Benedetto XVI Omelie 32

CELEBRAZIONE EUCARISTICA

Kraków-Blonie, 28 maggio 2006

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"Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?"
(
Ac 1,11).

Fratelli e sorelle, oggi, sulla spianata di Blonie di Cracovia risuona nuovamente questa domanda riferita negli Atti degli Apostoli. Questa volta essa viene rivolta a tutti noi: "Perché state a guardare il cielo?" Nella risposta a questa domanda è racchiusa la verità fondamentale sulla vita e sul destino dell'uomo.

La domanda in questione si riferisce a due atteggiamenti connessi con le due realtà, nelle quali è inscritta la vita dell'uomo: quella terrena e quella celeste. Prima la realtà terrena: "Perché state?" - Perché state sulla terra? Rispondiamo: Stiamo sulla terra, perché il Creatore ci ha posto qui come coronamento all'opera della creazione. L'onnipotente Dio, conformemente al suo ineffabile disegno d'amore, creò il cosmo, lo trasse dal nulla. E dopo aver compiuto quest'opera, chiamò all'esistenza l'uomo, creato a propria immagine e somiglianza (cfr Gn 1,26-27). Gli elargì la dignità di figlio di Dio e l'immortalità. Sappiamo però che l'uomo si smarrì, abusò del dono della libertà e disse "no" a Dio, condannando in questo modo se stesso ad un'esistenza in cui entrarono il male, il peccato, la sofferenza e la morte. Ma sappiamo anche che Dio stesso non si rassegnò a una situazione del genere ed entrò direttamente nella storia dell'uomo e questa divenne storia della salvezza. "Stiamo sulla terra", siamo radicati in essa, da essa cresciamo. Qui operiamo il bene sugli estesi campi dell'esistenza quotidiana, nell'ambito della sfera materiale, ed anche nell'ambito di quella spirituale: nelle reciproche relazioni, nell'edificazione della comunità umana, nella cultura. Qui sperimentiamo la fatica dei viandanti in cammino verso la meta lungo strade intricate, tra esitazioni, tensioni, incertezze, ma anche nella profonda consapevolezza che prima o poi questo cammino giungerà al termine. Ed è allora che nasce la riflessione: Tutto qui? La terra su cui "ci troviamo" è il nostro destino definitivo?

In questo contesto, occorre soffermarsi sulla seconda parte dell'interrogativo riportato nella pagina degli Atti: "Perché state a guardare il cielo?" Leggiamo che quando gli Apostoli tentarono di attirare l'attenzione del Risorto sulla questione della ricostruzione del regno terrestre di Israele, Egli "fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo". Ed essi "stavano fissando il cielo mentre egli se n'andava" (Ac 1,9-10). Stavano dunque fissando il cielo, poiché accompagnavano con lo sguardo Gesù Cristo, crocifisso e risorto, che veniva sollevato in alto. Non sappiamo se si resero conto in quel momento del fatto che proprio dinanzi ad essi si stava schiudendo un orizzonte magnifico, infinito, il punto d'arrivo definitivo del pellegrinaggio terreno dell'uomo. Forse lo capirono soltanto il giorno di Pentecoste, illuminati dallo Spirito Santo. Per noi, tuttavia, quell'evento di duemila anni fa è ben leggibile. Siamo chiamati, rimanendo in terra, a fissare il cielo, ad orientare l'attenzione, il pensiero e il cuore verso l'ineffabile mistero di Dio. Siamo chiamati a guardare nella direzione della realtà divina, verso la quale l'uomo è orientato sin dalla creazione. Là è racchiuso il senso definitivo della nostra vita.

Cari fratelli e sorelle, con profonda commozione celebro oggi l'Eucaristia sulla spianata di Blonie di Cracovia, luogo in cui più volte celebrò il Santo Padre Giovanni Paolo II durante i suoi indimenticabili viaggi apostolici nel Paese natale. Durante la liturgia si incontrava con il popolo di Dio quasi in ogni angolo del mondo, ma non vi sono dubbi, che ogni volta la celebrazione della Santa Messa sulla spianata di Blonie a Cracovia, era per lui un evento eccezionale. Qui tornava con il pensiero e con il cuore alle radici, alle fonti della sua fede e del suo servizio nella Chiesa. Da qui vedeva Cracovia e tutta la Polonia. Durante il primo pellegrinaggio in Polonia, il 10 giugno del 1979, terminando la sua omelia su questa spianata, disse con nostalgia: "Permettete che, prima di lasciarvi, rivolga ancora uno sguardo su Cracovia, questa Cracovia della quale ogni pietra e ogni mattone mi sono cari. E che guardi ancora da qui la Polonia...". Durante l'ultima Santa Messa celebrata in questo luogo il 18 agosto 2002, nell'omelia disse: "Sono riconoscente per l'invito a visitare la mia Cracovia e per l'ospitalità offertami" (n. 2). Voglio accogliere queste parole, farle mie e ripeterle oggi: vi ringrazio di tutto cuore "per l'invito a visitare la mia Cracovia e per l'ospitalità offertami". Cracovia, la città di Karol Wojtyla e di Giovanni Paolo II, è anche la mia Cracovia! È anche una Cracovia cara al cuore di innumerevoli moltitudini di cristiani in tutto il mondo, i quali sanno che Giovanni Paolo II giunse sul colle Vaticano da questa città, dal colle di Wawel, "da un paese lontano", il quale, grazie a questo avvenimento, divenne un paese caro a tutti.

All'inizio del secondo anno del mio pontificato sono venuto in Polonia e a Cracovia per un bisogno del cuore, come pellegrino sulle orme del mio Predecessore. Volevo respirare l'aria della sua Patria. Volevo guardare la terra nella quale nacque e dove crebbe per assumere l'instancabile servizio a Cristo e alla Chiesa universale. Desideravo prima di tutto incontrare gli uomini vivi, i suoi connazionali, sperimentare la vostra fede dalla quale egli trasse la linfa vitale, ed assicurarmi che siete saldi in essa. Qui voglio anche pregare Dio di conservare in voi il retaggio della fede, della speranza e della carità lasciato al mondo, e in modo particolare a voi, da Giovanni Paolo II.

Saluto cordialmente tutte le persone radunate sulla spianata di Blonie di Cracovia fin dove arriva il mio sguardo e ancora oltre. A ciascuno di voi vorrei stringere la mano, guardandolo negli occhi. Abbraccio col cuore tutti coloro che partecipano alla nostra Eucaristia per mezzo della radio e della televisione. Saluto tutta la Polonia! Saluto i bambini e la gioventù, le famiglie e le persone sole, gli ammalati e coloro che soffrono nello spirito e nel corpo, che sono privi della gioia di vivere. Saluto tutti coloro che con il loro lavoro di ogni giorno moltiplicano il bene di questo Paese. Saluto i Polacchi che vivono fuori dei confini della Patria, nel mondo intero. Ringrazio il Cardinale Stanislao Dziwisz, Arcivescovo Metropolita di Cracovia, per le cordiali parole di benvenuto. Saluto il Signor Cardinale Francesco Macharski e tutti i Signori Cardinali, i Vescovi, i sacerdoti, le persone consacrate e i nostri comuni ospiti da numerosi Paesi, specialmente da quelli confinanti. Saluto il Signor Presidente della Repubblica, il Signor Primo Ministro, i rappresentanti delle Autorità dello Stato, di quelle territoriali e locali.

Cari fratelli e sorelle, il motto del mio pellegrinaggio in terra polacca, sulle orme di Giovanni Paolo II, è costituito dalle parole: "Rimanete saldi nella fede!". L'esortazione racchiusa in queste parole è rivolta a tutti noi che formiamo la comunità dei discepoli di Cristo, è rivolta a ciascuno di noi. La fede è un atto umano molto personale, che si realizza in due dimensioni. Credere vuol dire prima di tutto accettare come verità ciò che la nostra mente non comprende fino in fondo. Bisogna accettare ciò che Dio ci rivela su se stesso, su noi stessi e sulla realtà che ci circonda, anche quella invisibile, ineffabile, inimmaginabile. Questo atto di accettazione della verità rivelata, allarga l'orizzonte della nostra conoscenza e ci permette di giungere al mistero in cui è immersa la nostra esistenza. Un consenso a tale limitazione della ragione non si concede facilmente. Ed è proprio qui che la fede si manifesta nella sua seconda dimensione: quella di affidarsi ad una persona - non ad una persona ordinaria, ma a Cristo. È importante ciò in cui crediamo, ma ancor più importante è colui a cui crediamo.

San Paolo ci parla di questo nel passo della Lettera agli Efesini che è stato letto oggi. Dio ci ha dato uno spirito di sapienza e "gli occhi della nostra mente per farci comprendere a quale speranza ci ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e quale è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi credenti secondo l'efficacia della sua forza che egli manifestò in Cristo" (cfr Ep 1,17-20). Credere vuol dire abbandonarsi a Dio, affidare la nostra sorte a Lui. Credere vuol dire stabilire un personalissimo legame con il nostro Creatore e Redentore in virtù dello Spirito Santo, e far sì che questo legame sia il fondamento di tutta la vita.

Oggi abbiamo sentito le parole di Gesù: "Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra" (Ac 1,8). Secoli fa queste parole giunsero anche in terra polacca. Esse costituirono e continuano costantemente a costituire una sfida per tutti coloro che ammettono di appartenere a Cristo, per i quali la sua causa è la più importante. Dobbiamo essere testimoni di Gesù che vive nella Chiesa e nei cuori degli uomini. È Lui ad assegnarci una missione. Il giorno della sua ascensione in cielo disse agli Apostoli: "Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura... Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l'accompagnavano" (Mc 16,15). Cari fratelli e sorelle! Insieme all'elezione di Karol Wojtyla alla Sede di Pietro a servizio di tutta la Chiesa, la vostra terra è divenuta luogo di una particolare testimonianza di fede in Gesù Cristo. Voi stessi siete stati chiamati a rendere questa testimonianza dinanzi al mondo intero. Questa vostra vocazione è sempre attuale, e forse ancora più attuale dal momento della beata morte del Servo di Dio. Non manchi al mondo la vostra testimonianza!

Prima di tornare a Roma, per continuare il mio ministero, esorto tutti voi, ricollegandomi alle parole che Giovanni Paolo II pronunciò qui nell'anno 1979: "Dovete essere forti, carissimi fratelli e sorelle! Dovete essere forti di quella forza che scaturisce dalla fede! Dovete essere forti della forza della fede! Dovete essere fedeli! Oggi più che in qualsiasi altra epoca avete bisogno di questa forza. Dovete essere forti della forza della speranza, che porta la perfetta gioia di vivere e non permette di rattristare lo Spirito Santo! Dovete essere forti dell'amore, che è più forte della morte... Dovete essere forti della forza della fede, della speranza e della carità, consapevole, matura, responsabile, che ci aiuta a stabilire ... il grande dialogo con l'uomo e con il mondo in questa tappa della nostra storia: dialogo con l'uomo e con il mondo, radicato nel dialogo con Dio stesso - col Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo - dialogo della salvezza" (10 giugno 1979, Omelia, n. 4).

Anch'io, Benedetto XVI, Successore di Papa Giovanni Paolo II, vi prego di guardare dalla terra il cielo - di fissare Colui che - da duemila anni - è seguito dalle generazioni che vivono e si succedono su questa nostra terra, ritrovando in Lui il senso definitivo dell'esistenza. Rafforzati dalla fede in Dio, impegnatevi con ardore nel consolidare il suo Regno sulla terra: il Regno del bene, della giustizia, della solidarietà e della misericordia. Vi prego di testimoniare con coraggio il Vangelo dinanzi al mondo di oggi, portando la speranza ai poveri, ai sofferenti, agli abbandonati, ai disperati, a coloro che hanno sete di libertà, di verità e di pace. Facendo del bene al prossimo e mostrandovi solleciti per il bene comune, testimoniate che Dio è amore.

Vi prego, infine, di condividere con gli altri popoli dell'Europa e del mondo il tesoro della fede, anche in considerazione della memoria del vostro Connazionale che, come Successore di San Pietro, questo ha fatto con straordinaria forza ed efficacia. E ricordatevi anche di me nelle vostre preghiere e nei vostri sacrifici, come ricordavate il mio grande Predecessore, affinché io possa compiere la missione affidatami da Cristo. Vi prego, rimanete saldi nella fede! Rimanete saldi nella speranza! Rimanete saldi nella carità! Amen!



CELEBRAZIONE DEI PRIMI VESPRI NELLA VIGILIA DI PENTECOSTE

INCONTRO CON I MOVIMENTI ECCLESIALI E LE NUOVE COMUNITÀ

Piazza San Pietro, Sabato, 3 giugno 2006

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Cari fratelli e sorelle!

Siete venuti veramente numerosi questa sera in Piazza san Pietro per partecipare alla Veglia di Pentecoste. Vi ringrazio di cuore. Appartenenti a diversi popoli e culture, voi qui rappresentate tutti i membri dei Movimenti ecclesiali e delle nuove Comunità, spiritualmente raccolti attorno al Successore di Pietro, per proclamare la gioia di credere in Gesù Cristo, e rinnovare l'impegno di essergli fedeli discepoli in questo nostro tempo. Vi ringrazio per la vostra partecipazione e a ciascuno di voi rivolgo il mio cordiale saluto. Il mio pensiero affettuoso va, in primo luogo, ai Signori Cardinali, ai venerati Fratelli nell'episcopato e nel sacerdozio, ai religiosi e alle religiose. Saluto i responsabili delle vostre numerose realtà ecclesiali che mostrano quanto viva sia l'azione dello Spirito Santo nel Popolo di Dio. Saluto chi ha preparato questo evento straordinario, e in particolare quanti lavorano nel Pontificio Consiglio per i Laici con il Segretario, Mons. Josef Clemens, e il Presidente, Mons. Stanislaw Rylko, al quale sono grato anche per le cordiali espressioni che mi ha rivolto all'inizio della Liturgia dei Vespri. Riaffiora con commozione alla nostra memoria l'analogo incontro che ebbe luogo in questa stessa Piazza, il 30 maggio del 1998, con l'amato Papa Giovanni Paolo II. Grande evangelizzatore della nostra epoca, egli vi ha accompagnato e guidato durante l'intero suo Pontificato; più volte egli ha definito "provvidenziali" le vostre associazioni e comunità soprattutto perché lo Spirito santificatore si serve di esse per risvegliare la fede nei cuori di tanti cristiani e far loro riscoprire la vocazione ricevuta con il Battesimo, aiutandoli ad essere testimoni di speranza, ripieni di quel fuoco di amore che è dono appunto dello Spirito Santo.

Ora, in questa Veglia di Pentecoste, noi ci chiediamo: Chi o che cosa è lo Spirito Santo? Come possiamo riconoscerlo? In che modo noi andiamo a Lui ed Egli viene a noi? Che cosa opera? Una prima risposta ce la dà il grande inno pentecostale della Chiesa, col quale abbiamo iniziato i Vespri: "Veni, Creator Spiritus… – Vieni, Spirito Creatore…". L'inno accenna qui ai primi versetti della Bibbia che esprimono con il ricorso ad immagini la creazione dell'universo. Là si dice innanzitutto che sopra il caos, sulle acque dell'abisso, aleggiava lo Spirito di Dio. Il mondo in cui viviamo è opera dello Spirito Creatore. La Pentecoste non è solo l'origine della Chiesa e perciò, in modo speciale, la sua festa; la Pentecoste è anche una festa della creazione. Il mondo non esiste da sé; proviene dallo Spirito creativo di Dio, dalla Parola creativa di Dio. E per questo rispecchia anche la sapienza di Dio. Essa, nella sua ampiezza e nella logica onnicomprensiva delle sue leggi lascia intravedere qualcosa dello Spirito Creatore di Dio. Essa ci chiama al timore riverenziale. Proprio chi, come cristiano, crede nello Spirito Creatore, prende coscienza del fatto che non possiamo usare ed abusare del mondo e della materia come di semplice materiale del nostro fare e volere; che dobbiamo considerare la creazione come un dono affidatoci non per la distruzione, ma perché diventi il giardino di Dio e così un giardino dell'uomo. Di fronte alle molteplici forme di abuso della terra che oggi vediamo, udiamo quasi il gemito della creazione di cui parla san Paolo (
Rm 8,22); cominciamo a comprendere le parole dell'Apostolo, che cioè la creazione attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio, per essere resa libera e raggiungere il suo splendore. Cari amici, noi vogliamo essere tali figli di Dio che la creazione attende, e possiamo esserlo, perché nel battesimo il Signore ci ha resi tali. Sì, la creazione e la storia – esse ci attendono, aspettano uomini e donne che realmente siano figli di Dio e si comportino di conseguenza. Se guardiamo la storia, vediamo come intorno ai monasteri la creazione ha potuto prosperare, come con il ridestarsi dello Spirito di Dio nei cuori degli uomini è tornato il fulgore dello Spirito Creatore anche sulla terra – uno splendore che dalla barbarie dell'umana smania di potere era stato oscurato e a volte addirittura quasi spento. E di nuovo, intorno a Francesco di Assisi avviene la stessa cosa – avviene dovunque lo Spirito di Dio arriva nelle anime, questo Spirito che il nostro inno qualifica come luce, amore e vigore. Abbiamo così trovato una prima risposta alla domanda che cosa sia lo Spirito Santo, che cosa operi e come possiamo riconoscerlo. Egli ci viene incontro attraverso la creazione e la sua bellezza. Tuttavia, la creazione buona di Dio, nel corso della storia degli uomini, è stata ricoperta con uno strato massiccio di sporcizia che rende, se non impossibile, comunque difficile riconoscere in essa il riflesso del Creatore – anche se di fronte a un tramonto al mare, durante un'escursione in montagna o davanti ad un fiore sbocciato si risveglia in noi sempre di nuovo, quasi spontaneamente, la consapevolezza dell'esistenza del Creatore.

Ma lo Spirito Creatore ci viene in aiuto. Egli è entrato nella storia e così ci parla in modo nuovo. In Gesù Cristo Dio stesso si è fatto uomo e ci ha concesso, per così dire, di gettare uno sguardo nell'intimità di Dio stesso. E lì vediamo una cosa del tutto inaspettata: in Dio esiste un Io e un Tu. Il Dio misterioso non è un'infinita solitudine, Egli è un evento di amore. Se dallo sguardo sulla creazione pensiamo di poter intravedere lo Spirito Creatore, Dio stesso, quasi come matematica creativa, come potere che plasma le leggi del mondo e il loro ordine e poi, però, anche come bellezza – adesso veniamo a sapere: lo Spirito Creatore ha un cuore. Egli è Amore. Esiste il Figlio che parla col Padre. Ed ambedue sono una cosa sola nello Spirito che è, per così dire, l'atmosfera del donare e dell'amare che fa di loro un unico Dio. Questa unità di amore, che è Dio, è un'unità molto più sublime di quanto potrebbe essere l'unità di un'ultima particella indivisibile. Proprio il Dio trino è il solo unico Dio.

Per mezzo di Gesù gettiamo, per così dire, uno sguardo nell'intimità di Dio. Giovanni, nel suo Vangelo, lo ha espresso così: "Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato" (Jn 1,18). Ma Gesù non ci ha soltanto lasciato guardare nell'intimità di Dio; con Lui Dio è anche come uscito dalla sua intimità e ci è venuto incontro. Questo avviene innanzitutto nella sua vita, passione, morte e risurrezione; nella sua parola. Ma Gesù non si accontenta di venirci incontro. Egli vuole di più. Vuole unificazione. È questo il significato delle immagini del banchetto e delle nozze. Noi non dobbiamo soltanto sapere qualcosa di Lui, ma mediante Lui stesso dobbiamo essere attratti in Dio. Per questo Egli deve morire e risuscitare. Perché ora non si trova più in un determinato luogo, ma ormai il suo Spirito, lo Spirito Santo, emana da Lui ed entra nei nostri cuori congiungendoci così con Gesù stesso e con il Padre – con il Dio Uno e Trino.

La Pentecoste è questo: Gesù, e mediante Lui Dio stesso, viene a noi e ci attira dentro di sé. "Egli manda lo Spirito Santo" – così si esprime la Scrittura. Quale ne è l'effetto? Vorrei innanzitutto rilevare due aspetti: lo Spirito Santo, attraverso il quale Dio viene a noi, ci porta vita e libertà. Guardiamo ambedue le cose un po' più da vicino. "Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza", dice Gesù nel Vangelo di Giovanni (Jn 10,10). Vita e libertà – sono le cose a cui tutti noi aneliamo. Ma che cosa è questo – dove e come troviamo la "vita"? Io penso che, spontaneamente, la stragrande maggioranza degli uomini ha lo stesso concetto di vita del figliol prodigo nel Vangelo. Egli si era fatto liquidare la sua parte di patrimonio, e ora si sentiva libero, voleva finalmente vivere senza più il peso dei doveri di casa, voleva soltanto vivere. Avere dalla vita tutto ciò che essa può offrire. Godersela pienamente – vivere, solo vivere, abbeverarsi all'abbondanza della vita e non perdere nulla di ciò che di prezioso essa può offrire. Alla fine si ritrovò custode di porci, addirittura invidiando quegli animali – così vuota era diventata questa sua vita, così vana. E vana si rivelava anche la sua libertà. Non avviene forse anche oggi così? Quando della vita ci si vuole soltanto impadronire, essa si rende sempre più vuota, più povera; facilmente si finisce per rifugiarsi nella droga, nella grande illusione. Ed emerge il dubbio se vivere, in fin dei conti, sia veramente un bene. No, in questo modo noi non troviamo la vita. La parola di Gesù sulla vita in abbondanza si trova nel discorso del buon Pastore. È una parola che si pone in un doppio contesto. Sul pastore, Gesù ci dice che egli dà la sua vita. "Nessuno mi toglie la vita, ma la offro da me stesso" (cfr Jn 10,18). La vita la si trova soltanto donandola; non la si trova volendo impossessarsene. È questo che dobbiamo imparare da Cristo; e questo ci insegna lo Spirito Santo, che è puro dono, che è il donarsi di Dio. Più uno dà la sua vita per gli altri, per il bene stesso, più abbondantemente scorre il fiume della vita. In secondo luogo, il Signore ci dice che la vita sboccia nell'andare insieme col Pastore che conosce il pascolo – i luoghi dove scaturiscono le fonti della vita. La vita la troviamo nella comunione con Colui che è la vita in persona – nella comunione con il Dio vivente, una comunione nella quale ci introduce lo Spirito Santo, chiamato nell'inno dei Vespri "fons vivus", fonte vivente. Il pascolo, dove scorrono le fonti della vita, è la Parola di Dio come la troviamo nella Scrittura, nella fede della Chiesa. Il pascolo è Dio stesso che, nella comunione della fede, impariamo a conoscere mediante la potenza dello Spirito Santo. Cari amici, i Movimenti sono nati proprio dalla sete della vita vera; sono Movimenti per la vita sotto ogni aspetto. Dove non scorre più la vera fonte della vita, dove soltanto ci si appropria della vita invece di donarla, là è poi in pericolo anche la vita degli altri; là si è disposti a escludere la vita inerme non ancora nata, perché sembra togliere spazio alla propria vita. Se vogliamo proteggere la vita, allora dobbiamo soprattutto ritrovare la fonte della vita; allora la vita stessa deve riemergere in tutta la sua bellezza e sublimità; allora dobbiamo lasciarci vivificare dallo Spirito Santo, la fonte creativa della vita.

Il tema della libertà è già stato accennato poco fa. Nella partenza del figliol prodigo si collegano appunto i temi della vita e della libertà. Egli vuole la vita, e per questo vuol essere totalmente libero. Essere libero significa, in questa visione, poter fare tutto quello che si vuole; non dover accettare alcun criterio al di fuori e al di sopra di me stesso. Seguire soltanto il mio desiderio e la mia volontà. Chi vive così, ben presto si scontrerà con l'altro che vuole vivere nella stessa maniera. La conseguenza necessaria di questo concetto egoistico di libertà è la violenza, la distruzione vicendevole della libertà e della vita. La Sacra Scrittura invece collega il concetto di libertà con quello di figliolanza, dice san Paolo: "E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: «Abbà, Padre!»" (Rm 8,15). Che cosa significa ciò? San Paolo vi presuppone il sistema sociale del mondo antico, nel quale esistevano gli schiavi, ai quali non apparteneva nulla e che perciò non potevano essere interessati ad un retto svolgimento delle cose. Corrispettivamente c'erano i figli i quali erano anche gli eredi e che per questo si preoccupavano della conservazione e della buona amministrazione della loro proprietà o della conservazione dello Stato. Poiché erano liberi, avevano anche una responsabilità. Prescindendo dal sottofondo sociologico di quel tempo, vale sempre il principio: libertà e responsabilità vanno insieme. La vera libertà si dimostra nella responsabilità, in un modo di agire che assume su di sé la corresponsabilità per il mondo, per se stessi e per gli altri. Libero è il figlio, cui appartiene la cosa e che perciò non permette che sia distrutta. Tutte le responsabilità mondane, delle quali abbiamo parlato, sono però responsabilità parziali, per un ambito determinato, uno Stato determinato, ecc. Lo Spirito Santo invece ci rende figli e figlie di Dio. Egli ci coinvolge nella stessa responsabilità di Dio per il suo mondo, per l'umanità intera. Ci insegna a guardare il mondo, l'altro e noi stessi con gli occhi di Dio. Noi facciamo il bene non come schiavi che non sono liberi di fare diversamente, ma lo facciamo perché portiamo personalmente la responsabilità per il mondo; perché amiamo la verità e il bene, perché amiamo Dio stesso e quindi anche le sue creature. È questa la libertà vera, alla quale lo Spirito Santo vuole condurci. I Movimenti ecclesiali vogliono e devono essere scuole di libertà, di questa libertà vera. Lì vogliamo imparare questa vera libertà, non quella da schiavi che mira a tagliare per se stessa una fetta della torta di tutti, anche se poi questa manca all'altro. Noi desideriamo la libertà vera e grande, quella degli eredi, la libertà dei figli di Dio. In questo mondo, così pieno di libertà fittizie che distruggono l'ambiente e l'uomo, vogliamo, con la forza dello Spirito Santo, imparare insieme la libertà vera; costruire scuole di libertà; dimostrare agli altri con la vita che siamo liberi e quanto è bello essere veramente liberi nella vera libertà dei figli di Dio.

Lo Spirito Santo, dando vita e libertà, dona anche unità. Sono tre doni, questi, inseparabili tra di loro. Ho già parlato troppo a lungo; permettetemi però di dire ancora una breve parola sull'unità. Per comprenderla può esserci utile una frase che, in un primo momento, sembra piuttosto allontanarci da essa. A Nicodemo che, nella sua ricerca della verità, viene di notte con le sue domande da Gesù, Egli dice: "Lo Spirito soffia dove vuole" (Jn 3,8). Ma la volontà dello Spirito non è arbitrio. È la volontà della verità e del bene. Perciò non soffia da qualunque parte, girando una volta di qua e una volta di là; il suo soffio non ci disperde ma ci raduna, perché la verità unisce e l'amore unisce. Lo Spirito Santo è lo Spirito di Gesù Cristo, lo Spirito che unisce il Padre col Figlio nell'Amore che nell'unico Dio dona ed accoglie. Egli ci unisce talmente che san Paolo poteva dire una volta: "Voi siete uno in Cristo Gesù" (Ga 3,28). Lo Spirito Santo, col suo soffio, ci spinge verso Cristo. Lo Spirito Santo opera corporalmente; non opera soltanto soggettivamente, "spiritualmente". Ai discepoli che lo ritenevano solo uno "spirito", il Cristo risorto disse: "Sono proprio io! Toccatemi e guardate; un semplice spirito – un fantasma – non ha carne e ossa come vedete che io ho" (cfr Lc 24,39). Questo vale per il Cristo risorto in ogni epoca della storia. Il Cristo risorto non è un fantasma, non è semplicemente uno spirito, un pensiero, un'idea soltanto. Egli è rimasto l'Incarnato – è risorto Colui che ha assunto la nostra carne – e continua sempre ad edificare il suo Corpo, fa di noi il suo Corpo. Lo Spirito soffia dove vuole, e la sua volontà è l'unità fatta corpo, l'unità che incontra il mondo e lo trasforma.

Nella Lettera agli Efesini san Paolo ci dice che questo Corpo di Cristo, che è la Chiesa, ha delle giunture (cfr Ep 4,16), e le nomina anche: sono apostoli, profeti, evangelisti, pastori e maestri (cfr Ep 4,12). Lo Spirito nei suoi doni è multiforme – lo vediamo qui. Se guardiamo la storia, se guardiamo questa assemblea qui in Piazza san Pietro – allora ci accorgiamo come Egli susciti sempre nuovi doni; vediamo quanto diversi siano gli organi che Egli crea, e come, sempre di nuovo, Egli operi corporalmente. Ma in Lui molteplicità e unità vanno insieme. Egli soffia dove vuole. Lo fa in modo inaspettato, in luoghi inaspettati e in forme prima non immaginate. E con quale multiformità e corporeità lo fa! Ed è anche proprio qui che la multiformità e l'unità sono inseparabili tra di loro. Egli vuole la vostra multiformità, e vi vuole per l'unico corpo, nell'unione con gli ordini durevoli – le giunture – della Chiesa, con i successori degli apostoli e con il successore di san Pietro. Non ci toglie la fatica di imparare il modo di rapportarci vicendevolmente; ma ci dimostra anche che Egli opera in vista dell'unico corpo e nell'unità dell'unico corpo. È proprio solo così che l'unità ottiene la sua forza e la sua bellezza. Prendete parte all'edificazione dell'unico corpo! I pastori staranno attenti a non spegnere lo Spirito (cfr 1Th 5,19) e voi non cesserete di portare i vostri doni alla comunità intera. Ancora una volta: lo Spirito Santo soffia dove vuole. Ma la sua volontà è l'unità. Egli ci conduce verso Cristo; nel suo Corpo. "Dal Cristo – ci dice san Paolo – tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l'energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità“ (Ep 4,16).

Lo Spirito Santo vuole l'unità, vuole la totalità. Perciò la sua presenza si dimostra finalmente anche nello slancio missionario. Chi ha incontrato qualcosa di vero, di bello e di buono nella propria vita – l'unico vero tesoro, la perla preziosa! -, corre a condividerlo ovunque, in famiglia e nel lavoro, in tutti gli ambiti della propria esistenza. Lo fa senza alcun timore, perché sa di aver ricevuto l’adozione a figlio; senza nessuna presunzione, perché tutto è dono; senza scoraggiamento, perché lo Spirito di Dio precede la sua azione nel “cuore” degli uomini e come seme nelle più diverse culture e religioni. Lo fa senza confini, perché è portatore di una buona notizia che è per tutti gli uomini, per tutti i popoli. Cari amici, vi chiedo di essere, ancora di più, molto di più, collaboratori nel ministero apostolico universale del Papa, aprendo le porte a Cristo. Questo è il miglior servizio della Chiesa agli uomini e in modo tutto particolare ai poveri, affinché la vita della persona, un ordine più giusto nella società e la convivenza pacifica tra le nazioni trovino in Cristo la “pietra angolare” su cui costruire l'autentica civiltà, la civiltà dell'amore. Lo Spirito Santo dà ai credenti una visione superiore del mondo, della vita, della storia e li fa custodi della speranza che non delude.

Preghiamo dunque Dio Padre, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, nella grazia dello Spirito Santo, affinché la celebrazione della solennità di Pentecoste sia come fuoco ardente e vento impetuoso per la vita cristiana e per la missione di tutta la Chiesa. Depongo le intenzioni dei vostri Movimenti e Comunità nel cuore della Santissima Vergine Maria, presente nel Cenacolo insieme agli Apostoli; sia Lei ad impetrarne la concreta attuazione. Su tutti voi invoco l'effusione dei doni dello Spirito, perché anche in questo nostro tempo possa aversi l'esperienza di una rinnovata Pentecoste. Amen!



SOLENNITÀ DI PENTECOSTE 2006

Sagrato della Basilica Vaticana, Domenica, 4 giugno 2006

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Cari fratelli e sorelle!

Il giorno di Pentecoste lo Spirito Santo scese con potenza sugli Apostoli; ebbe così inizio la missione della Chiesa nel mondo. Gesù stesso aveva preparato gli Undici a questa missione apparendo loro più volte dopo la sua risurrezione (cfr
Ac 1,3). Prima dell’ascensione al Cielo, ordinò di "non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre" (cfr Ac 1,4-5); chiese cioè che restassero insieme per prepararsi a ricevere il dono dello Spirito Santo. Ed essi si riunirono in preghiera con Maria nel Cenacolo nell’attesa dell’evento promesso (cfr Ac 1,14).

Restare insieme fu la condizione posta da Gesù per accogliere il dono dello Spirito Santo; presupposto della loro concordia fu una prolungata preghiera. Troviamo in tal modo delineata una formidabile lezione per ogni comunità cristiana. Si pensa talora che l’efficacia missionaria dipenda principalmente da un’attenta programmazione e dalla successiva intelligente messa in opera mediante un impegno concreto. Certo, il Signore chiede la nostra collaborazione, ma prima di qualsiasi nostra risposta è necessaria la sua iniziativa: è il suo Spirito il vero protagonista della Chiesa. Le radici del nostro essere e del nostro agire stanno nel silenzio sapiente e provvido di Dio.

Le immagini che usa san Luca per indicare l’irrompere dello Spirito Santo - il vento e il fuoco - ricordano il Sinai, dove Dio si era rivelato al popolo di Israele e gli aveva concesso la sua alleanza (cfr Ex 19,3 ss). La festa del Sinai, che Israele celebrava cinquanta giorni dopo la Pasqua, era la festa del Patto. Parlando di lingue di fuoco (cfr Ac 2,3), san Luca vuole rappresentare la Pentecoste come un nuovo Sinai, come la festa del nuovo Patto, in cui l’Alleanza con Israele è estesa a tutti i popoli della Terra. La Chiesa è cattolica e missionaria fin dal suo nascere. L’universalità della salvezza viene significativamente evidenziata dall’elenco delle numerose etnie a cui appartengono coloro che ascoltano il primo annuncio degli Apostoli (cfr Ac 2,9-11).

Il Popolo di Dio, che aveva trovato al Sinai la sua prima configurazione, viene quest’oggi ampliato fino a non conoscere più alcuna frontiera né di razza, né di cultura, né di spazio né di tempo. A differenza di quanto era avvenuto con la torre di Babele (cfr Gn 11,1-9), quando gli uomini, intenzionati a costruire con le loro mani una via verso il cielo, avevano finito per distruggere la loro stessa capacità di comprendersi reciprocamente, nella Pentecoste lo Spirito, con il dono delle lingue, mostra che la sua presenza unisce e trasforma la confusione in comunione.L’orgoglio e l’egoismo dell’uomo creano sempre divisioni, innalzano muri d’indifferenza, di odio e di violenza. Lo Spirito Santo, al contrario, rende i cuori capaci di comprendere le lingue di tutti, perché ristabilisce il ponte dell’autentica comunicazione fra la Terra e il Cielo. Lo Spirito Santo è l’Amore.

Ma come entrare nel mistero dello Spirito Santo, come comprendere il segreto dell’Amore? La pagina evangelica ci conduce oggi nel Cenacolo dove, terminata l’ultima Cena, un senso di smarrimento rende tristi gli Apostoli. La ragione è che le parole di Gesù suscitano interrogativi inquietanti: Egli parla dell’odio del mondo verso di Lui e verso i suoi, parla di una sua misteriosa dipartita e ci sono molte altre cose ancora da dire, ma per il momento gli Apostoli non sono in grado di portarne il peso (cfr Jn 16,12). Per confortarli spiega il significato del suo distacco: se ne andrà, ma tornerà; nel frattempo non li abbandonerà, non li lascerà orfani. Manderà il Consolatore, lo Spirito del Padre, e sarà lo Spirito a far conoscere che l’opera di Cristo è opera di amore: amore di Lui che si è offerto, amore del Padre che lo ha dato.

Questo è il mistero della Pentecoste: lo Spirito Santo illumina lo spirito umano e, rivelando Cristo crocifisso e risorto, indica la via per diventare più simili a Lui, essere cioè "espressione e strumento dell’amore che da Lui promana" (). Raccolta con Maria, come al suo nascere, la Chiesa quest’oggi prega: "Veni Sancte Spiritus! - Vieni, Spirito Santo, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore!". Amen.



Benedetto XVI Omelie 32