Benedetto XVI Omelie 37

VIAGGIO APOSTOLICO A MÜNCHEN, ALTÖTTING E REGENSBURG (9-14 SETTEMBRE 2006)


Spianata della Neue Messe, München, Domenica, 10 settembre 2006

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Cari fratelli e sorelle!

Innanzitutto vorrei ancora una volta salutarvi tutti con affetto: sono lieto, e già l'ho detto, di potermi trovare di nuovo tra voi e celebrare insieme con voi la Santa Messa. Sono lieto di poter ancora una volta visitare i luoghi a me familiari, che hanno avuto un influsso determinante sulla mia vita, formando il mio pensiero e i miei sentimenti: i luoghi nei quali ho imparato a credere ed a vivere. È un'occasione per ringraziare tutti coloro – viventi e morti – che mi hanno guidato e mi hanno accompagnato. Ringrazio Dio per questa bella Patria e per le persone che me l'hanno resa Patria.

Abbiamo appena ascoltato le tre letture bibliche che la liturgia della Chiesa ha scelto per questa domenica. Tutte e tre sviluppano un duplice tema, che in fondo rimane un unico tema, accentuandone – a seconda delle circostanze – l'uno o l'altro aspetto. Tutte e tre le letture parlano di Dio come centro della realtà e come centro della nostra vita personale. "Ecco il vostro Dio!" grida il profeta Isaia nella prima lettura (
Is 35,4). La Lettera di Giacomo e il brano evangelico dicono a loro modo la stessa cosa. Vogliono guidarci verso Dio, portandoci così sulla retta via della vita. Con il tema "Dio", però, è connesso il tema sociale: la nostra responsabilità reciproca, la nostra responsabilità per la supremazia della giustizia e dell'amore nel mondo. Questo viene espresso in modo drammatico nella seconda lettura, in cui Giacomo, un parente stretto di Gesù, ci parla. Egli si rivolge ad una comunità, nella quale si comincia ad essere superbi, perché in essa si trovano anche persone benestanti e distinte, mentre c'è il pericolo che la preoccupazione per il diritto dei poveri venga meno. Giacomo, nelle sue parole, lascia intuire l'immagine di Gesù, di quel Dio che si fece uomo e, pur essendo di origine davidica, cioè regale, diventò un uomo semplice tra uomini semplici, non si sedette su un trono, ma alla fine morì nella povertà estrema della Croce. L'amore del prossimo, che in primo luogo è sollecitudine per la giustizia, è la pietra di paragone per la fede e per l'amore di Dio. Giacomo lo chiama "legge regale" (cfr Jc 2,8) lasciando intravedere la parola preferita di Gesù: la regalità di Dio, il dominio di Dio. Questo non indica un regno qualsiasi che arriverà una volta o l'altra, ma significa che Dio deve adesso diventare la forza determinante per la nostra vita e il nostro agire. È questo che domandiamo, quando preghiamo: "Venga il tuo Regno". Non chiediamo una qualche cosa lontana, che noi stessi in fondo non desideriamo neanche di sperimentare. Preghiamo invece perché la volontà di Dio determini ora la nostra volontà e così Dio regni nel mondo; preghiamo dunque perché la giustizia e l'amore diventino forze decisive nell'ordine del mondo. Una tale preghiera si rivolge naturalmente in primo luogo a Dio, ma scuote anche il nostro stesso cuore. In fondo, lo vogliamo davvero? Stiamo orientando la nostra vita in quella direzione? Giacomo chiama la "legge regale", la legge della regalità di Dio, anche "legge della libertà": se tutti pensano e vivono secondo Dio, allora diventiamo tutti uguali, diventiamo liberi e così nasce la vera fraternità. Isaia, nella prima lettura, parlando di Dio – "Ecco il vostro Dio!" – parla al tempo stesso della salvezza per i sofferenti, e Giacomo, parlando dell'ordine sociale come espressione irrinunciabile della nostra fede, parla logicamente anche di Dio, di cui siamo figli.

Ma ora dobbiamo rivolgere la nostra attenzione al Vangelo che racconta la guarigione di un sordo-muto da parte di Gesù. Anche lì incontriamo di nuovo i due aspetti dell'unico tema. Gesù si dedica ai sofferenti, a coloro che sono spinti ai margini della società. Li guarisce e, aprendo loro così la possibilità di vivere e di decidere insieme, li introduce nell'uguaglianza e nella fraternità. Questo riguarda ovviamente tutti noi: Gesù indica a tutti noi la direzione del nostro agire, il come dobbiamo agire. Tutta la vicenda presenta, però, ancora un’altra dimensione, che i Padri della Chiesa hanno messo in luce con insistenza e che concerne in modo speciale anche noi oggi. I Padri parlano degli uomini e per gli uomini del loro tempo. Ma quello che dicono riguarda in modo nuovo anche noi uomini moderni. Non esiste soltanto la sordità fisica, che taglia l'uomo in gran parte fuori della vita sociale. Esiste una debolezza d'udito nei confronti di Dio di cui soffriamo specialmente in questo nostro tempo. Noi, semplicemente, non riusciamo più a sentirlo – sono troppe le frequenze diverse che occupano i nostri orecchi. Quello che si dice di Lui ci sembra pre-scientifico, non più adatto al nostro tempo. Con la debolezza d'udito o addirittura la sordità nei confronti di Dio si perde naturalmente anche la nostra capacità di parlare con Lui o a Lui. In questo modo, però, viene a mancarci una percezione decisiva. I nostri sensi interiori corrono il pericolo di spegnersi. Con il venir meno di questa percezione viene circoscritto poi in modo drastico e pericoloso il raggio del nostro rapporto con la realtà in genere. L'orizzonte della nostra vita si riduce in modo preoccupante.

Il Vangelo ci racconta che Gesù pose le dita negli orecchi del sordomuto, mise un po' della sua saliva sulla lingua del malato e disse: "Effatà" – "Apriti!" L'evangelista ha conservato per noi l'originale parola aramaica che Gesù allora pronunciò, trasferendoci così direttamente in quel momento. Quello che lì viene raccontato è una cosa unica, e tuttavia non appartiene ad un passato lontano: la stessa cosa Gesù la realizza in modo nuovo e ripetutamente anche oggi. Nel nostro Battesimo Egli ha compiuto su di noi questo gesto del toccare e (.) ha detto: "Effatà" – Apriti!", per renderci capaci di sentire Dio e per ridonarci così anche la possibilità di parlare a Lui. Ma questo evento, il Sacramento del Battesimo, non possiede niente di magico. Il Battesimo dischiude un cammino. Ci introduce nella comunità di coloro che sono capaci di ascoltare e di parlare; ci introduce nella comunione con Gesù stesso che, unico, ha visto Dio e quindi ha potuto parlare di Lui (cfr Jn 1,18): mediante la fede, Gesù vuole condividere con noi il suo vedere Dio, il suo ascoltare il Padre e parlare con Lui. Il cammino dell'essere battezzati deve diventare un processo di sviluppo progressivo, nel quale noi cresciamo nella vita di comunione con Dio, raggiungendo così anche uno sguardo diverso sull'uomo e sulla creazione.

Il Vangelo ci invita a renderci conto che in noi esiste un deficit riguardo alla nostra capacità di percezione – una carenza che inizialmente non avvertiamo come tale, perché appunto tutto il resto si raccomanda per la sua urgenza e ragionevolezza; perché apparentemente tutto procede in modo normale, anche se non abbiamo più orecchi ed occhi per Dio e viviamo senza di Lui. Ma è vero che tutto procede semplicemente, quando Dio viene a mancare nella nostra vita e nel nostro mondo? Prima di porre ulteriori domande vorrei raccontare un po' delle mie esperienze negli incontri con i Vescovi di tutto il mondo. La Chiesa cattolica in Germania è grandiosa nelle sue attività sociali, nella disponibilità ad aiutare ovunque ciò si riveli necessario. Sempre di nuovo, durante le loro visite "ad limina", i Vescovi, ultimamente quelli dell'Africa, mi raccontano con gratitudine della generosità dei cattolici tedeschi e mi incaricano di rendermi interprete di questa loro gratitudine – è quanto ora vorrei fare una volta pubblicamente. Anche i Vescovi dei Paesi Baltici, venuti prima delle vacanze, mi hanno parlato di come i cattolici tedeschi li hanno aiutati in modo grandioso nella ricostruzione delle loro chiese gravemente fatiscenti a causa dei decenni di dominio comunista. Ogni tanto, però, qualche Vescovo africano mi dice: "Se presento in Germania progetti sociali, trovo subito le porte aperte. Ma se vengo con un progetto di evangelizzazione, incontro piuttosto riserve“. Ovviamente esiste in alcuni l'idea che i progetti sociali siano da promuovere con massima urgenza, mentre le cose che riguardano Dio o addirittura la fede cattolica siano cose piuttosto particolari e meno prioritarie. Tuttavia l'esperienza di quei Vescovi è proprio che l'evangelizzazione deve avere la precedenza, che il Dio di Gesù Cristo deve essere conosciuto, creduto ed amato, deve convertire i cuori, affinché anche le cose sociali possano progredire, affinché s'avvii la riconciliazione, affinché – per esempio – l'AIDS possa essere combattuto affrontando veramente le sue cause profonde e curando i malati con la dovuta attenzione e con amore. Il fatto sociale e il Vangelo sono semplicemente inscindibili tra loro. Dove portiamo agli uomini soltanto conoscenze, abilità, capacità tecniche e strumenti, là portiamo troppo poco. Allora sopravvengono ben presto i meccanismi della violenza, e la capacità di distruggere e di uccidere diventa prevalente, diventa la capacità per raggiungere il potere – un potere che una volta o l'altra dovrebbe portare il diritto, ma che non ne sarà mai capace. In questo modo ci si allontana sempre di più dalla riconciliazione, dall'impegno comune per la giustizia e l'amore. I criteri, secondo i quali la tecnica entra a servizio del diritto e dell'amore, allora si smarriscono; ma è proprio da questi criteri, che tutto dipende: criteri che non sono soltanto teorie, ma che illuminano il cuore portando così la ragione e l'agire sulla retta via.

Le popolazioni dell'Africa e dell'Asia ammirano, sì, le prestazioni tecniche dell’Occidente e la nostra scienza, ma si spaventano di fronte ad un tipo di ragione che esclude totalmente Dio dalla visione dell'uomo, ritenendo questa la forma più sublime della ragione, da insegnare anche alle loro culture. La vera minaccia per la loro identità non la vedono nella fede cristiana, ma invece nel disprezzo di Dio e nel cinismo che considera il dileggio del sacro un diritto della libertà ed eleva l'utilità a supremo criterio per i futuri successi della ricerca. Cari amici, questo cinismo non è il tipo di tolleranza e di apertura culturale che i popoli aspettano e che tutti noi desideriamo! La tolleranza di cui abbiamo urgente bisogno comprende il timor di Dio – il rispetto di ciò che per l’altro è cosa sacra. Ma questo rispetto per ciò che gli altri ritengono sacro presuppone che noi stessi impariamo nuovamente il timor di Dio. Questo senso di rispetto può essere rigenerato nel mondo occidentale soltanto se cresce di nuovo la fede in Dio, se Dio sarà di nuovo presente per noi ed in noi.

La nostra fede non la imponiamo a nessuno. Un simile genere di proselitismo è contrario al cristianesimo. La fede può svilupparsi soltanto nella libertà. Ma è la libertà degli uomini alla quale facciamo appello di aprirsi a Dio, di cercarlo, di prestargli ascolto. Noi qui riuniti chiediamo al Signore con tutto il cuore di pronunciare nuovamente il suo "Effatà!", di guarire la nostra debolezza d'udito per Dio, per il suo operare e per la sua parola, e di renderci capaci di vedere e di ascoltare. Gli chiediamo di aiutarci a ritrovare la parola della preghiera, alla quale ci invita nella liturgia e la cui formula essenziale ci ha insegnato nel Padre nostro.

Il mondo ha bisogno di Dio. Noi abbiamo bisogno di Dio. Di quale Dio abbiamo bisogno? Nella prima lettura, il profeta si rivolge a un popolo oppresso dicendo: “La vendetta di Dio verrà” (vgl Is 35,4). Noi possiamo facilmente intuire come la gente si immaginava tale vendetta. Ma il profeta stesso rivela poi in che cosa essa consiste: nella bontà risanatrice di Dio. E la spiegazione definitiva della parola del profeta, la troviamo in Colui che è morto per noi sulla Croce: in Gesù, il Figlio di Dio incarnato che qui ci guarda così insistentemente. La sua “vendetta” è la Croce: il “No” alla violenza, “l’amore fino alla fine”. È questo il Dio di cui abbiamo bisogno. Non veniamo meno al rispetto di altre religioni e culture, non veniamo meno al profondo rispetto per la loro fede, se confessiamo ad alta voce e senza mezzi termini quel Dio che alla violenza ha opposto la sua sofferenza; che di fronte al male e al suo potere innalza, come limite e superamento, la sua misericordia. A Lui rivolgiamo la nostra supplica, perché Egli sia in mezzo a noi e ci aiuti ad essergli testimoni credibili. Amen!



CELEBRAZIONE DEI VESPRI

Cattedrale di München, Domenica, 10 settembre 2006

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Cari bambini di Prima Comunione!
Cari genitori ed educatori!
Cari fratelli e sorelle!

La lettura che abbiamo appena ascoltato è un brano dell'ultimo libro degli scritti neotestamentari, la cosiddetta Apocalisse. Al veggente viene concesso uno sguardo verso l'alto, nel cielo, e in avanti, verso il futuro. Ma proprio così egli parla anche della terra e del presente, della nostra vita. Infatti durante la nostra vita siamo tutti in cammino, progredendo verso il futuro. E vogliamo trovare la strada giusta: scoprire la vita vera, non finire in un vicolo cieco o nel deserto. Non vogliamo dover dire alla fine: ho preso la strada sbagliata, la mia vita è fallita, è andata male. Noi vogliamo gioire della vita; vogliamo, come ha detto una volta Gesù, "avere la vita in abbondanza".

Ma ascoltiamo ora il veggente dell'Apocalisse. Che cosa ci ha detto in questo brano che poco fa ci è stato letto? Egli parla di un mondo riconciliato. Di un mondo nel quale uomini "di ogni nazione, razza, popolo e lingua" (
Ap 7,9) sono riuniti nella gioia. Allora ci domandiamo: "Come può avvenire una tal cosa? Qual è la strada che vi porta?" Bene, la prima cosa, la più importante è: queste persone vivono con Dio; Egli ha steso "la sua tenda sopra di loro" (Ap 7,15), dice la nostra Lettura. E ci domandiamo ancora: "Che cosa è questa «tenda di Dio»? Dove si trova? Come possiamo arrivarci?" Il veggente allude forse al primo capitolo del Vangelo di Giovanni, dove si legge: "E il Verbo si fece carne e pose la tenda fra noi" (Jn 1,14). Dio non è lontano da noi, in qualche luogo molto distante dell'universo, dove nessuno può arrivare. Egli ha posto la sua tenda fra noi: in Gesù è divenuto uno di noi, con carne e sangue come noi. È questa la sua tenda. E nell'Ascensione non è andato in qualche luogo lontano da noi. La sua tenda, Egli stesso con il suo Corpo, rimane tra noi come uno di noi. Possiamo dargli del Tu e parlare con Lui. Egli ci ascolta, e se siamo attenti, sentiamo anche che Egli risponde.

Ripeto: in Gesù è Dio che si "attenda" tra noi. Ma ripeto anche: Dov'è che ciò precisamente avviene? Alla domanda la nostra Lettura dà due risposte. Essa dice degli uomini riconciliati che "hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello" (Ap 7,14). Questo suona molto strano per noi. Nel linguaggio cifrato del veggente, ciò costituisce un accenno al Battesimo. La parola circa il "sangue dell'Agnello" allude all'amore di Gesù che Egli ha conservato fino alla morte cruenta. Questo amore divino e insieme umano è il lavacro nel quale Egli ci immerge nel Battesimo – il lavacro col quale ci lava, rendendoci così puliti da essere adatti a Dio, da poter vivere in compagnia con Lui. L'atto del Battesimo, però, è solo un inizio. Nel camminare con Gesù, nella fede e nella vita con Lui, il suo amore ci tocca per purificarci e renderci luminosi. Abbiamo sentito che nel bagno dell’amore le vesti sono divenute candide. Secondo l'idea del mondo antico, il bianco era il colore della luce. Le bianche vesti significano che nella fede diventiamo luce, deponiamo le tenebre, la menzogna, la finzione, il male in genere, diventiamo persone chiare, adeguate per Dio. L'abito battesimale come quello della Prima Comunione che indossate vogliono ricordarcelo e dirci: mediante la convivenza con Gesù e con la comunità dei credenti, con la Chiesa, diventa tu stesso una persona luminosa, una persona di verità e di bontà – una persona dalla quale traspare lo splendore del bene, della bontà di Dio stesso.

La seconda risposta alla domanda “dove troviamo Gesù” il veggente ce la dà nuovamente nel suo linguaggio cifrato. Egli dice che l’Agnello guida la moltitudine di persone di ogni cultura e nazione alle fonti d’acqua viva. Senza acqua non c’è vita. Lo sapevano bene persone, la cui patria confinava col deserto. Così l’acqua sorgiva è diventata per loro il simbolo per eccellenza della vita. L’Agnello, cioè Gesù, guida gli uomini alle fonti della vita. Fa parte di queste fonti la Sacra Scrittura, in cui Dio ci parla e ci dice come vivere in modo giusto. Ma a queste fonti appartiene anche di più: in verità, l'autentica fonte è Gesù stesso, nel quale Dio si dona a noi. E questo lo fa soprattutto nella santa Comunione, nella quale possiamo, per così dire, bere direttamente alla fonte della vita: Egli viene a noi e si unisce a ciascuno di noi. Possiamo costatarlo: mediante l’Eucaristia, il Sacramento della Comunione, si forma una comunità che oltrepassa tutti i confini e abbraccia tutte le lingue – lo vediamo qui: sono presenti Vescovi di tutte le lingue e da tutte le parti del mondo – mediante la comunione si forma la Chiesa universale, nella quale Dio parla e vive con noi. È in questo modo che dobbiamo ricevere la santa Comunione: come incontro con Gesù, con Dio stesso, che ci guida alle fonti della vita vera.

Cari genitori! Vorrei invitarvi vivamente ad aiutare i vostri bambini a credere, invitarvi ad accompagnarli nel loro cammino verso la Prima Comunione, un cammino che poi continua anche dopo, ad accompagnarli nel loro cammino verso Gesù e con Gesù. Vi prego, andate insieme con i vostri bambini in chiesa per partecipare alla Celebrazione eucaristica della domenica! Voi vedrete che questo non è tempo perso; è invece ciò che tiene la famiglia veramente unita, dandole il suo centro. La domenica diventa più bella, tutta la settimana diventa più bella, se insieme partecipate alla Liturgia domenicale. E, per favore, pregate anche a casa insieme: a tavola e prima di andare a dormire. La preghiera ci porta non solo verso Dio, ma anche l’uno verso l’altro. È una forza di pace e di gioia. La vita nella famiglia diventa più festosa e acquista un più ampio respiro, se Dio vi è presente e si sperimenta questa sua vicinanza nella preghiera.

Cari insegnanti di religione e cari educatori! Vi prego di cuore di tener presente nella scuola la ricerca di Dio, di quel Dio che in Gesù Cristo si è reso a noi visibile. So che nel nostro mondo pluralista è difficile avviare nella scuola il discorso sulla fede. Ma non è affatto sufficiente, che i bambini e i giovani acquistino nella scuola soltanto delle conoscenze e delle abilità tecniche, e non i criteri che alle conoscenze e alle abilità danno un orientamento e un senso. Stimolate gli alunni a porre domande non soltanto su questo e su quello – cosa buona anche questa –, ma a chiedere soprattutto sul “da dove” e sul “verso dove” della nostra vita. Aiutateli a rendersi conto che tutte le risposte che non giungono fino a Dio sono troppo corte.

Cari Pastori d’anime e tutti voi che svolgete attività di aiuto nella parrocchia! A voi chiedo di fare tutto il possibile per rendere la parrocchia una patria interiore per la gente – una grande famiglia, in cui sperimentiamo al contempo la famiglia ancora più grande della Chiesa universale, imparando mediante la liturgia, la catechesi e mediante tutte le manifestazioni della vita parrocchiale a camminare insieme sulla via della vita vera.

Tutti e tre i luoghi della formazione – famiglia, scuola e parrocchia – vanno insieme e ci aiutano a trovare la strada verso le fonti della vita e, cari bambini, cari genitori, cari educatori, noi tutti in verità desideriamo “la vita in abbondanza”! Amen.



SANTA MESSA

Piazza del Santuario di Altötting, Lunedì, 11 settembre 2006

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Cari confratelli nel ministero episcopale e sacerdotale!
Cari fratelli e sorelle!

Nella prima lettura, nel responsorio e nel brano evangelico di questo giorno incontriamo tre volte, in modo sempre diverso, Maria, la Madre del Signore, come persona che prega. Nel Libro degli Atti la troviamo in mezzo alla comunità degli Apostoli che si sono riuniti nel Cenacolo e invocano il Signore asceso al Padre, affinché adempia la sua promessa: "Sarete battezzati in Spirito Santo fra non molti giorni" (
Ac 1,5). Maria guida la Chiesa nascente nella preghiera; è quasi la Chiesa orante in persona. E così, insieme con la grande comunità dei santi e come loro centro, sta ancora oggi davanti a Dio ed intercede per noi, chiedendo al suo Figlio di mandare nuovamente il suo Spirito nella Chiesa e nel mondo e di rinnovare la faccia della terra.

Noi abbiamo risposto a questa lettura cantando insieme con Maria la grande lode intonata da lei, quando Elisabetta la chiamò beata a motivo della sua fede. È questa una preghiera di ringraziamento, di gioia in Dio, di benedizione per le sue grandi opere. Il tenore di questo canto emerge subito nella prima parola: "L'anima mia magnifica – cioè rende grande – il Signore". Rendere Dio grande vuol dire dargli spazio nel mondo, nella propria vita, lasciarlo entrare nel nostro tempo e nel nostro agire: è questa l'essenza più profonda della vera preghiera. Dove Dio diventa grande, l'uomo non diventa piccolo: lì diventa grande anche l'uomo e luminoso il mondo.

Nel brano evangelico, infine, Maria rivolge al suo Figlio una richiesta in favore degli amici che si trovano in difficoltà. A prima vista, questo può apparire un colloquio del tutto umano tra Madre e Figlio e, infatti, è anche un dialogo pieno di profonda umanità. Tuttavia Maria si rivolge a Gesù non semplicemente come a un uomo, sulla cui fantasia e disponibilità a soccorrere sta contando. Lei affida una necessità umana al suo potere – a un potere che va al di là della bravura e della capacità umana. E così, nel dialogo con Gesù, la vediamo realmente come Madre che chiede, che intercede. Vale la pena di andare un po' più a fondo nell'ascolto di questo brano evangelico: per capire meglio Gesù e Maria, ma proprio anche per imparare da Maria a pregare nel modo giusto. Maria non rivolge una vera richiesta a Gesù. Gli dice soltanto: "Non hanno più vino" (Jn 2,3). Le nozze in Terra Santa si festeggiavano per una settimana intera; era coinvolto tutto il paese, e si consumavano quindi grandi quantità di vino. Ora gli sposi si trovano in difficoltà, e Maria semplicemente lo dice a Gesù. Non chiede una cosa precisa, e ancor meno che Gesù eserciti il suo potere, compia un miracolo, produca del vino. Semplicemente affida la cosa a Gesù e lascia a Lui la decisione su come reagire. Vediamo così nelle semplici parole della Madre di Gesù due cose: da una parte, la sua sollecitudine affettuosa per gli uomini, l'attenzione materna con cui avverte l'altrui situazione difficile; vediamo la sua bontà cordiale e la sua disponibilità ad aiutare. È questa la Madre, verso la quale la gente da generazioni si mette in pellegrinaggio qui ad Altötting. A lei affidiamo le nostre preoccupazioni, le necessità e le situazioni penose. La bontà pronta ad aiutare della Madre, alla quale ci affidiamo, è qui nella Sacra Scrittura, che la vediamo per la prima volta. Ma a questo primo aspetto molto familiare a tutti noi se ne unisce ancora un altro, che facilmente ci sfugge: Maria rimette tutto al giudizio del Signore. A Nazaret ha consegnato la sua volontà immergendola in quella di Dio: "Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto" (Lc 1,38). Questo è il suo permanente atteggiamento di fondo. E così ci insegna a pregare: non voler affermare di fronte a Dio la nostra volontà e i nostri desideri, per quanto importanti, per quanto ragionevoli possano apparirci, ma portarli davanti a Lui e lasciare a Lui di decidere ciò che intende fare. Da Maria impariamo la bontà pronta ad aiutare, ma anche l'umiltà e la generosità di accettare la volontà di Dio, dandogli fiducia nella convinzione che la sua risposta, qualunque essa sia, sarà il nostro, il mio vero bene.

Possiamo capire, credo, molto bene l'atteggiamento e le parole di Maria; ci resta però tanto più difficile comprendere la risposta di Gesù. Già l'appellativo non ci piace: "Donna" – perché non dice: madre? In realtà, questo titolo esprime la posizione di Maria nella storia della salvezza. Esso rimanda al futuro, all'ora della crocifissione, in cui Gesù le dirà: "Donna, ecco il tuo figlio – figlio, ecco la tua madre!" (cfr Jn 19,26-27). Indica quindi in anticipo l'ora in cui Egli renderà la donna, sua madre, madre di tutti i suoi discepoli. D’altra parte, il titolo evoca il racconto della creazione di Eva: Adamo, in mezzo alla creazione con tutta la sua ricchezza, come essere umano si sente solo. Allora viene creata Eva, e in lei egli trova la compagna che aspettava e che chiama con il titolo di "donna". Così, nel Vangelo di Giovanni, Maria rappresenta la nuova, la definitiva donna, la compagna del Redentore, la Madre nostra: l'appellativo apparentemente poco affettuoso esprime invece la grandezza della sua perenne missione.

Ma ancora meno ci piace ciò che Gesù a Cana dice poi a Maria: “Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora” (Jn 2,4). Noi vorremmo obiettare: Molto hai da fare con lei! È stata lei a darti carne e sangue, il tuo corpo. E non soltanto il tuo corpo: con il “sì” proveniente dal profondo del suo cuore ti ha portato in grembo e con amore materno ti ha introdotto nella vita e ambientato nella comunità del popolo d’Israele. Ma se così parliamo con Gesù, siamo già sulla buona strada per comprendere la sua risposta. Poiché tutto ciò deve richiamare alla nostra memoria che in occasione dell’incarnazione di Gesù esistono due dialoghi che vanno insieme e si fondono l’uno con l’altro, diventano un’unica cosa. C’è innanzitutto il dialogo che Maria ha con l’Arcangelo Gabriele, e nel quale ella dice: “Avvenga di me quello che hai detto” (Lc 1,38). Ma esiste un testo parallelo a questo, un dialogo, per così dire, all’interno di Dio, di cui ci riferisce la Lettera agli Ebrei, quando dice che le parole del Salmo 40 sono diventate come un dialogo tra Padre e Figlio – un dialogo nel quale s'avvia l’incarnazione. L’eterno Figlio dice al Padre: “Tu non hai voluto né sacrifici né offerte, un corpo invece mi hai preparato… Ecco, io vengo … per fare (.) la tua volontà” (He 10,5-7 cfr Ps 40,6-8). Il “si” del Figlio: “Vengo per fare la tua volontà”, e il “sì” di Maria: “Avvenga di me quello che hai detto” – questo duplice “sì” diventa un unico “sì”, e così il Verbo diventa carne in Maria. In questo duplice “sì” l’obbedienza del Figlio si fa corpo, Maria, con il suo “sì” gli dona il corpo. “Che ho da fare con te, o donna?” Quello che nel più profondo hanno da fare l’uno con l’altra, è questo duplice “sì”, nella cui coincidenza è avvenuta l’incarnazione. È a questo punto della loro profondissima unità che il Signore mira con la sua risposta. Proprio lì rimanda la Madre. Lì, in questo comune “sì” alla volontà del Padre, si trova la soluzione. Dobbiamo anche noi imparare sempre nuovamente ad incamminarci verso questo punto; lì emerge la risposta alle nostre domande.

Partendo da lì comprendiamo ora anche la seconda frase della risposta di Gesù: “Non è ancora giunta la mia ora”. Gesù non agisce mai solamente da sé; mai per piacere agli altri. Egli agisce sempre partendo dal Padre, ed è proprio questo che lo unisce a Maria, perché là, in questa unità di volontà col Padre, ha voluto deporre anche lei la sua richiesta. Per questo, dopo la risposta di Gesù, che sembra respingere la domanda, lei sorprendentemente può dire ai servi con semplicità: “Fate quello che vi dirà!” (Jn 2,5). Gesù non fa un prodigio, non gioca col suo potere in una vicenda in fondo del tutto privata. No, Egli pone in essere un segno, col quale annuncia la sua ora, l’ora delle nozze, l’ora dell’unione tra Dio e l’uomo. Egli non “produce” semplicemente vino, ma trasforma le nozze umane in un’immagine delle nozze divine, alle quali il Padre invita mediante il Figlio e nelle quali Egli dona la pienezza del bene, rappresentata nell’abbondanza del vino. Le nozze diventano immagine di quel momento, in cui Gesù spinge l’amore fino all’estremo, lascia lacerare il suo corpo e così si dona a noi per sempre, diventa un tutt'uno con noi – nozze tra Dio e l’uomo. L’ora della Croce, l’ora dalla quale scaturisce il Sacramento, in cui Egli si dà realmente a noi in carne e sangue, pone il suo Corpo nelle nostre mani e nel nostro cuore, è questa l’ora delle nozze. Così, in modo veramente divino, viene risolta anche la necessità del momento e la domanda iniziale largamente oltrepassata. L’ora di Gesù non è ancora arrivata, ma nel segno della trasformazione dell'acqua in vino, nel segno del dono festivo, anticipa la sua ora già in questo momento.

La sua “ora” è la Croce; la sua ora definitiva sarà il suo ritorno alla fine dei tempi. Continuamente Egli anticipa anche proprio questa ora definitiva nell’Eucaristia, nella quale viene sempre già ora. E sempre di nuovo lo fa per intercessione della sua Madre, per intercessione della Chiesa, che lo invoca nelle preghiere eucaristiche: "Vieni, Signore Gesù!" Nel Canone la Chiesa implora sempre di nuovo questa anticipazione dell’"ora", chiede che venga già adesso e si doni a noi. Così vogliamo lasciarci guidare da Maria, dalla Madre delle grazie di Altötting, dalla Madre di tutti i fedeli, verso l’"ora" di Gesù. Chiediamo a Lui il dono di riconoscerlo e di comprenderlo sempre di più. E non lasciamo che il ricevere sia ridotto solo al momento della Comunione. Egli rimane presente nell’Ostia santa e ci aspetta continuamente. L’adorazione del Signore nell'Eucaristia ha trovato a Altötting nella vecchia camera del tesoro un luogo nuovo. Maria e Gesù vanno insieme. Mediante lei vogliamo restare in dialogo col Signore, imparando così a riceverlo meglio. Santa Madre di Dio, prega per noi, come a Cana hai pregato per gli sposi! Guidaci verso Gesù – sempre di nuovo! Amen!


VESPRI MARIANI CON I RELIGIOSI E I SEMINARISTI DELLA BAVIERA

Basilica di Sant’Anna, Altötting, Lunedì, 11 settembre 2006

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Cari amici!

In questo luogo di grazia, Altötting, ci siamo riuniti – seminaristi in cammino verso il sacerdozio, sacerdoti, religiose e religiosi e membri dell’Opera Pontificia per le Vocazioni di speciale consacrazione – riuniti nella Basilica di Sant’Anna, di fronte al santuario della sua figlia, la Madre del Signore. Ci siamo riuniti per interrogarci sulla nostra vocazione al servizio di Gesù Cristo e per comprendere questa nostra vocazione sotto gli occhi di Sant’Anna, nella cui casa è maturata la vocazione più grande della storia della salvezza. Maria ricevette la sua vocazione dalla bocca dell’Angelo. Nella nostra camera l’Angelo non entra in modo visibile, ma con ciascuno di noi il Signore ha un suo progetto, ciascuno viene da Lui chiamato per nome. Il nostro compito è quindi di diventare persone in ascolto, capaci di percepire la sua chiamata, coraggiose e fedeli, per seguirlo e, alla fine, essere trovati servi affidabili che hanno operato bene col dono loro assegnato.

Sappiamo che il Signore cerca operai per la sua messe. L’ha detto Egli stesso: “La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!” (
Mt 9,37 s). Perciò ci siamo qui riuniti: per lanciare questa richiesta al padrone della messe. Sì, la messe di Dio è grande ed aspetta degli operai: nel cosiddetto Terzo Mondo – in America Latina, in Africa, in Asia – la gente aspetta araldi che portino il Vangelo della pace, il messaggio del Dio fatto uomo. Ma anche nel cosiddetto Occidente, da noi in Germania, come pure nelle vastità della Russia è vero che la messe potrebbe essere molta. Mancano, però, gli uomini che siano disposti a farsi operai nella messe di Dio. È oggi come allora, quando il Signore fu preso da compassione per le folle che gli parevano come pecore senza pastore – persone che probabilmente sapevano molte cose, ma non erano in grado di vedere come orientare bene la loro vita. Signore, guarda la tribolazione di questa nostra ora che abbisogna di messaggeri del Vangelo, di testimoni per Te, di persone che indichino la via verso la "vita in abbondanza"! Vedi il mondo e lasciati prendere anche adesso dalla compassione! Guarda il mondo e manda operai! Con questa domanda bussiamo alla porta di Dio; ma con questa domanda bussa poi il Signore anche al nostro stesso cuore. Signore, mi vuoi Tu? Non è forse troppo grande per me? Non sono forse io troppo piccolo per questo? “Non temere”, ha detto l’Angelo a Maria. “Non temere, ti ho chiamato per nome”, dice mediante il profeta Isaia (Is 43,1) a noi – a ciascuno di noi.

Dove andiamo, se diciamo “sì” alla chiamata del Signore? La descrizione più concisa della missione sacerdotale – che vale analogamente anche per religiose e religiosi – ci è data dall’evangelista Marco che, nel racconto della chiamata dei Dodici dice: “Ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli” (Mc 3,14). Stare con Lui e, come inviati, essere in cammino verso la gente – queste due cose vanno insieme e, insieme, costituiscono l’essenza della vocazione spirituale, del sacerdozio. Stare con Lui ed essere mandati – due cose inscindibili tra loro. Solo chi sta “con Lui” impara a conoscerlo e può annunciarlo veramente. E chi sta con Lui, non trattiene per sé ciò che ha trovato, ma deve comunicarlo. Avviene come ad Andrea che disse al suo fratello Simone: “Abbiamo trovato il Messia!” (Jn 1,41). “E lo condusse da Gesù”, aggiunge l’evangelista (Jn 1,42). Il Papa Gregorio Magno, in una sua omelia, disse una volta che gli angeli di Dio, a qualunque distanza vadano con le loro missioni, si muovono sempre in Dio. Sono sempre con Lui. E parlando degli angeli, san Gregorio pensò anche ai vescovi e ai sacerdoti: ovunque vadano, dovrebbero sempre “stare con Lui”. La prassi lo afferma: dove i sacerdoti, a causa dei grandi compiti, permettono che lo stare col Signore si riduca sempre di più, lì perdono infine, nonostante la loro attività forse eroica, la forza interiore che li sostiene. Quello che fanno diventa alla fine un vuoto attivismo. Stare con Lui – come si può realizzare? Bene, la prima cosa e la più importante per il sacerdote è la Messa quotidiana, celebrata sempre con profonda partecipazione interiore. Se la celebriamo veramente da persone oranti, se uniamo la nostra parola e il nostro agire alla parola che ci precede e al rito della celebrazione eucaristica, se nella comunione ci lasciamo veramente abbracciare da Lui e Lo accogliamo – allora stiamo con Lui.

Un modo fondamentale dello stare con Lui è la Liturgia delle Ore: in essa preghiamo da uomini bisognosi del dialogo con Dio, coinvolgendo però anche tutti gli altri che non hanno il tempo e la possibilità per una tale preghiera. Perché la nostra Celebrazione eucaristica e la Liturgia delle Ore rimangano colme di significato, dobbiamo dedicarci sempre di nuovo alla lettura spirituale della Sacra Scrittura; non soltanto decifrare e spiegare parole del passato, ma cercare la parola di conforto che il Signore rivolge attualmente a me, il Signore che oggi mi interpella per mezzo di questa parola. Solo così saremo in grado di portare la Parola sacra agli uomini di questo nostro tempo come Parola presente e vivente di Dio.

Un modo essenziale dello stare col Signore è l’Adorazione eucaristica. Altötting, grazie al Vescovo Schraml, ha ottenuto una nuova “camera del tesoro”. Laddove una volta si custodivano i tesori del passato, oggetti preziosi della storia e della pietà, si trova adesso il luogo per il vero tesoro della Chiesa: la presenza permanente del Signore nel suo Sacramento. Il Signore, in una delle sue parabole, ci racconta del tesoro nascosto nel campo. Chi l’ha trovato, così dice a noi, vende tutti i suoi averi per poter comprare il campo, perché il tesoro nascosto supera ogni altro valore. Il tesoro nascosto, il bene sopra ogni altro bene, è il Regno di Dio – è Gesù stesso, il Regno in persona. Nell’Ostia sacra Egli è presente, il vero tesoro, sempre per noi raggiungibile. Solo nell’adorazione di questa sua presenza impariamo a riceverlo in modo giusto – impariamo il comunicarci, impariamo dall'interno la celebrazione dell’Eucaristia. Vorrei citare in questo contesto una bella parola di Edith Stein, la santa Compatrona d’Europa, che scrive in una sua lettera: “Il Signore è presente nel tabernacolo con divinità e umanità. Egli è lì, non per sé stesso, ma per noi: perché è la sua gioia stare con gli uomini. E perché sa che noi, così come siamo, abbiamo bisogno della sua vicinanza personale. La conseguenza per quanti pensano e sentono normalmente è quella di sentirsi attratti e di soffermarsi lì ogniqualvolta e finché è loro concesso” (Gesammelte Werke VII, 136f). Amiamo lo stare col Signore! Là possiamo parlare con Lui di tutto. Possiamo esporgli le nostre domande, le nostre preoccupazioni, le nostre angosce. Le nostre gioie. La nostra gratitudine, le nostre delusioni, le nostre richieste e le nostre speranze. Là possiamo anche ripetergli sempre di nuovo: “Signore, manda operai nella tua messe! Aiutami ad essere un buon lavoratore nella tua vigna!”

Qui, in questa Basilica, il nostro pensiero va a Maria, che ha vissuto la sua vita totalmente nello “stare con Gesù” e che perciò era, ed è tuttora, anche totalmente a disposizione degli uomini: le tavolette votive lo dimostrano in modo concreto. E pensiamo alla sua santa madre Anna, e con lei all’importanza delle madri e dei padri, delle nonne e dei nonni, pensiamo all’importanza della famiglia come ambiente di vita e di preghiera, dove si impara a pregare e dove possono maturare le vocazioni.

Qui, a Altötting, pensiamo naturalmente in modo particolare al buon frate Konrad. Egli ha rinunciato ad una grande eredità, perché voleva seguire Gesù Cristo senza riserve ed essere totalmente con Lui. Come il Signore propone nella parabola, egli ha scelto per sé veramente l’ultimo posto, quello dell’umile frate portinaio. Nella sua portineria ha realizzato proprio ciò che san Marco ci dice degli Apostoli: lo “stare con Lui” e l’ “essere mandato” verso gli uomini. Dalla sua cella poteva sempre guardare verso il tabernacolo, sempre “stare con Lui”. Da questo sguardo ha imparato la bontà inesauribile, con cui trattava la gente che quasi ininterrottamente suonava alla sua porta – a volte anche in modo piuttosto cattivo per provocarlo, a volte con impazienza e schiamazzi. A tutti loro egli, mediante la sua bontà e umanità, ha donato senza grandi parole un messaggio che valeva più di semplici parole. Preghiamo il frate san Konrad perché ci aiuti a tenere lo sguardo fisso sul Signore e che in questo modo ci aiuti a portare l’amore di Dio agli uomini. Amen!



Benedetto XVI Omelie 37