Benedetto XVI Omelie 25018


VISITA AL SEMINARIO ROMANO MAGGIORE IN OCCASIONE DELLA FESTA DELLA MADONNA DELLA FIDUCIA

DURANTE LA CELEBRAZIONE DEI VESPRI

Seminario Romano Maggiore, Venerdì, 1° febbraio 2008

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Signor Cardinale,
Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari seminaristi e genitori,
cari fratelli e sorelle!

È sempre una grande gioia per il Vescovo trovarsi nel suo Seminario, e questa sera ringrazio il Signore che rinnova per me questa gioia, alla vigilia della festa della Madonna della Fiducia, vostra celeste Patrona. Vi saluto tutti cordialmente: il Cardinale Vicario, i Vescovi Ausiliari, il Rettore e gli altri Superiori, e con speciale affetto voi, cari seminaristi. Sono lieto di salutare anche i genitori presenti e gli amici della comunità del Seminario Romano. Ci siamo raccolti insieme per i primi Vespri solenni di questa festa mariana a voi cara. Abbiamo ascoltato alcuni versetti della Lettera di San Paolo ai Galati, dove è presente questa espressione: “pienezza del tempo” (
Ga 4,4). Solo Dio può “riempire il tempo” e farci sperimentare il senso compiuto della nostra esistenza. Dio ha riempito di sé il tempo inviando il suo Figlio Unigenito e in Lui ci ha resi suoi figli adottivi: figli nel Figlio. In Gesù e con Gesù, “Via, Verità e Vita” (Jn 14,6), siamo ora in grado di trovare le risposte esaurienti alle attese più profonde del cuore. Scomparsa la paura, cresce in noi la confidenza verso il Dio che osiamo chiamare persino “Abbà - Padre!” (cfr Ga 4,6).

Cari seminaristi, proprio perché il dono di essere figli adottivi di Dio ha illuminato la vostra vita, avete sentito il desiderio di renderne partecipi anche gli altri. Siete qui per questo, per dare sviluppo alla vostra vocazione filiale e per prepararvi alla futura missione di apostoli di Cristo. Si tratta di un’unica crescita, che, permettendovi di assaporare la gioia della vita con Dio Padre, vi fa tanto maggiormente sentire l’urgenza di diventare messaggeri del Vangelo del suo Figlio Gesù. È lo Spirito Santo che vi rende attenti a questa realtà profonda e ve la fa amare. Tutto questo non può non suscitare una grande fiducia, perché il dono ricevuto è sorprendente, riempie di stupore e colma di intima gioia. Potete allora comprendere il ruolo che anche nella vostra vita ha Maria, invocata nel vostro Seminario con il bel titolo di Madonna della Fiducia. Come il “Figlio è nato da donna” (cfr Ga 4,4), da Maria, Madre di Dio, così anche il vostro essere figli di Dio ha Lei come Madre, come vera Madre.

Cari genitori, probabilmente voi siete i più sorpresi di tutti per quanto è accaduto e sta accadendo nei vostri figli. Avevate forse immaginato per loro una missione diversa da quella per la quale si stanno ora preparando. Chissà quante volte vi trovate a riflettere su di loro: ripensate a quando erano bambini e poi ragazzi; alle volte in cui hanno mostrato i primi segni della vocazione; oppure, in qualche caso, al contrario, agli anni in cui la vita di vostro figlio appariva lontana dalla Chiesa. Che cosa è accaduto? Quali incontri hanno influito sulle loro scelte? Quali luci interiori ne hanno orientato il cammino? Come hanno potuto abbandonare prospettive di vita anche promettenti, per scegliere di entrare in Seminario? Guardiamo a Maria! Il Vangelo ci fa comprendere che anche Lei si è trovata a farsi tante domande sul suo Figlio Gesù e a meditare a lungo su di Lui (cfr Lc 2,19 Lc 2,51).

È inevitabile che la vocazione dei figli in qualche modo diventi vocazione anche dei genitori. Cercando di capirli e seguendoli nel loro percorso, anche voi, cari papà e care mamme, molto spesso vi siete trovati coinvolti in un cammino nel quale la vostra fede è andata rafforzandosi e rinnovandosi. Vi siete trovati partecipi dell’avventura meravigliosa dei vostri figli. Infatti, anche se può sembrare che la vita del sacerdote non attiri l’interesse della maggioranza della gente, in realtà si tratta dell’avventura più interessante e più necessaria per il mondo, l’avventura di mostrare e rendere presente la pienezza di vita a cui tutti aspirano. È un’avventura molto esigente; e non potrebbe essere diversamente, perché il sacerdote è chiamato ad imitare Gesù, “che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” (Mt 20,28).

Cari seminaristi, questi anni di formazione costituiscono un tempo importante per prepararvi all’esaltante missione a cui il Signore vi chiama. Permettete che sottolinei due aspetti che caratterizzano la vostra attuale esperienza. Anzitutto, gli anni del Seminario comportano un certo distacco dalla vita comune, un certo “deserto”, perché il Signore possa parlare al vostro cuore (cfr Os 2,16). La sua voce infatti non è rumorosa, ma sommessa, è voce del silenzio (cfr 1R 19,12). Per essere ascoltata richiede quindi un clima di silenzio. Per questo il Seminario offre spazi e tempi di preghiera quotidiana; cura molto la liturgia, la meditazione della Parola di Dio e l’adorazione eucaristica. Al tempo stesso, vi chiede di dedicare lunghe ore allo studio: pregando e studiando, potete costruire in voi l’uomo di Dio che dovete essere e che la gente attende che il sacerdote sia.

C’è poi un secondo aspetto della vostra vita: durante gli anni di Seminario, voi vivete insieme; la vostra formazione al sacerdozio comporta anche questo aspetto comunitario, che è di grande importanza. Gli Apostoli si sono formati insieme, seguendo Gesù. La vostra comunione non si limita al presente, ma riguarda anche il futuro: l’azione pastorale che vi attende dovrà vedervi agire uniti come in un corpo, in un ordo, quello dei presbiteri, che col Vescovo si prendono cura della comunità cristiana. Amate questa “vita di famiglia”, che per voi è anticipazione di quella “fraternità sacramentale” (Presbyterorum Ordinis PO 8) che deve caratterizzare ogni presbiterio diocesano.

Tutto questo ricorda che Dio vi chiama ad essere santi, che la santità è il segreto del vero successo del vostro ministero sacerdotale. Fin d’ora la santità deve costituire l’obbiettivo di ogni vostra scelta e decisione. Affidate questo desiderio e questo impegno quotidiano a Maria, Madre della Fiducia! Questo titolo così pacificante corrisponde al ripetuto invito evangelico: “Non temere”, rivolto dall’Angelo alla Vergine (cfr Lc 1,29) e poi tante volte da Gesù ai discepoli. “Non temere, perché io sono con te”, dice il Signore. Nell’icona della Madonna della Fiducia, dove il Bambino indica la Madre, sembra che Gesù aggiunga: “Guarda tua Madre, e non temere”. Cari seminaristi, percorrete il cammino del Seminario con l’animo aperto alla verità, alla trasparenza, al dialogo con chi vi guida e questo vi permetterà di rispondere in modo semplice e umile a Colui che vi chiama, liberandovi dal rischio di realizzare un vostro progetto personale. Voi, cari genitori ed amici, accompagnate i seminaristi con la preghiera e con il vostro costante supporto materiale e spirituale. Anch’io assicuro a voi tutti un ricordo nella mia preghiera, mentre con gioia vi imparto la Benedizione Apostolica.


STATIO E PROCESSIONE PENITENZIALE DALLA BASILICA DI SANT'ANSELMO ALLA BASILICA DI SANTA SABINA ALL’AVENTINO

SANTA MESSA, BENEDIZIONE E IMPOSIZIONE DELLE CENERI

Basilica di Santa Sabina, Mercoledì delle Ceneri, 6 febbraio 2008

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Cari fratelli e sorelle!

Se l’Avvento è per eccellenza il tempo che ci invita a sperare nel Dio-che-viene, la Quaresima ci rinnova nella speranza in Colui-che-ci-ha-fatti-passare-dalla-morte-alla-vita. Entrambi sono tempi di purificazione – lo dice anche il colore liturgico che hanno in comune – ma in modo speciale la Quaresima, tutta orientata al mistero della Redenzione, è definita “cammino di vera conversione” (Orazione colletta). All’inizio di quest’itinerario penitenziale, vorrei soffermarmi brevemente a riflettere sulla preghiera e sulla sofferenza quali aspetti qualificanti del tempo liturgico quaresimale, mentre alla pratica dell’elemosina ho dedicato il Messaggio per la Quaresima, pubblicato la scorsa settimana. Nell’Enciclica Spe salvi, ho indicato la preghiera e il soffrire, insieme all’agire e al giudizio, come “luoghi di apprendimento e di esercizio della speranza”. Potremmo quindi affermare che il periodo quaresimale, proprio perché invita alla preghiera, alla penitenza e al digiuno, costituisce una occasione provvidenziale per rendere più viva e salda la nostra speranza.

La preghiera alimenta la speranza, perché nulla più del pregare con fede esprime la realtà di Dio nella nostra vita. Anche nella solitudine della prova più dura, niente e nessuno possono impedirmi di rivolgermi al Padre, “nel segreto” del mio cuore, dove Lui solo “vede”, come dice Gesù nel Vangelo (cfr
Mt 6,4 Mt 6,6 Mt 6,18). Vengono in mente due momenti dell’esistenza terrena di Gesù che si collocano uno all’inizio e l’altro quasi al termine della sua vita pubblica: i quaranta giorni nel deserto, sui quali è ricalcato il tempo quaresimale, e l’agonia nel Getsemani – entrambi sono essenzialmente momenti di preghiera. Preghiera con il Padre solitaria a tu per tu nel deserto, preghiera colma di “angoscia mortale” nell’Orto degli Ulivi. Ma sia nell’una che nell’altra circostanza, è pregando che Cristo smaschera gli inganni del tentatore e lo sconfigge. La preghiera si dimostra così la prima e principale “arma” per “affrontare vittoriosamente il combattimento contro lo spirito del male” (Orazione colletta).

La preghiera di Cristo raggiunge il suo culmine sulla croce, esprimendosi in quelle ultime parole che gli evangelisti hanno raccolto. Laddove sembra lanciare un grido di disperazione: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46 Mc 15,34 cfr Ps 21,1), in realtà Cristo fa sua l’invocazione di chi, assediato senza scampo dai nemici, non ha altri che Dio a cui votarsi e, al di là di ogni umana possibilità, ne sperimenta la grazia e la salvezza. Non vi è dunque contraddizione tra il lamento: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, e le parole piene di fiducia filiale: “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito” (Lc 23,46 cfr Ps 30,6). Anche queste sono prese da un Salmo, il 30, implorazione drammatica di una persona che, abbandonata da tutti, si affida sicura a Dio. La preghiera di supplica colma di speranza è, pertanto, il leit motiv della Quaresima, e ci fa sperimentare Dio quale unica àncora di salvezza. Pur quando è collettiva, la preghiera del popolo di Dio è voce di un cuore solo e di un’anima sola, è dialogo “a tu per tu”, come la commovente implorazione della regina Ester quando il suo popolo sta per essere sterminato: “Mio Signore, nostro re, tu sei l’unico! Vieni in aiuto a me che sono sola e non ho altro soccorso se non te, perché un grande pericolo mi sovrasta” (Est 4,17 l). Di fronte a un “grande pericolo” ci vuole una più grande speranza, e questa è solo la speranza che può contare su Dio.

La preghiera è un crogiuolo in cui le nostre attese e aspirazioni vengono esposte alla luce della Parola di Dio, vengono immerse nel dialogo con Colui che è la verità, ed escono liberate da menzogne nascoste e compromessi con diverse forme di egoismo (cfr Spe salvi, ). Senza la dimensione della preghiera, l’io umano finisce per chiudersi in se stesso, e la coscienza, che dovrebbe essere eco della voce di Dio, rischia di ridursi a specchio dell’io, così che il colloquio interiore diventa un monologo dando adito a mille autogiustificazioni. La preghiera, perciò, è garanzia di apertura agli altri: chi si fa libero per Dio e le sue esigenze, si apre contemporaneamente all’altro, al fratello che bussa alla porta del suo cuore e chiede ascolto, attenzione, perdono, talvolta correzione ma sempre nella carità fraterna. La vera preghiera non è mai egocentrica, ma sempre centrata sull’altro. Come tale essa esercita l’orante all’“estasi” della carità, alla capacità di uscire da sé per farsi prossimo all’altro nel servizio umile e disinteressato. La vera preghiera è il motore del mondo, perché lo tiene aperto a Dio. Per questo senza preghiera non c’è speranza, ma solo illusione. Non è infatti la presenza di Dio ad alienare l’uomo, ma la sua assenza: senza il vero Dio, Padre del Signore Gesù Cristo, le speranze diventano illusioni che inducono ad evadere dalla realtà. Parlare con Dio, rimanere alla sua presenza, lasciarsi illuminare e purificare dalla sua Parola, ci introduce invece nel cuore della realtà, nell’intimo Motore del divenire cosmico, ci introduce per così dire nel cuore pulsante dell’universo.

In armonica connessione con la preghiera, anche il digiuno e l’elemosina possono essere considerati luoghi di apprendimento ed esercizio della speranza cristiana. I Padri e gli scrittori antichi amano sottolineare che queste tre dimensioni della vita evangelica sono inseparabili, si fecondano reciprocamente e portano tanto maggior frutto quanto più si corroborano a vicenda. Grazie all’azione congiunta della preghiera, del digiuno e dell’elemosina, la Quaresima nel suo insieme forma i cristiani ad essere uomini e donne di speranza, sull’esempio dei santi.

Vorrei ora soffermarmi anche sulla sofferenza poiché, come ho scritto nell’Enciclica Spe salvi “la misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente. Questo vale per il singolo come per la società” (Spe salvi, ). La Pasqua, verso cui la Quaresima è protesa, è il mistero che dà senso alla sofferenza umana, a partire dalla sovrabbondanza della com-passione di Dio, realizzata in Gesù Cristo. Il cammino quaresimale, pertanto, essendo tutto irradiato dalla luce pasquale, ci fa rivivere quanto avvenne nel cuore divino-umano di Cristo mentre saliva a Gerusalemme per l’ultima volta, per offrire se stesso in espiazione (cfr Is 53,10). La sofferenza e la morte sono calate come tenebre via via che Egli si avvicinava alla croce, ma viva si è fatta anche la fiamma dell’amore. La sofferenza di Cristo è in effetti tutta permeata dalla luce dell’amore (cfr Spe salvi, ): l’amore del Padre che permette al Figlio di andare incontro con fiducia al suo ultimo “battesimo”, come Lui stesso definisce il culmine della sua missione (cfr Lc 12,50). Quel battesimo di dolore e d’amore, Gesù lo ha ricevuto per noi, per tutta l’umanità. Ha sofferto per la verità e la giustizia, portando nella storia degli uomini il vangelo della sofferenza, che è l’altra faccia del vangelo dell’amore. Dio non può patire, ma può e vuole com-patire. Dalla passione di Cristo può entrare in ogni sofferenza umana la con-solatio, “la consolazione dell’amore partecipe di Dio e così sorge la stella della speranza” (Spe salvi, ).

Come per la preghiera, così per la sofferenza la storia della Chiesa è ricchissima di testimoni che si sono spesi per gli altri senza risparmio, a costo di duri patimenti. Più è grande la speranza che ci anima, tanto maggiore è anche in noi la capacità di soffrire per amore della verità e del bene, offrendo con gioia le piccole e grandi fatiche di ogni giorno e inserendole nel grande com-patire di Cristo (cfr ivi, ). Ci aiuti in questo cammino di perfezione evangelica Maria, che, insieme con quello del Figlio, ebbe il suo Cuore immacolato trafitto dalla spada del dolore. Proprio in questi giorni, ricordando il 150° anniversario delle apparizioni della Vergine a Lourdes, siamo condotti a meditare sul mistero della condivisione di Maria con i dolori dell’umanità; al tempo stesso siamo incoraggiati ad attingere consolazione dal “tesoro di compassione” (ibid. ) della Chiesa, a cui Ella ha contribuito più di ogni altra creatura. Iniziamo pertanto la Quaresima in spirituale unione con Maria, che “ha avanzato nel cammino della fede” dietro il suo Figlio (cfr Lumen gentium LG 58) e sempre precede i discepoli nell’itinerario verso la luce pasquale. Amen!



VISITA PASTORALE ALLA PARROCCHIA ROMANA DI SANTA MARIA LIBERATRICE A TESTACCIO

Domenica, 24 febbraio 2008

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Cari fratelli e sorelle,

seguendo l'esempio dei miei venerati Predecessori, i Servi di Dio Paolo VI e Giovanni Paolo II, che hanno fatto visita alla vostra parrocchia rispettivamente il 20 marzo 1966 e il 14 gennaio 1979, anch'io quest’oggi sono venuto tra voi per incontrare la vostra comunità e presiedere la Celebrazione eucaristica in questa vostra bella chiesa dedicata a Santa Maria Liberatrice. Sono venuto in una circostanza quanto mai singolare, il centenario della consacrazione dell’attuale chiesa e il trasferimento del titolo della parrocchia di Santa Maria della Provvidenza, che già esisteva in questo vostro quartiere di Testaccio, in Santa Maria Liberatrice. Fu San Pio X ad affidare ai Figli spirituali di Don Bosco la parrocchia, ed essi, sotto la guida infaticabile del primo discepolo di San Giovanni Bosco, il beato Don Michele Rua, costruirono la chiesa nella quale ora ci troviamo. In verità, i Salesiani svolgevano già la loro attività sociale ed apostolica qui a Testaccio, quartiere che ha conservato una sua specifica identità territoriale e culturale. Pur trovandoci, infatti, nel cuore della metropoli romana, persistono tra la persone rapporti molto familiari e, sebbene negli ultimi vent'anni la situazione sia un po' cambiata, rimangono forti il radicamento della gente nel proprio territorio, l'identità di quartiere e di attaccamento alle tradizioni religiose. So, ad esempio, che la vostra festa patronale di Santa Maria Liberatrice riunisce ogni anno tanti concittadini e famiglie che per vari motivi si sono trasferiti altrove.

Cari amici, sono venuto volentieri a condividere la vostra gioia per l’evento giubilare che state celebrando, e che ho voluto arricchire con la possibilità di lucrare l’indulgenza plenaria durante l’intero anno centenario. Con affetto vi saluto tutti. Anzitutto saluto il Cardinale Vicario, il Vescovo Ausiliare del Settore Centro, Mons. Ernesto Mandara, e il vostro Parroco, Don Manfredo Leone. Ringrazio di cuore lui e i confratelli salesiani per il servizio pastorale che insieme rendono alla vostra parrocchia, e gli sono grato anche per le gentili parole che mi ha rivolto a nome di tutti voi. Saluto inoltre gli ospiti dello Studentato Salesiano per sacerdoti, che ha sede negli edifici parrocchiali, e le diverse comunità religiose presenti sul territorio: le Figlie di Maria Ausiliatrice, le Figlie della Divina Provvidenza e le Suore del Buon Pastore. Saluto i Cooperatori, le Cooperatrici e gli Ex-allievi Salesiani, le Associazioni parrocchiali, i vari gruppi impegnati per l'animazione della catechesi, della liturgia, della carità e della lettura ed approfondimento della Parola di Dio, la Confraternita di Santa Maria Liberatrice, i gruppi che riuniscono i giovani e quelli che favoriscono l'incontro e la formazione delle coppie di fidanzati e di sposi e delle famiglie più mature. Un saluto affettuoso indirizzo ai ragazzi del catechismo e a quanti frequentano l’Oratorio della parrocchia e delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Vorrei poi estendere il mio pensiero a tutti gli abitanti del quartiere, specialmente agli anziani, ai malati, alle persone sole e in difficoltà. Tutti e ciascuno ricordo in questa Santa Messa.

Cari fratelli e sorelle, mi domando ora assieme a voi: che cosa ci dice il Signore in un anniversario così importante per la vostra parrocchia? Nei testi biblici dell’odierna terza Domenica di Quaresima, ci sono utili spunti di meditazione quanto mai indicati per questa significativa circostanza. Attraverso il simbolo dell’acqua, che ritroviamo nella prima lettura e nel brano evangelico della Samaritana, la parola di Dio ci trasmette un messaggio sempre vivo e sempre attuale: Dio ha sete della nostra fede e vuole che troviamo in Lui la fonte della nostra autentica felicità. Il rischio di ogni credente è quello di praticare una religiosità non autentica, di cercare la risposta alle attese più intime del cuore non in Dio, di utilizzare anzi Iddio come se fosse al servizio dei nostri desideri e progetti.

Nella prima lettura vediamo il popolo ebreo che soffre nel deserto per mancanza di acqua, e, preso dallo scoraggiamento, come in altre circostanze, si lamenta e reagisce in modo violento. Arriva a ribellarsi contro Mosè, arriva quasi a ribellarsi contro Dio. Narra l’autore sacro: «Misero alla prova il Signore, dicendo: “Il Signore è in mezzo a noi sì o no”?» (
Ex 17,7). Il popolo esige da Dio che venga incontro alle proprie attese ed esigenze, piuttosto che abbandonarsi fiducioso nelle sue mani, e nella prova perde la fiducia in Lui. Quante volte questo avviene anche nella nostra vita; in quante circostanze, piuttosto che conformarci docilmente alla volontà divina, vorremmo che Iddio realizzasse i nostri disegni ed esaudisse ogni nostra attesa; in quante occasioni la nostra fede si manifesta fragile, la nostra fiducia debole, la nostra religiosità contaminata da elementi magici e meramente terreni. In questo tempo quaresimale, mentre la Chiesa ci invita a percorrere un itinerario di vera conversione, accogliamo con umile docilità l’ammonimento del Salmo responsoriale: «Ascoltate oggi la sua voce: “Non indurite il cuore, come a Meriba, come nel giorno di Massa nel deserto, dove mi tentarono i vostri padri: mi misero alla prova, pur avendo visto le mie opere”» (Ps 94,7-9).

Il simbolismo dell’acqua ritorna con grande eloquenza nella celebre pagina evangelica che narra l’incontro di Gesù con la Samaritana a Sicar, presso il pozzo di Giacobbe. Cogliamo subito un legame tra il pozzo costruito dal grande patriarca di Israele per assicurare l’acqua alla sua famiglia e la storia della salvezza in cui Dio dona all’umanità l’acqua zampillante per la vita eterna. Se c’è una sete fisica dell’acqua indispensabile per vivere su questa terra, vi è nell’uomo anche una sete spirituale che solo Dio può colmare. Questo traspare chiaramente dal dialogo tra Gesù e la donna venuta ad attingere acqua al pozzo di Giacobbe. Tutto inizia dalla domanda di Gesù: “Dammi da bere” (cfr Jn 4,5-7). Sembra a prima vista una semplice richiesta di un po’ d’acqua, in un mezzogiorno assolato. In realtà, con questa domanda rivolta per di più a una donna samaritana - tra ebrei e samaritani non correva buon sangue - Gesù avvia nella sua interlocutrice un cammino interiore che fa emergere in lei il desiderio di qualcosa di più profondo. Sant’Agostino commenta: “Colui che domandava da bere, aveva sete della fede di quella donna” (In Io ev. Tract. XV,11: PL 35,1514). Infatti, a un certo punto, è la donna stessa a chiedere dell’acqua a Gesù (cfr Jn 4,15), manifestando così che in ogni persona c’è un innato bisogno di Dio e della salvezza che solo Lui può colmare. Una sete d’infinito che può essere saziata solamente dall’acqua che Gesù offre, l’acqua viva dello Spirito. Tra poco ascolteremo nel prefazio queste parole: Gesù “chiese alla donna di Samaria l’acqua da bere, per farle il grande dono della fede, e di questa fede ebbe sete così ardente da accendere in lei la fiamma dell’amore di Dio”.

Cari fratelli e sorelle, nel dialogo tra Gesù e la Samaritana vediamo delineato l’itinerario spirituale che ognuno di noi, che ogni comunità cristiana è chiamata a riscoprire e a percorrere costantemente. Proclamata in questo tempo quaresimale, questa pagina evangelica assume un valore particolarmente importante per i catecumeni già prossimi al Battesimo. Questa terza domenica della Quaresima è infatti legata al cosiddetto “primo scrutinio”, che è un rito sacramentale di purificazione e di grazia. La Samaritana diviene così figura del catecumeno illuminato e convertito dalla fede, che aspira all’acqua viva ed è purificato dalla parola e dall’azione del Signore. Ma anche noi, già battezzati, ma sempre in cammino di divenire veri cristiani, troviamo in quest’episodio evangelico uno stimolo a riscoprire l’importanza e il senso della nostra vita cristiana, il vero desiderio di Dio che vive in noi. Gesù vuole portarci, come la Samaritana, a professare la nostra fede in Lui con forza perché possiamo poi annunciare e testimoniare ai nostri fratelli la gioia dell’incontro con Lui e le meraviglie che il suo amore compie nella nostra esistenza. La fede nasce dall’incontro con Gesù, riconosciuto e accolto come il Rivelatore definitivo e il Salvatore. Una volta che il Signore ha conquistato il cuore della Samaritana, la sua esistenza è trasformata e lei corre senza indugio a comunicare la buona notizia alla sua gente (cfr Jn 4,29).

Cari fratelli e sorelle della Parrocchia di Santa Maria Liberatrice! L’invito di Cristo a lasciarci coinvolgere dalla sua esigente proposta evangelica risuona con forza questa mattina per ogni membro della vostra comunità parrocchiale. Diceva sant’Agostino che Dio ha sete della nostra sete di Lui, desidera cioè di essere desiderato. Più l’essere umano si allontana da Dio più Egli lo insegue con il suo amore misericordioso. La liturgia ci stimola quest’oggi, tenendo conto anche del tempo quaresimale che stiamo vivendo, a rivedere il nostro rapporto con Gesù, a cercare il suo volto senza stancarci. E questo è indispensabile perché voi, cari amici, possiate continuare, nel nuovo contesto culturale e sociale, l'opera di evangelizzazione e di educazione umana e cristiana svolta da più di un secolo da questa parrocchia, che annovera nella serie dei suoi parroci anche il Venerabile Luigi Maria Olivares. Aprite sempre più il cuore ad una azione pastorale missionaria, che spinga ogni cristiano ad incontrare le persone - in particolare i giovani e le famiglie - là dove vivono, lavorano, trascorrono il tempo libero, per annunciare loro l'amore misericordioso di Dio. Analoga attenzione e sollecitudine so che state dedicando alla cura delle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata, proponendo ai ragazzi, ai giovani e alle famiglie il tema vocazionale, che è di primaria importanza per il futuro della Chiesa. Vi incoraggio poi a perseverare nell'impegno educativo, che costituisce il carisma tipico di ogni parrocchia salesiana. L'Oratorio, la scuola, i momenti di catechesi e preghiera siano animati da autentici educatori, cioè da testimoni vicini con il loro cuore specialmente ai fanciulli, agli adolescenti e ai giovani. Santa Maria Liberatrice, da voi tanto amata e venerata, che insieme al suo sposo Giuseppe ha educato Gesù bambino ed adolescente, protegga le famiglie, i religiosi e le religiose nel loro compito di formatori e doni loro la gioia, come auspicava Don Bosco, di veder crescere in questo quartiere “buoni cristiani ed onesti cittadini”. Amen!


SANTA MESSA NEL XXV ANNIVERSARIO DEL CENTRO INTERNAZIONALE GIOVANILE SAN LORENZO

Chiesa di San Lorenzo “in piscibus”, Via Pfeiffer, Roma, V Domenica di Quaresima, 9 marzo 2008

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Signori Cardinali,
venerati fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!

È per me una grande gioia poter commemorare insieme con voi, in questa bella chiesa romanica, il 25° anniversario del Centro Internazionale Giovanile San Lorenzo, voluto dall’amato Papa Giovanni Paolo II in prossimità della Basilica di San Pietro e da lui inaugurato il 13 marzo del 1983. La Santa Messa che qui viene celebrata ogni venerdì sera costituisce per molti giovani, venuti da varie parti del mondo per studiare nelle università romane, un importante appuntamento spirituale e una significativa occasione per prendere contatto con Cardinali e Vescovi della Curia Romana, come pure con Vescovi dei cinque continenti di passaggio a Roma per le loro visite ad limina. Sono venuto qui, come avete ricordato, non poche volte anch’io a celebrare l’Eucaristia quando ero Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ed è stata sempre una bella esperienza incontrare ragazzi e ragazze di tante regioni della terra che in questo Centro trovano un importante punto di accoglienza e di riferimento.

Ed è proprio a voi, cari giovani, che rivolgo anzitutto il mio cordiale saluto, ringraziandovi per la calorosa accoglienza che mi avete riservato. Saluto inoltre tutti voi che avete voluto intervenire a questa solenne, e ad un tempo familiare, celebrazione. Saluto in modo speciale i Signori Cardinali e i Presuli presenti. Tra di essi permettete che citi in particolare il Cardinale Paul Josef Cordes, titolare di questa chiesa di San Lorenzo in Piscibus, ed il Cardinale Stanislaw Rylko, Presidente del Pontificio Consiglio per i Laici, che ringrazio per le gentili espressioni di benvenuto rivoltemi all’inizio della Santa Messa, insieme ai due portavoce dei giovani. Saluto Mons. Josef Clemens, Segretario del Pontificio Consiglio, l’équipe di giovani, sacerdoti e seminaristi che animano questo Centro sotto la guida della Sezione Giovani del medesimo Dicastero, e quanti a vario titolo offrono il loro apporto. Mi riferisco alle Associazioni, ai Movimenti e alle Comunità qui rappresentate, con una menzione speciale per la Comunità dell’Emmanuele, che da vent’anni coordina con grande fedeltà le diverse iniziative e che ha creato una Scuola di Missione a Roma, da cui provengono alcuni dei giovani qui presenti. Saluto inoltre i cappellani e i volontari che qui hanno lavorato nei passati venticinque anni al servizio della gioventù. A tutti e ciascuno il mio affettuoso saluto.

Veniamo adesso al Vangelo di questo giorno dedicato ad un tema grande, fondamentale: che cosa è la vita? che cosa è la morte? come vivere? come morire? San Giovanni, per farci meglio capire questo mistero della vita e la risposta di Gesù, usa per questa unica realtà della vita due parole diverse, per indicare le diverse dimensioni di questa realtà “vita”: la parola bíos e la parola zoé. Bíos, come si capisce facilmente, significa questo grande biocosmo, questa biosfera che va dalle singole cellule primitive fino agli organismi più organizzati, più sviluppati; questo grande albero della vita, nel quale tutte le possibilità di questa realtà bíos si sono sviluppate. A questo albero della vita appartiene l’uomo; egli fa parte di questo cosmo della vita che comincia con un miracolo: nella materia inerte si sviluppa un centro vitale; la realtà che noi chiamiamo organismo.

Ma l’uomo, pur essendo parte di questo grande biocosmo, lo trascende perché è parte pure di quella realtà che san Giovanni chiama zoé. E’ un nuovo livello della vita, in cui l’essere si apre alla conoscenza. Certo, l’uomo è sempre uomo con tutta la sua dignità, anche se in stato di coma, anche se allo stadio di embrione, ma se egli vive solo biologicamente, non sono realizzate e sviluppate tutte le potenzialità del suo essere. L’uomo è chiamato ad aprirsi a nuove dimensioni. Egli è un essere che conosce. Certo anche gli animali conoscono, ma solo le cose che sono interessanti per la loro vita biologica. La conoscenza dell’uomo va oltre; egli vuol conoscere tutto, tutta la realtà, la realtà nella sua totalità; vuol sapere che cosa è questo suo essere e che cosa è il mondo. Ha sete di una conoscenza dell’infinito, vuole arrivare alla fonte della vita, vuole bere a questa fonte, trovare la vita stessa.

E abbiamo toccato così una seconda dimensione: l’uomo non è solo un essere che conosce; egli vive anche in relazione di amicizia, di amore. Oltre alla dimensione della conoscenza della verità e dell’essere, esiste, inseparabile da questa, la dimensione della relazione, dell’amore. E qui l’uomo si avvicina maggiormente alla fonte della vita, dalla quale vuol bere per avere la vita in abbondanza, per avere la vita stessa. Potremmo dire che tutta la scienza è un’unica grande lotta per la vita; lo è soprattutto la medicina. In fin dei conti, la medicina è ricerca di contrapporsi alla morte, è ricerca dell’immortalità. Ma possiamo trovare la medicina che ci assicuri l’immortalità? E’ proprio questa la questione del Vangelo di oggi. Proviamo ad immaginare che la medicina arrivi a trovare la ricetta contro la morte, la ricetta dell’immortalità. Anche in quel caso, si tratterebbe pur sempre di una medicina che si collocherebbe entro la biosfera, una medicina certamente utile anche per la nostra vita spirituale e umana, ma di per sé una medicina confinata entro questa biosfera. E’ facile immaginare quel che succederebbe se la vita biologica dell’uomo fosse senza fine, fosse immortale: ci ritroveremmo in un mondo invecchiato, un mondo pieno di vecchi, un mondo che non lascerebbe più spazio ai giovani, al rinnovarsi della vita. Comprendiamo così che questo non può essere quel tipo di immortalità a cui aspiriamo; non è questa la possibilità di bere alla fonte della vita che noi tutti desideriamo.

Proprio a questo punto in cui, da una parte, capiamo di non poter sperare in un prolungamento infinito della vita biologica e tuttavia, dall’altra, desideriamo bere alla fonte stessa della vita per godere di una vita senza fine, proprio a questo punto interviene il Signore e ci parla nel Vangelo dicendo: “Io sono la Risurrezione e la Vita. Chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno”. “Io sono la Risurrezione”: bere alla fonte della vita è entrare in comunione con questo amore infinito che è la fonte della vita. Incontrando Cristo, entriamo in contatto, anzi in comunione, con la vita stessa e abbiamo già attraversato la soglia della morte, perché siamo in contatto, al di là della vita biologica, con la vita vera.

I Padri della Chiesa hanno chiamato l’Eucaristia farmaco dell’immortalità. Ed è così, perché nell’Eucaristia entriamo in contatto, anzi in comunione, con il corpo risorto di Cristo, entriamo nello spazio della vita già risorta, della vita eterna. Entriamo in comunione con questo corpo che è animato dalla vita immortale e siamo così già da ora e per sempre nello spazio della vita stessa. E così questo Vangelo è anche una profonda interpretazione di che cos’è l’Eucaristia e ci invita a vivere realmente dell’Eucaristia per poter essere così trasformati nella comunione dell’amore. Questa è la vera vita. Il Signore nel Vangelo di Giovanni dice: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”. Vita in abbondanza non è, come alcuni pensano, consumare tutto, avere tutto, poter fare tutto ciò che si vuole. In quel caso vivremmo per le cose morte, vivremmo per la morte. Vita in abbondanza è essere in comunione con la vera vita, con l’amore infinito. E’ così che entriamo realmente nell’abbondanza della vita e diveniamo portatori della vita anche per gli altri.

I prigionieri di guerra che erano in Russia per dieci anni e più, esposti al freddo e alla fame, dopo essere ritornati hanno detto: “Potevo sopravvivere perché sapevo di essere aspettato. Sapevo che c’erano persone che mi aspettavano, che ero necessario e atteso”. Questo amore che li aspettava è stata l’efficace medicina della vita contro tutti i mali. In realtà, noi tutti siamo aspettati. Il Signore ci aspetta e non solo ci aspetta; è presente e ci tende la mano. Accettiamo la mano del Signore e preghiamolo di concederci di vivere realmente, di vivere l’abbondanza della vita e di poter così comunicare anche ai nostri contemporanei la vera vita, la vita in abbondanza. Amen



Benedetto XVI Omelie 25018