Paolo VI Catechesi 40178

Mercoledì 4 gennaio 1978: NEL NATALE LA SORGENTE DELLA LETIZIA CRISTIANA

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BISOGNA RIPENSARE al Natale, noi dicevamo ai nostri visitatori nella precedente Udienza Generale; e lo ripetiamo anche in questo incontro successivo al Natale, convinti come siamo che da questo fatto evangelico, - e meglio sarà qualificarlo come « mistero » evangelico -, scaturisce una forma di pensare e di vivere, che qualifica come gioiosa novità la nostra fedeltà al Natale stesso, cioè il nostro cristianesimo. E questo prolungamento della nostra riflessione su questo avvenimento può avvenire per due vie sostanzialmente eguali, perché l’una e l’altra derivano da quel Gesù, di cui celebriamo la nascita, cioè la venuta in questo mondo, ma con svolgimento diverso; l’uno, possiamo dire, guidato dall’aspetto narrativo e morale della celebrazione natalizia, e ci riporta al presepio di Betlem; l’altro invece fissa la nostra attenzione sopra l’aspetto dottrinale e teologico della celebrazione stessa, e ci mette alla scuola dell’analisi del mistero dell’Incarnazione, al quale la Chiesa cattolica, con i suoi primi Concilii, celebrati in Oriente, ha principalmente applicato la sua speculativa contemplazione. La prima via è caratterizzata dalla liturgia del nostro Natale, illuminato dal suo punto focale, ch’è la nascita di Gesù, nel mondo, nel luogo e nel tempo, quale ci è descritto nel racconto evangelico; la seconda via è quella che trova la sua espressione caratteristica nell’Epifania, cioè nel « mistero », dicevamo, della Incarnazione, del Verbo di Dio cioè, che si è fatto uomo.

Noi sosteremo questa volta sulla prima via, quella descrittiva, che tutti noi bene conosciamo, e che ha per noi questo punto di partenza: l’annuncio del Natale di Gesù, quale ci è narrato dal Vangelo di San Luca, e che si esprime nelle indimenticabili parole dell’Angelo ai pastori, i primi rappresentanti dell’umanità, informati e resi in tal modo partecipi del primo effetto della venuta di Cristo nel mondo. Noi le ricordiamo, ancora una volta, quelle parole, che assurgono ad annuncio programmatico del cristianesimo. Parole dell’Angelo: « Non temete; ecco io vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi è nato per voi, nella città di Davide un Salvatore, che è il Cristo Signore.. . ».

Pausa. Noi dobbiamo raccogliere questo messaggio, piovuto dal cielo, da misteriose labbra angeliche. Esso è un messaggio di gioia. Primo, per la sua fonte: viene dal cielo; viene dall’orizzonte misterioso e sconfinato del « regno dei cieli »; è un’economia nuova, un regime nuovo che si inaugura sulla faccia della terra; un rapporto sopranaturale è iniziato fra cielo e mondo; un rapporto, - secondo elemento da iscrivere alla prima pagina della storia umana, - un rapporto di gioia. Il cristianesimo, qualunque ne sia lo sviluppo spirituale e storico, che realizzerà questo rapporto, è un fatto sostanzialmente gaudioso; e per di più, destinato all’universalità, «omni populo».

Fratelli e Figli! diamo subito importanza a questo arrivo di Cristo nel mondo; si tratta d’un fatto trascendentale, messo in chiave normativa e interpretativa, di tutto il mondo religioso che ne consegue. La vocazione cristiana è una vocazione ad un gaudio essenziale per chi l’accoglie. Il cristianesimo è fortuna, è pienezza, è felicità. Possiamo dire di più: è una beatitudine che non si smentisce; il cristiano è eletto ad una felicità, che non ha altra sorgente più autentica. Il Vangelo è una « buona novella », è un regno nel quale la letizia non può mancare. Un cristiano, invincibilmente triste, non è autenticamente cristiano. Noi siamo chiamati a vivere ed a testimoniare questo clima di vita nuova, alimentato da un gaudio trascendente, che il dolore e le sofferenze d’ogni genere della nostra presente esistenza non possono soffocare, sì bene provocare a simultanea e a vittoriosa espressione.

Di questa nostra vocazione alla felicità superiore, spirituale e indeficiente, noi abbiamo già altra volta, e solennemente parlato con la nostra Esortazione Apostolica « Gaudete in Domino », durante l’Anno Santo (9 maggio 1975). Noi vorremmo richiamare voi tutti alla considerazione di quella parola, della quale ci piace ora derivare anche dal Natale, testè celebrato, la inesauribile sorgente.

E vorremmo che a questa stessa sorgente trovasse rimedio e conforto la presente tristezza dei tempi, che le difficoltà d’ogni genere rifluenti sulla vita vissuta dei nostri giorni fanno rinascere, con ben tristi risultati: o piegando verso uno sfiduciato pessimismo l’insipiente sapienza del mondo, rassegnato ad un’inguaribile disperazione interiore; ovvero suggerendo alla psicologia moderna il ricorso a fallaci rimedi, come lo sono quelli dell’edonismo o dell’egoismo, spesso insinuati all’odierna gioventù, che ne accoglie l’illusoria e sempre amara esperienza...; rimedio e conforto specialmente per quella nuova generazione di giovani, di cui salutiamo l’approssimarsi al presepio di Betlem, cantando con poesia nuova l’antico e sempre nuovo saluto al Salvatore del mondo.

Così sia. Con la nostra Apostolica Benedizione.



Mercoledì 11 gennaio 1978 IL VANGELO DEL NATALE

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ANCORA IL NATALE. È questa una meditazione senza fine, e sempre inesauribilmente ricca dei temi fondamentali che riguardano i nostri rapporti con Dio. Noi ci congederemo da questa celebrazione del grande avvenimento natalizio portando con noi l’esemplarità sua propria, ch’è tale, da un lato, da servire a noi quale rivelazione del pensiero divino su le nostre cose, e dall’ altro, per conformare la nostra presente esistenza alla forma che meglio corrisponde ad avvicinarla a quella di Dio fatto uomo. Il Signore, ancora prima di istruirci con la sua parola, ci è stato maestro con l’esempio delle sue azioni, col vangelo della sua apparizione in veste umana fra di noi.

E solo il porre davanti alla nostra riflessione la storia della vita di Cristo solleva problemi che non mai noi riusciremo a risolvere completamente, ma sempre vedremo irradiarsi dalla presenza di Cristo nel mondo tale luce di Verità, tale conforto di speranza e di vita da avvertire com’Egli sia la luce del mondo, e come soltanto nel cono luminoso di dottrina che la Chiesa ce ne dà, noi possiamo godere della sua luce ed averne la nostra salvezza. Il che vuol dire sentirci obbligati a fissare lo sguardo della nostra fede in Cristo Signore con totale adesione di pensiero e di vita. Ricordiamo le parole conclusive del prologo del Vangelo di San Giovanni: « E il Verbo si fece carne, e venne ad abitare fra di noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità ». (1)

Ma a questo punto della nostra contemplazione sul Verbo di Dio fatto carne, invece d’ incontrare la sua gloria noi incontriamo, nel quadro della vita temporale di Gesù, la sua umiliazione, la sua piccolezza, il suo annientamento; noi incontriamo non la grandezza, ma la negazione dei valori della vita nostra presente. Il presepio ce lo dice. L’umiltà di Cristo sarà la nostra sorpresa. Un’umiltà che mortifica le nostre attese messianiche, e che ci obbliga a modificare, e perfino a contraddire, la stima di ciò che noi crediamo beni necessari alla nostra esistenza naturale. E ciò ricordiamo in ordine a due virtù cristiane, cioè a due caratteristiche dimensioni negative della nostra presenza nel mondo; vogliamo dire l’umiltà e la povertà.

Che Dio si sia voluto manifestare e abbia voluto convivere con noi in abito di assoluta umiltà è cosa che sconvolge e trasforma i nostri giudizi su noi stessi e sui rapporti nostri con le cose e con gli avvenimenti del mondo. « Imparate da me - insegnerà poi Gesù nel suo Vangelo - che sono mite ed umile di cuore ».(2) E questo atteggiamento di umiltà investe non soltanto le forme esteriori della vita di Cristo, sì bene le forme essenziali della vita, della dottrina e della missione del Dio fatto uomo. Qui è necessaria la citazione d’una sentenza notissima di San Paolo, la quale contiene la sintesi e ci offre la chiave di comprensione di tutta la figura di Cristo; è la citazione delle parole relative alla « Kénosis » di Cristo, cioè dell’abbassamento di lui nel compimento del disegno della nostra redenzione, parole della lettera di S. Paolo ai Filippesi: (3) « Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il Quale, pur essendo di natura divina non considerò un tesoro geloso la sua somiglianza con Dio: ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce. Per questo Dio lo ha esaltato e gli ha dato il nome, che è al di sopra d’ogni altro nome, affinché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore a gloria di Dio Padre ».

Qui la nostra meditazione si fissa e diventa ammirazione sconfinata. La mortificazione di Cristo diventa principio e modello della nostra esaltazione. Questo circa l’umiltà dell’uomo Dio introdotta nella sua apparizione nel mondo; osservazioni analoghe possono essere fatte circa la povertà della venuta di Cristo fra gli uomini. Donde un cambiamento radicale nella valutazione dei beni propri della sfera naturale della vita presente; questo cambiamento qualifica il cristianesimo, dove l’umiltà e la povertà troveranno espressioni ignote nelle concezioni naturali del vivere umano, ma avranno in compenso la conquista soprannaturale del Regno di Dio, della nuova vita promessa agli umili di cuore e ai poveri di spirito. Pensiamoci bene! questo è il Vangelo! (4)

Con la nostra Benedizione Apostolica.


1.
Jn 1,14.
2. Mt 11,29.
3. Ph 2,5-11.
4. Cfr. S. AUGUSTINI Sermo 30: PL 38, 191-192; P. GIAMMARIA DA SPIRANO, I Fioretti di S. Francesco d’Assisi, Martello, Milano 1960.



Mercoledì, 18 gennaio 1978

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Noi non possiamo prescindere da una coincidenza di calendario, la quale porta questa Udienza generale al 18 gennaio, oggi, prima giornata della «Settimana di preghiera per l’Unità dei Cristiani»; e ci sentiamo in obbligo d’invitare voi tutti ad associarvi alla considerazione di questa sempre premente questione dell’ecumenismo, cioè della ricomposizione dell’unione effettiva, nella fede e nella disciplina, di quanti credono in Gesù Cristo. È infatti un dovere, possiamo dire costituzionale, per tutti i cristiani d’essere uniti fra loro, d’essere, secondo la volontà di Gesù Cristo, «una cosa sola» (
Jn 17,11-21 Jn 17,22-23); un dovere che i secoli di divisione fra cristiani non attenuano, sì bene rendono più sensibile, mentre il tempo nostro impone con più chiara coscienza: bisogna che i cristiani siano uniti!

Prima cosa da fare: avere coscienza di questo dovere! è volontà solenne di Cristo! Noi ci siamo assuefatti ad una paradossale situazione, quella di crederci cristiani autentici anche se le divisioni fra quanti si dicono cristiani sono in atto, e sono gravi, sono molteplici, sono inveterate. Se noi abbiamo sollecitudine d’essere seguaci veri e fedeli di Cristo, dobbiamo sentire disagio, dolore, ansia per lo stato in cui la sua sequela, la sua Chiesa, oggi ancora si trova. Ma le difficoltà per ricomporre una vera fusione unitaria fra le diverse denominazioni cristiane sono tali da paralizzare ogni umana speranza che essa possa storicamente realizzarsi. Le rotture avvenute si sono ossificate, solidificate, organizzate in modo da qualificare come utopistico ogni tentativo di ricostruire alle dipendenze del capo, che è Cristo, «un corpo - come scrive S. Paolo - bene scompaginato e connesso mediante la collaborazione d’ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro», in modo ch’esso edifichi se stesso nella carità (Ep 4,16).

Il problema dell’unità fra i cristiani sembra poi insolubile anche per il fatto che si tratta di vera unità; non si può su questa sacrosanta parola «unità», che si esemplifica sull’unità ineffabile del Padre celeste con il Figlio divino (Jn 17,22), ammettere qualsiasi abusiva interpretazione pluralistica. L’unità del corpo mistico di Cristo, che è la Chiesa, ammette, anzi esige una molteplicità di funzioni (Ep 4,11-15), ma sempre nella cospirazione organica d’unica fede e d’unica carità. E questa esigenza, confrontata con le condizioni concrete e storiche delle varie frazioni di fedeli aderenti alle varie denominazioni cristiane, sembra scoraggiare ogni speranza ecumenica; la storia non torna indietro! Tuttavia così non può essere; la parola di Cristo: «siamo tutti una cosa sola!», non è soltanto un precetto per noi, ma è anche una promessa profetica; essa è stata pronunciata dal Signore nella Sua preghiera suprema prima della passione; essa non può rimanere inesaudita!

E perciò due conclusioni positive per la nostra «Settimana di preghiera per l’Unità dei Cristiani». La prima ci è suggerita dal tema stesso fissato per questa presente Settimana; essa ci dice: «Voi non siete più stranieri». È questa un’altra parola di S. Paolo, che ci insegna essere già in atto una comunione, una carità, che ci consente di chiamare «fratelli» anche quei cristiani che sono pur troppo tuttora divisi dalla vera unità cattolica. Essi sono battezzati, essi credono nel Vangelo, essi pure, noi pensiamo, aspirano all’unità fra tutti i cristiani. Cioè già esistono vincoli d’unione che non possiamo ignorare né sottovalutare; vincoli non perfetti; vincoli che tuttora dimostrano lo strappo subito dalla compagine integra e organica del corpo mistico; vincoli che reclamano dalla Chiesa madre d’essere riallacciati con immensa pazienza ed esemplare umiltà, ma ancora suscettibili di nuova e degna vitalità; vincoli infranti, che non devono oggi essere motivo di polemiche inestinguibili, ma motivi di accresciuto amore se essi ancora favoriscono la ricomposizione dell’unità.

Ed ecco allora la seconda conclusione: bisogna pregare! La preghiera per l’unità è, vista contro luce, una confessione d’impossibilità nostra a conseguire con soli mezzi umani lo scopo che ci si prefigge: «senza di me, voi non potete fare nulla» (Jn 15,5) è il caso di ripensare alle parole del Signore; per rivolgere con tanta maggiore fiducia a Lui la nostra preghiera. Che cosa non può ottenere la preghiera? Qui è la segreta speranza per la ricomposizione dell’unità fra i cristiani!

Preghiamo dunque tutti, con la nostra Apostolica Benedizione.



Ad un gruppo di universitari

Rivolgiamo un saluto particolare agli studenti universitari e alle studentesse, ospiti di pensionati religiosi di Roma. La vostra gradita visita, della quale cordialmente vi ringraziamo, ci offre occasione propizia per assicurare con quanto interesse, con quanto amore la Chiesa desideri di essere vicina ai giovani, richiamando la loro attenzione sulla ricchezza, sull’attualità e sulla necessità del messaggio cristiano, specie in questo momento in cui più che mai si rivela l’illusorietà delle ideologie che portano alla violenza, al disordine morale, alla disgregazione sociale. Anzi vogliamo aggiungere che la Chiesa vuole essere, per mezzo vostro, sempre maggiormente presente nel mondo giovanile.

Siate voi intelligenti e sensibili annunciatori di Cristo ai vostri colleghi, siate protagonisti di quella programmata azione pastorale, in cui è impegnata la nostra Diocesi di Roma, che vorremmo stimolo e modello a tutte le altre Diocesi.

Con la nostra Benedizione Apostolica.

A due gruppi di Seminaristi

We extend a cordial welcome to the group of seminarians from Saint Meinrad’s who have come to study the life of the primitive Church in Rome. At the same time you have a splendid opportunity in this City to experience deeply the unity of the universal Church. Dear sons, never forget that Christ died for this unity: “to gather into one all the dispersed children of God ”(Jn 11,52). Your lives and your future ministry must be totally oriented to this great goal: perfect unity in Jesus Christ.

The presence of a large group of priests from the Filipino College recalls once again our visit to Manila. Our message to you today is the same as we addressed to the new priests at that time: “Each one of you is another Christ”. And we count on your generosity and your fidelity, so that through your ministry the truth of Christ, the light of Christ, and the love of Christ may spread in your homeland. For this reason, in the words of Saint Paul we plead with you “to live a life worthy of the calling you have received” (Ep 4,1). God bless the Philippines!

PAOLO VI



Mercoledì 25 gennaio 1978: OPPORRE IL BENE ALL’OFFENSIVA DEL MALE

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OGGI LA CHIESA celebra la conversione di San Paolo, avvenimento decisivo per il cristianesimo, e che confermò la vocazione universale della nuova religione, che nata in un paese determinato e nell’ambito della tradizione ebraica, ebbe nel nuovo Apostolo il missionario che più degli altri comprese e predicò il Vangelo per tutti gli uomini. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti. Questa testimonianza Egli l’ha data nei tempi stabiliti, « e di essa io (è San Paolo che attesta di sé, nella prima lettera a Timoteo, [1Tim. 2, 5-7]), io - egli scrive - sono stato fatto banditore e apostolo, dico la verità, non mentisco, dottore delle genti nella fede e nella verità ». Vada all’Apostolo Paolo, oggi, il nostro riverente e amoroso saluto, associato al pensiero che oggi pure la pietà della Chiesa rivolge al grande e non ancora soddisfatto desiderio apostolico della piena ricomposizione dell’unità fra i Cristiani, nell’orazione e nella speranza, che l’aspirazione, fatta più ardente e più plausibile dall’ecumenismo contemporaneo, celebrata nei nostri cuori e, Dio voglia, in quelli dei Fratelli tuttora da noi separati, sia coronata da felice successo.

A San Paolo noi domanderemo poi una sua parola che conforti i nostri animi, turbati da tante vicende della vita attuale nel mondo, le quali scuotono la nostra fiducia nel pacifico progresso della pace nel mondo. Tutti siamo addolorati da una triste recrudescenza della violenza privata, ma organizzata nella società odierna, la quale traduce in fenomeni di incivile disordine l’insicurezza, che la travaglia e che un dominante pluralismo morale e politico, contraffazione della libertà, sembra coonestare. Per di più difficoltà economico-sociali si diffondono con effetti negativi molto pesanti, e lasciano intravvedere situazioni anche peggiori, così che desiderii folli di godimento superfluo e timori paralizzanti la normalità del lavoro si diffondono creando una psicologia di sfiducia, che inaridisce l’attività produttiva e suggerisce rimedi vani e disordinati. E come accade, un male ne genera un altro, e spesso peggiore. Tutti siamo preoccupati. Il peggio, si dice, è senza fondo; e una tentazione di pessimismo si diffonde e paralizza tante energie, che pure sono state suscitate con tanta lungimiranza di un avvenire migliore.

Il quadro è noto a tutti e incombe con la sua ombra su questo momento della nostra civiltà e si proietta sulla storia del domani.

Ecco allora il nostro rimedio, attinto appunto dal tesoro dell’insegnamento dell’Apostolo Paolo. Egli lo presenta nella sua lettera ai Romani là dove, dopo di averli esortati con suggerimenti vibranti in varie direzioni della vita morale, quale deve derivare da persone illuminate dalla fede e sorrette dalla grazia, egli riassume la sua esortazione in questa ben nota sentenza: « Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male ».[
Rm 12,21] Quanto semplice sembra la parola dell’Apostolo, e sembra che valga la pena fissarla nella memoria. Intanto notiamo: la dottrina apostolica è interiore, e tende a modificare la facile mentalità di chi cede al disgusto e al turbamento delle condizioni esteriori, in cui si svolge la nostra vita. Siamo in un mondo non solo avverso per tanti motivi fisici e materiali alla nostra esistenza, ma altresì nemico per le difficoltà del suo ordinamento sociale, o meglio per il disordine dei fattori che gli impediscono d’essere ordinato, vale a dire ragionevole e giusto. Noi avvertiamo questa malizia che rende difficile e talora insopportabile la convivenza sociale: che cosa dobbiamo fare? Dobbiamo lasciare che il male ci vinca, cioè ci domini e ci assorba nelle sue spirali che farebbero cattivi anche noi? Questo è il processo della vendetta, che accresce il male e non lo guarisce. Ovvero dobbiamo cedere al pessimismo e alla pigrizia e abbandonarci ad una vile rassegnazione? Ciò non è cristiano. Il cristiano è paziente, ma non abulico, non indifferente. L’atteggiamento suggerito dall’Apostolo è quello d’una reazione positiva; cioè egli c’insegna a opporre la resistenza del bene all’offesa del male; c’insegna a moltiplicare lo sforzo dell’amore per riparare e vincere i danni del disordine morale; c’insegna a fare stimolo a maggiore virtù e a più operante attività per il nostro cuore dell’esperienza del male incontrato sul nostro cammino. Così San Paolo. Così i Santi. E così sia di tutti noi!

Con la nostra Benedizione Apostolica.



Ad un gruppo di Vescovi

VOGLIAMO SALUTARE in segno di particolare affetto il gruppo dei Vescovi, di varia provenienza internazionale, i quali stanno facendo in questi giorni una esperienza di intensa comunione spirituale presso il Centro dei Focolarini a Rocca di Papa. Venerati Fratelli nell’Episcopato, non possiamo tacere il nostro compiacimento per la vostra iniziativa. Tutto ciò che favorisce la mutua, fraterna carità, nella prospettiva di un più generoso e fecondo servizio ecclesiale, si colloca al centro del Vangelo e del « comandamento nuovo » formulato dal Signore Cristo Gesù. Pertanto, auspichiamo cordialmente per ciascuno di voi una sempre maggiore presa di coscienza del vostro collegiale ministero pastorale nel contesto vivente del Popolo di Dio, perché sia ognor più fruttuoso per la crescita della Santa Chiesa. Amiamo confortare questi voti con la più larga Benedizione Apostolica.

Ad un gruppo giovanile di Villalago

PARTECIPA ALL'UDIENZA di questa mattina il « gruppo giovanile » della parrocchia di S. Maria di Loreto in Villalago, che ha organizzato per la prima volta, nello scorso Natale, il « Presepe vivente », e che è qui accompagnato da una qualificata rappresentanza di quella Comunità religiosa e civile.

Vi siamo grati, carissimi figli, della vostra visita e dell’affetto che l’ha suggerita, e ne prendiamo motivo per esortarvi a fare oggetto di continua riflessione il mistero che avete rappresentato: quale immensa ricchezza d’insegnamenti, infatti, si può trarre dall’incarnazione del Figlio di Dio venuto al mondo nell’estrema indigenza; dalla prontezza di Maria e Giuseppe nell’adempimento delle leggi umane pur nella loro particolare situazione di viaggiatori lontani e indifesi: e come non ammirare la sollecitudine dei pastori accorsi prontamente per adorare il nato Bambino; la profondità e la generosità della fede dei Magi a Betlemme! Tutto questo, di cui ci parlano i Vangeli di Matteo e di Luca, deve spronarci a sempre maggiore rispondenza alla chiamata divina, e all’annuncio del messaggio evangelico, unitamente ad un amore grande, vivo, operante per Cristo Signore. Siate, dunque, gli autentici testimoni di quel Dio che « per noi e per la nostra salvezza discese dal cielo ». Con la nostra Benedizione Apostolica.

Al Consiglio capitolare della Congregazione delle Suore Operaie della Santa Casa di Nazareth

IL NOSTRO PATERNO saluto si rivolge ora al gruppo delle Religiose, che costituiscono il Consiglio Capitolare della Congregazione delle Suore Operaie della Santa Casa di Nazareth. Un Istituto di origine Bresciana, nato dal cuore del venerato Sacerdote Arcangelo Tadini, le cui religiose operano apostolicamente nelle fabbriche e nei laboratori, in discreta, silenziosa ma efficace attività di presenza accanto alle donne lavoratrici. Figlie carissime, per questo specifico e precipuo vostro impegno, abbiate la nostra riconoscenza e il nostro incoraggiamento a perseverare in una cosi provvidenziale Opera sociale, umana e cristiana. Nelle immancabili difficoltà e nelle sempre possibili delusioni, guardate con fiducia sempre maggiore a Gesti lavoratore nella Santa Casa di Nazareth. E come Gesù, anche voi abbiate come quotidiano programma di crescere in sapienza e in grazia, per portare nell’ odierno ambiente di lavoro l’ esempio fresco e genuino della vostra equilibrata sicurezza interiore, della vostra sicura fede cristiana, della vostra consapevole dignità di donne, e di donne consacrate.

Con la nostra Apostolica Benedizione.




Mercoledì 8 febbraio 1978: QUARESIMA: PRIMAVERA DELLO SPIRITO

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LA CHIESA ha sempre dato una importanza normativa alla successione del tempo durante il ciclo cronologico annuale, e vi distribuisce con grande rigore la sua pedagogia sia spirituale, sia ascetica. Periodo speciale, periodo forte è la quaresima, che liturgicamente oggi, quest’anno, felicemente comincia. Bisogna che noi avvertiamo questa disciplina tradizionale della Chiesa, che conferisce al calendario un’autorità particolare e dà un senso spirituale al tempo che passa. Un fedele non può essere indifferente alla successione solare e stagionale dei giorni, quasi fossero tutti eguali, né esigessero d’essere vissuti in una determinata maniera. Sappiamo quanto sia rilevante la distribuzione settimanale delle giornate, la quale ha anche nel calendario civile una sua legge, che dichiara festivo il primo giorno della settimana, e che impone al cristiano una particolare osservanza religiosa, e cioè la partecipazione alla « sinassi », all’assemblea comunitaria, liturgica, celebrativa della Parola sacra e del sacrificio eucaristico. Il recente Concilio ha confermato questa norma per cui « la domenica è la festa primordiale, che deve essere proposta e inculcata alla pietà dei fedeli, in modo che risulti anche giorno di gioia e di riposo dal lavoro » (Sacrosanctum Concilium
SC 106). Bene sappiamo; e bene faremo a considerare sempre questa norma come capitale nel nostro costume religioso e civile, il quale inoltre ci porta a dare superiore rilievo al periodo precedente e preparatorio alla Pasqua, cioè alla quaresima.

La quaresima è un periodo di preparazione sacramentale. Al sacramento del battesimo, in primo luogo, per i neofiti. Per i cristiani già battezzati la quaresima non sarà solo un semplice ricordo del primo e grande sacramento purificatore e generatore già ricevuto, ma sarà un rinnovamento psicologico e morale operato dal battesimo stesso, il quale comporta con l’accettazione della fede uno stile di vita ad essa conforme, come da logico e mistico principio, secondo la classica parola di San Paolo: l’uomo « giusto vive di fede »; (Rm 1,17). operazione questa sempre in via di svolgimento e di esercizio. Poi la quaresima è ordinata alla riconciliazione dei penitenti. Tutta la dottrina sul peccato, commesso dopo il battesimo, ha qui una sua scuola ed ha altresì una sua ineffabile conclusione, che si concentra nella pace della coscienza, restituita all’amicizia con Dio, mediante il sacramento della penitenza. La preparazione quaresimale si corona così con la predisposizione pasquale, quando il sacrificio eucaristico ammetterà il fedele alla comunione con Cristo stesso, « nostra Pasqua immolato » per noi (1Co 5,7).

E intorno a questi Sacramenti la vita del fedele si esercita e si trasforma. Essa è caratterizzata da una accentuazione di religiosità, di ascetica e di carità. L’ascoltazione della Parola divina si fa più attenta e più assidua; e se oggi le folle cristiane si sono diradate dalla presenza alle prediche quaresimali sistematiche, ogni cristiano pensoso dovrebbe trovare tempo e modo per assistere almeno ad una preparazione pasquale predicata per qualche gruppo particolare, dato che questa forma di predicazione si è fortunatamente tanto diffusa ed è diventata di facile accesso. Così la lampada della preghiera, quasi istintivamente, o meglio per misterioso incontro con lo Spirito fattosi presente nell’anima, si riaccende e conferisce all’atmosfera quaresimale una sua luce, che sa di pianto e di gioia.

E dell’obbligo del digiuno e dell’astinenza quaresimale che cosa è rimasto? Un tempo, tanto impegnativo, tanto severo e quasi tanto... ritualizzato, ora nulla più resta? A parte i due giorni di digiuno, che obbligano ancora i valenti (e cioè il Mercoledì delle Ceneri, ed è oggi, e poi il Venerdì Santo, il « giorno grande ed amaro »), l’obbligo impegnativo degli anni passati è stato tolto dalla Chiesa, sensibile alle condizioni mutate ed esigenti del costume moderno; ma ciò che rimane per gli spiriti forti e fedeli è tanto più degno della nostra vigilante memoria; e si riassume in due parole, supplementari dell’antico digiuno: austerità personale, nel cibo, nello svago, nel lavoro.. . e carità per il prossimo, per chi soffre, per chi ha bisogno di aiuto, per chi aspetta il nostro soccorso o il nostro perdono... Tutto questo rimane, come rimane altresì l’obbligo dell’astinenza in ogni venerdì di quaresima. Anzi questo vario, spontaneo e non sempre facile programma esige la nostra scelta, il nostro sforzo (fioretto, lo chiamano i ragazzi), la nostra austerità. Solo l’austerità rende forte ed autentica la vita cristiana.

Sia l’austerità, contra la mollezza oggi di moda, l’esercizio non ostentato (Cfr. Mt 6,1 ss.) ma sincero e corroborante della nostra penitenza cristiana!

Con la nostra Benedizione Apostolica.

Saluti

Ai partecipanti alla II Conferenza Internazionale dell’Apostolato dell’Aviazione Civile




Mercoledì 22 febbraio 1978: LA QUARESIMA: SCUOLA DI FORTEZZA CRISTIANA

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Fratelli e Figli carissimi,

COME SAPETE, la Chiesa attribuisce particolare importanza al periodo liturgico, nel quale ci troviamo, e che si definisce Quaresima. Il pensiero, che impegna il breve momento di riflessione spirituale per la nostra settimanale Udienza generale, non può scostarsi da questo tema religioso, che, assai ridotto nelle sue esigenze disciplinari, qualifica ancora come periodo grave e ricco di motivi liturgici questa preparazione alle solennità pasquali.

Noi ci limiteremo a dare uno sguardo all’itinerario religioso e morale che ancora lo spirito della Quaresima può avere per la nostra educazione cristiana.

Ebbene, oggi noi proponiamo a voi, visitatori graditissimi, di tentare, con un atto di buona, di cosciente volontà, di entrare nello spirito della Quaresima, e di farne un esercizio di energia e di ascetica. Vogliamo cristiani forti e coerenti. La Quaresima è appunto una scuola di fortezza cristiana. Noi chiediamo perciò a voi, come a quanti altri può giungere l’eco di questo semplicissimo discorso, di modificare nella vostra opinione, se bisogno vi fosse, l’idea invalsa circa la Quaresima, come se questa fosse un periodo di lugubre e triste spiritualità. Che la penitenza ch’essa impone a chi ne vuole seguire l’itinerario sia improntata a pensieri gravi e sia esigente di qualche non gradevole osservanza, questo si sa. Ma essa, quando è ispirata dall’amore di Cristo verso di noi, non può generare nei nostri animi sentimenti depressivi e scoraggianti, sì bene d’umiltà sincera, ma piena di coraggio e quasi prevenuta del premio, che l’attende, la pace e la letizia dell’animo. Nel proposito del Figliolo prodigo, coraggiosamente deciso di ritornare alla casa paterna, vibra già una forza d’animo, la quale dovrà, anche soggettivamente considerata, risolversi in un corroborante sentimento di rinnovamento interiore. « Surgam et ibo », mi alzerò e andrò: (
Lc 15,18) così il prodigo reduce sui suoi passi perduti, diventati ora passi di redenzione.

Vedete, la penitenza cristiana può paragonarsi ad un esercizio fisico di ginnastica, faticoso sì, ma fortificante. La penitenza cristiana è un esercizio spirituale, che esige qualche sforzo, ma non deprimente, non avvilente. Possiamo, contentandoci di un’analisi elementare, ma essenziale, concentrare in tre punti il processo della penitenza cristiana, la quale è insignita nel linguaggio biblico d’una parola capitale, e ora divenuta d’uso corrente, che in greco suona « metanoia », e vuol dire: conversione, cambiamento di direzione; come un vigoroso colpo di timone, che modifica e spesso deve opporsi al senso della marcia già in corso. (Cfr. Mt 3,2 Mt 4,17) Questo è il punto più importante, e, se psicologicamente studiato, non ha nulla di deprimente; anzi è segno d’una maturazione di pensiero e d’un vigore nuovo di volontà personale.

Poi, un secondo punto, più difficile sia nella maturazione della coscienza, sia nella valutazione oggettiva; ed è la coscienza del male morale, di cui uno si è reso colpevole; è la coscienza del peccato. Questa implica una terribile avvertenza, che la superficialità morale della gente non ammette e spesso anche volutamente si rifiuta di ammettere, mentre fa parte reale e essenziale dell’ordine morale, quell’ordine morale che è stato violato. La nostra vita, di uomini liberi e coscienti, è collegata esistenzialmente all’occhio di Dio, al suo diretto giudizio, alla sua bontà esigente l’osservanza d’una immanente obbligazione morale; osservanza che segna l’oscillazione dell’ago fatale, fra il bene ed il male, fra l’azione giusta e buona e la sua contraria, che porta il nome, oggi da tanti taciuto, ma fatale, di peccato. Il peccato è una violazione d’un rapporto immanente e trascendente, il rapporto dell’uomo con Dio; è un’offesa a Dio, alla ragione, all’ordine reclamato dalle circostanze e dalla situazione. S. Agostino ha coniato una definizione, che sopravvive anche ai nostri giorni: « Il peccato è un fatto, o un detto, o un desiderio contro la legge eterna. La legge eterna è un pensiero divino, o una volontà di Dio, che comanda di conservare l’ ordine naturale, o proibisce di turbarlo ». (S. AUGUSTINI Contra Faustum, 1. 22, c. 27: PL 42, 418) Lo studio si fa altrettanto interessante, che difficile. Basti a noi ricordare la ripercussione ontologica che le nostre azioni hanno sullo schermo sempre teso e infallibile dello sguardo divino. Dio vede. Dio ricorda, Dio giudica. « Quo a facie tua fugiam »; (Ps 138 Ps 7) questa è una situazione reale, alla quale non possiamo mai sottrarci: « come fuggire dalla Tua presenza? ». E questo è l’ aspetto più delicato e tremendo per la coscienza umana, e costituisce uno dei capitoli più comuni, ma più gravi ed anche più consolanti e fortificanti dell’ azione umana.

Sì, perché tutta questa pedagogia etico-spirituale conclude ad un grande precetto dell’arte cristiana del bene vivere: quello della padronanza di sé. Tema immenso e di primo ordine, al quale ci porta e ci lascia questa breve escursione nei sentieri della nostra Quaresima. Abbiamo fiducia: abbiamo vigore.

Siamo sulla buona strada, la strada della Vita, della Vita pasquale. Con la nostra Apostolica Benedizione.

Saluti

Ai componenti del Circo Medrano

SIAMO LIETI di salutare oggi un gruppo tutto particolare: quello dei componenti del Circo Medrano, che in questi giorni è tornato a Roma dopo 25 anni di assenza. Figli carissimi, vogliamo assicurarvi il nostro cordiale compiacimento per la vostra presenza. Essa è segno di sincera sensibilità religiosa e cristiana, e ci offre l’opportunità di dirvi quanto paternamente siamo vicini anche al vostro singolare lavoro di Circo, che combina armoniosamente l’arte e il divertimento. La vostra vita pellegrinante è un’occasione per ricordare a tutti che l’esistenza umana su questa terra è provvisoria e che occorre « passare facendo del bene ». (Ac 10,38) Molto volentieri, al termine di questa udienza, assisteremo ad un vostro saggio di arte circense. Intanto a tutti voi, ai membri della famiglia Casartelli, agli artisti e agli inservienti concediamo la propiziatrice Benedizione Apostolica.

Al Seminario Francese di Roma

A Ministri della comunith anglicana

WEARE especially pleased to announce the presence at this audience of the Associates of the Anglican Centre. It is in the charity of our Lord and Saviour Jesus Christ that we extend to you, dear brothers, the cordial welcome of the Church in Rome. We experience joy in having you here with us, and we are filled with hope that God will grant our common prayer for perfect Christian unity. Meanwhile, with the Apostle Peter, we proclaim: “Peace to all of you that are in Christ”. (1Petu. 5, 14)





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