Paolo VI Catechesi 9274

Mercoledì, 9 gennaio 1974

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Il Natale è passato. Ma il Natale, per il fatto che in esso è commemorata la nascita di Gesù Salvatore; per il mistero che nel fatto è rivelato, cioè l’Incarnazione del Verbo di Dio; per la novità, che nel Natale s’introduce nel rapporto religioso fra l’uomo e Cristo, cioè la sua vicinanza al mondo, la sua convivenza fra gli uomini (da ricordare: «si è fatto carne, e abitò fra noi») (
Jn 1,14); per la ripercussione spirituale che la celebrazione d’una tale festività vuole intenzionalmente produrre negli animi di coloro che vi hanno partecipato, il Natale, diciamo, non può passare del tutto; esso tende a prolungarsi, e non solo liturgicamente, ma spiritualmente, moralmente ed anche socialmente (tutti i gesti di bontà e di carità sgorgati dal Natale non miravano forse ad esprimere e a generare un sentimento umano, un atteggiamento pratico nella convivenza familiare, amichevole e civile, che ci circonda, di carattere permanente?); il Natale vuole rimanere; esige un «dopo-Natale». Ma quale? ma come?

Ritorniamo un istante al racconto evangelico, e raccogliamo un frammento, che vale un programma. Ecco il frammento, che ci istruisce circa il «dopo-Natale»; e dice così, bellissimo: «Maria conservava in Cuor suo tutte queste cose e le meditava» (Lc 2,19). Sì, quanta umana bellezza in questa personale notizia, quanta spirituale ricchezza in questa candida confidenza. Molto probabilmente essa è la fonte genuina e diretta dell’evangelista che scrive; è Luca, il quale registra un particolare naturalissimo: come una madre, e una tale madre, non poteva rivivere nel pensiero il grande, personale avvenimento ch’ella aveva vissuto nella realtà della vitale esperienza? Gesù era nato così, nelle circostanze che tutti ben conosciamo; come non doveva rinascere nella riflessione della madre felice e sola a conoscere il prodigio molteplice di quella nascita umano-divina? La memoria dapprima, la coscienza poi, la comprensione in seguito, la meraviglia, la contemplazione, infine, non sono forse le fasi della vita spirituale della Madonna, assurta, anche sotto questo aspetto, ad esempio, a tipo del processo interiore, che dovrebbe compiersi in ogni seguace di Cristo?

La conoscenza di Cristo, qualunque essa sia, immediata, sensibile, sperimentale, come fu negli apostoli e nella generazione coeva e convivente con Gesù (Cfr. 1Jn 1,1-2): «. . . quello che noi abbiamo veduto con gli occhi nostri, quello che noi abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato . . . noi lo attestiamo . . .», ovvero indiretta, per via di annuncio e di testimonianza (Cfr. Ac 2: Discorso di Pietro), prende un grande posto, una posizione dominante nella vita di chi ha avuto la sorte d’incontrarsi con Lui. Gesù fu, è e sarà presente; destinato ad esserlo sempre, in tutti; ma per quale via? in quale forma? Di semplice conoscenza storica, o scientifica? di pura memoria, quale è riservata ai personaggi che hanno compiuto grandi imprese, o che hanno scritto opere, o influito con le loro azioni sul corso degli eventi umani? No, non soltanto così. La questione della presenza di Cristo nel mondo esteriore dei fatti e delle istituzioni, e in quello interiore dei cuori degli uomini è al centro della nostra religione; e il mistero del Natale, testé celebrato, concorre a presentarla nella sua. importanza capitale, e a suggerire alcuni principii relativi alla sua positiva soluzione.

Ancora noi ci chiediamo: come Cristo Gesù, di cui abbiamo commemorato la nascita, avvenuta al tempo di Cesare Augusto, a Bethleem, è presente ancora fra noi? Limitiamoci a cercare la sua presenza interiore, negli animi nostri, e, ripensando a Maria, rispondiamo: Gesù è presente, anzitutto, per via di fede, dentro di noi. Una parola di San Paolo dice tutto a questo riguardo: «Cristo abiti nei vostri cuori mediante la fede» (Ep 3,17). Deriva da questa affermazione (che sarà poi integrata da un altro elemento essenziale, la grazia, e da un altro coefficiente strumentale, la Chiesa), tutta la vita spirituale della nostra religione. Possiamo dire, semplificando: il Natale dura in noi se Cristo nasce e vive in noi per via di fede, la quale non è una semplice nozione di Cristo, un’immagine, quasi una fotografia di lui, che supplisca la sua figura sensibile, ma è una forma misteriosa e vitale, che lo porta a vivere in noi. Ancora S. Paolo ce lo dice: il cristiano, cioè l’uomo giusto nel senso biblico, vive di fede (Cfr. Rm 1,17 Rm 3,26); e qui la fede non è attribuita alla pura testimonianza umana, ma alla parola di Dio.

Sappiamo queste cose, certamente; ma ci accorgiamo quanto siano estranee alla mentalità moderna, così estroflessa, così restia alla conoscenza per via di fede, così inetta alla meditazione nel santuario religioso della coscienza, e così inesperta al linguaggio dell’orazione mentale.

Ebbene noi a riapprendere questo linguaggio invece vi esortiamo. Senza di esso non possiamo colloquiare con Dio, non possiamo nemmeno ascoltare la sua voce, se a questo silenzioso dialogo Egli si degnasse intervenire. Ma esso fa parte di quel rinnovamento spirituale al quale l’Anno Santo ci deve condurre: saper pregare, e per pregare davvero, saper meditare. Grandi e innumerevoli sono i maestri (Cfr. CARD. G. LERCARO, L’orazione mentale, 1947; P. POURRAT, La spiritualité chrétienne, III, 1927; e fra i classici: S. TERESA, Cammino di perfezione e Castello interiore; S. FRANCESCO DI SALES, Teotimo, libro VI; ecc.). Accogliete il loro invito; con la nostra Apostolica Benedizione.



Nel 775° della Regola dei Religiosi Trinitari

Ci sentiamo ora debitori di un particolare, affettuoso saluto al folto gruppo di Superiori e Religiosi dell’Ordine della SS.ma Trinità, convenuti a Roma per celebrare il 775° anniversario della approvazione della loro Regola.

Figli carissimi! Ci è sempre motivo di paterno compiacimento l’incontro con degni e benemeriti religiosi; e sempre siamo grati a coloro i quali, come voi, vogliono esprimere con la loro visita la conferma della consacrazione della loro vita a Cristo e alla Chiesa. Grazie vivissime per questa testimonianza di filiale pietà. Trovandoci innanzi a voi, che in questa solenne circostanza avete inteso definire meglio il compito del vostro Ordine nella Chiesa e nella società di oggi, noi vi diremo: siate fedeli alla vostra vocazione.

Questa fedeltà vi impone di ricollegarvi allo spirito primitivo e al carisma del vostro Istituto. Sorto per il riscatto degli schiavi cristiani e per le opere di misericordia, specialmente a favore dei poveri e dei pellegrini, esso trova nel mondo moderno altre forme di schiavitù per le quali è tuttora attuale il messaggio di carità redentivi che animò l’opera del vostro santo Fondatore.

Lode a voi che volete rendervi ognora più atti agli impegni di questo ideale apostolico, e volete viverlo in intimità di amore con la SS.ma Trinità, che è la nota caratteristica e la sorgente viva della vostra spiritualità.

Vi auguriamo di tornare ai vostri posti di lavoro di apostolato con rinnovato zelo e spirito di dedizione; e mentre vi assicuriamo la nostra preghiera, sia pegno delle abbondanti grazie divine per voi e per quanti sono oggetto delle vostre sollecitudini, la Benedizione che attendete, e che di gran cuore vi impartiamo «in nomine Domini».


Mercoledì, 16 gennaio 1974

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Abbiamo celebrato il Natale. Noi non possiamo qualificare questo ricorrente fatto religioso che come un incontro con Gesù Cristo. È venuto, si è abbassato fino a noi (Cfr.
Ph 2,7), è convissuto con noi (Jn 1,14); riportandoci ai fortunati contemporanei di Cristo possiamo dire quasi noi pure: «abbiamo mangiato e bevuto con lui . . .» (Ac 10,41).

Sotto l’aspetto spirituale, noi non dovremmo più dimenticare questa realtà della nostra vita religiosa: l’incontro personale col Signore.

Il fatto sacramentale del nostro battesimo ci obbliga a questa mentalità, a questa spiritualità, quella d’una vicinanza personale, d’un’amicizia, d’una confidenza, la quale va oltre ogni limite pensabile nell’Eucaristia: arriva alla comunione, alla fusione della Vita umano-divina di Gesù Cristo con la nostra vita personale, per umile e insignificante che essa sia: «chi mangia me, vivrà per me» (Jn 6,58).

Diamo l’importanza che merita a questo traguardo del nostro cammino religioso. Noi arriviamo realmente al Dio fatto uomo.

Quali abissali distanze sono state superate, annullate! noi siamo ammessi alla diretta e perfetta conversazione con Cristo, il mediatore, il «ponte» come lo chiamava S. Caterina da Siena. Qui si inaugura la nostra autentica religiosità cattolica.

Ma facciamo bene attenzione. Anch’essa, questa religiosità, ammette, anzi esige una gradualità, uno sviluppo morale e spirituale, che sarebbe temerario trascurare (Cfr. Mt 22,12).

Noi. diciamo noi figli del nostro secolo, quando siamo condotti alla soglia del mondo religioso, abbiamo nel cuore e forse sulle labbra, la preghiera del cieco di Gerico: Signore, fa ch’io veda! Vorremmo tradurre in esperienza sensibile quella verità religiosa, quella Realtà misteriosa, alla quale, per curiosità capricciosa, ovvero per inquietudine interiore, ovvero per occasione impreveduta di qualche vicenda esteriore, o esperienza premente della vita, o per certa conclusiva stringenza logica, o soprattutto per l’iniziazione sacramentale, o forse anche per ulteriore segreto impulso dello Spirito Paraclito, siamo in qualche modo arrivati. Non è così, del resto, che ci invita l’epifania dell’arte, che nella religione cattolica non è messa al bando da puritanismi iconoclasti, e che traduce in splendidi e innumerevoli segni esteriori il linguaggio sacramentale e cultuale? la liturgia non procede forse con il ministero dei sensi nel regno invisibile della grazia e della mistica comunione con Cristo e con Dio? E di più, tutta la pedagogia moderna non cerca di sostituire lo sforzo mnemonico e mentale con i sussidi audiovisivi? Quanti, come Tommaso il Didimo, davanti alle esigenze della fede, non ripetono come proprie le parole di lui: «Se non vedrò . . . non crederò»? (Jn 20,25)

Eppure questo atteggiamento è insipiente. Anche a noi il Signore potrebbe dire: «Voi non vi rendete conto di ciò che domandate» (Mt 20,22). Perché una esperienza sensibile d’un’entità religiosa è di per sé, direttamente, impossibile, e per di più infruttuosa (Cfr. 2Co 5,16). Che se davvero i nostri sensi fossero colpiti da qualche raggio di visibilità divina, quale sarebbe la nostra normale reazione? Lo spavento (Cfr. Ex 33,20 1S 6,19-20). La presenza di Dio tradotta in termini sensibili è terribile, è folgorante.

Anche nel Vangelo, ch’è tutto un quadro in cui Dio fatto uomo si arrende alla nostra conversazione (Cfr. Ba 3,38). Cristo ha momenti nei quali la sua manifestazione incute grande timore (Cfr. Mt 17,6), e provoca sentimenti e parole, che la Chiesa ripeterà perennemente: «Signore, io non sono degno . . .» (Mt 8,8). Caratteristica è l’esclamazione di Simon Pietro al momento della prima pesca miracolosa; egli, pur nella barca, si butta in ginocchio davanti a Gesù e gli dice: «Allontanati da me, perché io sono uomo peccatore» (Lc 5,8). E poi, che dire di quell’incontro degli occhi smarriti dello stesso Pietro, dopo aver rinnegato il Maestro, con lo sguardo di Gesù, durante il processo notturno: «Il Signore allora, registra S. Luca, si volse a guardare Pietro, e Pietro si ricordò della parola dettagli dal Signore: - Prima che il gallo canti oggi, tu mi rinnegherai tre volte -. E uscito fuori Pietro scoppiò amaramente in pianto» (Lc 22,61-62)?

Tutto questo ci fa pensare che il primo nostro contatto, sensibile o spirituale, con Dio non è normalmente destinato a suscitare impressione di meraviglia divertita, e neppure di pacifica gioia; e ci avverte che se davvero vogliamo entrare nella sfera religiosa noi dobbiamo passare attraverso emozioni, sentimenti, atti di profondo sconvolgimento interiore. Non si va a Dio come fosse un divertente spettacolo, o un incontro di familiare indifferenza. Anche qui ci giovi una elementare similitudine. Dio è la luce; se uno di noi gli si presenta davanti, qual è il primo effetto risultante? Il primo effetto è che noi, prima di guardare a Dio, guardiamo a noi stessi; e subito siamo invasi da confusione e da disagio, perché, mentre intuiamo la maestà trascendente della sua presenza, vediamo la nostra bassezza (perfino la Madonna sperimentò questa umiltà metafisica; ricordate il suo Magnificat, in cui Maria proclama la propria piccolezza dinanzi alla grandezza di Dio? - Lc 1,48); di più noi scopriamo con umiliante evidenza la nostra indegnità (Cfr. Mt 22,12).

Questo atteggiamento morale-spirituale qualifica un genere di preghiera il quale, ancor prima di concederci un beatificante colloquio con Dio, dà a noi la coscienza di noi stessi. Potremmo chiamarla preghiera di autocoscienza, preghiera riflessa sopra il nostro essere, e specialmente sopra le nostre condizioni morali. Il primo tentativo di stabilire un rapporto con Dio implica la denuncia della nostra incapacità a tale riguardo senza un suo miracoloso intervento di bontà e di misericordia. Ricordate il ritorno, cioè la conversione del figliolo prodigo nel Vangelo: «Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te, non sono più degno d’essere chiamato tuo figlio!» (Lc 15,18-19 cfr. GUARDINI, Il Dio vivente; Sul pentimento).

Questa fase e questa forma di vita religiosa sono, come tutti sanno, estremamente importanti, e costituiscono per la mentalità dell’uomo moderno gli ostacoli più grandi alla sua restituzione al regno di Dio, alla vita cristiana. Sormontare questi ostacoli non significa soltanto ammettere, in qualche modo, l’esistenza di Dio, e quindi l’inserzione d’un problema religioso nella nostra vita; significa riabilitare in noi il senso razionale dell’obbligazione morale, cioè dell’inevitabile relazione che la nostra condotta comporta con Dio, avere presente la nostra responsabilità trascendente, dare alla nostra coscienza la chiarezza e la forza di guidare le nostre azioni in funzione d’un parametro oggettivo e sacro, decisivo per il nostro presente e futuro destino.

Dovremo perciò rifare la nostra abitudine d’esaminarci al lume della presenza di Dio, e a quello della legge divina e dell’impegno del nostro dovere. Difficile, ma non impossibile. Anche qui infatti forse l’uomo moderno è tanto più disposto alla preghiera del pentimento quanto maggiore è la sua istintiva ripulsa; e ciò avviene appena egli avverta una presenza divina, e quindi un proprio bisogno di misericordia.

Ma abbiamo celebrato il Natale, la presenza del Dio fra noi, per noi.

È perciò il momento propizio per fare nostri questi pensieri: è venuto il Signore: chi non vorrebbe incontrarlo?

Con la nostra Benedizione Apostolica.


Mercoledì, 23 gennaio 1974

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Abbiamo celebrato il Natale. Consideriamo il Natale come l’incontro religioso dell’umanità con Cristo, cioè col Verbo di Dio fatto uomo. Questo incontro ci riguarda personalmente, È su questo aspetto del mistero celebrato che dobbiamo fermare ora la nostra attenzione. Cioè dobbiamo abilitarci a conversare con Cristo, e per suo tramite con Dio; con quel Cristo-Dio che per incontrarsi con noi, ha fatto un così lungo cammino: è disceso dal cielo. Questa conversazione segna una nuova e amplissima tappa della vita religiosa cristiana. Semplificando ora diremo: dobbiamo imparare a parlare col Signore, a parlare al Signore. Un colloquio diretto, nostro, sincero col Signore costituisce un genere di preghiera particolare: la preghiera personale.

Sorge la domanda: siamo capaci di preghiera personale? Potremmo dire senz’altro di sì, se per preghiera personale intendiamo la recita di alcune formule di orazioni abituali, che tutti conosciamo e che vogliamo credere dànno voce alla nostra consueta osservanza religiosa: chi è che non recita un «Padre nostro»? un’«Ave Maria»? e non sono molti fra voi che recitano ogni giorno qualche preghiera all’inizio e al termine della giornata? Per di più, molte persone buone dicono ogni giorno il Rosario, ed altre solite preghiere, entrate nel programma della giornata del buon cristiano.

E sta bene; sta molto bene: conserviamo questi elementari atti religiosi, come presa quotidiana di coscienza del nostro carattere cristiano; come espressione della nostra fedeltà alla concezione cristiana della vita; come segno di quel nostro ossequio religioso a Dio col quale vorremmo assolvere il primo, massimo e sintetico comandamento religioso e morale, quello dell’amore; come invocazione dell’aiuto divino, senza del quale resta insufficiente ogni nostra virtù speculativa ed operativa; come conforto infine alla quotidiana fatica nel compimento dei nostri doveri. Sta bene, ripetiamo, conservare puntuale e seria l’abitudine di recitare le preghiere quotidiane, con la semplicità del fanciullo, dalla quale vorremmo si mantenesse ornata e caratterizzata ogni nostra età. Ma bastano queste poche formule sempre eguali, e spesso più vocali che spirituali, per dare alla nostra esistenza il suo profondo significato religioso? il suo autentico ed attuale timbro spirituale? il suo originale e personale colloquio col mistero divino? Chi professa con sincerità i propri sentimenti religiosi avverte che manca qualche cosa a codesta breve orazione convenzionale: essa diventa facilmente un atto puramente esteriore; un appuntamento fra due assenti: Dio e il cuore.

E che diremo di coloro che tralasciano anche di ricordare questo appuntamento, e si abituano a dimenticarlo; anzi, diventati, come si suol dire, «maturi», non ne avvertono più né il dovere, né il bisogno. Una semplice inchiesta sulle abitudini religiose della gente del nostro tempo ci documenterebbe tristemente della totale, o quasi totale, assenza di preghiera personale in moltissime persone, aliene ed alienate ormai da ogni espressione di interiore religiosità: anime spente, labbra mute, cuori chiusi all’Amore, alla Fede, alle sollecitazioni o alle urgenze dello spirito! E quante sono! Vi è chi sostiene che l’uomo moderno così è e così dev’essere: senza preghiera personale. Qui c’è una confusione di termini, tra uomo moderno e uomo autentico. L’uomo autentico, l’uomo vero, e aggiungiamo: se davvero moderno, cioè consapevole del valore della sua progredita esperienza culturale, operativa, sociale, rimane radicalmente religioso, cioè essenzialmente orientato verso una ricerca e verso un rapporto con Dio, e perciò avido e capace di preghiera personale.

Tralasciamo il grande tema della pietà religiosa, della devozione (Cfr. S. TH.
II-II 101,0-102; S. FRANCESCO DI SALES, La Filotea; L. DE GRAND-MAISON, La religione personale; ecc.).

Ci limitiamo a porre il problema, tanto importante nel campo pastorale e psicologico, tanto delicato in quello pedagogico e spirituale: come è possibile rimettere negli animi della gente profana, areligiosa, atea perfino, l’impulso, la capacità, la corretta espressione d’una parola rivolta a Dio, a Cristo, alla Madonna? Lasciamo a voi, agli esperti, ai pastori, lo studio e la risposta a questo problema, solo osservando quanto essa sia attuale, specialmente in ordine al rinnovamento religioso e morale, che l’Anno Santo vorrebbe produrre nel popolo, oltre che negli ambienti già educati alla vita spirituale; e affermando, ancora una volta, che non deve essere problema insolubile, prova ne sia certa sensibilità interiore, anzi religiosa, che si riscontra in alcuni strati più seri e pensosi della gioventù.

Ci si conceda piuttosto di accennare all’espressione minima e momentanea della conversazione del nostro spirito con Dio, la preghiera-scintilla, l’invocazione, quasi esplosiva, che può sprigionarsi da un’anima; giaculatoria, la diranno le anime pie; invocazione, gemito, grido può sgorgare anche da uno spirito non allenato al colloquio religioso; e forma questo genere di preghiera una fenomenologia interessantissima nelle cronache del regno di Dio, a cominciare da quella del così detto « buon ladrone », che con una sola implorazione strappa da Cristo, con lui crocifisso e morente, la propria salvezza: «Signore, ricordati di me, quando sarai giunto nel tuo regno!

E Gesù gli rispose: Ti dico, in verità, oggi tu sarai meco in paradiso!» (Lc 23,42-43); per concludere con la singolare testimonianza di André Frossard, vivente, che la intitola: Dieu existe, je l’ai rencontré (Fayard, 1969).

Sì, bisogna ricordare che all’appuntamento, di cui dicevamo, due sono in causa; noi, forse pigri, tardi e restii interlocutori, e Dio, che previene ed ama, e per primo è in cerca di noi (1Jn 4,10), e ci colpisce col suo raggio misterioso.

Una sorpresa : la grazia è appunto tale! Dio voglia, che nell’intento di stabilire con lui il nostro regolare e filiale, ma spesso lento e renitente colloquio, tale sorpresa, quella della sua operante presenza sia anche a noi riservata.

Con la nostra Benedizione Apostolica.



L’Ente Provinciale per il Turismo in Roma

Siamo lieti di salutare quest’oggi il Consiglio di Amministrazione e il personale dell’Ente Provinciale per il Turismo di Roma, che insieme al loro degno Presidente sono venuti a porgerci omaggio.

Vi diamo di cuore il nostro benvenuto e vi diciamo il nostro grazie sincero. Grazie per il vostro gesto di filiale pietà, e grazie soprattutto per l’opera preziosa e benemerita che il vostro Ente non cessa di svolgere a favore dei pellegrini di tutto il mondo che vengono a Roma. Questa stessa opera voi siete venuti ad assicurarci stamane, in vista della celebrazione del prossimo Anno Santo.

Ci rallegriamo assai di questa vostra generosa e spontanea disponibilità, e nutriamo fiducia che saprete sempre agire con quella premura, con quella competenza e con quel garbo che il vostro delicato compito richiede. Il contributo che voi apporterete, affinché Roma possa degnamente celebrare un tale avvenimento ecclesiale, acquisterà un significato superiore a quello di una semplice assistenza turistica: sarà un servizio di alto valore civile e religioso, e non potrà non arricchire di riflesso voi stessi del frutto spirituale che i vostri assistiti ne ricaveranno.

Ecco i nostri voti: li confidiamo a voi, affinché trovino nella vostra cooperazione - ne siamo ben certi - quella corrispondenza che auspichiamo, e che merita questa alma Città, che Nostro Signore ha voluto Sede centro dell’Orbe cattolico e del suo Vicario in terra.

A voi tutti, qui presenti, ai vostri collaboratori, ai vostri cari, impartiamo di cuore 1’Apostolica Benedizione, invocando su ognuno la ricchezza delle divine grazie.

Seminaristi americani

We are happy to extend a special greeting to the students from Saint Meinrad’s Seminary who are taking a course in the history of liturgy. We hope that these days will be happy ones for you and that your being in Rome will help develop in you a sense of history and a sense of prayer. You have our encouragement and special blessing. With Saint Paul we say to you: “Do not grow slack but be fervent in spirit; he whom you serve is the Lord. Rejoice in hope, be patient under trial, persevere in prayer” (Rm 12,11-12).


Mercoledì, 30 gennaio 1974

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Come la luce della cometa (che in queste notti abbiamo ammirato nel cielo), così la luce del Natale, anche se chiuso il ciclo delle sue festività, continua ad illuminare la nostra riflessione circa il rinnovamento della nostra vita spirituale. Come lo illumina? per via d’un ragionamento, d’una teologia, che investe tutto il nostro sistema religioso, specialmente in ordine a quell’atto religioso per eccellenza, che chiamiamo preghiera, e che a noi, come a quanti intendono promuovere tale rinnovamento (l’Anno Santo ne fa uno dei suoi capisaldi), preme moltissimo, sia come espressione individuale, sia come voce collettiva di popolo.

Vediamo. Il Natale ha inaugurato e stabilito un rapporto nuovo, pieno, diretto, filiale con Dio, mediante l’incarnazione, cioè la venuta fra noi del Verbo di Dio, fattosi uomo. Questa umana presenza di Dio fra noi, instaurata in Cristo Gesù, produce due effetti primari, propri ad una convivenza e alla sua derivante conversazione: primo, quello di ascoltare; Gesù è messaggero della buona novella, del Vangelo, della Parola di Dio, espressa in linguaggio umano; fatto questo d’incalcolabile e inesauribile importanza, e che classifichiamo sotto la grande parola: fede. La fede è un’ascoltazione della Parola di Dio. Secondo, quello di parlare, e che chiamiamo preghiera. Non possiamo restare muti e inerti dopo l’ascoltazione della voce di Cristo; dovremmo, per lo meno, far nostro il commento evangelico di certi uditori della sua parola: «Non mai un uomo ha parlato come quest’uomo!» (
Jn 7,46); o esclamare, pieni di entusiasmo come l’anonima donna del Vangelo: «Beato il seno che ti ha portato, e le mammelle che Tu hai succhiato!» (Lc 11,27). Ovvero dovremmo osare, come gli Apostoli, interrompere il discorso del Signore per chiedere qualche spiegazione (Cfr. Mt 13,36); o finalmente per dire al Maestro: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli» (Lc 11,1).

La preghiera è il primo dialogo, che l’uomo può ambire di tenere con Dio. Ammessa l’esistenza d’un rapporto con Dio, cioè una religione, nasce spontaneo e poi doveroso il bisogno di rivolgere a Lui una nostra parola. Essa, più che dal sentimento, o dall’ignoranza, o dall’interesse, come spesso si afferma, sgorga da un fondamentale atto d’intelligenza, quasi istintivo, quasi intuitivo: se Dio c’è, se Dio è a me accessibile, io gli devo una parola, una espressione mia; è una necessità spirituale e morale (Cfr. S. TH. II-II 83,2); è un atteggiamento normale e abituale, che deriva dal rapporto metafisico del mio essere di creatura rispetto a Colui ch’è Principio sommo e necessario, e che corrisponde al precetto evangelico: «Bisogna sempre pregare, e non cessare mai» (Lc 18,1). Del resto, le due forme essenziali, in cui la preghiera si esprime, giustificano questa abituale esigenza, potenziale almeno, di preghiera: la lode e la domanda.

Dio può essere l’oggetto della nostra lode, della nostra «elevazione della mente» verso di Lui, un’elevazione, che per sé, non dovrebbe mai venir meno; fa parte della nostra concezione della vita, della nostra coscienza di creatura, della nostra avvertenza d’essere sempre sospesi alla onnipotente e gratuita azione generatrice della Causa prima. Così Dio può essere oggetto della nostra implorazione supplicante l’azione soccorritrice della divina Provvidenza.

Ogni religione, in modi e misure diverse, si esprime così. La nostra religione che cosa vi aggiunge di suo, di originale? Qui occorrerebbe un trattato per rispondere. Noi ora consideriamo semplicemente l’atteggiamento fondamentale della preghiera cristiana, quell’atteggiamento che deriva dal fatto ricordato, dal Natale, dall’Incarnazione, dal rapporto unico e felicissimo, che Cristo ha stabilito fra Dio e l’umanità.

Diciamo per punti. Primo punto: il fatto della preghiera deve essere messo in risalto nella nostra vita cristiana. Notiamo a questo proposito due fatti capitali, che penetrano nella nostra vita moderna; uno negativo: non si vuole più pregare, non si sa più pregare; e di fatto, purtroppo, moltissima gente non prega più, e per motivi formidabili, ma falsi. Sappiamo la gravità di questa affermazione, la quale si rifà alla grande polemica con l’ateismo pratico e con l’ateismo teorico del nostro tempo. L’assenza di preghiera, l’allergia a qualsiasi atto religioso, l’illusione dell’autosufficienza, l’infatuazione del progresso scientifico e tecnico, quasi ch’esso vanificasse la concezione religiosa dell’universo e della vita, mentre invece tanto più la documenta e la reclama, l’asservimento a certe dominanti mentalità politiche e sociali, e così via, sembrano giustificare la così detta «morte di Dio»; ma, a ben guardare, essa è piuttosto la morte dell’idea di Dio nell’uomo, e perciò di tutto quanto dà all’uomo fondamento e ricchezza di verità, di dignità, di speranza. Discorso lungo e drammatico, ma basti ora l’averlo, una volta di più, individuato. L’altro fatto, di dimensioni diverse ma di significato enorme: rinasce nel cuore della generazione presente un bisogno, un orientamento, una simpatia verso qualche forma di preghiera. Siamo forse ancora nei primi albori d’un’aspirazione spirituale, strana forse, ma umanissima; e, in coloro che hanno rivolto i loro passi sul sentiero della autentica spiritualità cristiana, l’alba risplende già di luce mattutina e primaverile: come è bello, come è vero, come è saggio pregare!

E allora ecco il secondo punto: la caratteristica intrinseca della preghiera cristiana è la fiducia. Si spiega: se il rapporto fra l’uomo e Dio è quello inaugurato e stabilito da Cristo, la preghiera non è più un monologo, non è più una voce nel buio, non è più un conato, che si scioglie in disperata poesia; ma è davvero un dialogo, è un ricorso non solo ad un precetto divino, ma altresì ad una promessa: «pregate, e sarete esauditi . . .» (Mt 7 Mt 7). Il concetto di una Bontà, che ci ascolta, che ci vuol bene, che è pronta ad esaudirci diventa dominante nella mentalità cristiana: «Chi mai fra voi, insegna il Signore, quando il figlio suo gli chiede un pane, gli dà un sasso?» (Mt 7,9).

Parole dolcissime! ecco il Vangelo! ecco il fondamento della nostra preghiera!

Certo, anche qui vi può essere un pericolo per la nostra angusta psicologia terrena, quello di pretendere che la preghiera sia il rimedio facile per ogni nostra necessità temporale. La religione, se concepita come puramente utilitaria, può degradare in fantasia, in superstizione, in simonia la nostra preghiera. Ma se essa, pur esprimendo a Dio i nostri mali e i nostri terreni e buoni desideri, si mantiene al livello d’una vera conversazione con Dio, essa non perderà la sua caratteristica fiducia, anche quando non ottiene automaticamente le grazie che implora, e riconfermerà il suo ottimismo scoprendo che «tutte le cose si risolvono in bene per coloro che amano Dio» (Rm 8,28). Anche il dolore; e S. Agostino aggiunge: perfino i nostri peccati!

Perciò a questo volevamo arrivare: creare in noi, nel nostro popolo, una mentalità di fiducia, per la preghiera, per la speranza. Questo binomio: preghiera e speranza sia nostro programma! Con la nostra Apostolica Benedizione.


Pellegrini spagnoli

Deseamos dedicar ahora unas palabras de saludo especial a los peregrinos españoles llegados a Roma para asistir a la Canonización de Santa Teresa de Jesús Jornet.

Vuestra presencia, amadisimos hijos, nos compiace de manera particular y queremos agradeceros la devoción que nos manifestáis al haber querido prolongar vuestra estancia en la Ciudad Eterna para estar con Nos en la Audiencia de esta mañana.

Al volver a vuestras casas y puestos de trabajo, llevad con vosotros el afecto del Papa, que os exhorta a manteneros fieles a vuestra vocación sacerdotal o religiosa, a vuestra fe cristiana y al amor que habéis profesado siempre a la Iglesia y a esta Cátedra de San Pedro.

Que os acompañe nuestra paterna Bendición Apostólica.


Mercoledì, 6 febbraio 1974

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Il ricordo del Natale ancora riempie i nostri animi. E, a ben riflettere, è naturale. Se davvero, celebrando il Natale, noi abbiamo capito d’avere incontrato Dio fatto uomo, d’averlo incontrato come uno di noi, in questa intenzione di accostarsi a noi, di venire alla ricerca di noi, d’essersi umanizzato per noi, per parlare a noi, per entrare nel destino della nostra vita, cioè per salvarci, allora noi non possiamo non fermarci, non possiamo non attribuire a tale incontro un’importanza decisiva per la nostra vita medesima. Riflettiamo bene sul significato dell’incontro con Cristo.

E innanzi tutto sulla realtà di questo fatto. Pensiamolo nel grande disegno religioso offerto alla storia del mondo: il Dio del mistero, che senza lasciare la patria sua propria, cioè gli attributi della sua divinità, eterna - viene nella scena mobile del tempo (Cfr.
Ep 1,10) infinita - assume i limiti della «kénosis», cioè si può dire dello svuotamento di Sé (Cfr. Ph 2,7); ineffabile - si riveste di carne a noi visibile (Cfr. 1Tm 3,16 Jn 14,9); inaccessibile - si rivela ai piccoli (Cfr. Mt 11,26); si rende disponibile alla umana convivenza (Ba 3,38), per elevare ad un livello soprannaturale (2P 1,4) la nostra vita strisciante sulla terra, per rivolgere le sorti dell’umanità, da perdute ad impensatamente fortunate ... Possiamo rimanere indifferenti e immemori?

Se poi riflettendo scopriamo che questo disegno ci riguarda personalmente, la sua universalità si concentra su ciascuno di noi, diventa il nostro dramma personale, ci investe interiormente con una straordinaria ricchezza di doni, - i doni dello Spirito Santo; e ci propone un impiego libero, ma formidabile circa la scelta del genere di vita in cui vogliamo definirci: se cristiano, o no, cioè se cristiano, ovvero alla fine insignificante e privo di eterna speranza; se questo avvento di Cristo, diciamo, incrocia i suoi passi divini sul sentiero scabroso della nostra singola vita, possiamo restare impassibili?

L’incontro con Cristo! ricordiamolo nel racconto evangelico, che è specchio simbolico dell’intera avventura umana: sì, non manca in questo quadro l’indifferenza, anzi l’ostilità di tanti personaggi evangelici, che all’incontro con Cristo oppongono la cecità e la sordità dei loro spiriti materializzati, ovvero reagiscono con sospettosa malizia e con astuta opposizione, decisa a sopprimere la sua importuna presenza (Cfr. Mc 3,6). Ma vi è qualcuno che si accorge all’incontro con Gesù d’essere davanti ad un Uomo prodigioso e incomparabile, e arriva senz’altro a dichiarare una sua prima identità; Andrea per primo la rivela al fratello Simone (che sarà poi chiamato Pietro): «Abbiamo trovato il Messia» (Jn 1,41). L’incontro è decisivo; si trasforma in vocazione, che Gesù appunto formulerà; e che, a questo primo stadio, è di tutti noi, la vocazione cristiana.

Questo nome ci assale, ci investe, ci trasforma intimamente: siamo cristiani. Nome controverso. La prima generazione ne sentì dapprima una risonanza antipatica (Cfr. Ac 11,26 Ac 26,28); poi quella discriminante e pericolosa (1P 4,16), ma ormai, per i credenti, per i fedeli, subito divenne buona e gloriosa (Cfr. Jc 2,7). Diventerà nome qualificante per tutti i seguaci di Cristo (Cfr. E. JACQUIER, Les Actes . . . . 351, 352). Noi questo nome lo abbiamo ricevuto al battesimo, quando appunto siamo diventati cristiani.

Teniamo bene presente questo fatto. Là, al battesimo noi abbiamo incontrato Cristo. Incontro sacramentale e vitale, rigeneratore.

Fu il nostro vero Natale. Ora, attenzione! che cosa comporta un simile incontro con Cristo? Ancora il Vangelo ci insegna: comporta seguire Cristo. Comporta uno stile di vita; comporta un impegno inscindibile; comporta una fortuna inestimabile (Cfr. E. NEUHAUSLEB, Exigence de Dieu et morale chrétienne, Cerf, 1962, 1971, p. 271 ss.).

Qui, in Nice, c’è tutto. Qui la coerenza della nostra vita, qui la fedeltà alla nostra professione religiosa, qui il genio della nostra arte di essere in questo mondo, qui l’obbligo della nostra testimonianza morale, qui la sorgente della nostra capacità a sovrumane virtù, qui l’intimo conforto in ogni terreno travaglio, qui l’urgenza della nostra carità missionaria e sociale.

Essere cristiani! Noi non faremo che ripetere ciò che abbiamo scritto nella nostra prima Enciclica EcclesiamSuam: «Bisogna ridare al fatto d’aver ricevuto il santo battesimo, e cioè di essere stati inseriti, mediante tale sacramento, nel Corpo mistico di Cristo che è la Chiesa, tutta la sua importanza, specialmente nella cosciente valutazione che il battezzato deve avere della sua elevazione, anzi della sua rigenerazione alla felicissima realtà di figlio adottivo di Dio, alla dignità di fratello di Cristo, alla fortuna, vogliamo dire alla grazia e al gaudio della inabitazione dello Spirito Santo, alla vocazione d’una vita nuova, che nulla ha perduto di umano, salvo la infelice sorte del peccato originale, e che di quanto è umano è abilitata a dare le migliori espressioni e a sperimentare i più ricchi e candidi frutti».

Così, ripetiamo, ripensando al nostro recente Natale, al nostro incontro con Cristo, al nostro essere rigenerato nel battesimo, e chiamato a perenne rinnovamento, come l’annuncio dell’Anno Santo, ci ricorda e c’invita a realizzare.

Con la nostra Benedizione Apostolica.



Missionari Passionisti

E’ per noi una vera gioia vedere qui un gruppo dei Figli di San Paolo della Croce, i Missionari Passionisti, che stanno svolgendo un mese di aggiornamento pastorale presso la Casa Generalizia dei Santi Giovanni e Paolo.

Figli carissimi ! Ci conforta assai il sapere che vi siete raccolti per studiare e aggiornare alla luce delle moderne esigenze pastorali la funzione di «missionari», che, voluta dal vostro grande Santo Fondatore, vi qualifica e consacra nella Chiesa. San Paolo della Croce, infatti, volle essere un predicatore al popolo: e seppe scendere dalle altezze della contemplazione, come Gesù dal monte, per catechizzare, per evangelizzare, per annunziare la Buona Novella.

Non vi manchi l’impegno, la volontà, lo spirito di sacrificio per compiere bene questo primario dovere della predicazione: senza peraltro dimenticare che le vostre parole, oltre che dalla conoscenza delle problematiche odierne, debbono nascere da un cuore pieno di Dio, com’è stato nelle intenzioni del Fondatore. Solo dalla consuetudine viva e amorosa del colloquio col Padre Celeste, nella mediazione di Cristo, Vittima e Pontefice Eterno, solo da una scuola assidua di preghiera e di imitazione nasce la profondità della parola, la forza di persuasione, la scintilla che commuove e converte i cuori.

Vi esortiamo perciò ad un costante programma di vita interiore; e ci fa piacere conoscere che, in questo spirito, volete prepararvi ai particolari compiti che l’Anno Santo, con le sue forti esigenze di rinnovamento e di riconciliazione, pone a dei missionari come voi.

Vi impegna in questo non solo il dovere comune a ogni sacerdote, ma anche il particolare significato che ogni Anno Santo deve avere per voi, Passionisti: infatti, fu proprio nell’Anno Santo del 1725 che San Paolo della Croce ottenne la prima autorizzazione da questa Sede Apostolica a radunare i suoi Religiosi.

Noi vi seguiamo con la nostra preghiera; e siamo lieti di impartire a voi, e, per voi, a tutta la grande e benemerita famiglia dei Passionisti, la nostra particolare Benedizione.



Mercoledì, 13 febbraio 1974


Paolo VI Catechesi 9274