Paolo VI Catechesi 7071

Mercoledì, 7 luglio 1971

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Alla ricerca dei criteri fondamentali, che devono guidare la vita dell’uomo, e che gli insegnamenti del Concilio hanno maggiormente inculcato, Noi ne troviamo uno comunissimo, perché ha tanta parte nel mondo moderno, ma non per questo esso è meno originale e meno caratteristico nel cristianesimo; e questo criterio è l’azione, è l’attività, è l’indirizzo operativo, è il fare, l’operare, il lavorare; cioè l’impiego morale della volontà.

L’uomo vale, potremmo dire alla fine dei conti, non tanto per ciò che è, ma per ciò che fa. È questo uno dei punti più chiari in cui la pedagogia del Concilio s’incontra con l’atteggiamento generale dell’uomo moderno, ch’è quello di compiere il massimo sforzo operativo per sviluppare se stesso, per conoscere le cose che lo circondano, per dominarle e utilizzarle, per progredire (Cfr. Gaudium et Spes
GS 33). Il nostro tempo è volontarista. Anche nella difesa della libertà e nell’oblio della nozione del dovere, il nostro tempo tende all’intensità dell’azione, e misura se stesso dall’impiego di forze umane e di energie naturali, e quindi dai risultati prodotti dall’attività, resa scientifica ed utilitaria.


LA SCUOLA DEL VANGELO

Con altri procedimenti e per altri fini anche la scuola del Vangelo, aggiornata nella coscienza e nei metodi, tende a fare dell’uomo un attivista. Si può leggere il Vangelo in chiave di «azione». L’azione è l’esplicazione cosciente e voluta dell’essere, la sua perfezione, la sua felicità (Cfr. S. TH. I 89,1 I-II 3,2). Ricordate le parabole del Vangelo; quella, ad esempio, dei vignaiuoli disoccupati: «Perché ve ne state tutto il giorno oziosi?» (Mt 20,6), chiede il padre di famiglia in cerca di mano d’opera per la sua vigna; o quella dei talenti, nella quale è punito colui che si era limitato a custodire, senza trafficare il suo tesoro (Mt 25,25); ovvero le famose parole del Signore: «Non chi dirà . . . . ma chi farà . . . . entrerà nel regno dei cieli» (Mt 7,21 Lc 11,28). Tutto il Vangelo è un trattato per lo sviluppo dell’uomo (quante volte ricorre la parabola del seme!); e come l’annuncio liberatore del regno è tutto intessuto da doveri da compiere, scegliendo la via stretta e difficile (Cfr. Mt 7,14), senza retrocedere per stanchezza o per ostacoli (Cfr. Lc 9,62), fino, se occorre, a dare la propria vita! (Jn 12,25) Il Vangelo non è affatto un codice di facile esecuzione; esige sforzo e fedeltà.


NÉ QUIETISMO NÉ PIETISMO

Qui si potrebbero passare in rassegna i sistemi morali rinunciatari allo sforzo personale per raggiungere la salvezza, nella erronea convinzione che alla fede soltanto e soltanto alla grazia noi dobbiamo la fortuna d’essere salvati, senza una positiva e sistematica disciplina morale, quasi che la fede e la grazia, doni di Dio, vere cause della salute, non esigessero una corrispondenza, una coerenza, una collaborazione libera e responsabile da parte nostra, sia come concorrente condizione dell’opera salvatrice di Dio in noi, e sia poi come conseguenza della rinascita operata dalla sua misericordiosa azione soprannaturale. Né quietismo, né pietismo poi interpretano la concezione morale del cristiano; e nemmeno la semplice consuetudine passiva e tradizionale di certi precetti religiosi, o di certi costumi convenzionali. Così pure si potrebbero ricordare i sistemi morali che pretendono raggiungere una data efficienza operativa e morale, come il pragmatismo utilitarista, e lo stoicismo che sotto l’aspetto d’un’insensibile austerità nasconde la persuasione orgogliosa di bastare a se stesso, senza l’umiltà della penitenza e della preghiera, e senza il ricorso all’unica fonte di perfezione e di salvezza, che scaturisce dalla virtù redentrice di Cristo e dalla bontà infinita di Dio.

Non sono questioni antiquate, perché sopravvivono nella perenne problematica teologica e morale della nostra inserzione nel piano divino della rivelazione e dei rapporti che ne derivano, specialmente circa l’esistenza e l’impiego della nostra libertà.

Ma oggi la questione del nostro attivismo cristiano si presenta ordinariamente in altri termini. Accenniamo appena a titolo di esempio. Non siamo noi forse assaliti da una grande tentazione di pigrizia morale, che vulnera nella sua intima nervatura la voglia e la capacità di dare alla vita cristiana un orientamento volontarista, sia personale che operativo? Di consacrarla ad un ideale, che tragga dall’assoluto la sua forza impegnativa? Perché? Noi siamo come asfissiati dal dubbio; un dubbio sistematico e negativo, quasi mai di vera ricerca, ma piuttosto di disimpegno e di demolizione, di riduzione al minimo delle certezze della fede e dell’obbedienza all’istituzione ecclesiale, di secolarizzazione, non solo di tanti campi specifici propri della competenza della ragione umana e dell’ordine naturale, ma di tutto il pensiero e quindi di tutto il comportamento pratico e sociale. Sopravvivono formule operative nominaliste, che non osano quasi documentarsi di propri principi. Non si ha più voglia alcuna di affermare, di militare per la propria fede e per le proprie idee. È la credibilità della dottrina e della disciplina della Chiesa, che anche nel settore religioso spesso è posta in questione. Si nasconde spesso questa carenza di pensiero e di volontà con termini equivoci: il pluralismo, la liberazione, l’autonomia della coscienza, la moralità nuova e permissiva, la trasformazione continua del mondo contemporaneo, la scoperta d’un nuovo sistema, ecc.


APPLICARE IL CONCILIO

Fratelli e Figli carissimi! Non è con questi tortuosi atteggiamenti che potremo rinnovare la nostra vita morale e religiosa. Non è così che daremo al Concilio la sua autentica interpretazione e la sua feconda applicazione. Noi ci rivolgiamo perciò ai Fedeli, che aspirano a realizzare la vita cristiana in modo vivo, nuovo, positivo, costruttivo. E li invitiamo ancora a infondere nella loro fede soggettiva quello sforzo umile ed energico che implora la fede stessa come dono di Dio, come il suo dono primario: ecco allora la fede che sale cercando, la fede che scende dalla voce dello Spirito Santo, dalla sua testimonianza interiore (Cfr. Rm 8,16), e che s’incontrano e scoccano in scintilla di luce e di gaudio là dove la Chiesa maestra aggiunge la sua testimonianza autorizzata (Cfr. Ac 1,8) e conferma: sì, questa è la Verità rivelata, la Verità a cui si può, senza pericolo di delusione finale, consacrare la vita.

Li invitiamo all’antico binomio, che tutto pervade l’esperienza e la storia del nostro cattolicesimo: contemplazione ed azione. E li esortiamo, non con parole Nostre, ma con quelle dell’Apostolo Paolo alla nascente e già travagliata comunità cristiana di Corinto: «Diletti Fratelli, siate stabili, incrollabili, abbondando sempre nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore» (1Co 15,58).

Così, così; con la Nostra Benedizione Apostolica.


Capitolo Generale dei Canonici Regolari dell’Immacolata

Con paterno compiacimento vediamo intorno a Noi i membri del Capitolo Generale dei Canonici Regolari dell’Immacolata Concezione, i quali, guidati dal nuovo Superiore Generale, il venerato Padre Luigi De Perretti, sono venuti a porgerci, con il loro, l’omaggio dell’intera Famiglia religiosa e ad ascoltare una parola di guida e di incoraggiamento per il loro programma di attività apostolica.

Come già nei secoli passati i Canonici Regolari offrirono alla Chiesa un valido aiuto per la soluzione dei difficili problemi della vita del Clero, così oggi voi, figli carissimi, ricollegandovi a quelle gloriose tradizioni, alla luce degli esempi e degli insegnamenti di Dam Grea, intendete partecipare sempre più attivamente alle aspirazioni e ai bisogni della Chiesa nell’ora presente, attraverso una disponibilità incondizionata alla Sede Apostolica e una vita religiosa integrale alle dipendenze dei Vescovi diocesani.

Questo vostro ideale non può non esserci immensamente gradito, per le felici prospettive di fecondo lavoro apostolico, che così bene si armonizzano con tali insegnamenti e le attese del Concilio Ecumenico. Noi ve ne ringraziamo di cuore; e mentre formuliamo i migliori auguri per il prospero avvenire della vostra Congregazione, su di essa, sulle vostre iniziative, e su tutti i vostri Confratelli, imploriamo le più elette grazie divine, delle quali è pegno la Nostra Apostolica Benedizione.


Mercoledì, 14 luglio 1971

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Ancora una volta, Noi ci domandiamo quale linea di svolgimento, quale aspetto prevalente il Concilio abbia voluto imprimere alla vita cristiana. La risposta non è dubbia: il Concilio ha voluto ricordare che la vita cristiana deve essere santa. La santità sembra comunemente un termine estremo e superlativo, una manifestazione eccezionale ed inaccessibile ai più di perfezione morale e religiosa, non uno stato normale a tutti offerto e da tutti esigibile, perché di solito riserviamo questa qualifica di santità alle figure umane che hanno realizzato in misura piena e sublime l’ideale del seguace di Cristo, l’eroe, il martire, l’asceta, l’uomo-campione, che si distacca dalla moltitudine e presenta una statura superiore e singolare della personalità umana ingigantita non solo da uno sforzo ben riuscito nella imitazione del Maestro divino, ma altresì da una preferenziale abbondanza di doni carismatici e da una mistica comunione con la vita stessa di Cristo, per la quale egli, il santo, può dire a buon diritto: «Per me, la vita è Cristo» (
Ph 1,21). Cioè abbiamo fatto dell’agiografia il paradigma della santità.

Il Concilio rettifica questa concezione fenomenica e rara della santità, e ne riporta il concetto alle origini storiche, a quando cioè tutti i fedeli cristiani erano chiamati i «santi» (1P 1,15; ecc.); e alle origini teologiche della santità conferita all’uomo dal battesimo e dagli altri sacramenti, mediante i quali ci è infusa quella misteriosa ed operante presenza soprannaturale di Dio santificante, che chiamiamo la grazia e che ci fa santi, figli di Dio, consorti in qualche misura alla sua stessa ineffabile e trascendente natura (2P 1,4). Donde subito concludiamo: la santità è un dono; la santità è comune e accessibile a tutti i cristiani; la santità è lo stato, possiamo dire, normale della vita umana, elevata ad una misteriosa e stupenda dignità soprannaturale; è la novità portata in dono da Cristo all’umanità, da Lui redenta nella fede e nella grazia (Cfr. Rm 6,4).

Non solo dono, però, ma dovere, altresì. La santità, presupponendo il dono divino della grazia, che ci consacra santi, diventa un obbligo, diventa l’esercizio più impegnativo della nostra libertà. I cristiani, dice il Concilio, «devono, con l’aiuto di Dio, mantenere e perfezionare, vivendola, la santità che hanno ricevuta» (Lumen gentium LG 40). La santità non è passiva; essa non esonera l’uomo da uno sforzo morale continuo (Cfr. DENZ. SCH. DS 2351 (1327) ss.), ma scaturisce come un’impellente vocazione dal fatto della elevazione dell’uomo al grado di figlio di Dio: «Siate perfetti, insegna Gesù, com’è perfetto il vostro Padre celeste» (Mt 5,48); «come si conviene a santi», aggiunge S. Paolo (Ep 5,3).

Come mai si spiega la tendenza, tanto pronunciata ai nostri giorni, ad interpretare il Concilio come una «liberazione» da obblighi morali, che il costume cristiano aveva sempre considerato (se non, purtroppo, sempre osservato) come gravi e vincolanti? Come si tende a squalificare come norme puramente giuridiche, e perciò esterne e mutabili, le leggi della Chiesa? Come si eccede nel dichiarare «tabù», specialmente in materia di decenza morale, certe esigenze e certe regole, che l’educazione cristiana e civile era riuscita ad iscrivere nello stile della vita nobile e corretta? Siamo in un periodo di lassismo morale, veramente grave e punto conforme alla retta interpretazione del vero senso cristiano ed umano. Al senso dell’onesto e del dovere si sostituisce spesso quello dell’istinto e del tutto lecito. Pansessualismo degradante, edonismo frivolo e passionale, culto della violenza e della ribellione nell’ambito della convivenza sociale, arte superlativa del furto e dell’estorsione, del peculato e della concussione, e poi ora la droga con i suoi criminali commerci e con la sua fatale disintegrazione psichica e morale minacciano davvero di avvilire il livello morale della nostra generazione, che sembra dimenticare gli insegnamenti salutari delle terribili esperienze delle guerre recenti.

È perduto il senso morale? No, speriamo! Forse, in alcune di queste manifestazioni anormali e sconcertanti si nasconde una reazione a false condizioni di vita associata, a ipocrisie farisaiche di pseudo-ordine sociale e morale, al vuoto pedagogico di scuole materialistiche e agnostiche; reazione di cui ‘tutti noi dovremmo cercare di scoprire l’intimo ed inconscio bisogno di una sincerità umana più autentica e più fondata su principi logicamente validi ed imperativi. Ma dobbiamo, noi cristiani, noi cattolici, correggere la facile piega al conformismo ideologico e pratico della cultura ambientale, e alla imbelle suggestione che per essere moderni bisogna comportarsi «come gli altri», cioè affrancati non solo da forme contingenti e storicamente pereunti del costume pratico, ma altresì da esigenze irrinunciabili della fede e della comunione ecclesiale. Non dobbiamo pensare che il Concilio, invitandoci a più diretti e fraterni rapporti col mondo contemporaneo, abbia autorizzato un’ambigua e accomodante interpretazione del Vangelo, un cristianesimo facile, senza dogmi, senza autorità e senza virtuosi sacrifici. La voce di Cristo ci risuona alle spalle: «Se la vostra giustizia (cioè la vostra perfezione morale) non sarà maggiore di quella degli scribi e dei farisei (della gente «bene», si direbbe oggi), non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 5,20). Cristo non diminuisce l’esigenza della legge morale; la rincara piuttosto e la sottrae alla pseudo sufficienza d’una pura osservanza legale e formale, rendendola più interiore, più personale, più vincolante: rileggiamo il discorso della montagna, e vedremo in quale direzione la norma della vita cristiana si perfeziona con esigenze più umane, più profonde e più religiose, che troveranno nel supremo duplice mandato dell’amore sovrano a Dio e dell’amore egualitario al prossimo la sintesi-chiave di tutto l’ordinamento etico cristiano. La scala morale di Cristo non discende, ma sale; è la scala del «più», non del «meno».

E non sembri intollerabile, né anacronistico, né impossibile il destino, che la vita cristiana ci apre davanti, quello della perfezione; una perfezione sempre da raggiungere, e non mai paga di sé, in questa esistenza nel tempo, ma sempre tesa, sempre alacre, sempre disposta a correggersi, e perciò sempre umile e sostenuta dalla preghiera e dalla speranza, e sempre in rispondenza allo stimolo e all’aiuto della grazia. Sempre, fin da questo doloroso presente cimento, beata.

E la Chiesa, con la sua dottrina, ch’è quella di Cristo, con i suoi sacramenti, che sono quelli dello Spirito Santo e santificante, con la sua autorità pastorale, ch’è quella per l’unità e per la carità ci assiste e ci guida, rivelandoci ad ogni passo del nostro faticoso cammino la direzione giusta, quella della via, della verità e della vita ch’è Cristo Signore.

Con la sua, ecco la Nostra Benedizione Apostolica.



Il servizio del quotidiano cattolico alla comunità ecclesiale

Un pensiero di particolare riconoscenza, con una parola di saluto e di augurio, di plauso e di incoraggiamento, indirizziamo ora ai Religiosi e alle Religiose che, guidati dal venerato e stimato Monsignor Pangrazio, sono venuti a testimoniarci la loro fede e la loro filiale devozione, in occasione della settimana di studio sul tema «Strumenti della comunicazione sociale: il quotidiano cattolico», organizzata dalla C.E.I. e dal suo Ufficio Promozionale Stampa.

È questo un Ufficio del quale anche Noi sentivamo la mancanza e l’urgenza; la cui realizzazione ci è ora motivo di sincero compiacimento; e della cui operosa attività vediamo già le primizie, mentre altri frutti, continui e copiosi, vogliamo e dobbiamo auspicare e speriamo di poter presto raccogliere, con l’aiuto di Dio.

Rivolgendosi a voi, cari Religiosi e Religiose, l’Ufficio Promozionale Stampa della C.E.I., diretto dal bravo Mons. Chiavazza, si è rivolto al cuore della comunità ecclesiale italiana. Chi potrebbe dubitare dell’opportunità e della chiaroveggenza di questa scelta? E a voi l’Ufficio Promozionale Stampa ha fatto appello per sollecitare una sicura e indispensabile corrispondenza, in ordine alla soluzione dei vari problemi che interessano il quotidiano cattolico italiano. Come potrebbero i Religiosi e le Religiose, che della Chiesa sono parte così importante, qualificata e imprescindibile, sottrarsi alla fiducia in essi riposta, alle responsabilità ineludibili che pur su di essi gravano in questo settore? Come potrebbe il cuore non pulsare e non essere propulsore di vita anche per ciò che riguarda il giornale cattolico?

Il breve tempo ora a disposizione non permette che ci dilunghiamo sulla necessità del quotidiano dei cattolici italiani quale impegno morale collettivo di primo ordine; quale pubblica espressione di vitalità, di presenza, di coerenza e di coraggio ecclesiale; quale punto di incontro e di manifestazione delle diverse esperienze di pensiero e di azione maturate in seno alla Chiesa italiana nell’unità della fede e della carità; quale mezzo insostituibile di informazione e di formazione; quale strumento d’incidenza sull’opinione pubblica nazionale, a vantaggio del bene comune. Del resto, sappiamo che voi già conoscete tutto ciò, e che non mancate di esservi profondamente sensibili. Ne è prova la lodevole sollecitudine con cui vi radunate in questi giorni, per fare oggetto di ulteriore intelligente riflessione e di conseguenti decisioni operative i temi predetti.

A Noi soprattutto importa, in occasione di questo significativo e gradito incontro, raccomandarvi di considerare il problema del quotidiano cattolico come cosa vostra, poiché è cosa della Chiesa; di dare al quotidiano dei cattolici italiani ogni possibile appoggio, facendovi sentire la vostra voce e contribuendo così sia ad arricchirne i servizi informativi come a consolidarne la bontà degli orientamenti; di zelarne con successo la diffusione, la lettura, il sostegno anche materiale, nei vostri Istituti e tra le persone con cui siete in contatto a causa dei vostri molteplici ministeri. È un dovere della vostra professione cristiana e religiosa. Adempitelo fedelmente e generosamente con la Nostra Benedizione.

Gruppi giovanili di formazione religiosa

Con particolare soddisfazione del Nostro animo accogliamo e salutiamo i partecipanti al Corso per «Animatori del Movimento Oasi» che, diretto dal Rev. P. Virginio Rotondi, S.I., si sta svolgendo in questi giorni presso la Villa Sorriso di Castelgandolfo.

Provenienti da diverse nazioni, voi carissimi figli Sacerdoti e laici, non avete esitato a portare una sosta agli importanti quotidiani impegni pastorali e professionali, per convenire nel menzionato centro di preghiera e di studio, pensosi delle odierne necessità della Chiesa; e per concordare un programma di azione al fine di rendere attenti, specialmente i giovani, verso l’altissimo dono della vocazione, la grande missione di cooperare alla salvezza degli uomini e gli incomparabili beni connessi col sacro ministero.

Mediante il vostro raccoglimento e la vostra opera, voi offrite al mondo - non sempre sensibile a tali manifestazioni di solidarietà fraterna - la riprova della vitalità della Comunità ecclesiale che può sempre fare affidamento sulla generosità dei suoi membri fedeli. Noi, pertanto, mentre vi ringraziamo per l’omaggio così significativo che avete voluto offrirci, vi esortiamo - secondo la forte espressione del Concilio Vaticano II - ad essere, nei vostri luoghi di azione pastorale e di lavoro professionale, sempre più autentici animatori, mettendo a frutto - che auspichiamo largamente fecondo - gli insegnamenti dei vostri maestri e le indicazioni derivanti dal vostro dialogo fraterno.

Nella vostra non facile opera, vi seguirà la Nostra preghiera e vi accompagnerà la Nostra confortatrice Benedizione, che con paterna benevolenza impartiamo a ciascuno di voi e alle vostre famiglie.

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Sappiamo che è presente all’udienza un gruppo numeroso di giovani, i quali aderiscono al Movimento GEN - cioè la «Nuova Generazione» - e sono in questi giorni riuniti per un convegno di studio presso il Centro Mariapoli di Rocca di Papa.

Cari giovani, Noi vi ringraziamo della vostra visita, che ci porta la visione così varia e multiforme dei Paesi a cui appartenete, e costituisce, al di là dell’omaggio alla Nostra persona, una testimonianza aperta e sincera di fiducia nella Chiesa di Dio. E, da parte sua, la Chiesa - c’è forse bisogno di ricordarlo? - ripone molta fiducia e speranza in voi.

Nel vostro incontro state studiando i problemi del mondo contemporaneo alla luce del Vangelo e, mirando ad un’azione diretta, cercate di mettere a punto un preciso programma di lavoro in favore dei Paesi dell’Africa. Ebbene, Noi vi esprimiamo compiacimento per tali iniziative e paternamente incoraggiamo questa vostra ricerca, centrata sulla verità evangelica e sull’insegnamento sociale, che la Chiesa ne ha coerentemente dedotto. Quel che voi stabilirete per dare un seguito concreto alle vostre riunioni, sarà un test indicativo della vostra genialità, della vostra generosità, dell’operoso contributo che intendete offrire alla grande causa del progresso e della fratellanza dei popoli. A questo impegno vi sia di conforto la Nostra affettuosa Benedizione, che amiamo estendere ai vostri genitori ed alle vostre famiglie.

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Cosa diremo a voi, carissimi alunni del Collegio «Don Folti» di Valle Colorina, che avete lasciato la suggestiva bellezza e la verde pace dei vostri magnifici monti, per trasferirvi presso la tomba del Principe degli Apostoli, in funzione di servizio liturgico nella Basilica Vaticana?

Voi certamente ne siete onorati e considerate come un premio questo soggiorno romano. Il Papa, salutandovi con paterno affetto, vi incoraggia in codesto vostro sentimento, sicuro come Egli è che voi, in santa emulazione coi vostri condiscepoli, vorrete attendere con esemplare diligenza e fervorosa pietà al servizio affidatovi.

Di cuore vi benediciamo unitamente ai vostri Superiori e alle vostre care famiglie.

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We are happy to welcome the very large group from the United States, among whom there are over a thousand students. We hope that your visit to Rome is a very beneficial one for all of you. When you return home to America We would ask you to convey our greetings and blessing to your families and friends. It is a pleasure for us to extend a greeting to the special delegation of Labor Leaders. We know the role you play in today’s society and our prayer is that through your efforts you will indeed make a worthy contribution to the improvement of man’s lot and to the peace of the world. Be assured of Our best wishes for your persons and your dear ones.


Mercoledì, 21 luglio 1971

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Diamo a questo breve colloquio uno stile di estrema semplicità. Ma seguendo una linea, che di solito segna la logica di questi incontri settimanali, e che vuol essere quella del Concilio. Perciò oggi vi stimoliamo a rispondere ad alcune domande a catena. Il Concilio ci ha lasciato un tesoro d’insegnamenti che da un lato confermano ed integrano il patrimonio dottrinale della Chiesa cattolica; ma solo questo? Il Concilio ci ha lasciato un altro tesoro, quello degli ammonimenti; la sua parola ci istruisce non soltanto circa ciò che dobbiamo credere e pensare, ma anche circa ciò che dobbiamo fare. E anche per ciò che dobbiamo fare il Concilio ci educa ad un perfezionamento interiore e ad un’attività esteriore («agere» e «facere», dicono i cultori dei termini esatti!)? Sì, il Concilio costituisce non soltanto una grande lezione sulle verità della fede, ma altresì una grande lezione sui doveri della carità; ci propone un modo caratteristico di vita, ci fa l’apologia di alcune virtù, ci vuole infondere certe forme di giudizio e di comportamento, le quali dovrebbero distinguere nella vita pratica di ogni fedele e dell’intera società ecclesiale il così detto «Post-concilio», ossia i frutti di questo grande avvenimento, testé celebrato, che deve marcare qualche progresso nel cammino storico, teologico e morale della Chiesa.

Siamo noi in grado di identificare alcune idee fondamentali, alcune virtù cristiane, che emanano dal Concilio e che devono riflettersi praticamente, cioè moralmente sulla nostra vita?

La domanda è più semplice, che facile. Ma cerchiamo ora, senza pretesa scientifica, di fermare l’attenzione sopra una di queste idee-forze, che possiamo tutti derivare dal concetto che ci siamo fatti del Concilio. Qual è, possiamo chiederci, il punto focale del Vaticano secondo? O meglio l’idea informatrice dei suoi grandi documenti? Sembra chiaro: è la Chiesa. Nel Concilio la Chiesa ha ripensato se stessa. Molti lo hanno notato sapientemente. E quale definizione riassuntiva è risultata da questa riflessione? Quale coscienza ha maturato la Chiesa su se stessa, dopo venti secoli di storia e dopo innumerevoli esperienze e studi e trattati?

Qui la risposta è ricchissima, ed esigerebbe una lista di definizioni, quanti sono gli aspetti che si possono scorgere nella complessa e misteriosa realtà della Chiesa: si direbbe che il Concilio stesso ha durato fatica a condensare in una sola espressione il significato di questo termine per noi comunissimo, «Chiesa»: segno e strumento dell’unione della umanità con Dio e con Cristo, Popolo di Dio, Corpo mistico di Cristo, Regno incipiente di Cristo e di Dio, ovile di Cristo, campo di Dio, edificio di Dio, famiglia di Dio, tempio di Dio, città di Dio . . .(Cfr. Lumen gentium
LG 1-7 Unitatis redintegratio UR 2 ; ecc.). Ma per la nostra mentalità spirituale e sociologica sembra che la definizione più accessibile, essenziale e morale (ontologica e deontologica), anche se di per sé incompleta, sia questa: la Chiesa è una comunione (Cfr. Lumen gentium LG 4 Gaudium et Spes GS 32 cfr. J. HAMER, L’Eglise est une communion, Cerf, 1962).

Sì, la Chiesa è una comunione, cioè una società compaginata da vincoli suoi propri, risultante, come un essere vivo, da un elemento esteriore e visibile ed organico, che sono i fedeli, i quali compongono la Chiesa, e da un elemento interiore e invisibile e vivificante, ch’è l’azione dello Spirito Santo, quasi l’anima del corpo, di cui Cristo, nel caso nostro, è il Capo: il Capo del Corpo mistico, ch’è appunto la Chiesa (Cfr. Ep 4,15-16 Col 1,18). È una assemblea, una compagine umana, fisica e mistica insieme. È la «comunione dei Santi».

Sapete in quali solenni documenti la Chiesa si è espressa sopra questa dottrina? Son due recenti: l’Enciclica Mystici Corporis (29 giugno 1943) e, più autorevole d’ogni altro, la Costituzione dogmatica Lumen Gentium (21 novembre 1964). Sono le basi dell’Ecclesiologia moderna, interprete di quella apostolica e di quella tradizionale. Lasciamo agli studiosi parlarci di questo tema sconfinato; esiste in proposito tutta una letteratura, tutta una teologia (Cfr. S. TH. III 8,0) che la cultura cattolica non può ignorare.

A noi ora si pone la questione: comunione suppone un rapporto: rapporto con chi? Lo abbiamo già accennato: un duplice rapporto: dapprima con Cristo, e Lui mediante con Dio, e quindi con i cristiani resi da questa comunione fratelli. La Chiesa è una grande comunità di fede, di speranza, di amore. Chi nello Spirito Santo, e nell’ossequio al mistero e al magistero stabiliti da Cristo, condivide la stessa fede, la stessa speranza, la stessa carità partecipa alla comunione, appartiene alla Chiesa.

Vedete subito una conseguenza assai importante: i rapporti che ci riferiscono a Cristo e a Dio sono causa e condizione per appartenere alla Chiesa. Prescindere dalle relazioni religiose, chiamiamole pure verticali, compromette le relazioni orizzontali, cioè umane e sociali proprie della Chiesa, destinate alla sua unità e alla sua missione salvatrice. E vedete anche quale sia l’esigenza intrinseca e generatrice dell’ecumenismo: l’unità della Chiesa è fondata sull’autentica e perfetta «comunione dei Santi» (Cfr. Unitatis Redintegratio UR 2 UR 3, ecc.). Potremmo studiare anche la parentela fra la comunione propria di tutta la Chiesa e la collegialità episcopale, che è di quella comunione una qualificata e costitutiva manifestazione.

E allora ecco che la comunione, non puramente esteriore, disciplinare, statistica, sociale diventa per ogni fedele e per tutta la moltitudine dei seguaci di Cristo un dovere fondamentale. Il Concilio ci ha richiamato alla vocazione originaria dell’unità. «Dio, dice il Concilio, volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame fra loro, ma volle costituire di essi un Popolo, che lo riconoscesse nella verità e fedelmente lo servisse» (Lumen gentium LG 9). Nulla è più contrario a questa concezione unitaria e universale della salvezza cristiana operante nelle singole anime, come nella pluralità degli uomini, che l’individualismo, l’egoismo, la separazione, la divisione, l’opposizione; e nulla è più conforme al supremo voto di Cristo quanto quello ripetuto nell’ultima Cena «siano tutti uno» (Jn 17,22-23). Possiamo noi dire che oggi questa premura d’unità caratterizza i movimenti spirituali e collettivi, che rivendicano dal Concilio la loro ragion d’essere? Molti, per fortuna, sì; anche la riforma liturgica, che dando alla lingua di ogni popolo della Chiesa latina (com’è già in quelle orientali), la facoltà di esprimersi, non mira certo a dividere il Popolo fedele, ma a farlo più coscientemente partecipare alla medesima preghiera e alla celebrazione sintonizzata dei medesimi sacri misteri, mettendo al centro, al vertice d’ogni religiosità l’Eucaristia, sacramento e sacrificio, la cui realtà mistica è appunto «l’unità del corpo mistico» (S. TH. III 73,3; cfr. II-II 39,1). E così possiamo dire del movimento ecumenico, che urge sulla coscienza cristiana col rimorso dell’infranta unità e con l’ansia di ricuperarla nella verità e nella fraternità. Lo stesso possiamo dire con compiacenza e con speranza per lo sviluppo internazionale ed unitario delle associazioni cattoliche, e dell’interesse crescente per i bisogni del Terzo Mondo e per la causa missionaria.

Ma possiamo dire che un vero spirito comunitario percorre oggi dappertutto il corpo della Chiesa? Non si nota una accentuata tendenza a formare gruppi chiusi e refrattari all’amicizia comunitaria ed ecclesiale? A che cosa mira spesso la gratuita sopravalutazione delle prerogative carismatiche, dimenticando che esse, se pur vere, devono essere rivolte all’utilità della comunità? (Cfr. 1Co 12,7) e contrapponendole spesso alle forme autentiche, istituzionali della Chiesa? Dove vuole arrivare certo indiscriminato pluralismo dottrinale, arbitrario e centrifugo? E dov’è l’accento della fraternità in una abituale e aggressiva critica, demolitrice della stima e dell’adesione dovuta alla famiglia ecclesiale ed a chi vi presta il servizio pastorale della guida e della potestà responsabile? Dov’è la carità cristiana in forme sociali che cercano la loro efficacia in correnti qualificate dall’egoismo di classe e dall’urto degli interessi economici?

Ripensiamo, Fratelli e Figli carissimi, alla grande spinta comunitaria impressa dal Concilio alla Chiesa fedele, e procuriamo di tradurla in carità locale e universale, nella virtù del volersi bene, del perdonare i torti sofferti, nel prodigarci per il bene altrui, nella dedizione paziente e generosa per la società, in cui la Provvidenza ci ha messi a vivere, nell’amore, finalmente, vero, forte, concorde alla Chiesa dalle mille voci, ma veramente unita e universale.

Chiediamo al Signore questa virtù comunitaria; e a voi la ottenga la Nostra Benedizione Apostolica.



Mercoledì, 28 luglio 1971


Paolo VI Catechesi 7071