Discorsi 2005-13 17013

ALLA DELEGAZIONE ECUMENICA DELLA FINLANDIA, IN OCCASIONE DELLA FESTA DI SANT'ENRICO Giovedì, 17 gennaio 2013

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Eminenza,
Eccellenze,
Cari Amici,

Ancora una volta sono lieto di accogliere la vostra Delegazione Ecumenica in occasione della sua annuale visita a Roma per la festa di sant’Enrico, patrono della Finlandia. È appropriato che il nostro incontro si svolga alla vigilia della Settimana di preghiera per l’Unità dei Cristiani, il cui tema, quest’anno, è tratto dal libro del profeta Michea: «Quel che il Signore esige da noi» (cfr. 6, 6-8).

Il profeta, naturalmente, spiega ciò che il Signore esige da noi: «praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il nostro Dio» (cfr. 6, 8). Il tempo del Natale, appena celebrato, ci ricorda che è Dio che, sin dall’inizio, ha camminato con noi e che, nella pienezza dei tempi, si è fatto carne per salvarci dai nostri peccati e per guidare i nostri passi sul cammino della santità, della giustizia e della pace. Il camminare umilmente alla presenza del Signore, nell’obbedienza alla sua parola salvifica e con fiducia nel suo disegno generoso, è un’immagine eloquente non solo della vita di fede, ma anche del nostro percorso ecumenico sulla via verso l’unità piena e visibile di tutti i cristiani. In questo cammino di discepolato, siamo chiamati ad avanzare insieme sulla stretta via della fedeltà alla volontà sovrana di Dio, affrontando qualsiasi difficoltà od ostacolo che possiamo incontrare.

Per procedere sulle vie della comunione ecumenica è, dunque, necessario che siamo sempre più uniti nella preghiera, sempre più impegnati nella ricerca della santità e sempre più coinvolti nei campi della ricerca teologica e della cooperazione al servizio di una società giusta e fraterna. Su questo cammino di ecumenismo spirituale, davvero procediamo con Dio e gli uni con gli altri nella giustizia e nell’amore (cfr. Mic
Mi 6,8), poiché, come afferma la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione, «noi siamo accettati da Dio e riceviamo lo Spirito Santo, il quale rinnova i nostri cuori, ci abilita e ci chiama a compiere le buone opere» (n. 15).

Cari amici, è mio auspicio che la vostra visita a Roma aiuti a rafforzare le relazioni ecumeniche tra tutti i cristiani in Finlandia. Ringraziamo Dio per quanto è stato realizzato finora, e preghiamo affinché lo Spirito di verità guidi i discepoli di Cristo nel vostro Paese verso un amore e un’unità sempre più grandi, mentre cercano di vivere alla luce del Vangelo e di portare tale luce nelle grandi questioni morali che le nostre società devono affrontare oggi! Camminando insieme con umiltà sulla via della giustizia, della misericordia e della rettitudine che il Signore ci ha indicato, i cristiani non solo dimoreranno nella verità, ma saranno anche fari di gioia e di speranza per tutti coloro che stanno cercando un punto di riferimento sicuro nel nostro mondo in rapido mutamento. All’inizio di questo Nuovo Anno, vi assicuro la mia vicinanza nella preghiera. Su tutti voi invoco di cuore la sapienza, la grazia e la pace di Gesù Cristo nostro Redentore.


AI PARTECIPANTI ALLA PLENARIA DEL PONTIFICIO CONSIGLIO "COR UNUM" Sala del Concistoro Sabato, 19 gennaio 2013

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Cari amici,

con affetto e con gioia vi do il mio benvenuto, in occasione dell’Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio Cor Unum.Ringrazio il Presidente, Cardinale Robert Sarah, per le sue parole e rivolgo il mio saluto cordiale ad ognuno di voi, estendendolo idealmente a tutti quanti operano nel servizio della carità della Chiesa. Con il recente Motu proprio Intima Ecclesiae natura ho voluto ribadire il senso ecclesiale della vostra attività. La vostra testimonianza può aprire la porta della fede a tante persone che cercano l’amore di Cristo. Così, in quest’Anno della fede il tema «Carità, nuova etica e antropologia cristiana», che voi affrontate, riflette lo stringente nesso tra amore e verità, o, se si preferisce, tra fede e carità. Tutto l’ethos cristiano riceve infatti il suo senso dalla fede come “incontro” con l’amore di Cristo, che offre un nuovo orizzonte e imprime alla vita la direzione decisiva (cfr Enc. Deus caritas est ). L’amore cristiano trova fondamento e forma nella fede. Incontrando Dio e sperimentando il suo amore, impariamo «a non vivere più per noi stessi, ma per Lui, e con Lui per gli altri» (ibid., 33).

A partire da questo rapporto dinamico tra fede e carità, vorrei riflettere su un punto, che chiamerei la dimensione profetica che la fede instilla nella carità. L’adesione credente al Vangelo imprime infatti alla carità la sua forma tipicamente cristiana e ne costituisce il principio di discernimento. Il cristiano, in particolare chi opera negli organismi di carità, deve lasciarsi orientare dai principi della fede, mediante la quale noi aderiamo al «punto di vista di Dio», al suo progetto su di noi (cfr Enc. Caritas in veritate ). Questo nuovo sguardo sul mondo e sull’uomo offerto dalla fede fornisce anche il corretto criterio di valutazione delle espressioni di carità, nel contesto attuale.

In ogni epoca, quando l’uomo non ha cercato tale progetto, è stato vittima di tentazioni culturali che hanno finito col renderlo schiavo. Negli ultimi secoli, le ideologie che inneggiavano al culto della nazione, della razza, della classe sociale si sono rivelate vere e proprie idolatrie; e altrettanto si può dire del capitalismo selvaggio col suo culto del profitto, da cui sono conseguite crisi, disuguaglianze e miseria. Oggi si condivide sempre più un sentire comune circa l’inalienabile dignità di ogni essere umano e la reciproca e interdipendente responsabilità verso di esso; e ciò a vantaggio della vera civiltà, la civiltà dell’amore. D’altro canto, purtroppo, anche il nostro tempo conosce ombre che oscurano il progetto di Dio. Mi riferisco soprattutto ad una tragica riduzione antropologica che ripropone l’antico materialismo edonista, a cui si aggiunge però un “prometeismo tecnologico”. Dal connubio tra una visione materialistica dell’uomo e il grande sviluppo della tecnologia emerge un’antropologia nel suo fondo atea. Essa presuppone che l’uomo si riduca a funzioni autonome, la mente al cervello, la storia umana ad un destino di autorealizzazione. Tutto ciò prescindendo da Dio, dalla dimensione propriamente spirituale e dall’orizzonte ultraterreno. Nella prospettiva di un uomo privato della sua anima e dunque di una relazione personale con il Creatore, ciò che è tecnicamente possibile diventa moralmente lecito, ogni esperimento risulta accettabile, ogni politica demografica consentita, ogni manipolazione legittimata. L’insidia più temibile di questa corrente di pensiero è di fatto l’assolutizzazione dell’uomo: l’uomo vuole essere ab-solutus, sciolto da ogni legame e da ogni costituzione naturale. Egli pretende di essere indipendente e pensa che nella sola affermazione di sé stia la sua felicità. «L’uomo contesta la propria natura … Esiste ormai solo l’uomo in astratto, che poi sceglie per sé autonomamente qualcosa come sua natura» (Discorso alla Curia romana, 21 dicembre 2012). Si tratta di una radicale negazione della creaturalità e filialità dell’uomo, che finisce in una drammatica solitudine.

La fede e il sano discernimento cristiano ci inducono perciò a prestare un’attenzione profetica a questa problematica etica e alla mentalità che vi è sottesa. La giusta collaborazione con istanze internazionali nel campo dello sviluppo e della promozione umana non deve farci chiudere gli occhi di fronte a queste gravi ideologie, e i Pastori della Chiesa - la quale è «colonna e sostegno della verità» (
2Tm 3,15) - hanno il dovere di mettere in guardia da queste derive tanto i fedeli cattolici quanto ogni persona di buona volontà e di retta ragione. Si tratta infatti di una deriva negativa per l’uomo, anche se si traveste di buoni sentimenti all’insegna di un presunto progresso, o di presunti diritti, o di un presunto umanesimo. Di fronte a questa riduzione antropologica, quale compito spetta ad ogni cristiano, e in particolare a voi, impegnati in attività caritative, e dunque in rapporto diretto con tanti altri attori sociali? Certamente dobbiamo esercitare una vigilanza critica e, a volte, ricusare finanziamenti e collaborazioni che, direttamente o indirettamente, favoriscano azioni o progetti in contrasto con l’antropologia cristiana. Ma positivamente la Chiesa è sempre impegnata a promuovere l’uomo secondo il disegno di Dio, nella sua integrale dignità, nel rispetto della sua duplice dimensione verticale e orizzontale. A questo tende anche l’azione di sviluppo degli organismi ecclesiali. La visione cristiana dell’uomo infatti è un grande sì alla dignità della persona chiamata all’intima comunione con Dio, una comunione filiale, umile e fiduciosa. L’essere umano non è né individuo a sé stante né elemento anonimo nella collettività, bensì persona singolare e irripetibile, intrinsecamente ordinata alla relazione e alla socialità. Perciò la Chiesa ribadisce il suo grande sì alla dignità e bellezza del matrimonio come espressione di fedele e feconda alleanza tra uomo e donna, e il no a filosofie come quella del gender si motiva per il fatto che la reciprocità tra maschile e femminile è espressione della bellezza della natura voluta dal Creatore.

Cari amici, vi ringrazio per il vostro impegno a favore dell’uomo, nella fedeltà alla sua vera dignità. Di fronte a queste sfide epocali, noi sappiamo che la risposta è l’incontro con Cristo. In Lui l’uomo può realizzare pienamente il suo bene personale e il bene comune. Vi incoraggio a proseguire con animo lieto e generoso, mentre di cuore vi imparto la mia Apostolica Benedizione.




ALLA COMMISSIONE MISTA INTERNAZIONALE PER IL DIAOLOGO TEOLOGICO TRA LA CHIESA CATTOLICA E LE CHIESE ORTODOSSE ORIENTALI Sala dei Papi Venerdì, 25 gennaio 2013

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Eminenze,
Eccellenze,
Cari Fratelli in Cristo,

È con gioia nel Signore che porgo il benvenuto a voi, membri della Commissione Mista Internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse orientali. Attraverso voi estendo i miei saluti fraterni ai capi di tutte le Chiese ortodosse orientali. In modo particolare, saluto Sua Eminenza Anba Bishoy, co-presidente della Commissione, ringraziandolo per le sue cordiali parole.

Prima di ogni altra cosa desidero ricordare con stima Sua Santità Shenouda III, Papa di Alessandria e Patriarca della Sede di San Marco, scomparso di recente. Ricordo con gratitudine anche Sua Santità Abuna Paulos, Patriarca della Chiesa ortodossa etiopica Tewahedo, che lo scorso anno ha ospitato il nono Incontro della Commissione Mista Internazionale per il dialogo teologico ad Addis Abeba, in Etiopia. Mi ha inoltre rattristato apprendere della morte di Sua Eccellenza Reverendissima Jules Mikhael Al-Jamil, Arcivescovo titolare di Takrit e procuratore del Patriarcato siro-cattolico a Roma, nonché membro della vostra Commissione. Mi unisco a voi nella preghiera per il riposo eterno di questi devoti servitori del Signore.

Il nostro incontro odierno ci offre l’opportunità di riflettere insieme con gratitudine sul lavoro della Commissione Mista Internazionale, iniziato dieci anni fa, nel gennaio 2003, per iniziativa delle autorità ecclesiali della famiglia delle Chiese orientali ortodosse e del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani. Nell’ultimo decennio la Commissione ha analizzato da una prospettiva storica i diversi modi in cui le Chiese hanno espresso la loro comunione nei primi secoli. Durante questa settimana, dedicata alla preghiera per l’unità di tutti i seguaci di Cristo, vi siete incontrati per esaminare più in profondità la comunione e la comunicazione esistente tra le Chiese nei primi cinque secoli della storia cristiana. Riconoscendo i progressi compiuti, esprimo la mia speranza che le relazioni tra la Chiesa cattolica e le Chiese orientali ortodosse continuino a svilupparsi in spirito fraterno di cooperazione, in particolare attraverso l’approfondimento di un dialogo teologico capace di aiutare tutti i seguaci del Signore a crescere nella comunione e a dare testimonianza al mondo della verità salvifica del Vangelo.

Molti di voi provengono da aree dove i cristiani, sia come individui sia come comunità, affrontano prove dolorose e difficoltà, che sono fonte di profonda preoccupazione per tutti noi. Attraverso voi, desidero assicurare tutti i fedeli in Medio Oriente della mia vicinanza spirituale e della mia preghiera affinché quella terra, tanto importante nel piano di salvezza di Dio, possa essere guidata, per mezzo di un dialogo costruttivo e della cooperazione, verso un futuro di giustizia e di pace duratura. Tutti i cristiani devono lavorare insieme, con accettazione e con fiducia reciproche, per servire la causa della pace e della giustizia in fedeltà alla volontà del Signore. Possano l’esempio e l’intercessione degli innumerevoli martiri e santi, che nel corso dei secoli hanno dato una coraggiosa testimonianza di Cristo in tutte le nostre Chiese, sostenerci e rafforzarci tutti, mentre affrontiamo le sfide del presente con fiducia e speranza nel futuro che il Signore dischiude dinanzi a noi! Su di voi, e su tutte le persone legate al lavoro della Commissione, invoco una nuova effusione dei doni dello Spirito Santo della sapienza, della gioia e della pace.

Grazie per la vostra attenzione.


IN OCCASIONE DELL’INAUGURAZIONE DELL’ANNO GIUDIZIARIO DEL TRIBUNALE DELLA ROTA ROMANA Sala Clementina Sabato, 26 gennaio 2013

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Cari Componenti del Tribunale della Rota Romana!

È per me motivo di gioia ritrovarvi in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Ringrazio il vostro Decano, Mons. Pio Vito Pinto, per i sentimenti espressi a nome di tutti voi e che contraccambio di cuore. Questo incontro mi offre l’opportunità di riaffermare la mia stima e considerazione per l’alto servizio che prestate al Successore di Pietro ed alla Chiesa intera, come pure di spronarvi ad un impegno sempre maggiore in un ambito certamente arduo, ma prezioso per la salvezza delle anime. Il principio che la salus animarum è la suprema legge nella Chiesa (cfr CIC, can.
CIC 1752) deve essere tenuto ben presente e trovare, ogni giorno, nel vostro lavoro, la dovuta e rigorosa risposta.

1. Nel contesto dell’Anno della fede, vorrei soffermarmi, in modo particolare, su alcuni aspetti del rapporto tra fede e matrimonio, osservando come l’attuale crisi di fede, che interessa varie parti del mondo, porti con sé una crisi della società coniugale, con tutto il carico di sofferenza e di disagio che questo comporta anche per i figli. Possiamo prendere come punto di partenza la comune radice linguistica che, in latino, hanno i termini fides e foedus, vocabolo, quest’ultimo, col quale il Codice di Diritto Canonico designa la realtà naturale del matrimonio, come patto irrevocabile tra uomo e donna (cfr can. 1055 § 1). Il reciproco affidarsi, infatti, è la base irrinunciabile di qualunque patto o alleanza.

Sul piano teologico, la relazione tra fede e matrimonio assume un significato ancora più profondo. Il vincolo sponsale, infatti, benché realtà naturale, tra i battezzati è stato elevato da Cristo alla dignità di sacramento (cfr ibidem).

Il patto indissolubile tra uomo e donna, non richiede, ai fini della sacramentalità, la fede personale dei nubendi; ciò che si richiede, come condizione minima necessaria, è l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa. Ma se è importante non confondere il problema dell’intenzione con quello della fede personale dei contraenti, non è tuttavia possibile separarli totalmente. Come faceva notare la Commissione Teologica Internazionale in un Documento del 1977, «nel caso in cui non si avverta alcuna traccia della fede in quanto tale (nel senso del termine "credenza", disposizione a credere), né alcun desiderio della grazia e della salvezza, si pone il problema di sapere, in realtà, se l’intenzione generale e veramente sacramentale di cui abbiamo parlato, è presente o no, e se il matrimonio è contratto validamente o no» (La dottrina cattolica sul sacramento del matrimonio [1977], 2.3: Documenti 1969-2004, vol. 13, Bologna 2006, p. 145). Il beato Giovanni Paolo II, rivolgendosi a codesto Tribunale, dieci anni fa, precisò, tuttavia, che «un atteggiamento dei nubendi che non tenga conto della dimensione soprannaturale nel matrimonio può renderlo nullo solo se ne intacca la validità sul piano naturale nel quale è posto lo stesso segno sacramentale» (ibidem). Circa tale problematica, soprattutto nel contesto attuale, occorrerà promuovere ulteriori riflessioni.

2. La cultura contemporanea, contrassegnata da un accentuato soggettivismo e relativismo etico e religioso, pone la persona e la famiglia di fronte a pressanti sfide. In primo luogo, di fronte alla questione circa la capacità stessa dell’essere umano di legarsi, e se un legame che duri per tutta la vita sia veramente possibile e corrisponda alla natura dell’uomo, o, piuttosto, non sia, invece, in contrasto con la sua libertà e con la sua autorealizzazione. Fa parte di una mentalità diffusa, infatti, pensare che la persona diventi se stessa rimanendo "autonoma" ed entrando in contatto con l’altro solo mediante relazioni che si possono interrompere in ogni momento (Cfr Allocuzione alla Curia Romana [21 dicembre 2012]: L’Osservatore Romano, 22 dicembre 2012, p. 4). A nessuno sfugge come sulla scelta dell’essere umano di legarsi con un vincolo che duri tutta la vita influisca la prospettiva di base di ciascuno, a seconda cioè che sia ancorata a un piano meramente umano, oppure si schiuda alla luce della fede nel Signore. Solo aprendosi alla verità di Dio, infatti, è possibile comprendere, e realizzare nella concretezza della vita anche coniugale e familiare, la verità dell’uomo quale suo figlio, rigenerato dal Battesimo. «Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete fare nulla» (Jn 15,5): così insegnava Gesù ai suoi discepoli, ricordando loro la sostanziale incapacità dell’essere umano di compiere da solo ciò che è necessario al conseguimento del vero bene. Il rifiuto della proposta divina, in effetti, conduce ad uno squilibrio profondo in tutte le relazioni umane (Cfr Discorso alla Commissione Teologica Internazionale [7 dicembre 2012]: L’Osservatore Romano, 8 dicembre 2012, p. 7), inclusa quella matrimoniale, e facilita un’errata comprensione della libertà e dell’auto realizzazione, che, unita alla fuga davanti alla paziente sopportazione della sofferenza, condanna l’uomo a chiudersi nel suo egoismo ed egocentrismo. Al contrario, l’accoglienza della fede rende l’uomo capace del dono di sé, nel quale soltanto, «aprendosi all’altro, agli altri, ai figli, alla famiglia... lasciandosi plasmare nella sofferenza, egli scopre l’ampiezza dell’essere persona umana» (Discorso alla Curia Romana [21 dicembre 2012]: L’Osservatore Romano, 22 dicembre 2012, p. 4).

La fede in Dio, sostenuta dalla grazia divina, è dunque un elemento molto importante per vivere la mutua dedizione e la fedeltà coniugale (Catechesi all’Udienza generale [8 giugno 2011] : Insegnamenti VII/I [2011], p. 792-793). Non s’intende con ciò affermare che la fedeltà, come le altre proprietà, non siano possibili nel matrimonio naturale, contratto tra non battezzati. Esso, infatti, non è privo dei beni che «provengono da Dio Creatore e si inseriscono in modo incoativo nell’amore sponsale che unisce Cristo e la Chiesa» (Commissione Teologica Internazionale, La dottrina cattolica sul sacramento del matrimonio [1977], 3.4: Documenti 1969-2004, vol. 13, Bologna 2006, p. 147). Certamente, però, la chiusura a Dio o il rifiuto della dimensione sacra dell’unione coniugale e del suo valore nell’ordine della grazia rende ardua l’incarnazione concreta del modello altissimo di matrimonio concepito dalla Chiesa secondo il disegno di Dio, potendo giungere a minare la validità stessa del patto qualora, come assume la consolidata giurisprudenza di codesto Tribunale, si traduca in un rifiuto di principio dello stesso obbligo coniugale di fedeltà ovvero degli altri elementi o proprietà essenziali del matrimonio.

Tertulliano, nella celebre Lettera alla moglie, parlando della vita coniugale contrassegnata dalla fede, scrive che i coniugi cristiani «sono veramente due in una sola carne, e dove la carne è unica, unico è lo spirito. Insieme pregano, insieme si prostrano e insieme digiunano; l’uno ammaestra l’altro, l’uno onora l’altro, l’uno sostiene l’altro» (Ad uxorem libri duo, II, IX: PL 1, 1415B-1417A). In termini simili si esprime san Clemente Alessandrino: «Se infatti per entrambi uno solo è Dio, allora per entrambi uno solo è il Pedagogo - Cristo -, una è la Chiesa, una la sapienza, uno il pudore, in comune abbiamo il nutrimento, il matrimonio ci unisce … E se comune è la vita, comune è anche la grazia, la salvezza, la virtù, la morale» (Paedagogus, I, IV, 10.1: , 259B). I Santi che hanno vissuto l’unione matrimoniale e familiare nella prospettiva cristiana, sono riusciti a superare anche le situazioni più avverse, conseguendo talora la santificazione del coniuge e dei figli con un amore sempre rafforzato da una solida fiducia in Dio, da una sincera pietà religiosa e da un’intensa vita sacramentale. Proprio queste esperienze, contrassegnate dalla fede, fanno comprendere come, ancor oggi, sia prezioso il sacrificio offerto dal coniuge abbandonato o che abbia subito il divorzio, se – riconoscendo l’indissolubilità del vincolo matrimoniale valido – riesce a non lasciarsi «coinvolgere in una nuova unione ... In tal caso il suo esempio di fedeltà e di coerenza cristiana assume un particolare valore di testimonianza di fronte al mondo e alla Chiesa» (Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio [22 novembre 1981], 83: AAS 74 [1982], p. 184).

3. Vorrei soffermarmi, infine, brevemente, sul bonum coniugum. La fede è importante nella realizzazione dell’autentico bene coniugale, che consiste semplicemente nel volere sempre e comunque il bene dell’altro, in funzione di un vero e indissolubile consortium vitae. In verità, nel proposito degli sposi cristiani di vivere una vera communio coniugalis vi è un dinamismo proprio della fede, per cui la confessio, la risposta personale sincera all’annuncio salvifico, coinvolge il credente nel moto d’amore di Dio. "Confessio" e "caritas" sono «i due modi in cui Dio ci coinvolge, ci fa agire con Lui, in Lui e per l’umanità, per la sua creatura ... La "confessio" non è una cosa astratta, è "caritas", è amore. Solo così è realmente il riflesso della verità divina, che come verità è inseparabilmente anche amore» (Meditazione alla prima Congregazione Generale del la XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi [8 ottobre 2012]: L’Osservatore Romano, 10 ottobre 2012, p. 7). Soltanto attraverso la fiamma della carità, la presenza del Vangelo non è più solo parola, ma realtà vissuta. In altri termini, se è vero che «la fede senza la carità non porta frutto e la carità senza la fede sarebbe un sentimento in balia costante del dubbio», si deve concludere che «fede e carità si esigono a vicenda, così che l’una permette all’altra di attuare il suo cammino» (Lett. ap. Porta fidei [11 ottobre 2012], 14: L’Osservatore Romano, 17-18 ottobre 2011, p.

4. Se ciò vale nell’ampio contesto della vita comunitaria, deve valere ancora di più nell’unione matrimoniale. È in essa, di fatto, che la fede fa crescere e fruttificare l’amore degli sposi, dando spazio alla presenza di Dio Trinità e rendendo la stessa vita coniugale, così vissuta, «lieta novella» davanti al mondo.

Riconosco le difficoltà, da un punto di vista giuridico e pratico, di enucleare l’elemento essenziale del bonum coniugum, inteso finora prevalentemente in relazione alle ipotesi di incapacità (cfr CIC, can. CIC 1095). Il bonum coniugum assume rilevanza anche nell’ambito della simulazione del consenso. Certamente, nei casi sottoposti al vostro giudizio, sarà l’indagine in facto ad accertare l’eventuale fondatezza di questo capo di nullità, prevalente o coesistente con un altro capo dei tre «beni» agostiniani, la procreatività, l’esclusività e la perpetuità. Non si deve quindi prescindere dalla considerazione che possano darsi dei casi nei quali, proprio per l’assenza di fede, il bene dei coniugi risulti compromesso e cioè escluso dal consenso stesso; ad esempio, nell’ipotesi di sovvertimento da parte di uno di essi, a causa di un’errata concezione del vincolo nuziale, del principio di parità, oppure nell’ipotesi di rifiuto dell’unione duale che contraddistingue il vincolo matrimoniale, in rapporto con la possibile coesistente esclusione della fedeltà e dell’uso della copula adempiuta humano modo.

Con le presenti considerazioni, non intendo certamente suggerire alcun facile automatismo tra carenza di fede e invalidità dell’unione matrimoniale, ma piuttosto evidenziare come tale carenza possa, benché non necessariamente, ferire anche i beni del matrimonio, dal momento che il riferimento all’ordine naturale voluto da Dio è inerente al patto coniugale (cfr Gn 2,24).

Cari Fratelli, invoco l’aiuto di Dio su di voi e su quanti nella Chiesa si adoperano per la salvaguardia della verità e della giustizia riguardo al vincolo sacro del matrimonio e, per ciò stesso, della famiglia cristiana. Vi affido alla protezione di Maria Santissima, Madre di Cristo, e di san Giuseppe, Custode della Famiglia di Nazaret, silenzioso e obbediente esecutore del piano divino della salvezza, mentre imparto volentieri a voi e ai vostri cari la Benedizione Apostolica.




CONCERTO PROMOSSO DALL'AMBASCIATA D'ITALIA PRESSO LA SANTA SEDE IN ONORE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI E DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ITALIANA GIORGIO NAPOLITANO, Lunedì, 4 febbraio 2013

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IN OCCASIONE DELL'84° ANNIVERSARIO DEI PATTI LATERANENSI


Signor Presidente della Repubblica,
Signori Cardinali,
Onorevoli Ministri e distinte Autorità,
venerati Fratelli,
gentili Signori e Signore!

Anzitutto saluto il Signor Presidente della Repubblica Italiana, Onorevole Giorgio Napolitano, e lo ringrazio per le intense espressioni che mi ha rivolto; in questi sette anni - come ha ricordato - ci siamo incontrati più volte e abbiamo condiviso esperienze e riflessioni. Saluto la sua gentile consorte, le Autorità italiane, come pure i Signori Ambasciatori e le numerose Personalità presenti. Un grazie di vero cuore ai promotori e agli organizzatori di questa serata, in particolare alla “Flying Angels Foundation”, impegnata nel campo della solidarietà.

L’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino e il suo Direttore, Zubin Metha, non necessitano di presentazioni: entrambi occupano un posto importante nel panorama musicale internazionale e questa sera l’hanno dimostrato donandoci un momento di profonda elevazione dello spirito con la notevole esecuzione della Sinfonia verdiana e della Terza di Beethoven.

Giuseppe Verdi, La Forza del Destino: un omaggio dovuto al grande musicista italiano nell’anno in cui celebriamo i 200 anni dalla sua nascita. Nelle sue opere colpisce sempre come egli abbia saputo cogliere e tratteggiare musicalmente le situazioni della vita, soprattutto i drammi dell’animo umano, in modo così immediato, incisivo ed essenziale come raramente si trova nel panorama musicale. E’ un destino sempre tragico quello dei personaggi verdiani a cui non sfuggono i protagonisti de La Forza del Destino: la Sinfonia che abbiamo ascoltato, fin dalle prime battute, ce lo ha fatto percepire. Ma affrontando il tema del destino, Verdi si trova ad affrontare direttamente il tema religioso, a confrontarsi con Dio, con la fede, con la Chiesa; ed emerge ancora una volta l’animo di questo musicista, la sua inquietudine, la sua ricerca religiosa. Ne La Forza del Destino non solo una delle arie più famose, “La Vergine degli Angeli”, è un’accorata preghiera, ma vi troviamo anche due storie di conversione e avvicinamento a Dio: quella di Leonora, che riconosce drammaticamente le sue colpe e decide di ritirarsi in una vita eremitica, e quella di don Alvaro, che lotta tra il mondo e una vita in solitudine con Dio. E’ interessante notare come nelle due versioni di quest’opera, quella del 1862 per San Pietroburgo e quella del 1869 per “La Scala” di Milano, i finali cambino: nella prima don Alvaro termina la vita suicida, rifiutando l’abito religioso e invocando l’inferno; nella seconda, invece, egli accoglie le parole del Frate Guardiano a confidare nel perdono di Dio e l’opera termina con le parole “Salita a Dio”. Qui è disegnato il dramma dell’esistenza umana segnata da un tragico destino e dalla nostalgia di Dio, della sua misericordia e del suo amore, che offrono luce, senso e speranza anche nel buio. La fede ci offre questa prospettiva che non è illusoria, ma reale; come afferma san Paolo «né morte, né vita, né angeli, né principati, né presente, né avvenire, né altezze, né profondità, né alcun’altra creatura potrà separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (
Rm 8,38-39). Questa è la forza del cristiano, che nasce dalla morte e risurrezione di Cristo, dall’atto supremo di un Dio che è entrato nella storia dell’uomo non solo con le parole, ma incarnandosi.

Una parola anche sulla Terza Sinfonia di Beethoven, un’opera complessa che segna in modo chiaro il distacco dal sinfonismo classico di Haydn e Mozart. Come è noto, era dedicata a Napoleone, ma il grande compositore tedesco cambiò idea dopo che Bonaparte si proclamò imperatore, mutando il titolo in: “composta per festeggiare il sovvenire di un grand’Uomo”. Beethoven esprime musicalmente l’ideale dell’eroe portatore di libertà e di uguaglianza, che è davanti alla scelta della rassegnazione o della lotta, della morte o della vita, della resa o della vittoria; e la Sinfonia descrive questi stati d’animo con una ricchezza coloristica e tematica fino ad allora sconosciuta. Non entro nella lettura dei quattro tempi, ma accenno solo al secondo, la celebre Marcia funebre, un’accorata meditazione sulla morte, che inizia con una prima sezione dai toni drammatici e desolati, ma che contiene, nella parte centrale, un episodio sereno intonato dall’oboe e poi la doppia fuga e gli squilli di tromba: il pensiero sulla morte invita a riflettere sull’al di là, sull’infinito. In quegli anni, Beethoven, nel testamento di Heiligenstadt dell’ottobre 1802 scriveva: «O Dio, Tu dall’alto guardi nel mio intimo, lo conosci e sai che è colmo d’amore per l’umanità e di desiderio di fare del bene». La ricerca di senso che apra ad una speranza solida per il futuro fa parte del cammino dell’umanità.

Grazie, Signor Presidente, per la sua presenza. Grazie al Direttore e ai Professori dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino. Grazie ai promotori e agli organizzatori e a voi tutti! Buona serata!





SALUTO AI PARTECIPANTI ALL'ASSEMBLEA GENERALE DELLA FRATERNITÀ SACERDOTALE DI SAN CARLO BORROMEO Auletta dell'Aula Paolo VI Mercoledì, 6 febbraio 2013

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Eccellenze,
cari Fratelli,

è per me una grande gioia essere con voi. Mi ricordo bene delle mie visite nel Palazzo Borromeo, accanto a Santa Maria Maggiore, dove ho conosciuto personalmente don Giussani; ho conosciuto la sua fede, la sua gioia, la sua forza e la ricchezza delle sue idee, la creatività della fede. È cresciuta una vera amicizia; così, tramite lui, ho conosciuto anche meglio la comunità di Comunione e Liberazione.

E sono lieto che il successore sia con noi; che continua questa grande opera e ispira tante persone, tanti laici, donne e uomini, sacerdoti e laici, per collaborare alla diffusione del Vangelo, alla crescita del Regno di Dio. E qui ho conosciuto anche Massimo Camisasca; abbiamo parlato di diverse cose, ho conosciuto la sua creatività nell’arte, la sua capacità di vedere, interpretare i segni dei tempi, il suo grande dono di educatore, di sacerdote. Una volta ho avuto anche l’onore di ordinare alcuni sacerdoti a Porto Santa Rufina, ed era bello, quindi, conoscere che qui cresce una nuova Fraternità Sacerdotale nello spirito di San Carlo Borromeo, che sempre rimane il grande modello di un Pastore che è realmente stimolato dall’amore di Cristo, cerca i piccoli, li ama e così realmente crea fede e fa crescere la Chiesa.

Adesso la vostra Fraternità è grande, ed è un segno che le vocazioni ci siano. Ma c’è anche la necessità della nostra apertura per trovare, per accompagnare, per guidare e aiutare le vocazioni nella maturazione. Questa è la cosa per la quale ringrazio don Camisasca che ha fatto da grande educatore. Ed oggi l’educazione è sempre fondamentale per la crescita della verità, per la crescita del nostro essere figli di Dio e fratelli di Gesù Cristo.

Adesso, grazie a Dio, conosco anche già da molto tempo il vostro nuovo Superiore Generale, che anche un po’ ha avuto contatto con la mia teologia. Così, sono contento che io possa essere anche spiritualmente ed intellettualmente con voi e che possiamo reciprocamente fecondare il nostro lavoro.

Il Signore vi benedica. Grazie al Signore per questo dono della vostra Fraternità: cresca e si approfondisca sempre, ancora di più nell’amore di Cristo, nell’amore degli uomini per Cristo. Il Signore vi accompagna.

Vi do la Benedizione, sicuro che voi pregate per me, mi accompagnate con la vostra preghiera.
Grazie a voi tutti!




Discorsi 2005-13 17013