Discorsi 2005-13 7041

AI VESCOVI DI RITO SIRO-MALABARESE IN VISITA «AD LIMINA APOSTOLORUM» Sala del Concistoro Giovedì, 7 aprile 2011

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Cari Fratelli Vescovi,

vi porgo un affettuoso benvenuto fraterno in occasione della vostra visita ad limina Apostolorum in un momento tristemente segnato dalla morte del Cardinale Varkey Vithayathil. Di fronte a tutti voi, desidero rendere ancora grazie a Dio per il servizio valido e volenteroso che egli ha prestato per molti anni alla Chiesa in India. Che il nostro Salvatore amorevole accolga la sua nobile anima in paradiso e che egli possa riposare in pace in comunione con tutti i santi.

Grazie per i sentimenti di rispetto e di stima offerti da Mar Bosco Puthur a vostro nome e a nome di quanti amministrate. La vostra presenza è un’espressione eloquente dei profondi vincoli spirituali che uniscono la Chiesa siro-malabarese alla Chiesa universale, in fedeltà alla preghiera di Cristo per tutti i suoi discepoli (cfr. Gv
Jn 17,21). Portate sulle tombe degli Apostoli Pietro e Paolo le gioie e le speranze di tutta la Chiesa siro-malabarese, che il mio predecessore, il Venerabile Giovanni Paolo II, ha elevato con gioia allo status di Chiesa Arcivescovile Maggiore nel 1992. I miei saluti vanno ai sacerdoti, ai religiosi, uomini e donne, ai membri dei movimenti laicali, alle famiglie e in particolare ai giovani che sono la speranza della Chiesa.

Il Concilio Vaticano II ha insegnato che «anche i vescovi, posti dallo Spirito Santo, succedono agli apostoli come pastori delle anime e, insieme col sommo Pontefice e sotto la sua autorità hanno la missione di perpetuare l’opera di Cristo, pastore eterno» (Christus Dominus CD 2). L’incontro di oggi quindi costituisce una parte essenziale del vostro pellegrinaggio ad limina Apostolorum. È anche un’occasione per intensificare la consapevolezza del dono divino e della responsabilità ricevuti nell’ordinazione con la quale siete divenuti membri del collegio episcopale. Mi unisco a voi nel chiedere l’intercessione degli Apostoli per il vostro ministero. Essi, che furono i primi a ricevere il mandato di custodire il gregge di Cristo, continuano a guidare la Chiesa e a vegliare su di essa dal loro posto nei cieli e restano un modello e una fonte di ispirazione per tutti i Vescovi con la loro santità di vita, il loro insegnamento e il loro esempio.

La vostra visita offre anche una preziosa opportunità per rendere grazie a Dio per il dono di comunione nella fede apostolica e nella vita dello Spirito che vi rende uniti fra voi e con il vostro popolo. Con l’ispirazione e la grazia divine da un lato e con umili sforzi e preghiere dall’altro, questo dono prezioso di comunione con il Dio Uno e Trino e fra voi diverrà sempre più ricco e profondo. Ogni Vescovo, da parte sua, è chiamato a essere un ministro di unità (cfr. ibidem 6) nella sua Chiesa particolare e nella Chiesa universale. Questa responsabilità riveste un’importanza speciale in un Paese come l’India in cui l’unità della Chiesa si riflette nella ricca diversità dei suoi riti e delle sue tradizioni. Vi incoraggio a fare tutto il possibile per promuovere la comunione fra voi e con tutti i vescovi cattolici nel mondo, e a essere espressione vivente di quella comunione fra i vostri sacerdoti e fedeli. Che il delicato monito di san Paolo continui a guidare i vostri cuori e i vostri sforzi apostolici: «fuggite il male con orrore, attaccatevi al bene; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda» (Rm 12, 9–10, 16). Quindi l’unità del Dio Uno e Trino sarà proclamata e vissuta nel mondo, e quindi la nostra nuova vita in Cristo sarà vissuta sempre più profondamente a beneficio di tutta la Chiesa cattolica.

In seno a questo ministero di comunione amorevole, un’espressione privilegiata di condivisione della vita divina è costituita dal matrimonio sacramentale e dalla vita familiare. I cambiamenti rapidi e incisivi che sono parte della società attuale in tutto il mondo recano non solo sfide ingenti, ma anche nuove possibilità per proclamare la verità liberatrice del messaggio evangelico, per trasformare ed elevare tutti i rapporti umani. Il vostro sostegno, cari Fratelli Vescovi, e quello dei vostri sacerdoti e delle vostre comunità per l’educazione solida e integrale dei giovani nella castità e nella responsabilità non solo permetteranno loro di accogliere la natura autentica del matrimonio, ma saranno anche di beneficio alla cultura indiana nel suo insieme. Purtroppo, la Chiesa non può più contare sul sostegno della società nel suo insieme per promuovere l’idea cristiana del matrimonio come unione permanente e indissolubile tesa alla procreazione e alla santificazione dei coniugi. Fate sì che le vostre famiglie guardino al Signore e alla sua parola salvifica per una visione completa e autenticamente positiva della vita e dei rapporti coniugali, tanto necessaria per il bene di tutta la famiglia umana. Che la vostra predicazione e la vostra catechesi in questo campo siano pazienti e costanti.

Al centro di molte delle opere di educazione e di carità svolte nelle vostre eparchie ci sono varie comunità di religiosi, uomini e donne, che si dedicano al servizio di Dio e del prossimo. Desidero esprimere l’apprezzamento della Chiesa per la carità, la fede e il duro lavoro di questi religiosi, che professando e vivendo i consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza offrono un esempio di devozione completa al divino Maestro e in tal modo contribuiscono in maniera considerevole a ben preparare i vostri fedeli per ogni opera buona (cfr. 2Tm 3,17). La vocazione alla vita religiosa e la ricerca della perfetta carità sono attraenti a ogni età, ma dovrebbero essere alimentate da un costante rinnovamento spirituale promosso da superiori che dedichino grande cura alla formazione umana, intellettuale e spirituale dei loro confratelli religiosi (cfr. Perfectae caritatis PC 11). La Chiesa insiste affinché la preparazione alla professione religiosa sia caratterizzata da un discernimento lungo e attento teso a garantire, prima dei voti definitivi, che ogni candidato sia profondamente radicato in Cristo, saldo nella sua capacità di impegno autentico e gioioso nel dono di sé a Gesù Cristo e alla sua Chiesa. Inoltre, per sua stessa natura, la formazione non è mai completa, ma è permanente e deve essere parte integrante della vita quotidiana di ogni individuo e comunità. In questa area bisogna fare molto, utilizzando le numerose risorse disponibili nella vostra Chiesa, soprattutto attraverso un esercizio più profondo della pratica della preghiera, le particolari tradizioni spirituali e liturgiche del rito sio-malabarese e le esigenze intellettuali di una solida pratica pastorale. Vi incoraggio a pianificare in modo efficace, in stretta collaborazione con i superiori religiosi, questa salda formazione permanente cosicché i religiosi, uomini e donne, continuino a essere testimoni validi della presenza di Dio nel mondo e del nostro destino eterno, cosicché il dono completo di sé a Dio attraverso la vita religiosa possa risplendere in tutta la sua bellezza e purezza di fronte agli uomini.

Con queste riflessioni, cari Fratelli Vescovi, esprimo ancora una volta il mio affetto fraterno e la mia stima. Affidandovi all’intercessione di san Tommaso, Apostolo dell’India, vi assicuro delle mie preghiere per voi e per quanti sono affidati alla vostra sollecitudine pastorale. A tutti imparto al mia benedizione apostolica quale pegno di grazia e di pace nel Signore.




AI PARTECIPANTI ALLA PLENARIA DELLA PONTIFICIA COMMISSIONE PER L'AMERICA LATINA Sala del Concistoro Venerdì, 8 aprile 2011

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Signori Cardinali,Cari fratelli nell’Episcopato,

1. Saluto con affetto i consiglieri e i membri della Pontificia Commissione per l’America latina, che si sono riuniti a Roma per la loro Assemblea Plenaria. Saluto in modo particolare il signor cardinale Marc Ouellet, prefetto della Congregazione per i Vescovi e presidente di detta Pontificia Commissione, ringraziandolo vivamente per le parole che mi ha rivolto a nome di tutti per presentarmi i risultati di queste giornate di studio e di riflessione.

2. Il tema scelto per questo incontro, «Incidenza della pietà popolare nel processo di evangelizzazione dell’America latina», affronta direttamente uno degli aspetti più importanti per il compito missionario nel quale sono impegnate le Chiese particolari di questo grande continente latinoamericano. I vescovi che si sono riuniti ad Aparecida per la V Conferenza generale dell’episcopato Latinoamericano e dei Caraibi, che ho avuto il piacere d’inaugurare nel mio viaggio in Brasile nel maggio del 2007, presentano la pietà popolare come uno spazio d’incontro con Gesù Cristo e un modo di esprimere la fede della Chiesa. Non può pertanto essere considerata come un aspetto secondario della vita cristiana, poiché ciò «sarebbe dimenticare il primato dell’azione dello Spirito e l’iniziativa gratuita dell’amore di Dio» (Documento conclusivo, n. 263).

Questa espressione semplice della fede ha le sue radici nell’inizio stesso dell’evangelizzazione di quelle terre. In effetti, man mano che il messaggio salvifico di Cristo illuminava e animava le culture locali, si tesseva pian piano la ricca e profonda religiosità popolare che caratterizza l’esperienza di fede dei popoli latinoamericani, la quale, come ho detto nel discorso inaugurale della Conferenza di Aparecida, costituisce «il prezioso tesoro della Chiesa cattolica in America latina, e che essa deve proteggere, promuovere e, quando fosse necessario, anche purificare» (n. 1).

3. Per portare a termine la nuova evangelizzazione in America latina, all’interno di un processo che permei tutto l’essere e l’agire del cristiano, non si possono trascurare le molteplici dimostrazioni della pietà popolare. Tutte, ben canalizzate e debitamente accompagnate, propiziano un fecondo incontro con Dio, un’intensa venerazione del Santissimo Sacramento, una profonda devozione alla Vergine Maria, un coltivare l’affetto per il Successore di Pietro e una presa di coscienza di appartenenza alla Chiesa. Che tutto ciò serva anche per evangelizzare, per comunicare la fede, per avvicinare i fedeli ai sacramenti, per rafforzare i vincoli di amicizia e di unione familiare e comunitaria, come pure per incrementare la solidarietà e l’esercizio della carità.

La fede deve essere di conseguenza la fonte principale della pietà popolare, affinché questa non si riduca a una semplice espressione culturale di una determinata regione. Deve inoltre essere in stretta relazione con la sacra Liturgia, la quale non può essere sostituita da nessun’altra espressione religiosa. A tale proposito, non si può dimenticare, come afferma il Direttorio su pietà popolare e liturgia, pubblicato dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, che «liturgia e pietà popolare sono quindi due espressioni cultuali da porre in mutuo e fecondo contatto: in ogni caso tuttavia la Liturgia dovrà costituire il punto di riferimento per “incanalare con lucidità e prudenza gli aneliti di preghiera e di vita carismatica” che si riscontrano nella pietà popolare; dal canto suo la pietà popolare, con i suoi valori simbolici ed espressivi, potrà fornire alla Liturgia alcune coordinate per una valida inculturazione e stimoli per un efficace dinamismo creatore» (n. 58).

4. Nella pietà popolare s’incontrano molte espressioni di fede legate alle grandi celebrazioni dell’anno liturgico, in cui la gente semplice dell’America latina riafferma l’amore che sente per Gesù Cristo, nel quale trova la manifestazione della vicinanza di Dio, della sua compassione e misericordia. Sono numerosi i santuari dedicati alla contemplazione dei misteri dell’infanzia, passione, morte e resurrezione del Signore, e a essi si recano moltitudini di persone per mettere nelle sue divine mani le loro sofferenze e le loro gioie, chiedendo allo stesso tempo copiose grazie e implorando il perdono per i loro peccati. Intimamente unita a Gesù è anche la devozione dei popoli dell’America latina e dei Caraibi per la Santissima Vergine Maria. Ella, fin dagli albori dell’evangelizzazione, accompagna i figli di questo continente ed è per essi sorgente inesauribile di speranza. Per questo, si ricorre a Maria come Madre del Salvatore, per sentire costantemente la sua protezione amorevole con diversi titoli. Allo stesso modo, i santi sono considerati stelle luminose che costellano il cuore di numerosi fedeli di quei Paesi, edificandoli con il loro esempio e proteggendoli con la loro intercessione.

5. Non si può negare tuttavia che esistono alcune forme deviate di religiosità popolare che, lungi dal promuovere una partecipazione attiva alla Chiesa, creano piuttosto confusione e possono favorire una pratica religiosa meramente esteriore e svincolata da una fede ben radicata e interiormente viva. A tale proposito vorrei ricordare qui quel che ho scritto ai seminaristi lo scorso anno: «la pietà popolare tende all’irrazionalità, talvolta forse anche all’esteriorità. Eppure, escluderla è del tutto sbagliato. Attraverso di essa, la fede è entrata nel cuore degli uomini, è diventata parte dei loro sentimenti, delle loro abitudini, del loro comune sentire e vivere. Perciò la pietà popolare è un grande patrimonio della Chiesa. La fede si è fatta carne e sangue. Certamente la pietà popolare dev’essere sempre purificata, riferita al centro, ma merita il nostro amore, ed essa rende noi stessi in modo pienamente reale “Popolo di Dio”» (Lettera ai seminaristi, 18 ottobre 2010, n. 4).

6. Durante gli incontri che ho avuto in questi ultimi anni, in occasione delle visite ad limina, i vescovi dell’America latina e dei Caraibi hanno sempre fatto riferimento a ciò che stanno realizzando nelle loro rispettive circoscrizioni ecclesiastiche per avviare e incoraggiare la Missione continentale, con la quale l’episcopato latinoamericano ha voluto rilanciare il processo di nuova evangelizzazione dopo Aparecida, invitando tutti i membri della Chiesa a mettersi in stato permanente di missione. Si tratta di un’opzione molto importante, poiché con essa si vuole tornare a un aspetto fondamentale dell’opera della Chiesa, ossia dare il primato alla Parola di Dio affinché sia l’alimento permanente della vita cristiana e l’asse di ogni azione pastorale.

Questo incontro con la Parola divina deve portare a un profondo cambiamento di vita, a un’identificazione radicale con il Signore e con il suo Vangelo, a prendere pienamente coscienza che è necessario essere saldamente consolidati in Cristo, riconoscendo che «all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Lettera enciclica Deus caritas est ).

In tal senso, sono lieto di sapere che in America latina sta crescendo la pratica della lectio divina nelle parrocchie e nelle piccole comunità ecclesiali, come un modo comune di alimentare la preghiera e così facendo di dare solidità alla vita spirituale dei fedeli, poiché «nella parola biblica la pietà popolare troverà una fonte inesauribile di ispirazione, insuperabili modelli di preghiera e feconde proposte tematiche» (Direttorio su pietà popolare e liturgia, n. 87).

7. Cari fratelli, vi ringrazio per i vostri validi contributi volti a proteggere, promuovere e purificare tutto ciò che è legato alle espressioni della religiosità popolare in America latina. Per raggiungere tale obiettivo, sarà molto importante continuare a dare impulso alla Missione continentale, nella quale deve avere uno spazio particolare tutto ciò che si riferisce a questo ambito pastorale, che costituisce una forma privilegiata affinché la fede sia accolta nel cuore del popolo, tocchi i sentimenti più profondi delle persone e si manifesti vigorosa e operante per mezzo della carità (cfr. Gal
Ga 5,6).

8. Nel concludere questo gioioso incontro, mentre invoco il dolce Nome di Maria Santissima, perfetta discepola e pedagoga dell’evangelizzazione, vi imparto di cuore la Benedizione Apostolica, pegno della benevolenza divina.




PROIEZIONE DEL DOCUMENTARIO SU GIOVANNI PAOLO II "PELLEGRINO VESTITO DI BIANCO" Sabato, 9 aprile 2011

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Eminenze, Eccellenze, cari fratelli e sorelle,

Desidero rivolgere un cordiale saluto e anche un vivo ringraziamento ai produttori, ai realizzatori di questo film documentario sul Venerabile Papa Giovanni Paolo II. Sono lieto di aver potuto prenderne visione qui in Vaticano ed esprimervi un vivo apprezzamento per il lavoro compiuto associandomi al plauso già espresso dall’Episcopato polacco e da alcuni miei collaboratori.

Per la serietà con cui è stato preparato, la qualità della sua fattura, questo film si pone tra i contributi più validi offerti al pubblico in occasione della prossima Beatificazione del mio amato predecessore.

Sono numerose ormai le opere audiovisive che hanno per oggetto la figura di Giovanni Paolo II, tra cui svariati documentari prodotti dalle emittenti televisive. Questo film, “Il pellegrino vestito di bianco”, si distingue in questo panorama per diversi elementi, ad esempio le interviste a stretti collaboratori, le testimonianze di illustri personalità, la ricchezza della documentazione. Tutto ciò ha lo scopo di far emergere fedelmente, sia la personalità del Papa sia la sua instancabile azione nell’arco del lungo Pontificato.

Vorrei sottolineare ancora una volta i due cardini della sua vita e del suo ministero: la preghiera e lo zelo missionario. Giovanni Paolo II è stato un grande contemplativo e un grande apostolo di Cristo. Dio lo ha scelto per la sede di Pietro e lo ha conservato a lungo per introdurre la Chiesa nel terzo millennio. Con il suo esempio, lui ci ha guidati tutti in questo pellegrinaggio e adesso continua ad accompagnarci dal Cielo.

Grazie ancora perciò a tutti coloro che, in molti modi, hanno collaborato alla realizzazione di questo film che ci aiuta a far tesoro della luminosa testimonianza del Papa Giovanni Paolo II. Con questo sentimento di riconoscenza, benedico di cuore tutti voi e i vostri cari.



A S.E. IL SIGNOR FILIP VUCAK, NUOVO AMBASCIATORE DI CROAZIA PRESSO LA SANTA SEDE Lunedì, 11 aprile 2011

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Signor Ambasciatore,

Sono lieto di accoglierla nella solenne circostanza della presentazione delle Lettere che l’accreditano come Ambasciatore straordinario e plenipotenziario della Croazia presso la Santa Sede. La ringrazio per le cordiali parole che mi ha rivolto. Da parte mia, le sarei grato se volesse esprimere al Presidente della Repubblica, il signor Ivo Josipovic, che ho avuto il piacere di incontrare di recente, i miei cordiali voti per la sua persona, come pure per il benessere e la pace del popolo croato.

L’inizio della sua missione coincide felicemente con il ventesimo anniversario dell’indipendenza della Croazia. E l’anno prossimo si celebrerà quello dell’instaurazione delle relazioni diplomatiche tra il suo Paese e la Santa Sede. Le nostre relazioni sono armoniose e serene. La Santa Sede ha sempre avuto una particolare sollecitudine per la Croazia. Il mio lontano predecessore papa Leone x, vedendo la bellezza della vostra cultura e la profondità della fede dei vostri antenati, definì il suo Paese “scutum saldissimum et antemurale Christianitatis”. Questi antichi valori animano ancora i nostri contemporanei che, solo poco tempo fa, hanno dovuto affrontare difficoltà particolari. È dunque opportuno, per rafforzare le generazioni presenti, illustrare loro con chiarezza il ricco patrimonio della storia croata e della cultura cristiana che l’ha permeata in profondità e sulla quale il suo popolo si è sempre appoggiato nelle avversità.

Con piacere ho appreso che il vostro Parlamento ha proclamato l’anno in corso come «Anno di Boškovic». Questo gesuita era fisico, astronomo, matematico, architetto, filosofo e diplomatico. La sua esistenza dimostra che è possibile far convivere in armonia la scienza e la fede, il servizio alla madre patria e l’impegno nella Chiesa. Questo erudito cristiano dice ai giovani che è possibile realizzarsi nella società attuale ed esservi felici e allo stesso tempo essere credenti. D’altronde, i monumenti e gli innumerevoli crocifissi disseminati nel suo Paese sono la chiara dimostrazione di questa felice simbiosi. Vedendo questa armonia, i giovani saranno fieri del loro Paese, della sua storia e della sua fede e si sentiranno sempre più eredi di un tesoro che ora spetta a loro far fruttificare.

La Croazia molto presto sarà pienamente integrata nell’Unione Europea. La Santa Sede non può che rallegrarsi quando la famiglia europea si completa e accoglie Stati che storicamente ne fanno parte. Questa integrazione, Signor Ambasciatore, dovrà compiersi nel pieno rispetto delle specificità della Croazia, della sua vita religiosa e della sua cultura. Sarebbe illusorio voler rinnegare la propria identità per assumerne un’altra, che è nata in circostanze diverse da quelle che hanno visto nascere e formarsi quella croata. Entrando a far parte dell’Unione Europea, il suo Paese non sarà soltanto un nuovo membro di un sistema economico e giuridico che ha i propri vantaggi e i propri limiti, ma potrà anche dare un contributo proprio e tipicamente croato. Non bisogna avere paura di rivendicare con determinazione il rispetto della propria storia e della propria identità religiosa e culturale. Alcune voci amareggianti contestano con sorprendente regolarità la realtà delle radici religiose europee. Affermare che l’Europa non ha radici cristiane equivale a pretendere che un uomo possa vivere senza ossigeno e senza cibo. Non bisogna vergognarsi di ricordare e di sostenere la verità rifiutando, se necessario, ciò che è contrario ad essa. Sono certo che il suo Paese saprà difendere la propria identità con convinzione e fierezza, evitando i nuovi ostacoli che si presenteranno e che, sotto il pretesto di una libertà religiosa mal compresa, sono contrari al diritto naturale, alla famiglia e, più semplicemente, alla morale.

Desidero anche esprimere la mia soddisfazione per l’interesse dimostrato dal suo Paese perché i Croati in Bosnia ed Erzegovina possano svolgere il ruolo che spetta loro come uno dei tre popoli costitutivi del Paese. Constato inoltre che, nel desiderio di pace e di sana collaborazione con i Paesi della vostra regione geopolitica, la Croazia non manca di apportare la sua specificità per facilitare il dialogo e la comprensione tra popoli che hanno tradizioni differenti, ma che da secoli vivono insieme. Vi incoraggio a proseguire su questa strada, che consoliderà la pace nel rispetto di ognuno. All’interno stesso dei vostri confini nazionali, i quattro Accordi firmati dal suo Paese e dalla Santa Sede permettono, nel rispetto delle specificità proprie, di discutere su temi di interesse comune. Occorrerà proseguire in tale direzione per il bene delle due parti. Sono lieto di constatare che la Croazia promuove la libertà religiosa e rispetta la missione specifica della Chiesa.

Per tutte queste ragioni, Signor Ambasciatore, sono profondamente lieto di poter visitare il suo Paese tra qualche settimana. Il mio predecessore, il venerato Giovanni Paolo II, lo ha fatto tre volte, e anch’io, quando ero ancora a capo di un Dicastero romano, sono venuto più volte. Ho accolto volentieri l’invito delle Autorità croate e quello dei Vescovi del suo nobile Paese. Come sa, il tema scelto per il viaggio sarà: «Insieme in Cristo!». È proprio insieme che desidero celebrare con la sua gente. Insieme malgrado le innumerevoli differenze umane, insieme con queste differenze! E questo nel Cristo che ha accompagnato il popolo croato per secoli con bontà e misericordia. A motivo di Lui desidero incoraggiare il suo Paese e anche la Chiesa che è in mezzo a voi e con voi. La Chiesa che accompagna, con la stessa sollecitudine di Cristo, il destino e il cammino della sua nazione sin dalle sue origini. In questa lieta circostanza vorrei salutare con affetto anche i Vescovi e i fedeli della Chiesa cattolica in Croazia.

Nel momento in cui inizia il suo nobile compito di rappresentanza presso la Santa Sede, le rivolgo, Signor Ambasciatore, i miei migliori voti per il buon svolgimento della sua missione. Sia certo che troverà sempre presso i miei collaboratori l’accoglienza e la comprensione di cui potrà aver bisogno. Affidando il suo Paese alla protezione della Madre di Dio, Nostra Signora di Marija Bistrica, e all’intercessione del Beato Alojzije Stepinac, invoco di tutto cuore l’abbondanza delle Benedizioni divine su di lei, Eccellenza, sulla sua famiglia e i suoi collaboratori nonché su tutto il popolo croato e i suoi dirigenti.




INTERVISTA A BENEDETTO XVI TRASMESSA IN ITALIA NEL PROGRAMMA DI RAI UNO «A SUA IMMAGINE. DOMANDE SU GESÙ» Venerdì Santo, 22 aprile 2011

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Santo Padre, voglio dirle grazie per questa sua presenza che ci riempie di gioia e ci aiuta a ricordare che oggi è il giorno in cui Gesù dimostra nel modo più radicale il suo amore, cioè morendo in Croce da innocente. E proprio sul tema del dolore innocente è la prima domanda che arriva da una bambina giapponese di sette anni, che le dice: «Mi chiamo Elena, sono giapponese ed ho sette anni. Ho tanta paura perché la casa in cui mi sentivo sicura ha tremato, tanto tanto, e molti miei coetanei sono morti. Non posso andare a giocare nel parco. Chiedo: perché devo avere tanta paura? Perché i bambini devono avere tanta tristezza? Chiedo al Papa, che parla con Dio, di spiegarmelo».

Cara Elena, ti saluto di cuore. Anche a me vengono le stesse domande: perché è così? Perché voi dovete soffrire tanto, mentre altri vivono in comodità? E non abbiamo le risposte, ma sappiamo che Gesù ha sofferto come voi, innocente, che il Dio vero che si mostra in Gesù, sta dalla vostra parte. Questo mi sembra molto importante, anche se non abbiamo risposte, se rimane la tristezza: Dio sta dalla vostra parte, e siate sicuri che questo vi aiuterà. E un giorno potremo anche capire perché era così. In questo momento mi sembra importante che sappiate: «Dio mi ama», anche se sembra che non mi conosca. No, mi ama, sta dalla mia parte, e dovete essere sicuri che nel mondo, nell’universo, tanti sono con voi, pensano a voi, fanno per quanto possono qualcosa per voi, per aiutarvi. Ed essere consapevoli che, un giorno, io capirò che questa sofferenza non era vuota, non era invano, ma che dietro di essa c’è un progetto buono, un progetto di amore. Non è un caso. Stai sicura, noi siamo con te, con tutti i bambini giapponesi che soffrono, vogliamo aiutarvi con la preghiera, con i nostri atti e siate sicuri che Dio vi aiuta. E in questo senso preghiamo insieme perché per voi venga luce quanto prima.

La seconda domanda ci presenta un calvario, perché abbiamo una mamma sotto la croce di un figlio. È italiana, si chiama Maria Teresa questa mamma, e le dice: «Santità, l’anima di questo mio figlio Francesco, in stato vegetativo dal giorno di Pasqua 2009, ha abbandonato il suo corpo, visto che lui non è più cosciente, o è ancora vicino a lui?».

Certamente l’anima è ancora presente nel corpo. La situazione, forse, è come quella di una chitarra le cui corde sono spezzate, così non si possono suonare. Così anche lo strumento del corpo è fragile, è vulnerabile, e l’anima non può suonare, per così dire, ma rimane presente. Io sono anche sicuro che quest’anima nascosta sente in profondità il vostro amore, anche se non capisce i dettagli, le parole, eccetera, ma la presenza di un amore la sente. E perciò questa vostra presenza, cari genitori, cara mamma, accanto a lui, ore ed ore ogni giorno, è un atto vero di amore di grande valore, perché questa presenza entra nella profondità di quest’anima nascosta e il vostro atto è, quindi, anche una testimonianza di fede in Dio, di fede nell’uomo, di fede, diciamo di impegno per la vita, di rispetto per la vita umana, anche nelle situazioni più tristi. Quindi vi incoraggio a continuare, a sapere che fate un grande servizio all’umanità con questo segno di fiducia, con questo segno di rispetto della vita, con questo amore per un corpo lacerato, un’anima sofferente.

La terza domanda ci porta in Iraq, tra i giovani di Baghdad, cristiani perseguitati che le mandano questa domanda: «Salute al Santo Padre dall’Iraq — dicono — Noi cristiani di Baghdad siamo stati perseguitati come Gesù. Santo Padre, secondo lei, in che modo possiamo aiutare la nostra comunità cristiana a riconsiderare il desiderio di emigrare in altri Paesi, convincendola che partire non è l’unica soluzione?».

Vorrei innanzitutto salutare di cuore tutti i cristiani dell’Iraq, nostri fratelli, e devo dire che prego ogni giorno per i cristiani in Iraq. Sono i nostri fratelli sofferenti, come anche in altre terre del mondo, e quindi sono particolarmente vicini al nostro cuore e noi dobbiamo fare, per quanto possiamo, il possibile perché possano rimanere, perché possano resistere alla tentazione di migrare, perché è molto comprensibile nelle condizioni nelle quali vivono. Io direi che è importante che noi siamo vicini a voi, cari fratelli in Iraq, che noi vogliamo aiutarvi, anche quando venite, ricevervi realmente come fratelli. E naturalmente, le istituzioni, tutti coloro che hanno realmente una possibilità di fare qualcosa in Iraq per voi, devono farlo. La Santa Sede è in permanente contatto con le diverse comunità, non solo con le comunità cattoliche, con le altre comunità cristiane, ma anche con i fratelli musulmani, sia sciiti, sia sunniti. E vogliamo fare un lavoro di riconciliazione, di comprensione, anche con il governo, aiutarlo in questo cammino difficile di ricomporre una società lacerata. Perché questo è il problema, che la società è profondamente divisa, lacerata, che non c’è più questa consapevolezza: «Noi siamo nelle diversità un popolo con una storia comune, dove ognuno ha il suo posto». E devono ricostruire questa consapevolezza che, nella diversità, hanno una storia in comune, una comune determinazione. E noi vogliamo, in dialogo, proprio con i diversi gruppi, aiutare il processo di ricostruzione e incoraggiare voi, cari fratelli cristiani in Iraq, di avere fiducia, di avere pazienza, di avere fiducia in Dio, di collaborare in questo processo difficile. Siate sicuri della nostra preghiera.

La prossima domanda le viene rivolta da una donna musulmana della Costa d’Avorio, un Paese in guerra da anni. Questa signora, si chiama Bintù, e le manda un saluto in arabo che suona così: «Che Dio sia in mezzo a tutte le parole che ci diremo e che Dio sia con te». È un’espressione che loro usano quando cominciano un discorso. E poi continua in francese: «Caro Santo Padre, qui in Costa d’Avorio abbiamo sempre vissuto in armonia tra cristiani e musulmani. Le famiglie sono spesso formate da membri di entrambe le religioni; esiste anche una diversità di etnie, ma non abbiamo mai avuto problemi. Ora tutto è cambiato: la crisi che viviamo, causata dalla politica, sta seminando divisioni. Quanti innocenti hanno perso la vita! Quanti sfollati, quante mamme e quanti bambini traumatizzati! I messaggeri hanno esortato alla pace, i profeti hanno esortato alla pace. Gesù è un uomo di pace. Lei, in quanto ambasciatore di Gesù, cosa consiglierebbe per il nostro Paese?».

Vorrei rispondere al saluto: Dio sia anche con te, ti aiuti sempre. E devo dire che ho ricevuto lettere laceranti dalla Costa d’Avorio, dove vedo tutta la tristezza, la profondità della sofferenza, e rimango triste che possiamo fare così poco. Possiamo fare una cosa, sempre: essere in preghiera con voi, e in quanto sono possibili, faremo opere di carità e soprattutto vogliamo aiutare, secondo le nostre possibilità, i contatti politici, umani. Ho incaricato il cardinale Turkson, che è presidente del nostro Consiglio Giustizia e Pace di andare in Costa d’Avorio e di cercare di mediare, di parlare con i diversi gruppi, con le diverse persone per incoraggiare un nuovo inizio. E soprattutto vogliamo far sentire la voce di Gesù, che anche lei crede come profeta. Lui era sempre l’uomo della pace. Ci si poteva aspettare che, quando Dio viene in terra, sarà un uomo di grande forza, distruggerebbe le potenze avverse, che sarebbe un uomo di una violenza forte come strumento di pace. Niente di questo: è venuto debole, è venuto solo con la forza dell’amore, totalmente senza violenza fino ad andare alla croce. E questo ci mostra il vero volto di Dio, che la violenza non viene mai da Dio, mai aiuta a dare le cose buone, ma è un mezzo distruttivo e non è il cammino per uscire dalle difficoltà. Quindi è una forte voce contro ogni tipo di violenza. E invito fortemente tutte le parti a rinunciare alla violenza, a cercare le vie della pace. Non potete servire la ricomposizione del vostro popolo con mezzi di violenza, anche se pensate di avere ragione. L’unica via è rinunciare alla violenza, ricominciare con il dialogo, con tentativi di trovare insieme la pace, con la nuova attenzione l’uno per l’altro, con la nuova disponibilità ad aprirsi l’uno all’altro. E questo, cara Signora, è il vero messaggio di Gesù: cercate la pace con i mezzi della pace e lasciate la violenza. Noi preghiamo per voi, che tutti i componenti della vostra società sentano questa voce di Gesù e che così ritorni la pace e la comunione.

Santo Padre, la prossima domanda è sul tema della morte e della Risurrezione di Gesù, e arriva dall’Italia. Gliela leggo: «Santità, che cosa fa Gesù nel lasso di tempo tra la morte e la Risurrezione? E visto che nella recita del Credo si dice che Gesù, dopo la morte, discese negli Inferi, possiamo pensare che sarà una cosa che accadrà anche a noi, dopo la morte, prima di salire al Cielo?».

Innanzitutto, questa discesa dell’anima di Gesù non si deve immaginare come un viaggio geografico, locale, da un continente all’altro. È un viaggio dell’anima. Dobbiamo tener presente che l’anima di Gesù tocca sempre il Padre, è sempre in contatto con il Padre, ma nello stesso tempo quest’anima umana si estende fino agli ultimi confini dell’essere umano. In questo senso va in profondità, va ai perduti, va a tutti quanti non sono arrivati alla meta della loro vita, e trascende così i continenti del passato. Questa parola della discesa del Signore agli Inferi vuol soprattutto dire che anche il passato è raggiunto da Gesù, che l’efficacia della Redenzione non comincia nell’anno zero o trenta, ma va anche al passato, abbraccia il passato, tutti gli uomini di tutti i tempi. I Padri dicono, con un’immagine molto bella, che Gesù prende per mano Adamo ed Eva, cioè l’umanità, e la guida avanti, la guida in alto. E crea così l’accesso a Dio, perché l’uomo, di per sé, non può arrivare fino all’altezza di Dio. Lui stesso, essendo uomo, prendendo in mano l’uomo, apre l’accesso, apre cosa? La realtà che noi chiamiamo Cielo. Quindi questa discesa agli Inferi, cioè nelle profondità dell’essere umano, nelle profondità del passato dell’umanità, è una parte essenziale della missione di Gesù, della sua missione di Redentore e non si applica a noi. La nostra vita è diversa, noi siamo già redenti dal Signore e noi arriviamo davanti al volto del Giudice, dopo la nostra morte, sotto lo sguardo di Gesù, e questo sguardo da una parte sarà purificante: penso che tutti noi, in maggiore o minore misura, avremo bisogno di purificazione. Lo sguardo di Gesù ci purifica e poi ci rende capaci di vivere con Dio, di vivere con i Santi, di vivere soprattutto in comunione con i nostri cari che ci hanno preceduto.

Anche la prossima domanda è sul tema della Risurrezione e arriva dall’Italia: «Santità, quando le donne giungono al sepolcro, la domenica dopo la morte di Gesù, non riconoscono il Maestro, lo confondono con un altro. Succede anche agli Apostoli: Gesù deve mostrare le ferite, spezzare il pane per essere riconosciuto, appunto, dai gesti. È un corpo vero, di carne, ma anche un corpo glorioso. Il fatto che il suo corpo risorto non abbia le stesse fattezze di quello di prima, che cosa vuol dire? Cosa significa, esattamente, corpo glorioso? E la Risurrezione sarà per noi così?».

Naturalmente, non possiamo definire il corpo glorioso perché sta oltre le nostre esperienze. Possiamo solo registrare i segni che Gesù ci ha dato per capire almeno un po’ in quale direzione dobbiamo cercare questa realtà. Primo segno: la tomba è vuota. Cioè, Gesù non ha lasciato il suo corpo alla corruzione, ci ha mostrato che anche la materia è destinata all’eternità, che realmente è risorto, che non rimane una cosa perduta. Gesù ha preso anche la materia con sé, e così la materia ha anche la promessa dell’eternità. Ma poi ha assunto questa materia in una nuova condizione di vita, questo è il secondo punto: Gesù non muore più, cioè sta sopra le leggi della biologia, della fisica, perché sottomesso a queste uno muore. Quindi c’è una condizione nuova, diversa, che noi non conosciamo, ma che si mostra nel fatto di Gesù, ed è la grande promessa per noi tutti che c’è un mondo nuovo, una vita nuova, verso la quale noi siamo in cammino. E, essendo in queste condizioni, Gesù ha la possibilità di farsi palpare, di dare la mano ai suoi, di mangiare con i suoi, ma tuttavia sta sopra le condizioni della vita biologica, come noi la viviamo. E sappiamo che, da una parte, è un vero uomo, non un fantasma, che vive una vera vita, ma una vita nuova che non è più sottomessa alla morte e che è la nostra grande promessa. È importante capire questo, almeno in quanto si può, per l’Eucaristia: nell’Eucaristia, il Signore ci dona il suo corpo glorioso, non ci dona carne da mangiare nel senso della biologia, ci dà se stesso, questa novità che Lui è, entra nel nostro essere uomini, nel nostro, nel mio essere persona, come persona, e ci tocca interiormente con il suo essere, così che possiamo lasciarci penetrare dalla sua presenza, trasformare nella sua presenza. È un punto importante, perché così siamo già in contatto con questa nuova vita, questo nuovo tipo di vita, essendo Lui entrato in me, e io sono uscito da me e mi estendo verso una nuova dimensione di vita. Io penso che questo aspetto della promessa, della realtà che Lui si dà a me e mi tira fuori da me, in alto, è il punto più importante: non si tratta di registrare cose che non possiamo capire, ma di essere in cammino verso la novità che comincia, sempre, di nuovo, nell’Eucaristia.

Santo Padre, l’ultima domanda è su Maria. Sotto la croce, assistiamo ad un dialogo toccante tra Gesù, sua madre e Giovanni, nel quale Gesù dice a Maria: «Ecco tuo Figlio», e a Giovanni: «Ecco tua madre». Nel suo ultimo libro, Gesù di Nazaret, lei lo definisce «un’ultima disposizione di Gesù». Come dobbiamo intendere queste parole? Che significato avevano in quel momento e che significato hanno oggi? E in tema di affidamento, ha in cuore di rinnovare una consacrazione alla Vergine all’inizio di questo nuovo millennio?

Queste parole di Gesù sono soprattutto un atto molto umano. Vediamo Gesù come vero uomo che fa un atto di uomo, un atto di amore per la madre e affida la madre al giovane Giovanni perché sia sicura. Una donna sola, in Oriente, in quel tempo, era in una situazione impossibile. Affida la mamma a questo giovane e al giovane dà la mamma, quindi Gesù realmente agisce da uomo con un sentimento profondamente umano. Questo mi sembra molto bello, molto importante, che prima di ogni teologia vediamo in questo la vera umanità, il vero umanesimo di Gesù. Ma naturalmente questo attua diverse dimensioni, non riguarda solo questo momento, ma concerne tutta la storia. In Giovanni Gesù affida tutti noi, tutta la Chiesa, tutti i discepoli futuri, alla madre e la madre a noi. E questo si è realizzato nel corso della storia: sempre più l’umanità e i cristiani hanno capito che la madre di Gesù è la loro madre. E sempre più si sono affidati alla Madre: pensiamo ai grandi santuari, pensiamo a questa devozione per Maria dove sempre più la gente sente «Questa è la Madre». E anche alcuni che quasi hanno difficoltà di accesso a Gesù nella sua grandezza di Figlio di Dio, si affidano senza difficoltà alla Madre. Qualcuno dice: «Ma questo non ha fondamento biblico!». Qui risponderei con San Gregorio Magno: «Con il leggere — egli dice — crescono le parole della Scrittura». Cioè, si sviluppano nella realtà, crescono, e sempre più nella storia si sviluppa questa Parola. Vediamo come tutti possiamo essere grati perché la Madre c’è realmente, a noi tutti è data una madre. E possiamo con grande fiducia andare da questa Madre, che anche per ognuno dei cristiani è sua Madre. E d’altra parte vale anche che la Madre esprime pure la Chiesa. Non possiamo essere cristiani da soli, con un cristianesimo costruito secondo la mia idea. La Madre è immagine della Chiesa, della Madre Chiesa, e affidandoci a Maria dobbiamo anche affidarci alla Chiesa, vivere la Chiesa, essere la Chiesa con Maria. E così arrivo al punto dell’affidamento: i Papi — sia Pio XII, sia Paolo VI, sia Giovanni Paolo II — hanno fatto un grande atto di affidamento alla Madonna e mi sembra, come gesto davanti all’umanità, davanti a Maria stessa, era un gesto molto importante. Io penso che adesso sia importante di interiorizzare questo atto, di lasciarci penetrare, di realizzarlo in noi stessi. In questo senso, sono andato in alcuni grandi santuari mariani nel mondo: Lourdes, Fátima, Czestochowa, Altötting..., sempre con questo senso di concretizzare, di interiorizzare questo atto di affidamento, perché diventi realmente il nostro atto. Penso che l’atto grande, pubblico, sia stato fatto. Forse un giorno sarà necessario ripeterlo, ma al momento mi sembra più importante viverlo, realizzarlo, entrare in questo affidamento, perché sia realmente nostro. Per esempio, a Fátima ho visto come le migliaia di persone presenti sono realmente entrate in questo affidamento, si sono affidate, hanno concretizzato in se stesse, per se stesse, questo affidamento. Così esso diventa realtà nella Chiesa vivente e così cresce anche la Chiesa. L’affidamento comune a Maria, il lasciarsi tutti penetrare da questa presenza e formare, entrare in comunione con Maria, ci rende Chiesa, ci rende, insieme con Maria, realmente questa sposa di Cristo. Quindi, al momento non avrei l’intenzione di un nuovo pubblico affidamento, ma tanto più vorrei invitare ad entrare in questo affidamento già fatto, perché sia realtà vissuta da noi ogni giorno e cresca così una Chiesa realmente mariana, che è Madre e Sposa e Figlia di Gesù.

L'Osservatore Romano, Edizione quotidiana 23 aprile 2011




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