo riguardo: quella dell’agnosticismo e quella dell’ateismo. La ,prima è una posizione apparentemente onesta e praticamente facile, fondata sulla presunta inconoscibilità di Dio; per noi moderni educati alla conoscenza sperimentale, questa sembra la posizione logica e legittima: Dio, chi lo ha mai visto? (Cfr. Jn 1,18) Ma è la posizione della pigrizia e della rinuncia, che umilia l’uomo, gli contesta la prerogativa regale della conquista della vetta suprema delle sue facoltà spirituali, la conoscenza della prima Verità, del primo Bene, nega alla ragione la sua capacità naturale di valicare la sfera sensibile e sperimentale, e di accedere alla conoscenza e alla certezza, sia pure limitata, ma fondamentale, della sfera dell’Essere invisibile (Cfr. Rm 1,20; DENZ.-SCH. DS 3004). La Chiesa, tanto spesso accusata d’oscurantismo, e di sacrificare la ragione alla fede, rivendica invece alla ragione il suo diritto e la sua validità (oggi forse rimane sola a sostenere la ragione, e con essa la complessa virtù conoscitiva dell’uomo, nel raggiungimento della Verità, anche trascendente, anche creatrice). È posizione che l’uomo di scienza, l’uomo perciò del nostro tempo, dovrebbe rifiutare, nella fiducia che il pensiero umano tanto più è stimolato a salire alle ragioni trascendenti, alla Causa Causarum, a Dio in una parola, quanto più feconda e profonda gli si scopre progressivamente davanti la realtà delle cose a cui è impegnata la sua sempre nuova ricerca.

In una città del Nord, anni addietro, città moderna e affannosa di traffico e di attività, si leggeva sopra uno striscione disteso dall’uno all’altro lato d’una via principale: Pensate a Dio! Noi siamo convinti che l’invito fosse intelligente e originale, e documentasse tipicamente la possibilità, oltre che il dovere, della mente umana e moderna di trascendere dalle nostre cose, altrimenti da sé oscure inesplicabili e misteriose, al loro Principio creatore.

La seconda posizione, quella dell’ateismo, da una fase statica e puramente negativa, si è assai allargata ai nostri giorni, come tutti sanno, passando ad una fase attiva, propagandistica e spesso oppressiva; ciò esigerebbe un’analisi attenta e anche riguardosa per gli effetti che ne derivano nelle coscienze e nella vita pubblica, tenendo presente che tale negazione di Dio non ha potuto e ovviamente non potrà, con questa sua potente dilatazione, offrire ragione della propria consistenza, anzi verrà palesando certi aspetti della propria speculativa ed esistenziale vacuità, che danno almeno una speranza, per la stima che sempre abbiamo dell’uomo, quella d’un’evoluzione razionale e spirituale, per la quale deve essere vigilante la nostra attenzione e la nostra preghiera.



Ma ritorniamo là donde abbiamo preso le mosse: l’Avvento, stagione spirituale questa, che ci deve scuotere dall’indifferenza e da!la negazione religiosa, e ci deve riaccendere nell’animo l’interesse, il desiderio, la speranza del prodigioso e umanissimo incontro con Dio in Cristo nascituro.

Con la nostra Benedizione Apostolica.



Mercoledì, 13 dicembre 1972

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Il periodo liturgico, nel quale ci troviamo, l’Avvento, offre alla riflessione di tutti l’eterna questione: la ricerca di Dio, il problema religioso. Ancora prima che nel calendario ecclesiastico, questo problema è iscritto nell’uomo, nella sua natura, nel suo pensiero, nel suo orientamento, abbia o non abbia la soluzione, che noi crediamo vera e felice.

Osservando le sorti di questo problema nella realtà storica, psicologica e sociologica dei nostri giorni possiamo noi dire che esso, il problema religioso, abbia avuto soluzioni positive? soddisfacenti? «Grosso modo», cioè nell’insieme della cultura profana moderna, nella mentalità della gente a noi contemporanea, dobbiamo purtroppo riconoscere che il diagramma della religiosità piega verso la negazione. Lo dicevamo altre volte: l’indifferenza, il dubbio, il rifiuto, l’ostilità verso la religione segnano un aumento negativo, almeno nelle conclusioni speculative e pratiche; tutto tende a escludere Dio dal pensiero e dal costume. La vita diventa sempre più profana, laica, secolarizzata. L’uomo d’oggi si afferma, sicuro di bastare a se stesso, e di poter prescindere dal riconoscimento del nome di Dio e dalla celebrazione della sua gloria. La legittima delimitazione profana dei vari campi del sapere e dell’azione tende ad avere il sopravvento totale e ad escludere Dio da ogni campo della vita umana.

Ma facciamo attenzione. Questa esclusione, spontanea o forzata che sia, lascia un grande vuoto. Vengono a mancare i principii supremi del pensiero e dell’operare. Si tenta di mettere l’uomo al posto di Dio. Ma l’umanesimo rivela subito la sua natura: cioè esso non può non essere un’aspirazione alla vita, all’essere, un desiderio ideale, una insufficienza, una fame, un conato, e perciò spesso, alla fine, una disperazione, l’abisso cioè dell’assurdo. Potremmo citare una quantità di dolorose testimonianze (Cfr. ad es. quella di KLAUS MANN, in Ponte, 1949, PP 1451-1464).

Concludiamo, per quanto ora ci interessa, la nostra età, nel tentativo di sopprimere il ricorso a Dio, cioè la religione, qualificata come inutile, anzi nociva al progresso dell’uomo, esaspera fino alla idolatria, cioè all’esaltazione assoluta, l’aspirazione dell’uomo, fino alla delusione anarchica e nichilista (Cfr. Marcuse, etc.). L’uomo moderno è costretto a dichiararsi povero, un povero dai desideri esasperati, illusi o delusi. Egli rimane ancor oggi, secondo la definizione biblica: vir desideriorum, l’uomo dei desideri, o desiderato (
Da 9,23). Perciò il processo della nostra ricerca continua. Nel deserto? Sopra un’altra traccia. La traccia della storia. Quanto non s’è parlato nel mondo contemporaneo di storia! Cioè dell’evoluzione, del divenire, del progresso, della filosofia dello spirito, quasi fosse una rivelazione in tale continua via di sviluppo da appagare, anzi da stimolare l’insaziabile sete dell’uomo. Potremmo ricorrere ad un’altra definizione biblica dell’uomo, la quale si riflette nell’uomo moderno: Filius accrescens, un giovane in via di crescita (Gn 49,22). Una bella definizione, se non fosse anch’essa fondata sopra un falso destino: il tempo, Saturno che divora i suoi figli. Il tempo, sì, è l’atmosfera della nostra vita che diviene, e che perciò è pellegrina di natura sua, in cerca, sempre in cerca verso il futuro, verso una speranza . . . La morte? anche questo aspetto essenziale della nostra vita è condannato ad una terminale sconfitta?

La speranza! nel tempo, nell’avvenimento segreto e risolutivo, anzi nel personaggio, che può dare salvezza. A questo punto si manifesta il prodigio. Nel tempo, nella storia, nell’universale tensione dell’umana speranza accade un fatto soprannaturale, cioè nuovo, gratuito, miracoloso, accade la venuta di Dio stesso nella trafila delle vicende umane, accade l’incarnazione, accade l’arrivo di Gesù Cristo; e sappiamo Chi è Gesù Cristo, il Figlio di Dio, il Verbo eterno di Dio, che s’inserisce nella storia dell’umanità assumendo nella propria divina e personale Esistenza una natura umana, in cui vivere umanamente, parlare, agire da uomo, soffrire e morire da uomo, e uomo per divina virtù, risorgere e vivere per sempre.

È il mistero cristiano.

Era atteso questo mistero? era previsto?

La risposta è assai delicata e complessa; ma possiamo dire di sì (Cfr. DENZ-SCH. DS 1522 DS 3009; FORNARI, Vita di Cristo, vol. I, 1).

Qui sarebbe da parlare, fra l’altro, del messianesimo, cercando di renderci conto del cammino storico e spirituale che l’apparizione di Cristo ha percorso prima d’arrivare al momento del suo compimento effettivo e temporale. Basti rileggere il prologo dell’Epistola agli Ebrei: «Iddio, dopo di avere in antico, a più riprese e in molte guise, parlato ai nostri padri per mezzo dei profeti, in questi ultimi tempi parlò a noi per mezzo del Figlio suo, che Egli costituì erede d’ogni cosa, per mezzo del quale creò anche i secoli» (He 1,1-2). Tutto l’Amico Testamento è pervaso da una prospettiva, che ha la sua traiettoria rivolta verso un’era messianica e verso un Personaggio figlio di David, considerato quale espressione storica della regalità del Popolo di Dio, della sua libertà, della sua costituzione civile e religiosa, e considerato poi simbolo d’un futuro Re ideale, il Messia, nel quale i destini d’Israele avrebbero raggiunto la loro pienezza. Canti e Profezie tengono sveglia questa speranza nel Popolo ebraico, con tanto maggiore e lirica certezza, quanto più infelice era lo svolgimento della sua storia politica (Cfr. Ps 2 Ps 35 Ps 110; Is 48, ss.; etc.).

Visioni lontane, si dirà. Come può un cittadino del mondo moderno interessarsi di queste cose? È vero; sono visioni che sembrano dissolversi negli orizzonti dell’antichità, e non avere più alcuna relazione con la psicologia della gente contemporanea, né con i fatti della nostra civiltà . . .

Proprio e davvero così? Alzate un istante la testa e guardatevi intorno. Che cosa desidera oggi l’umanità? e dove è rivolto il suo irreversibile cammino? Oh! quanto vi sarebbe da dire e da meditare!

Non aspira oggi il mondo all’unità? alla giustizia? alla pace? Non si parla, con intenzione equivoca forse, ma con aperto linguaggio di liberazione? E non è forse questo fermento continuo di novità e di progresso una tensione verso un domani luminoso e rigeneratore? E la stanchezza, l’inquietudine, il pessimismo, che invadono oggi la giovane generazione, che cosa ci dicono? Non è un vento messianico quello che soffia? Vogliamo dire: non è l’ora nostra più che altre passate predisposta, se già forse non formata, ad una mentalità messianica? E d’altro lato: quale messaggio ritorna al mondo dal Cristo di Betlemme, se non quello appunto che anticipa ‘sulle aspirazioni più alte del nostro secolo? Unità e universalità, pace e fratellanza, nobiltà e salvezza dell’uomo, amore e liberazione per ogni uomo infelice?

È l’Avvento; e questo confronto fra il nostro mondo e il vaticinio messianico di Cristo, storicamente continuato nella sua Chiesa ci obbliga ad alti, nuovi, fiduciosi pensieri.

Possano essi preparare un Natale nuovo e felice! Con la nostra Apostolica Benedizione.

Capitolari della Società del Verbo Divino

We are pleased to extend a special greeting of grate and peace in Jesus Christ to Father John Musinsky, Superior General of the Society of the Divine Word, and to all those taking part in the General Chapter. It is our hope that the Holy Spirit will guide you in the paths of wisdom and enable you, through the renewal of your Congregation, to render a great authentic service to the entire Church and to all the World. We pray that you will preach the Gospel with increased dedication, enthusiasm and efficacy - in nomine Domini.



Mercoledì, 20 dicembre 1972

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Noi parlavamo dell’Avvento nelle precedenti Udienze, quasi obbligati dal presente periodo liturgico a considerare con la mentalità comune della gente del nostro tempo (non con quella propriamente teologica, né con quella del fedele che frequenta le sacre celebrazioni), il grande, il perenne, il fondamentale problema del rapporto dell’uomo con Dio, il rapporto religioso. Dicevamo così una parola circa il primo aspetto di questo problema, quello della ricerca, la quale sembra declinare verso una conclusione negativa: inutile cercare Dio, tanto non si trova, anche perché, se Dio è veramente l’oggetto della ricerca, Egli è introvabile, irreperibile: Dio è trascendente, Dio è ineffabile. E dicevamo poi d’una via singolare e nuova di trovare Dio, quella che ce lo fa incontrare nella rivelazione, nella storia, nella realtà e nella promessa d’un suo meraviglioso intervento nel mondo, nel tempo, nella nostra realtà storica; donde un secondo aspetto del problema religioso, quello dell’attesa di Dio, l’aspetto profetico, messianico, e, per noi, escatologico. Vi è un terzo aspetto dello stesso problema, l’aspetto più bello, più interessante: quello dell’incontro con Dio; un incontro, che può assumere le forme più varie e impensate; Dio è libero di presentarsi a noi come la sua inesauribile volontà creativa dispone; e l’ipotesi d’una sua presenza trova il nostro spirito o incapace di percepirla, o timoroso d’averne qualche esperienza (Cfr.
Lc 5,8), ovvero straordinariamente felice per l’esuberante bontà e bellezza e intimità e comunicabilità, con cui Dio ha di fatto voluto manifestarsi.

Questo, Figli carissimi, è il vero, il grande, il beato messaggio della nostra religione: Dio è la nostra felicità. Dio è la gioia, Dio è la beatitudine, Dio è la pienezza della vita, non solo in Se stesso, ma per noi. Dio si è rivelato in amore, si è proporzionato alle nostre estreme aspirazioni; Dio ha avuto cuore per ogni deficienza, per ogni nostra cattiveria, per ogni nostro peccato. Dio si è offerto a noi come misericordia, come grazia, come salvezza, come sorpresa gaudiosa e gloriosa (Cfr. Rm 9,23 Col 1,27 1Co 2,9). Noi dobbiamo ripetere l’annunzio angelico del Natale: «Non abbiate paura, perché, ecco, vi porto una buona novella di grande allegrezza per tutto il popolo» (Lc 2,10). Sì, la nostra religione è una religione di salvezza, una religione di letizia. Non risentiamo forse dentro di noi, come di campane in festa, l’eco delle esortazioni dell’Apostolo ai Filippesi: «Siate sempre lieti nel Signore; lo ripeto, siate lieti»? (Ph 4,4)

Questa è la vera religione, la nostra religione, la nostra spiritualità: la gioia di Dio. Questo è il regalo che a noi porta Cristo nascendo al mondo: la gioia di Dio.

Ora, ecco la domanda per oggi: riusciremo noi a far capire agli uomini del nostro tempo questo messaggio religioso? Dio è la gioia, la nostra gioia? Chi ci ascolta? chi ci crede davvero? (Cfr. Rm 10,15-16) Forse non riusciremo. Non ci credono gli uomini del pensiero, ingolfati nei problemi del dubbio; non ci credono gli uomini dell’azione, affascinati dallo sforzo di conquistare la terra; non quelli della vita comune, insofferenti di meditazioni interiori . . . È la sorte del Vangelo nell’umanità (il quale vuole appunto significare: annunzio felice). Dio resterà problema, resterà negazione per molti ai quali esso pur risuona vicino; l’indifferenza, l’apatia, la sordità, l’ostilità spegneranno la voce beatificante. Vi sarà perfino chi la rifiuterà proprio perché beatificante: non è forse, diranno, l’oppio del popolo? il surrogato ai veri rimedi di cui esso ha bisogno? Noi avremo per reazione, il nostro annunzio da ripetere: Dio è la gioia.

Rimanga intanto l’annunzio acquisito alla storia religiosa della umanità: il cristianesimo ha offerto, come primo e ultimo dono, questo dogma, questa teologia, questa spiritualità: la beatitudine, raggiungibile dall’uomo, in Dio, mediante Cristo, nello Spirito Santo. Rimanga questa impavida certezza: Dio è la vera, la suprema felicità dell’uomo. Rimanga questa stupenda pedagogia per insegnare ai nostri bambini, ai nostri giovani alunni, il nostro catechismo: sì, la fede è mistero, Cristo porta la croce, la vita è dovere, ma soprattutto Dio è la gioia. Rimanga per voi, poveri, per voi, afflitti, per voi, affamati di giustizia e di pace, per voi tutti, sofferenti e piangenti: il regno di Dio è per voi, ed è il regno della felicità che conforta, che compensa, che dà verità alla speranza. Rimanga per voi, elettori spirituali di Cristo: Egli vi parla nel cuore di beatitudine e di pace; e con questo ineffabile dono Egli non placa, in questa vita presente, la vostra ricerca, la vostra sete oceanica; oggi la sua felicità non è che un saggio, un anticipo, un pegno, una iniziazione; la pienezza della vita verrà domani, dopo questa giornata terrena, ma verrà, quando la felicità stessa di Dio sarà aperta a coloro che oggi l’hanno cercata e pregustata. Dio è la gioia!

Questa espressione, che riassume la nostra attesa del Natale non contrasta con la nostra dolorosa commozione per l’improvvisa ripresa di aspre e pesanti operazioni belliche nel Vietnam, quando tutti nel mondo si pensava imminente una iniziale e pacifica soluzione del lungo conflitto, proprio in coincidenza con le feste del Natale. Essa riafferma piuttosto il nostro voto, accompagnato da più viva preghiera al Dio della pace e della letizia, che la dolorosa situazione abbia presto il suo felice epilogo non in nuove operazioni belliche, ma nelle trattative, condotte con reciproca longanimità e lealtà.

E con questo voto a tutti diamo la nostra Apostolica Benedizione.


Mercoledì, 27 dicembre 1972


Paolo VI Catechesi 22112