Discorsi 2005-13 30311

AI VESCOVI DELLA CONFERENZA EPISCOPALE DELLE FILIPPINE IN VISITA «AD LIMINA APOSTOLORUM» Sala del Concistoro Giovedì, 3 marzo 2011

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Miei cari fratelli Vescovi,

è con gioia che vi porgo il benvenuto in occasione della vostra visita ad limina Apostolorum. Tramite voi estendo i miei cordiali saluti ai sacerdoti, ai religiosi e ai fedeli delle vostre varie diocesi.

Il nostro incontro oggi mi offre l’opportunità di ringraziarvi collettivamente per l’opera pastorale che con amore svolgete per Cristo e per il suo popolo. Come afferma san Paolo: «E non stanchiamoci di fare il bene; se infatti non desistiamo, a suo tempo mieteremo» (
Ga 6,9). Con queste parole, l’Apostolo incoraggia i suoi lettori a operare il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede. Egli ci presenta un doppio imperativo, che è molto appropriato al vostro ministero nelle isole centrali e meridionali dell’arcipelago delle Filippine. Dovete adoperarvi per fare il bene fra i cristiani, nonché fra i non cristiani.

A proposito dei «fratelli nella fede» che richiedono la vostra sollecitudine apostolica, la Chiesa nelle vostre rispettive regioni condivide naturalmente molte delle esigenze pastorali del resto del Paese. Fra queste, una delle più importanti è costituita dal compito della formazione catechetica permanente. La profonda pietà personale del vostro popolo deve essere alimentata e sostenuta da una comprensione profonda e dall’apprezzamento per gli insegnamenti della Chiesa in materia di fede e di morale. Infatti, questi elementi sono richiesti affinché il cuore umano dia la sua risposta esaustiva e opportuna a Dio. Mentre continuate a rafforzare la catechesi nelle vostre diocesi, non mancate di includere in essa la prossimità alle famiglie, con particolare attenzione ai genitori nel loro ruolo di primi educatori dei figli nella fede. Quest’opera è già evidente nel sostegno che offrite alla famiglia di fronte a influenze che potrebbero diminuirne o distruggerne i diritti e l’integrità. So che offrire questo tipo di formazione catechetica non è compito da poco e colgo l’opportunità per salutare le numerose suore e i catechisti laici che vi assistono in quest’importante opera.

Infatti, come Vescovi diocesani non affrontate mai alcuna sfida da soli, perché siete assistiti anzitutto dai membri del vostro clero. Insieme con voi, hanno dedicato la propria vita al servizio di Dio e del suo popolo, e a loro volta hanno bisogno della vostra sollecitudine paterna. Come ben sapete, voi e i vostri confratelli Vescovi avete il dovere particolare di conoscere bene i vostri sacerdoti e di guidarli con sincera premura, mentre i sacerdoti devono essere sempre preparati a svolgere con umiltà e fedeltà i compiti loro affidati. Con questo spirito di cooperazione reciproca per il bene del Regno di Dio, di certo «a tempo debito raccoglieremo la nostra messe» di fede.

Molte delle vostre diocesi hanno elaborato programmi di formazione permanente per i giovani sacerdoti, aiutandoli nel passare dal sistema strutturato del seminario a quello più indipendente della vita parrocchiale. Sulla stessa linea, è anche utile assegnare loro mentori scelti fra i sacerdoti più anziani, che si sono dimostrati fedeli servitori del Signore. Questi uomini possono guidare i confratelli più giovani lungo il cammino verso uno stile di vita sacerdotale maturo e ben equilibrato.

Inoltre, sacerdoti di tutte le età esigono una sollecitudine costante. Bisogna promuovere regolari giornate di raccoglimento, ritiri e convocazioni annuali nonché programmi per una educazione e una assistenza costanti per i sacerdoti che possono incontrare difficoltà. Ho fiducia nel fatto che elaborerete anche modalità per sostenere quei sacerdoti i cui incarichi li portano a essere isolati. È gratificante constatare come il Secondo Congresso Nazionale per il Clero, svoltosi durante l’Anno Sacerdotale, sia stato un’occasione di rinnovamento e di sostegno fraterno. Al fine di trarre vantaggio da questo impeto, vi incoraggio ad approfittare della celebrazione annuale del giovedì santo, in cui la Chiesa commemora il sacerdozio in modo speciale. Secondo le loro promesse solenni nell’ordinazione, ricordate ai vostri sacerdoti il loro impegno al celibato, all’obbedienza e a una dedizione sempre maggiore al servizio pastorale. Nel vivere tali promesse, questi uomini diverranno autentici padri spirituali con una maturità personale e psicologica che si svilupperà per rispecchiare la paternità di Dio.

A proposito del comandamento di san Paolo di fare il bene a quanti non sono fratelli nella fede, il dialogo con altre religioni resta una priorità alta, in particolare nelle aree meridionali del vostro Paese. Sebbene la Chiesa proclami senza posa che Cristo è la via, la verità e a vita (cfr. Jn 14,6), rispetta tutto ciò che è vero e buono nelle altre religioni, e cerca, con prudenza e carità, di instaurare un dialogo onesto e amichevole, con i seguaci di quelle religioni, laddove è possibile (cfr. Nostra aetate NAE 2). Nel fare questo, la Chiesa opera per la comprensione reciproca e per il progresso del bene comune dell’umanità. Vi lodo per l’opera che avete già svolto e vi incoraggio, per mezzo del dialogo che è stato instaurato, a continuare a promuovere il cammino verso la pace autentica e duratura con il vostro prossimo, senza smettere di trattare ogni persona, indipendente dal suo credo, come creata a immagine e somiglianza di Dio.

Infine, mentre lottiamo per non «stancarci di fare del bene», ci viene ricordato che il bene più grande che possiamo offrire a coloro che serviamo, ci viene dato nell’Eucaristia. Nella Santa Messa i fedeli ricevono la grazia necessaria per essere trasformati in Gesù Cristo. È incoraggiante il fatto che molti filippini partecipino alla Messa domenicale, ma questo non lasci spazio al vostro compiacimento di Pastori. È vostro compito, nonché dei vostri sacerdoti, non stancarsi mai di cercare la pecorella smarrita, garantendo che tutti i fedeli traggano vita dal grande dono offertoci nei Misteri Sacri.

Cari Fratelli Vescovi, rendo grazie al Signore per queste giornate della vostra visita nella Città di Pietro e di Paolo, durante la quale Dio ha rafforzato i nostri vincoli di comunione. Con l’intercessione della Beata Vergine Maria, possa il Signore misericordioso portare a compimento la vostra opera. Vi assicuro il mio ricordo nella preghiera e imparto volentieri a voi e ai fedeli affidati alla vostra sollecitudine la mia Benedizione Apostolica, quale pegno di grazia e di pace.



VISITA AL PONTIFICIO SEMINARIO ROMANO MAGGIORE PER LA FESTA DELLA MADONNA DELLA FIDUCIA Venerdì, 4 marzo 2011

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LECTIO DIVINA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI Cappella del Seminario



Cari fratelli e sorelle,

sono molto felice di essere, almeno una volta all’anno, qui, con i miei seminaristi, con i giovani che sono in cammino verso il sacerdozio e saranno il futuro presbiterio di Roma. Sono felice che questo succeda ogni anno nel giorno della Madonna della Fiducia, della Madre che ci accompagna con il suo amore giorno per giorno e ci dà la fiducia di andare avanti verso Cristo.

“Nell’unità dello Spirito” è il tema che guida le vostre riflessioni durante questo anno formativo. È un’espressione che si trova proprio nel passo della Lettera agli Efesini che ci è stato proposto, là dove san Paolo esorta i membri di quella comunità a “conservare l’unità dello spirito” (4,3). Questo testo apre la seconda parte della Lettera agli Efesini, la cosiddetta parte parenetica, esortativa e comincia con la parola “parakalo”, “vi esorto”. Ma è la stessa parola che sta anche nel termine “Paraklitos”, quindi è un’esortazione nella luce, nella forza dello Spirito Santo. L’esortazione dell’Apostolo si basa sul mistero di salvezza, che aveva presentato nei primi tre capitoli. Infatti, il nostro brano inizia con la parola “dunque”: “Io dunque…vi esorto…” (v. 1). Il comportamento dei cristiani è la conseguenza del dono, la realizzazione di quanto ci è donato ogni giorno. E, tuttavia, se è semplicemente realizzazione del dono datoci, non si tratta di un effetto automatico, perché con Dio siamo sempre nella realtà della libertà e perciò - poiché la risposta, anche la realizzazione del dono è libertà - l’Apostolo deve richiamarlo, non può darlo per scontato. Il Battesimo, lo sappiamo, non produce automaticamente una vita coerente: questa è frutto della volontà e dell’impegno perseverante di collaborare con il dono, con la Grazia ricevuta. E questo impegno costa, c’è un prezzo da pagare di persona. Forse per questo san Paolo fa riferimento proprio qui alla sua attuale condizione: “Io dunque, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto…” (ibid.). Seguire Cristo significa condividere la sua Passione, la sua Croce, seguirlo fino in fondo, e questa partecipazione alla sorte del Maestro unisce profondamente a Lui e rafforza l’autorevolezza dell’esortazione dell’Apostolo.

Ora entriamo nel vivo della nostra meditazione, incontrando una parola che ci colpisce in modo particolare: la parola “chiamata”, “vocazione”. San Paolo scrive: “comportatevi in maniera degna della chiamata, della klesis che avete ricevuto” (ibid.). E la ripeterà poco dopo, affermando che “…una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione” (v. 4). Qui, in questo caso, si tratta della vocazione comune a tutti i cristiani, cioè della vocazione battesimale: la chiamata ad essere di Cristo e a vivere in Lui, nel suo corpo. Dentro questa parola è inscritta un’esperienza, risuona l’eco dell’esperienza dei primi discepoli, quella che conosciamo dai Vangeli: quando Gesù passò sulla riva del lago di Galilea, e chiamò Simone e Andrea, poi Giacomo e Giovanni (cfr
Mc 1,16-20). E prima ancora, presso il fiume Giordano, dopo il battesimo, quando, accorgendosi che Andrea e l’altro discepolo lo seguivano, disse loro: “Venite e vedrete” (Jn 1,39). La vita cristiana comincia con una chiamata e rimane sempre una risposta, fino alla fine. E ciò sia nella dimensione del credere, sia in quella dell’agire: tanto la fede quanto il comportamento del cristiano sono corrispondenza alla grazia della vocazione.

Ho parlato della chiamata dei primi apostoli, ma pensiamo con la parola “chiamata” soprattutto alla Madre di ogni chiamata, a Maria Santissima, l’eletta, la Chiamata per eccellenza. L’icona dell’Annunciazione a Maria rappresenta ben di più di quel particolare episodio evangelico, per quanto fondamentale: contiene tutto il mistero di Maria, tutta la sua storia, il suo essere; e al tempo stesso parla della Chiesa, della sua essenza di sempre; come pure di ogni singolo credente in Cristo, di ogni anima cristiana chiamata.

A questo punto dobbiamo tenere presente che non parliamo di persone del passato. Dio, il Signore, ha chiamato ognuno di noi, ognuno è chiamato con il nome suo. Dio è così grande che ha tempo per ciascuno di noi, conosce me, conosce ognuno di noi per nome, personalmente. È una chiamata personale per ognuno di noi. Penso che dobbiamo meditare diverse volte questo mistero: Dio, il Signore, ha chiamato me, chiama me, mi conosce, aspetta la mia risposta come aspettava la risposta di Maria, aspettava la risposta degli Apostoli. Dio mi chiama: questo fatto dovrebbe farci attenti alla voce di Dio, attenti alla sua Parola, alla sua chiamata per me, per rispondere, per realizzare questa parte della storia della salvezza per la quale ha chiamato me.

In questo testo, poi, San Paolo ci indica qualche elemento concreto di questa risposta con quattro parole: “umiltà”, “dolcezza”, “magnanimità”, “sopportandovi a vicenda nell’amore”. Forse possiamo meditare brevemente queste parole nelle quali si esprime il cammino cristiano. Ritorneremo poi alla fine, ancora una volta, su questo.

“Umiltà”: la parola greca è “tapeinophrosyne”, la stessa parola che san Paolo usa nella Lettera ai Filippesi quando parla del Signore, che era Dio e si è umiliato, si è fatto “tapeinos”, è sceso fino al farsi creatura, fino al farsi uomo, fino all’obbedienza della Croce (cfr Ph 2,7-8). Umiltà, quindi, non è una parola qualunque, una qualche modestia, qualcosa… ma è una parola cristologica. Imitare il Dio che scende fino a me, che è così grande che si fa mio amico, soffre per me, è morto per me. Questa è l’umiltà da imparare, l’umiltà di Dio. Vuol dire che dobbiamo vederci sempre nella luce di Dio; così, nello stesso tempo, possiamo conoscere la grandezza di essere una persona amata da Dio, ma anche la nostra piccolezza, la nostra povertà, e così comportarci giustamente, non come padroni, ma come servi. Come dice san Paolo: “Noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2Co 1,24). Essere sacerdote, ancora più che l’essere cristiano, implica questa umiltà.

“Dolcezza”: nel testo greco qui sta la parola “praytes”, la stessa parola che appare nelle Beatitudini: “Beati i miti perché avranno in eredità la terra” (Mt 5,5). E nel Libro dei Numeri, il quarto libro di Mosé, troviamo l’affermazione che Mosé era l’uomo più mite del mondo (cfr 12,3) e, in questo senso, era una prefigurazione di Cristo, di Gesù, che dice di sé: “Io sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29). Anche questa parola, quindi, “mite”, “dolcezza”, è una parola cristologica e implica di nuovo questo imitare Cristo. Perché nel Battesimo siamo conformati a Cristo, quindi dobbiamo conformarci a Cristo, trovare questo spirito dell’essere miti, senza violenza, di convincere con l’amore e con la bontà.

“Magnanimità”, “makrothymia” vuol dire la generosità del cuore, non essere minimalisti che danno solo ciò che è strettamente necessario: diamo noi stessi con tutto quello che possiamo, e cresciamo anche noi nella magnanimità.

“Sopportandovi nell’amore”: è un compito di ogni giorno sopportarsi l’un l’altro nella propria alterità, e proprio sopportandoci con umiltà, imparare il vero amore.

E adesso facciamo un passo avanti. Dopo questa parola della chiamata, segue la dimensione ecclesiale. Abbiamo parlato adesso della vocazione come di una chiamata molto personale: Dio chiama me, conosce me, aspetta la mia risposta personale. Ma, nello stesso tempo, la chiamata di Dio è una chiamata in comunità, è una chiamata ecclesiale, Dio ci chiama in una comunità. E’ vero che in questo brano che stiamo meditando non c’è la parola “ekklesia”, la parola “Chiesa”, ma appare tanto più la realtà. San Paolo parla di uno Spirito e un corpo. Lo Spirito si crea il corpo e ci unisce come un unico corpo. E poi parla dell’unità, parla della catena dell’essere, del vincolo della pace. E con questa parola accenna alla parola “prigioniero” dell’inizio: è sempre la stessa parola, “io sono in catene”, “catene ti terranno”, ma dietro sta la grande catena invisibile, liberante dell’amore. Noi siamo in questo vincolo della pace che è la Chiesa, è il grande vincolo che ci unisce con Cristo. Forse dobbiamo anche meditare personalmente su questo punto: siamo chiamati personalmente, ma siamo chiamati in un corpo. E questo non è una cosa astratta, ma molto reale.

In questo momento, il Seminario è il corpo nel quale si realizza concretamente l’essere in un cammino comune. Poi sarà la parrocchia: accettare, sopportare, animare tutta la parrocchia, le persone, quelle simpatiche e quelle non simpatiche, inserirsi in questo corpo. Corpo: la Chiesa è corpo, quindi ha strutture, ha anche realmente un diritto e qualche volta non è così semplice inserirsi. Certo, vogliamo la relazione personale con Dio, però il corpo spesso non ci piace. Ma proprio così siamo in comunione con Cristo: accettando questa corporeità della sua Chiesa, dello Spirito, che si incarna nel corpo.

E dall’altra parte, spesso forse sentiamo il problema, la difficoltà di questa comunità, cominciando dalla comunità concreta del Seminario fino alla grande comunità della Chiesa, con le sue istituzioni. Dobbiamo anche tenere presente che è molto bello essere in una compagnia, camminare in una grande compagnia di tutti i secoli, avere amici in Cielo e in terra, e sentire la bellezza di questo corpo, essere felici che il Signore ci ha chiamati in un corpo e ci ha dato amici in tutte le parti del mondo.

Ho detto che la parola “ekklesia” non c’è qui, ma c’è la parola “corpo”, la parola “spirito”, la parola “vincolo” e sette volte, in questo piccolo brano, ritorna la parola “uno”. Così sentiamo come sta a cuore all’Apostolo l’unità della Chiesa. E finisce con una “scala di unità”, fino all’Unità: Uno è Dio, il Dio di tutti. Dio è Uno e l’unicità di Dio si esprime nella nostra comunione, perché Dio è il Padre, il Creatore di tutti noi e perciò tutti siamo fratelli, tutti siamo un corpo e l’unità di Dio è la condizione, è la creazione anche della fraternità umana, della pace. Quindi, meditiamo anche questo mistero dell’unità e l’importanza di cercare sempre l’unità nella comunione dell’unico Cristo, dell’unico Dio.

Ora possiamo fare un ulteriore passo avanti. Se ci domandiamo qual è il senso profondo di questo uso della parola “chiamata”, vediamo che essa è una delle porte che si aprono sul mistero trinitario. Finora abbiamo parlato del mistero della Chiesa, dell’unico Dio, ma appare anche il mistero trinitario. Gesù è il mediatore della chiamata del Padre che avviene nello Spirito Santo.

La vocazione cristiana non può che avere una forma trinitaria, sia a livello di singola persona, sia a livello di comunità ecclesiale. Il mistero della Chiesa è tutto animato dal dinamismo dello Spirito Santo, che è un dinamismo vocazionale in senso ampio e perenne, a partire da Abramo, che per primo ascoltò la chiamata di Dio e rispose con la fede e con l’azione (cfr Gn 12,1-3); fino all’“eccomi” di Maria, riflesso perfetto di quello del Figlio di Dio, nel momento in cui accoglie dal Padre la chiamata a venire nel mondo (cfr He 10,5-7). Così, nel “cuore” della Chiesa – come direbbe santa Teresa di Gesù Bambino – la chiamata di ogni singolo cristiano è un mistero trinitario: il mistero dell’incontro con Gesù, con la Parola fatta carne, mediante la quale Dio Padre ci chiama alla comunione con Sé e per questo ci vuole donare il suo Santo Spirito, ed è proprio grazie allo Spirito che noi possiamo rispondere a Gesù e al Padre in modo autentico, all’interno di una relazione reale, filiale. Senza il soffio dello Spirito Santo la vocazione cristiana semplicemente non si spiega, perde la sua linfa vitale.

E finalmente l’ultimo passaggio. La forma dell’unità secondo lo Spirito richiede, come avevo detto, l’imitazione di Gesù, la conformazione a Lui nella concretezza dei suoi comportamenti. Scrive l’Apostolo, come abbiamo meditato: “Con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore”, e poi aggiunge che l’unità dello spirito va conservata “per mezzo del vincolo della pace” (Ep 4,2-3).

L’unità della Chiesa non è data da uno “stampo” imposto dall’esterno, ma è il frutto di una concordia, di un comune impegno di comportarsi come Gesù, in forza del suo Spirito. C’è un commento di san Giovanni Crisostomo a questo passo che è molto bello. Crisostomo commenta l’immagine del “vincolo”, il “vincolo della pace”, e dice: “E’ bello questo vincolo, con cui ci leghiamo insieme sia gli uni con gli altri sia con Dio. Non è una catena che ferisce. Non dà crampi alle mani, le lascia libere, dà loro ampio spazio e un coraggio più grande” (Omelie sull’Epistola agli Ep 9, 4, 1-3). Troviamo qui il paradosso evangelico: l’amore cristiano è un vincolo, come abbiamo detto, ma un vincolo che libera! L’immagine del vincolo, come vi ho detto, ci riporta alla situazione di san Paolo, che è “prigioniero”, è “in vincolo”. L’Apostolo è in catene a motivo del Signore, come Gesù stesso, si è fatto schiavo per liberarci. Per conservare l’unità dello spirito occorre improntare il proprio comportamento a quella umiltà, dolcezza e magnanimità che Gesù ha testimoniato nella sua passione; bisogna avere le mani e il cuore legati da quel vincolo d’amore che Lui stesso ha accettato per noi, facendosi nostro servo. Questo è il “vincolo della pace”. E dice ancora san Giovanni Crisostomo, nello stesso commento: “Legatevi ai vostri fratelli, quelli così legati insieme nell’amore sopportano tutto con facilità… Così egli vuole che siamo legati gli uni agli altri, non solo per essere in pace, non solo per essere amici, ma per essere tutti uno, un’anima sola” (ibid.).

Il testo paolino del quale abbiamo meditato alcuni elementi, è molto ricco. Ho potuto portare a voi solo alcuni spunti, che affido alla vostra meditazione. E preghiamo la Vergine Maria, la Madonna della Fiducia, perché ci aiuti a camminare con gioia nell’unità dello Spirito. Grazie!



INCONTRO CON I PARROCI DELLA DIOCESI DI ROMA - Aula della Benedizione Giovedì, 10 marzo 2011

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"LECTIO DIVINA" DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI


Eminenza,
Eccellenze e cari fratelli,

è per me una grande gioia essere ogni anno, all’inizio della Quaresima, con voi - il Clero di Roma - e cominciare con voi il cammino pasquale della Chiesa. Vorrei ringraziare Sua Eminenza per le belle parole che mi ha donato, ringraziare voi tutti per il lavoro che fate per questa Chiesa di Roma, che - secondo sant’Ignazio - presiede la carità, e dovrebbe essere sempre anche esemplare nella sua fede. Facciamo insieme tutto il possibile perché questa Chiesa di Roma risponda alla sua vocazione e perché noi, in questa “Vigna del Signore”, siamo lavoratori fedeli.

Abbiamo ascoltato questo brano degli Atti degli Apostoli (
Ac 20,17-38), nel quale san Paolo parla ai presbiteri di Efeso, raccontato volutamente da san Luca come testamento dell’Apostolo, come discorso destinato non solo ai presbiteri di Efeso, ma ai presbiteri di ogni tempo. San Paolo parla non solo con coloro che erano presenti in quel luogo, egli parla realmente con noi. Cerchiamo quindi di capire un po’ quanto dice a noi, in quest’ora.

Comincio: “Voi sapete come mi sono comportato con voi per tutto questo tempo” (v. 18) e su questo suo comportamento per tutto il tempo, san Paolo dice, alla fine, che “notte e giorno, io non ho cessato… di ammonire ciascuno di voi” (v. 31). Ciò vuol dire: in tutto questo tempo egli era annunciatore, messaggero, ambasciatore di Cristo per loro; era sacerdote per loro. In un certo senso, si potrebbe dire che era un prete lavoratore, perché - come dice anche in questo brano – egli ha lavorato con le sue mani come tessitore di tende per non pesare sui loro beni, per essere libero, per lasciarli liberi. Ma benché avesse lavorato con le sue mani, tuttavia in tutto questo tempo egli era sacerdote, per tutto il tempo egli ha ammonito. In altre parole, anche se non tutto il tempo era esteriormente a disposizione della predicazione, il suo cuore e la sua anima erano sempre presenti per loro; egli era penetrato dalla Parola di Dio, dalla sua missione. Questo mi sembra un punto molto importante: prete non lo si è a tempo solo parziale; lo si è sempre, con tutta l’anima, con tutto il nostro cuore. Questo essere con Cristo ed essere ambasciatore di Cristo, questo essere per gli altri, è una missione che penetra il nostro essere e deve sempre più penetrare nella totalità del nostro essere.

Poi san Paolo dice: “Ho servito il Signore con tutta umiltà” (v. 19). “Servito”: una parola chiave di tutto il Vangelo. Cristo stesso dice: Non sono venuto per dominare, ma per servire (cfr Mt 20,28). E’ il Servitore di Dio, e Paolo e gli Apostoli continuano ad essere “servitori”; non padroni della fede, ma servitori della vostra gioia, dice san Paolo nella Seconda Lettera ai Corinzi (cfr 1,24). “Servire”, questo deve essere anche per noi determinante: siamo servitori. E servire vuol dire non fare quanto io mi propongo, quanto sarebbe per me la cosa più simpatica; servire vuol dire lasciarmi imporre il peso del Signore, il giogo del Signore; servire vuol dire non andare secondo le mie preferenze, le mie priorità, ma lasciarmi realmente “prendere in servizio” per l’altro. Questo vuol dire che anche noi dobbiamo fare spesso cose che non appaiono immediatamente spirituali e che non rispondono sempre alle nostre scelte. Dobbiamo fare tutti, dal Papa fino all’ultimo vice parroco, lavori di amministrazione, lavori temporali; tuttavia lo facciamo come servizio, come parte di quanto il Signore ci impone nella Chiesa e facciamo quanto la Chiesa ci dice e quanto si aspetta da noi. E’ importante questo aspetto concreto del servizio, che non scegliamo noi cosa fare, ma siamo servitori di Cristo nella Chiesa e lavoriamo come la Chiesa ci dice, dove la Chiesa ci chiama, e cerchiamo di essere proprio così: servitori che non fanno la propria volontà, ma la volontà del Signore. Nella Chiesa siamo realmente ambasciatori di Cristo e servitori del Vangelo.

“Ho servito il Signore con tutta umiltà”. Anche “umiltà” è una parola-chiave del Vangelo, di tutto il Nuovo Testamento. Umiltà, ci precede il Signore. Nella Lettera ai Filippesi, san Paolo ci ricorda che Cristo, il quale era sopra a noi tutti, era realmente divino nella gloria di Dio, si è umiliato, è sceso facendosi uomo, accettando tutta la fragilità dell’essere umano, andando fino all’obbedienza ultima della Croce (cfr 2,5-8). Umiltà non vuol dire una falsa modestia - siamo grati per i doni che il Signore ci ha dato -, ma indica che siamo consapevoli che tutto quanto possiamo fare è dono di Dio, è donato per il Regno di Dio. In questa umiltà, in questo non voler apparire, noi lavoriamo. Non chiediamo lode, non vogliamo “farci vedere”, non è per noi criterio decisivo pensare a che cosa diranno di noi sui giornali o altrove, ma che cosa dice Dio. Questa è la vera umiltà: non apparire davanti agli uomini, ma stare sotto lo sguardo di Dio e lavorare con umiltà per Dio e così realmente servire anche l’umanità e gli uomini.

“Non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi” (v. 20). San Paolo ritorna, dopo alcune frasi, di nuovo su questo punto e dice: “Non mi sono sottratto al dovere di annunciarvi tutta la volontà di Dio” (v. 27). Questo è importante: l’Apostolo non predica un Cristianesimo “à la carte”, secondo i propri gusti, non predica un Vangelo secondo le proprie idee teologiche preferite; non si sottrae all’impegno di annunciare tutta la volontà di Dio, anche la volontà scomoda, anche i temi che personalmente non piacciono tanto. E’ la nostra missione di annunciare tutta la volontà di Dio, nella sua totalità e ultima semplicità. Ma è importante il fatto che dobbiamo istruire e predicare - come dice qui san Paolo - e proporre realmente la volontà intera di Dio. E penso che il mondo di oggi sia curioso di conoscere tutto, tanto più dovremmo essere curiosi noi di conoscere la volontà di Dio: che cosa potrebbe essere più interessante, più importante, più essenziale per noi che conoscere cosa vuole Dio, conoscere la volontà di Dio, il volto di Dio? Questa curiosità interiore dovrebbe essere anche la nostra curiosità di conoscere meglio, in modo più completo, la volontà di Dio. Dobbiamo rispondere e svegliare questa curiosità negli altri: di conoscere veramente tutta la volontà di Dio e di conoscere così come possiamo e come dobbiamo vivere, qual è la strada della nostra vita. Quindi dovremmo far conoscere e capire - per quanto possiamo - il contenuto del Credo della Chiesa, dalla creazione fino al ritorno del Signore, al mondo nuovo. La dottrina, la liturgia, la morale, la preghiera - le quattro parti del Catechismo della Chiesa Cattolica - indicano questa totalità della volontà di Dio. E anche è importante non perderci nei dettagli, non creare l’idea che il Cristianesimo sia un pacchetto immenso di cose da imparare. Ultimamente è semplice: Dio si è mostrato in Cristo. Ma entrare in questa semplicità - io credo in Dio che si mostra in Cristo e voglio vedere e realizzare la sua volontà – ha contenuti, e, a seconda delle situazioni, entriamo poi in dettaglio o meno, ma è essenziale che si faccia capire da una parte la semplicità ultima della fede. Credere in Dio come si è mostrato in Cristo, è anche la ricchezza interiore di questa fede, le risposte che dà alle nostre domande, anche le risposte che in un primo momento non ci piacciono e che sono tuttavia la strada della vita, la vera strada; in quanto entriamo in queste cose anche non così piacevoli per noi, possiamo capire, cominciamo a capire che è realmente la verità. E la verità è bella. La volontà di Dio è buona, è la bontà stessa.

Poi l’Apostolo dice: “Ho predicato in pubblico e nelle case, testimoniando a giudei e greci la conversione a Dio e la fede nel Signore Nostro Gesù” (v. 20-21). Qui c’è un riassunto dell’essenziale: conversione a Dio, fede in Gesù. Ma rimaniamo un attimo nella parola “conversione”, che è la parola centrale o una delle parole centrali del Nuovo Testamento. Qui è interessante - per conoscere le dimensioni di questa parola - essere attenti alle diverse parole bibliche: in ebraico “šub” vuol dire “invertire la rotta”, cominciare con una nuova direzione della vita; in greco “metanoia”, “cambiamento del pensiero”; in latino “poenitentia”, “azione mia per lasciarmi trasformare”; in italiano “conversione”, che coincide piuttosto con la parola ebraica di “nuova direzione della vita”. Forse possiamo vedere in modo particolare il perché della parola del Nuovo Testamento, la parola greca “metanoia”, “cambiamento del pensiero”. In un primo momento il pensiero appare tipicamente greco, ma andando in profondità vediamo che esprime realmente l’essenziale di ciò che anche le altre lingue dicono: cambiamento del pensiero, cioè reale cambiamento della nostra visione della realtà. Siccome siamo nati nel peccato originale, per noi “realtà” sono le cose che possiamo toccare, sono i soldi, sono la mia posizione, sono le cose di ogni giorno che vediamo nel telegiornale: questa è la realtà. E le cose spirituali appaiono un po’ “dietro” la realtà: “Metanoia”, cambiamento del pensiero, vuol dire invertire questa impressione. Non le cose materiali, non i soldi, non l’edificio, non quanto posso avere è l’essenziale, è la realtà. La realtà delle realtà è Dio. Questa realtà invisibile, apparentemente lontana da noi, è la realtà. Imparare questo, e così invertire il nostro pensiero, giudicare veramente come il reale che deve orientare tutto è Dio, sono le parole, la parola di Dio. Questo è il criterio, Dio, il criterio di tutto quanto faccio. Questo realmente è conversione, se il mio concetto di realtà è cambiato, se il mio pensiero è cambiato. E questo deve poi penetrare tutte le singole cose della mia vita: nel giudizio di ogni singola cosa prendere come criterio che cosa dice Dio su questo. Questa è la cosa essenziale, non quanto ricavo adesso per me, non il vantaggio o lo svantaggio che avrò, ma la vera realtà, orientarci a questa realtà. Dobbiamo proprio - mi sembra - nella Quaresima, che è cammino di conversione, esercitare ogni anno di nuovo questa inversione del concetto di realtà, cioè che Dio è la realtà, Cristo è la realtà e il criterio del mio agire e del mio pensare; esercitare questo nuovo orientamento della nostra vita. E così anche la parola latina “poenitentia”, che ci appare un po’ troppo esteriore e forse attivistica, diventa reale: esercitare questo vuole dire esercitare il dominio di me stesso, lasciarmi trasformare, con tutta la mia vita, dalla Parola di Dio, dal pensiero nuovo che viene dal Signore e mi mostra la vera realtà. Così non si tratta solo di pensiero, di intelletto, ma si tratta della totalità del mio essere, della mia visione della realtà. Questo cambiamento del pensiero, che è conversione, tocca il mio cuore e unisce intelletto e cuore, e mette fine a questa separazione tra intelletto e cuore, integra la mia personalità nel cuore che è aperto da Dio e che si apre a Dio. E così trovo la strada, il pensiero diventa fede, cioè un aver fiducia nel Signore, un affidarmi al Signore, vivere con Lui e intraprendere la sua strada in una vera sequela di Cristo.

Poi san Paolo continua: “Costretto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme, senza sapere ciò che là mi accadrà. So soltanto che lo Spirito Santo, di città in città, mi attesta che mi attendono catene e tribolazione. Non ritengo in nessun modo preziosa la mia vita, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di dare testimonianza al Vangelo della grazia di Dio” (vv. 22-24). San Paolo sa che probabilmente questo viaggio a Gerusalemme gli costerà la vita: sarà un viaggio verso il martirio. Qui dobbiamo tenere presente il perché del suo viaggio. Va a Gerusalemme per consegnare a quella comunità, alla Chiesa di Gerusalemme, la somma per i poveri raccolta nel mondo dei Gentili. E’ quindi un viaggio di carità, ma di più: questa è un’espressione del riconoscimento dell’unità della Chiesa tra ebrei e gentili, è un riconoscimento formale del primato di Gerusalemme in quel tempo, del primato dei primi Apostoli, un riconoscimento dell’unità e dell’universalità della Chiesa. In questo senso, il viaggio ha un significato ecclesiologico e anche cristologico, perché ha così tanto valore per lui questo riconoscimento, questa espressione visibile dell’unicità e dell’universalità della Chiesa, che mette in conto anche il martirio. L’unità della Chiesa vale il martirio. Così egli dice: “Non ritengo in nessun modo preziosa la mia vita, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio” (v. 24). Il puro sopravvivere biologico - dice san Paolo - non è il primo valore per me; il primo valore per me è realizzare il mio servizio; il primo valore per me è l’essere con Cristo; il vivere con Cristo è la vera vita. Anche se egli perde questa vita biologica, non perde la vera vita. Invece se perdesse la comunione con Cristo per conservare la vita biologica, avrebbe perso proprio la vita stessa, l’essenziale del suo essere. Anche questo mi sembra importante: avere le giuste priorità. Certamente dobbiamo essere attenti alla nostra salute, a lavorare con ragionevolezza, ma anche sapere che il valore ultimo è stare in comunione con Cristo; vivere il nostro servizio e perfezionarlo conduce a termine la corsa. Forse possiamo rimanere ancora un attimo su questa espressione “purché conduca a termine la mia corsa”. Fino alla fine l’Apostolo vuol essere servitore di Gesù, ambasciatore di Gesù per il Vangelo di Dio. Questo è importante, che anche nella vecchiaia, anche se procedono gli anni, non perdiamo lo zelo, la gioia di essere chiamati dal Signore. E’ facile direi, in un certo senso, all’inizio del cammino sacerdotale essere pieni di zelo, di speranza, di coraggio, di attività, ma può seguire facilmente, se vediamo come le cose vanno, come il mondo rimane sempre lo stesso, come il servizio diventa pesante, perdere un po’ questo entusiasmo. Ritorniamo sempre alla Parola di Dio, alla preghiera, alla comunione con Cristo nel Sacramento - questa intimità con Cristo - e lasciamoci rinnovare la nostra gioventù spirituale, rinnovare lo zelo, la gioia di poter andare con Cristo fino alla fine, di “condurre a termine la corsa”, sempre nell’entusiasmo di essere chiamati da Cristo per questo grande servizio, per il Vangelo della Grazia di Dio. E questo è importante. Abbiamo parlato di umiltà, di questa volontà di Dio, che può essere dura. Alla fine, il titolo di tutto il Vangelo della Grazia di Dio è “Vangelo”, è “Buona Notizia” che Dio ci conosce, che Dio mi ama, e che il Vangelo, la volontà ultima di Dio è Grazia. Ricordiamoci che la corsa del Vangelo comincia a Nazareth, nella stanza di Maria, con la parola “Ave Maria”, ma in greco è “Chaire kecharitomene”: “Gioisci perché stai nella Grazia!”. E questa parola rimane il filo conduttore: il Vangelo è invito alla gioia perché siamo nella Grazia, e l’ultima parola di Dio è la Grazia.

Poi viene il brano sul martirio imminente. Qui c’è una frase molto importante, che vorrei un po’ meditare con voi: “Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti come custodi per essere pastori della Chiesa di Dio, che si è acquistata con il sangue del proprio Figlio” (v. 28). Comincio con la parola “vegliate”. Qualche giorno fa, ho tenuto la catechesi su san Pietro Canisio, apostolo della Germania al tempo della Riforma, e mi è rimasta in mente una parola di questo Santo, una parola che era per lui un grido d’angoscia nel suo momento storico. Egli dice: “Vedete, Pietro dorme, Giuda è sveglio”. Questa è una cosa che ci fa pensare: la sonnolenza dei buoni. Papa Pio XI ha detto: “il problema grande del nostro tempo non sono le forze negative, è la sonnolenza dei buoni”. “Vegliate”: meditiamo questa cosa, e pensiamo che il Signore nell’Orto degli Ulivi per due volte ha detto ai suoi apostoli: “Vegliate!”, ed essi dormono. “Vegliate”, dice a noi; cerchiamo di non dormire in questo tempo, ma di essere realmente pronti per la volontà di Dio e per la presenza della sua Parola, del suo Regno.

“Vegliate su voi stessi” (v. 28): anche questa è una parola ai presbiteri di tutti i tempi. Esiste un attivismo bene intenzionato, ma nel quale uno dimentica la propria anima, la propria vita spirituale, il proprio essere con Cristo. San Carlo Borromeo, nella lettura del Breviario della sua memoria liturgica, ci dice, ogni anno di nuovo: non puoi essere un buon servitore per gli altri se trascuri la tua anima. “Vegliate su voi stessi”: siamo attenti anche alla nostra vita spirituale, al nostro essere con Cristo. Come ho detto tante volte: pregare e meditare la Parola di Dio non è tempo perso per la cura delle anime, ma è condizione perché possiamo essere realmente in contatto con il Signore e così parlare di prima mano del Signore agli altri. “Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti come custodi per essere pastori della Chiesa di Dio” (v. 28). Qui due parole sono importanti. In primo luogo: “lo Spirito Santo vi ha costituiti”; cioè, il sacerdozio non è una realtà in cui uno trova un’occupazione, una professione utile, bella, che gli piace e che si sceglie. No! Siamo costituiti dallo Spirito Santo. Solo Dio può farci sacerdoti, solo Dio può scegliere i suoi sacerdoti e, se siamo scelti, siamo scelti da Lui. Qui appare chiaramente il carattere sacramentale del presbiterato e del sacerdozio, che non è una professione che deve essere svolta perché qualcuno deve amministrare le cose, deve anche predicare. Non è una cosa che facciamo noi, semplicemente. E’ un’elezione dello Spirito Santo e in questa volontà dello Spirito Santo, volontà di Dio, viviamo e cerchiamo sempre più di lasciarci prendere nelle mani dallo Spirito Santo, dal Signore stesso. In secondo luogo: “costituiti come custodi, per essere pastori”. La parola che qui, nella traduzione italiana, suona “custodi” è in greco “episkopos”. San Paolo parla ai presbiteri, ma qui li chiama “episkopoi”. Possiamo dire che, nell’evoluzione della realtà della Chiesa, i due ministeri non erano ancora chiaramente divisi e distinti, sono ancora evidentemente l’unico sacerdozio di Cristo ed essi, i presbiteri, sono anche “episkopoi”. La parola “presbitero” viene soprattutto dalla tradizione ebraica, dove vigeva il sistema degli “anziani”, dei “presbiteri”, mentre la parola “episkopos” è stata creata – o trovata – nell’ambito della Chiesa dai pagani, e viene dal linguaggio dell’amministrazione romana. “Episkopoi” sono quelli che sorvegliano, che hanno una responsabilità amministrativa nel sorvegliare l’andamento delle cose. I cristiani hanno scelto questa parola nell’ambito pagano-cristiano per esprimere l’ufficio del presbitero, del sacerdote, ma naturalmente ciò ha cambiato subito il significato della parola. La parola “episkopoi” è stata subito identificata con la parola “pastori”. Cioè, sorvegliare è “pascolare”, fare il lavoro del pastore: in realtà ciò è diventato subito “poimainein”, “pascolare” la Chiesa di Dio; è pensato nel senso di questa responsabilità per gli altri, di questo amore per il gregge di Dio. E non dimentichiamo che, nell’antico Oriente, “pastore” era il titolo dei re: essi sono i pastori del gregge, che è il popolo. In seguito, il re-Cristo trasforma interiormente – essendo il vero re – questo concetto. E’ il Pastore che si fa agnello, il pastore che si fa uccidere per gli altri, per difenderli contro il lupo; il pastore il cui primo significato è amare questo gregge e così dare vita, nutrire, proteggere. Forse questi sono i due concetti centrali per questo ufficio del “pastore”: nutrire facendo conoscere la Parola di Dio, non solo con le parole, ma testimoniandola per volontà di Dio; e proteggere con la preghiera, con tutto l’impegno della propria vita. Pastori, l’altro significato che hanno percepito i Padri nella parola cristiana “episkopoi” è: uno che sorveglia non come un burocrate, ma come uno che vede dal punto di vista di Dio, cammina verso l’altezza di Dio e nella luce di Dio vede questa piccola comunità della Chiesa. Questo è importante anche per un pastore della Chiesa, per un sacerdote, un “episkopos”: che veda dal punto di vista di Dio, cerchi di vedere dall’alto, nel criterio di Dio e non secondo le proprie preferenze, ma come giudica Dio. Vedere da questa altezza di Dio e così amare con Dio e per Dio.

“Essere pastori della Chiesa di Dio, che si è acquistata con il sangue del proprio Figlio” (v. 28). Qui troviamo una parola centrale sulla Chiesa. La Chiesa non è un’organizzazione che man mano si è formata; la Chiesa è nata nella Croce. Il Figlio ha acquistato la Chiesa nella Croce e non solo la Chiesa di quel momento, ma la Chiesa di tutti i tempi. Ha acquistato con il suo sangue questa porzione del popolo, del mondo, per Dio. E questo mi sembra che debba farci pensare. Cristo, Dio ha creato la Chiesa, la nuova Eva, con il suo sangue. Così ci ama e ci ha amati, e questo è vero in ogni momento. E questo ci deve anche far capire come la Chiesa è un dono; essere felici che siamo chiamati ad essere Chiesa di Dio; avere gioia di appartenere alla Chiesa. Certo, ci sono anche sempre aspetti negativi, difficili, ma in fondo deve rimanere questo: è un dono bellissimo che posso vivere nella Chiesa di Dio, nella Chiesa che il Signore si è acquistata con il suo sangue. Essere chiamati a conoscere realmente il volto di Dio, conoscere la sua volontà, conoscere la sua Grazia, conoscere questo amore supremo, questa Grazia che ci guida e ci tiene per mano. Felicità di essere Chiesa, gioia di essere Chiesa. Mi sembra che dobbiamo re-imparare questo. La paura del trionfalismo ci ha fatto forse un po’ dimenticare che è bello essere nella Chiesa, e che questo non è trionfalismo, ma è umiltà, essere grati per il dono del Signore.

Segue subito che questa Chiesa è sempre anche non solo dono di Dio e divina, ma anche molto umana: “Verranno lupi rapaci” (v. 29). La Chiesa è sempre minacciata, c’è sempre il pericolo, l’opposizione del diavolo che non accetta che nell’umanità sia presente questo nuovo Popolo di Dio, che vi sia la presenza di Dio in una comunità vivente. Non deve quindi meravigliarci che ci sia sempre difficoltà, che ci sia sempre erba cattiva nel campo della Chiesa. E’ stato sempre così e sarà sempre così. Ma dobbiamo essere consapevoli, con gioia, che la verità è più forte della menzogna, l’amore è più forte dell’odio, Dio è più forte di tutte le forze avverse a Lui. E con questa gioia, con questa certezza interiore prendiamo la nostra strada inter consolationes Dei et persecutiones mundi, dice il Concilio Vaticano II (cfr Cost. dogm. Lumen gentium LG 8): tra le consolazioni di Dio e le persecuzioni del mondo.

Ed ora il penultimo capoverso. A questo punto non vorrei più entrare nei dettagli: alla fine appare un elemento importante della Chiesa, dell’essere cristiani. “In tutte le maniere vi ho mostrato che i deboli si devono soccorrere lavorando così, ricordando le parole del Signore Gesù, che disse: ‘Si è più beati nel dare che nel ricevere’” (cfr v. 35). L’opzione preferenziale per i poveri, l’amore per i deboli è fondamentale per la Chiesa, è fondamentale per il servizio di ciascuno di noi: essere attenti con grande amore per i deboli, anche se forse non sono simpatici, sono difficili. Ma essi aspettano la nostra carità, il nostro amore, e Dio aspetta questo nostro amore. In comunione con Cristo siamo chiamati a soccorrere con il nostro amore, con i nostri fatti, quelli che sono i deboli.

Infine, l’ultimo capoverso: “Dopo aver detto questo, si inginocchiò con tutti loro e pregò” (v. 36). Alla fine, il discorso diventa preghiera e Paolo si inginocchiò. San Luca ci ricorda che anche il Signore nell’Orto degli Ulivi pregava in ginocchio, e ci dice che anche santo Stefano, nel momento del martirio, si è inginocchiato per pregare. Pregare in ginocchio vuol dire adorare la grandezza di Dio nella nostra debolezza, grati che il Signore ci ami proprio nella nostra debolezza. Dietro ciò appare la parola di san Paolo nella Lettera ai Filippesi, che è la trasformazione cristologica di una parola del profeta Isaia, il quale dice, nel capitolo 45, che tutto il mondo, il cielo, la terra e quanto è sotto terra, si inginocchierà davanti al Dio di Israele (cfr Is 45,23). E san Paolo concretizza: Cristo è sceso dal cielo alla croce, l’obbedienza ultima. E in questo momento si realizza questa parola del Profeta: davanti al Cristo crocifisso l’intero cosmo, i cieli, la terra e quanto è sotto terra, si inginocchia (cfr Ph 2,10-11). Egli è realmente l’espressione della vera grandezza di Dio. L’umiltà di Dio, l’amore fino alla croce, ci dimostra chi è Dio. Davanti a Lui noi siamo in ginocchio, adorando. Essere inginocchiati non è più espressione di servitù, ma proprio della libertà che ci dà l’amore di Dio, la gioia di essere redenti, di porsi insieme, con il cielo e la terra, con tutto il cosmo, ad adorare Cristo, essere uniti a Cristo e così essere redenti.

Il discorso di san Paolo finisce nella preghiera. Anche i nostri discorsi devono finire nella preghiera. Preghiamo il Signore perché ci aiuti ad essere sempre più penetrati dalla Sua Parola, sempre più testimoni e non solo maestri, essere sempre più sacerdoti, pastori, “episkopoi”, cioè quelli che vedono con Dio e fanno il servizio del Vangelo di Dio, il servizio del Vangelo della Grazia.




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