Benedetto XVI Omelie 41

SANTA MESSA

Spianata dell’Islinger Feld, Regensburg, Martedì, 12 settembre 2006

12906

Cari fratelli nel ministero episcopale e sacerdotale!
Cari fratelli e sorelle!

"Chi crede non è mai solo". Permettetemi di riprendere ancora una volta il motto di questi giorni e di esprimere la mia gioia perché qui possiamo vederlo realizzato: la fede ci riunisce e ci dona una festa. Ci dona la gioia in Dio, la gioia per la creazione e per lo stare insieme. Io so che in precedenza questa festa ha richiesto molta fatica e molto lavoro. Attraverso i resoconti dei giornali ho potuto un po' rendermi conto di quante persone hanno impegnato il loro tempo e le loro forze per preparare questa spianata in modo così degno; grazie a loro c’è la Croce qui sulla collina come segno di Dio per la pace nel mondo; le vie di accesso e di partenza sono libere; la sicurezza e l'ordine sono garantite; sono stati approntati alloggi ecc. Non potevo immaginare – e anche adesso lo so solo sommariamente – quanto lavoro fin nei minimi particolari sia stato necessario perché potessimo ora trovarci tutti insieme in questo modo. Per tutto ciò non posso che dire semplicemente "Grazie di cuore!". Il Signore Vi ricompensi per tutto, e la gioia che noi ora possiamo sperimentare grazie alla vostra preparazione, ritorni centuplicata a ciascuno di voi! Mi sono commosso, quando ho sentito quante persone, in particolare delle scuole professionali di Weiden ed Amberg, come anche ditte e singole persone, uomini e donne, hanno collaborato per abbellire anche la mia piccola casa e il mio giardino. Un po' confuso di fronte a tanta bontà, posso anche in questo caso dire soltanto un umile "Grazie!" per un tale impegno. Non avete fatto tutto ciò per un singolo uomo, per la mia povera persona; in definitiva, l'avete fatto nella solidarietà della fede, lasciandovi guidare dall'amore per Cristo e per la Chiesa. Tutto questo è un segno di vera umanità, che nasce dall'essere toccati da Gesù Cristo.

Ci siamo riuniti per una festa della fede. Ora, però, emerge la domanda: Ma che cosa crediamo in realtà? Che cosa significa: credere? Può una tale cosa di fatto ancora esistere nel mondo moderno? Vedendo le grandi "Somme" di teologia redatte nel Medioevo o pensando alla quantità di libri scritti ogni giorno in favore o contro la fede, si è tentati di scoraggiarsi e di pensare che questo è tutto troppo complicato. Alla fine, vedendo i singoli alberi, non si vede più il bosco. Ed è vero: la visione della fede comprende cielo e terra; il passato, il presente, il futuro, l'eternità – e perciò non è mai esauribile. E tuttavia, nel suo nucleo è molto semplice. Il Signore stesso, infatti, ne ha parlato col Padre dicendo: "Hai voluto rivelarlo ai semplici – a coloro che sono capaci di vedere col cuore" (cfr
Mt 11,25). La Chiesa, da parte sua, ci offre una piccolissima "Somma", nella quale tutto l'essenziale è espresso: è il cosiddetto "Credo degli Apostoli". Esso viene di solito suddiviso in dodici articoli – secondo il numero dei dodoci Apostoli – e parla di Dio, Creatore e Principio di tutte le cose, di Cristo e la sua opera della salvezza, fino alla risurrezione dei morti e alla vita eterna. Ma nella sua concezione di fondo, il Credo è composto solo di tre parti principali, e secondo la sua storia non è nient'altro che un'amplificazione della formula battesimale, che lo stesso Signore risorto consegnò ai discepoli per tutti i tempi quando disse loro: "Andate e ammaestrate tutte le nazioni battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo" (Mt 28,19).

In questa visione si dimostrano due cose: la fede è semplice. Crediamo in Dio – in Dio, principio e fine della vita umana. In quel Dio che entra in relazione con noi esseri umani, che è la nostra origine e il nostro futuro. Così la fede, contemporaneamente, è sempre anche speranza, è la certezza che noi abbiamo un futuro e non cadremo nel vuoto. E la fede è amore, perché l'amore di Dio vuole "contagiarci". Questa è la prima cosa: noi semplicemente crediamo in Dio, e questo porta con sé anche la speranza e l'amore.

Come seconda cosa possiamo costatare: il Credo non è un insieme di sentenze, non è una teoria. È, appunto, ancorato all'evento del Battesimo – ad un evento d'incontro tra Dio e l'uomo. Dio, nel mistero del Battesimo, si china sull'uomo; ci viene incontro e in questo modo ci avvicina gli uni agli altri. Perché il Battesimo significa che Gesù Cristo, per così dire, ci adotta come suoi fratelli e sorelle, accogliendoci con ciò come figli nella famiglia di Dio. In questo modo fa quindi di tutti noi una grande famiglia nella comunità universale della Chiesa. Sì, chi crede non è mai solo. Dio ci viene incontro. Incamminiamoci anche noi verso Dio, allora ci avviciniamo gli uni agli altri! Non lasciamo solo, per quanto sta nelle nostre forze, nessuno dei figli di Dio!

Noi crediamo in Dio. Questa è la nostra decisione di fondo. Ma ora di nuovo la domanda: questo è possibile ancora oggi? È una cosa ragionevole? Fin dall'illuminismo, almeno una parte della scienza s'impegna con solerzia a cercare una spiegazione del mondo, in cui Dio diventi superfluo. E così Egli dovrebbe diventare inutile anche per la nostra vita. Ma ogniqualvolta poteva sembrare che ci si fosse quasi riusciti – sempre di nuovo appariva evidente: i conti non tornano! I conti sull'uomo, senza Dio, non tornano, e i conti sul mondo, su tutto l’universo, senza di Lui non tornano. In fin dei conti, resta l'alternativa: che cosa esiste all'origine? La Ragione creatrice, lo Spirito Creatore che opera tutto e suscita lo sviluppo, o l'Irrazionalità che, priva di ogni ragione, stranamente produce un cosmo ordinato in modo matematico e anche l'uomo, la sua ragione. Questa, però, sarebbe allora soltanto un risultato casuale dell'evoluzione e quindi, in fondo, anche una cosa irragionevole. Noi cristiani diciamo: "Credo in Dio Padre, Creatore del cielo e della terra" – credo nello Spirito Creatore. Noi crediamo che all'origine c'è il Verbo eterno, la Ragione e non l'Irrazionalità. Con questa fede non abbiamo bisogno di nasconderci, non dobbiamo temere di trovarci con essa in un vicolo cieco. Siamo lieti di poter conoscere Dio! E cerchiamo di rendere accessibile anche agli altri la ragionevolezza della fede, come, nella sua Prima Lettera, san Pietro esplicitamente ha esortato a fare i cristiani del suo tempo e con loro anche noi (cfr 1P 3,15)!

Noi crediamo in Dio. Lo affermano le parti principali del Credo e lo sottolinea soprattutto la sua prima parte. Ma ora segue subito la seconda domanda: in quale Dio? Ebbene, crediamo appunto in quel Dio che è Spirito Creatore, Ragione creativa, da cui proviene tutto e da cui proveniamo anche noi. La seconda parte del Credo ci dice di più. Questa Ragione creativa è Bontà. È Amore. Essa possiede un volto. Dio non ci lascia brancolare nel buio. Si è mostrato come uomo. Egli è tanto grande da potersi permettere di diventare piccolissimo. “Chi ha visto me ha visto il Padre”, dice Gesù (Jn 14,9). Dio ha assunto un volto umano. Ci ama fino al punto da lasciarsi per noi inchiodare sulla Croce, per portare le sofferenze dell’umanità fino al cuore di Dio. Oggi, che conosciamo le patologie e le malattie mortali della religione e della ragione, le distruzioni dell’immagine di Dio a causa dell’odio e del fanatismo, è importante dire con chiarezza in quale Dio noi crediamo e professare convinti questo volto umano di Dio. Solo questo ci libera dalla paura di Dio – un sentimento dal quale, in definitiva, nacque l’ateismo moderno. Solo questo Dio ci salva dalla paura del mondo e dall’ansia di fronte al vuoto della propria esistenza. Solo guardando a Gesù Cristo, la nostra gioia in Dio raggiunge la sua pienezza, diventa gioia redenta. Volgiamo durante questa celebrazione solenne dell’Eucaristia il nostro sguardo sul Signore che qui davanti a noi è innalzato sulla croce e chiediamo a Lui la grande gioia che, nell’ora del suo congedo, Egli ha promesso ai discepoli (cfr Jn 16,24)!

La seconda parte del Credo si conclude con la prospettiva del Giudizio finale e la terza con quella della risurrezione dei morti. Giudizio – non è che con ciò ci viene inculcata nuovamente la paura? Ma, non desideriamo forse tutti che un giorno sia fatta giustizia per tutti i condannati ingiustamente, per quanti hanno sofferto lungo la vita e poi da una vita piena di dolore sono stati inghiottiti nella morte? Non vogliamo forse tutti che l’eccesso di ingiustizia e di sofferenza, che vediamo nella storia, alla fine si dissolva; che tutti in definitiva possano diventare lieti, che tutto ottenga un senso? Questa affermazione del diritto, questo congiungimento di tanti frammenti di storia che sembrano privi di senso, così da integrarli in un tutto in cui dominino la verità e l’amore: è questo che s’intende col concetto di Giudizio del mondo. La fede non vuol farci paura; vuole però chiamarci alla responsabilità! Non dobbiamo sprecare la nostra vita, né abusare di essa; neppure dobbiamo tenerla semplicemente per noi stessi; di fronte all’ingiustizia non dobbiamo restare indifferenti, diventandone conniventi o addirittura complici. Dobbiamo percepire la nostra missione nella storia e cercare di corrispondervi. Non paura ma responsabilità – responsabilità e preoccupazione per la nostra salvezza, e per la salvezza di tutto il mondo sono necessarie. A ciò, ciascuno deve dare il proprio contributo. Quando, però, responsabilità e preoccupazione tendono a diventare paura, allora ricordiamoci della parola di san Giovanni: “Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto” (1Jn 2,1). “Qualunque cosa il nostro cuore ci rimproveri – Dio è più grande del nostro cuore ed Egli conosce ogni cosa” (1Jn 3,20).

Celebriamo oggi la festa del “Nome di Maria”. A quante portano questo nome – la mia mamma e mia sorella ne facevano parte, come il Vescovo ha ricordato – vorrei quindi esprimere i miei più cordiali auguri per questo loro onomastico. Maria, la Madre del Signore, dal popolo fedele ha ricevuto il titolo di Advocata: lei è la nostra avvocata presso Dio. Così la conosciamo fin dalle nozze di Cana: come la donna benigna, piena di sollecitudine materna e di amore, la donna che avverte le necessità altrui e, per aiutare, le porta davanti al Signore. Oggi abbiamo sentito nel Vangelo, come il Signore la dona come madre al discepolo prediletto e, in lui, a tutti noi. In ogni epoca, i cristiani hanno accolto con gratitudine questo testamento di Gesù, e presso la Madre hanno trovato sempre di nuovo quella sicurezza e quella fiduciosa speranza, che ci rendono lieti in Dio e gioiosi nella nostra fede in Lui. Accogliamo anche noi Maria come la stella della nostra vita, che ci introduce nella grande famiglia di Dio! Sì, chi crede non è mai solo. Amen!


CELEBRAZIONE ECUMENICA DEI VESPRI

Duomo di Regensburg, Martedì, 12 settembre 2006

43
Cari fratelli e sorelle in Cristo!

Siamo riuniti, cristiani ortodossi, cattolici e protestanti, – e insieme con noi ci sono anche degli amici ebrei – siamo riuniti per cantare insieme le Lodi serali di Dio. Il cuore di questa liturgia sono i salmi, nei quali confluiscono l'Antica e la Nuova Alleanza e la nostra preghiera si unisce all'Israele credente che vive nella speranza. Questa è un'ora di gratitudine per il fatto che noi possiamo così recitare insieme i salmi, e nel nostro rivolgerci al Signore possiamo crescere contemporaneamente nell'unità anche tra noi.

Tra i partecipanti a questi Vespri vorrei salutare cordialmente innanzitutto i rappresentanti della Chiesa ortodossa. Ritengo già da sempre un grande dono della Provvidenza il fatto che, come professore a Bonn, ho avuto modo di conoscere e di amare la Chiesa ortodossa, per così dire, personalmente, cioè nelle persone di due giovani Archimandriti, diventati poi Metropoliti, Stylianos Harkianakis e Damaskinos Papandreou. A Ratisbona, grazie alle iniziative del Vescovo Graber, si aggiungevano ulteriori incontri: nei Simposi sul "Spindlhof" e a causa dei borsisti che hanno studiato qui. Sono lieto di poter rivedere qualche volto a me da lungo tempo familiare e di trovare ravvivate le vecchie amicizie. Fra pochi giorni si riprenderà a Belgrado il dialogo teologico sul tema fondamentale della koinonia, della comunione – nelle due dimensioni che la Prima Lettera di Giovanni ci indica subito all'inizio, nel primo capitolo. La nostra koinonia è anzitutto comunione col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo nello Spirito Santo; è la comunione con lo stesso Dio Trino, resa possibile dal Signore mediante la sua incarnazione e l'effusione dello Spirito. Questa comunione con Dio crea poi anche la koinonia tra gli uomini, come partecipazione alla fede degli Apostoli e così come comunione nella fede – una comunione che nell'Eucaristia diventa "corporea", edificando l'unica Chiesa che si espande oltre tutti i confini (cfr
1Jn 1,3). Io spero e prego che questi colloqui portino frutti e che la comunione col Dio vivente che ci unisce, come la comunione tra noi nella fede tramandata dagli Apostoli, si approfondiscano e maturino fino a quell'unità piena, dalla quale il mondo può riconoscere che Gesù Cristo è veramente l'inviato di Dio, il Figlio di Dio, il Salvatore del mondo (cfr Jn 17,21). "Perché il mondo creda" è necessario che noi siamo una cosa sola: la serietà di questo impegno deve animare il nostro dialogo.

Saluto di cuore anche gli amici delle varie tradizioni della Riforma. Anche in questo contesto si risvegliano molti ricordi nel mio intimo: ricordi di amici del circolo Jäger-Stählin, che ormai sono deceduti; con questi ricordi si mescola la gratitudine per gli incontri di questa ora. Ovviamente, penso in particolare all'impegno di faticosa ricerca per trovare il consenso circa la giustificazione. Ricordo tutte le fasi di quel processo fino al memorabile incontro con il defunto Vescovo Hanselmann qui a Ratisbona – un incontro che poté contribuire in modo essenziale al raggiungimento della conclusione concorde. Sono lieto che nel frattempo anche il "Consiglio mondiale delle Chiese metodiste" abbia aderito a tale Dichiarazione. Il consenso circa la giustificazione resta per noi un grande impegno che – secondo me – in realtà non è ancora totalmente adempiuto: nella teologia la giustificazione è un tema essenziale, ma nella vita dei fedeli – mi pare – oggi appena presente. Anche se a causa degli eventi drammatici del nostro tempo il tema del perdono reciproco si mostra di nuovo in tutta la sua urgenza – del fatto che ci è necessario innanzitutto il perdono da parte di Dio, la giustificazione per mezzo di Lui, si è poco consapevoli. In gran parte non risulta più alla coscienza moderna – e tutti, in qualche modo, siamo “moderni” – il fatto che davanti a Dio abbiamo veramente dei debiti e che il peccato è una realtà che può essere superata soltanto per iniziativa di Dio. Dietro a questo affievolirsi del tema della giustificazione e del perdono dei peccati sta in definitiva un indebolimento del nostro rapporto con Dio. Per questo, il nostro primo compito sarà forse quello di riscoprire in modo nuovo il Dio vivente nella nostra vita, nel nostro tempo e nella nostra società.

Ascoltiamo ora con questo proposito ciò che san Giovanni intendeva dirci poco fa nella lettura biblica. Vorrei sottolineare in modo particolare tre affermazioni di questo testo complesso e ricco. Il tema centrale di tutta la Lettera appare nel versetto 15: "Chiunque riconosce che Gesù è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio". Ancora una volta, come già prima nei versetti 2 e 3 del quarto capitolo, Giovanni mette in luce la confessione che, in fondo, ci distingue come cristiani: la fede, cioè, nel fatto che Gesù è il Figlio di Dio venuto nella carne. "Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, Lui lo ha rivelato", si legge alla fine del prologo del quarto Vangelo (Jn 1,18). Chi è Dio, lo sappiamo da Gesù Cristo: dall'unico che è Dio. È mediante Lui che veniamo in contatto con Dio. Nell'epoca degli incontri multireligiosi siamo facilmente tentati di attenuare un po' questa confessione centrale o addirittura di nasconderla. Ma con ciò non rendiamo un servizio all'incontro, né al dialogo. Con ciò rendiamo soltanto Dio meno accessibile, per gli altri e per noi stessi. È importante che noi poniamo in discussione in modo completo e non soltanto frammentario la nostra immagine di Dio. Per esserne capaci, deve crescere ed approfondirsi la nostra comunione personale con Cristo e il nostro amore per Lui. In questa nostra comune confessione e in questo nostro comune compito non esiste alcuna divisione tra noi. Vogliamo pregare, affinché questo fondamento comune si rafforzi sempre di più.

Con ciò ci troviamo già dentro al secondo argomento che intendevo toccare. Di esso si parla nel versetto 14 dove si legge: "Noi stessi abbiamo veduto e attestiamo che il Padre ha mandato il suo Figlio come salvatore del mondo". La parola centrale di questa frase è: µa?t????ˆ µe? – testimoniamo, siamo testimoni. La confessione deve diventare testimonianza. La parola soggiacente µ??t?? rievoca il fatto, che il testimone di Gesù Cristo deve affermare la sua testimonianza con l'intera sua esistenza, con la vita e con la morte. L'autore della Lettera dice di sé: "Noi abbiamo veduto". Perché ha veduto, egli può essere testimone. Presuppone, però, che anche noi – le generazioni successive – siamo capaci di diventare vedenti, al fine di potere, come vedenti, dare testimonianza. Preghiamo dunque il Signore di renderci vedenti! Aiutiamoci a vicenda a sviluppare questa capacità, per poter rendere vedenti anche gli uomini del nostro tempo, così che a loro volta, attraverso tutto il mondo da loro stessi costruito, riescano a riscoprire Dio! Perché, attraverso tutte le barriere storiche, possano di nuovo scorgere Gesù, il Figlio mandato da Dio, nel quale vediamo il Padre. Nel versetto 9 si dice che Dio ha mandato il Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita. Non possiamo forse costatare oggi che solo mediante l'incontro con Gesù Cristo la vita diventa veramente vita? Essere testimone di Gesù Cristo significa soprattutto: essere testimone di un determinato modo di vivere. In un mondo pieno di confusione, noi dobbiamo dare nuovamente testimonianza degli orientamenti che rendono una vita veramente vita. Questo importante compito comune a tutti i credenti lo dobbiamo affrontare con grande decisione: è responsabilità dei cristiani, in questa ora, di rendere visibili quegli orientamenti di un giusto vivere, che a noi si sono chiariti in Gesù Cristo. Egli ha riassunto nel suo cammino di vita tutte le parole della Scrittura: "Ascoltatelo!" (Mc 9,7).

Con ciò siamo giunti alla terza parola che, in questa Lettura, volevo mettere in rilievo: agape – amore. È questa la parola guida di tutta la Lettera e specialmente del brano che abbiamo ascoltato. Agape, l'amore come ce l’insegna Giovanni, non ha nulla di sentimentale e nulla di esaltato; è qualcosa di totalmente sobrio e realistico. Ho cercato di spiegarne qualcosa nella mia Enciclica Deus caritas est. L'agape, l'amore è veramente la sintesi della Legge e dei Profeti. In essa è "avviluppato" tutto; un tutto, però, che nel quotidiano deve sempre di nuovo essere "sviluppato". Nel versetto 16 del nostro testo si trova la parola meravigliosa: "Noi abbiamo creduto all'amore". Sì, all'amore l'uomo può credere. Testimoniamo la nostra fede così che appaia come forza dell'amore, "perché il mondo creda" (Jn 17,21)! Amen!



CONCELEBRAZIONE EUCARISTICA CON I MEMBRI DELLA COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE

Cappella Redemptoris Mater, Venerdì, 6 ottobre 2006

61006

Cari Fratelli e Sorelle,

non ho preparato una vera omelia, solo qualche spunto per fare la meditazione. La missione di san Bruno, il santo di oggi, appare con chiarezza, è – possiamo dire - interpretata nell'orazione di questo giorno che, pur alquanto variata nel testo italiano, ci ricorda che la sua missione fu silenzio e contemplazione.

Ma silenzio e contemplazione hanno uno scopo: servono per conservare, nella dispersione della vita quotidiana, una permanente unione con Dio. Questo è lo scopo: che nella nostra anima sia sempre presente l'unione con Dio e trasformi tutto il nostro essere.

Silenzio e contemplazione - caratteristica di san Bruno - servono per poter trovare nella dispersione di ogni giorno questa profonda, continua, unione con Dio. Silenzio e contemplazione: la bella vocazione del teologo è parlare. Questa è la sua missione: nella loquacità del nostro tempo, e di altri tempi, nell’inflazione delle parole, rendere presenti le parole essenziali. Nelle parole rendere presente la Parola, la Parola che viene da Dio, la Parola che è Dio.

Ma come potremmo, essendo parte di questo mondo con tutte le sue parole, rendere presente la Parola nelle parole, se non mediante un processo di purificazione del nostro pensare, che soprattutto deve essere anche un processo di purificazione delle nostre parole? Come potremmo aprire il mondo, e prima noi stessi, alla Parola senza entrare nel silenzio di Dio, dal quale procede la sua Parola? Per la purificazione delle nostre parole, e quindi per la purificazione delle parole del mondo, abbiamo bisogno di quel silenzio che diventa contemplazione, che ci fa entrare nel silenzio di Dio e così arrivare al punto dove nasce la Parola, la Parola redentrice.

San Tommaso d'Aquino, con una lunga tradizione, dice che nella teologia Dio non è l'oggetto del quale parliamo. Questa è la nostra concezione normale. In realtà, Dio non è l'oggetto; Dio è il soggetto della teologia. Chi parla nella teologia, il soggetto parlante, dovrebbe essere Dio stesso. E il nostro parlare e pensare dovrebbe solo servire perché possa essere ascoltato, possa trovare spazio nel mondo, il parlare di Dio, la Parola di Dio. E così, di nuovo, ci troviamo invitati a questo cammino della rinuncia a parole nostre; a questo cammino della purificazione, perché le nostre parole siano solo strumento mediante il quale Dio possa parlare, e così Dio sia realmente non oggetto, ma soggetto della teologia.

In questo contesto mi viene in mente una bellissima parola della Prima Lettera di San Pietro, nel primo capitolo, versetto 22. In latino suona così: «Castificantes animas nostras in oboedentia veritatis». L'obbedienza alla verità dovrebbe "castificare" la nostra anima, e così guidare alla retta parola e alla retta azione. In altri termini, parlare per trovare applausi, parlare orientandosi a quanto gli uomini vogliono sentire, parlare in obbedienza alla dittatura delle opinione comuni, è considerato come una specie di prostituzione della parola e dell'anima. La "castità" a cui allude l’apostolo Pietro è non sottomettersi a questi standard, non cercare gli applausi, ma cercare l'obbedienza alla verità. E penso che questa sia la virtù fondamentale del teologo, questa disciplina anche dura dell'obbedienza alla verità che ci fa collaboratori della verità, bocca della verità, perché non parliamo noi in questo fiume di parole di oggi, ma realmente purificati e resi casti dall'obbedienza alla verità, la verità parli in noi. E possiamo così essere veramente portatori della verità.

Questo mi fa pensare a sant'Ignazio di Antiochia e ad una sua bella espressione: "Chi ha capito le parole del Signore capisce il suo silenzio, perché il Signore va conosciuto nel suo silenzio". L'analisi delle parole di Gesù arriva fino a un certo punto, ma rimane nel nostro pensare. Solo quando arriviamo a quel silenzio del Signore, nel suo essere col Padre dal quale vengono le parole, possiamo anche realmente cominciare a capire la profondità di queste parole. Le parole di Gesù sono nate nel suo silenzio sul Monte, come dice la Scrittura, nel suo essere col Padre. Da questo silenzio della comunione col Padre, dell'essere immerso nel Padre, nascono le parole e solo arrivando a questo punto, e partendo da questo punto, arriviamo alla vera profondità della Parola e possiamo essere noi autentici interpreti della Parola. Il Signore ci invita, parlando, di salire con Lui sul Monte, e nel suo silenzio, imparare così, di nuovo, il vero senso delle parole.

Dicendo questo siamo arrivati alle due letture di oggi. Giobbe aveva gridato a Dio, aveva anche fatto la lotta con Dio davanti alle evidenti ingiustizie con le quali lo trattava. Adesso è confrontato con la grandezza di Dio. E capisce che davanti alla vera grandezza di Dio tutto il nostro parlare è solo povertà e non arriva nemmeno da lontano alla grandezza del suo essere e così dice: "Due volte ho parlato, non continuerò". Silenzio davanti alla grandezza di Dio, perché le parole nostre diventano troppo piccole. Questo mi fa pensare alle ultime settimane della vita di san Tommaso. In queste ultime settimane non ha più scritto, non ha più parlato. I suoi amici gli chiedono: Maestro, perché non parli più, perché non scrivi? E lui dice: Davanti a quanto ho visto adesso tutte le mie parole mi appaiono come paglia. Il grande conoscitore di san Tommaso, il Padre Jean-Pierre Torrel, ci dice di non intendere male queste parole. La paglia non è niente. La paglia porta il grano e questo è il grande valore della paglia. Porta il grano. E anche la paglia delle parole rimane valida come portatrice del grano. Ma questo è anche per noi, direi, una relativizzazione del nostro lavoro e insieme una valorizzazione del nostro lavoro. E’ anche un’indicazione, perché il modo di lavorare, la nostra paglia, porti realmente il grano della Parola di Dio.

Il Vangelo finisce con le parole: «Chi ascolta voi, ascolta me». Che ammonizione, che esame di coscienza queste parole! È vero che chi ascolta me, ascolta realmente il Signore? Preghiamo e lavoriamo perché sia sempre più vero che chi ascolta noi ascolta Cristo. Amen!


CANONIZZAZIONE DI RAFAEL GUÍZAR VALENCIA (1878 – 1938), FILIPPO SMALDONE (1848 – 1923), ROSA VENERINI (1656 – 1728), THÉODORE GUÉRIN (1798 – 1856), Domenica, 15 ottobre 2006

15106

CAPPELLA PAPALE Piazza San Pietro

Cari fratelli e sorelle!

Quattro nuovi Santi vengono oggi proposti alla venerazione della Chiesa universale: Rafael Guízar y Valencia, Filippo Smaldone, Rosa Venerini e Théodore Guérin. I loro nomi saranno ricordati per sempre. Per contrasto, viene subito da pensare al "giovane ricco", di cui parla il Vangelo appena proclamato. Questo giovane è rimasto anonimo; se avesse risposto positivamente all'invito di Gesù, sarebbe diventato suo discepolo e probabilmente gli Evangelisti avrebbero registrato il suo nome. Da questo fatto si intravede subito il tema della Liturgia della Parola di questa domenica: se l'uomo ripone la sua sicurezza nelle ricchezze di questo mondo non raggiunge il senso pieno della vita e la vera gioia; se invece, fidandosi della parola di Dio, rinuncia a se stesso e ai suoi beni per il Regno dei cieli, apparentemente perde molto, in realtà guadagna tutto. Il Santo è proprio quell'uomo, quella donna che, rispondendo con gioia e generosità alla chiamata di Cristo, lascia ogni cosa per seguirlo. Come Pietro e gli altri Apostoli, come Santa Teresa di Gesù che oggi ricordiamo, e innumerevoli altri amici di Dio, anche i nuovi Santi hanno percorso questo esigente, ma appagante itinerario evangelico ed hanno ricevuto "il centuplo" già nella vita terrena insieme con prove e persecuzioni, e poi la vita eterna.

Gesù, dunque, può veramente garantire un'esistenza felice e la vita eterna, ma per una via diversa da quella che immaginava il giovane ricco: non cioè mediante un'opera buona, una prestazione legale, bensì nella scelta del Regno di Dio quale "perla preziosa" per la quale vale la pena di vendere tutto ciò che si possiede (cfr
Mt 13,45-46). Il giovane ricco non riesce a fare questo passo. Malgrado sia stato raggiunto dallo sguardo pieno d'amore di Gesù (cfr Mc 10,21), il suo cuore non è riuscito a distaccarsi dai molti beni che possedeva. Ecco allora l'insegnamento per i discepoli: "Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio!" (Mc 10,23). Le ricchezze terrene occupano e preoccupano la mente e il cuore. Gesù non dice che sono cattive, ma che allontanano da Dio se non vengono, per così dire, "investite" per il Regno dei cieli, spese cioè per venire in aiuto di chi è nella povertà.

Comprendere questo è frutto di quella sapienza di cui parla la prima Lettura. Essa - ci è stato detto - è più preziosa dell'argento e dell'oro, anzi della bellezza, della salute e della stessa luce, "perché non tramonta lo splendore che ne promana" (Sg 7,10). Ovviamente, questa sapienza non è riducibile alla sola dimensione intellettuale. È molto di più; è "la Sapienza del cuore", come la chiama il Salmo 89 (Ps 90,12). È un dono che viene dall'alto (cfr Jc 3,17), da Dio, e si ottiene con la preghiera (cfr Sg 7,7). Essa infatti non è rimasta lontana dall'uomo, si è fatta vicina al suo cuore (cfr Dt 30,14), prendendo forma nella legge della Prima Alleanza stretta tra Dio e Israele mediante Mosè. Nel Decalogo è contenuta la Sapienza di Dio. Per questo Gesù afferma nel Vangelo che per "entrare nella vita" è necessario osservare i comandamenti (cfr Mc 10,19). È necessario, ma non sufficiente! Infatti, come dice San Paolo, la salvezza non viene dalla legge, ma dalla Grazia. E San Giovanni ricorda che la legge l'ha data Mosè, mentre la Grazia e la Verità sono venute per mezzo di Gesù Cristo (cfr Jn 1,17). Per giungere alla salvezza bisogna dunque aprirsi nella fede alla grazia di Cristo, il quale però a chi gli si rivolge pone una condizione esigente: "Vieni e seguimi" (Mc 10,21). I Santi hanno avuto l'umiltà e il coraggio di rispondergli "sì", e hanno rinunciato a tutto per essere suoi amici. Così hanno fatto i quattro nuovi Santi, che oggi particolarmente veneriamo. In essi ritroviamo attualizzata l'esperienza di Pietro: "Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito" (Mc 10,28). Il loro unico tesoro è in cielo: è Dio.

Il Vangelo che abbiamo ascoltato ci aiuta a comprendere la figura di San Rafael Guízar y Valencia, Vescovo di Veracruz nell'amata nazione messicana, come un esempio di colui che ha lasciato tutto per "seguire Gesù". Questo Santo fu fedele alla parola divina, "viva ed efficace", che penetra nel più profondo dello spirito (cfr He 4,12). Imitando Cristo povero rinunciò ai suoi beni e non accettò mai i doni dei potenti, oppure li ridonava subito. Per questo ricevette "cento volte tanto" e poté così aiutare i poveri, anche nelle "persecuzioni" senza tregua (cfr Mc 10,30). La sua carità vissuta in grado eroico fece sì che lo chiamassero il "Vescovo dei poveri". Nel suo ministero sacerdotale e poi episcopale, fu un instancabile predicatore di missioni popolari, il modo più adeguato a quel tempo per evangelizzare le genti, usando il suo Catechismo della dottrina cristiana. Essendo la formazione dei sacerdoti una delle sue priorità, riaprì il seminario, che considerava "la pupilla dei suoi occhi" e per questo era solito dire: "A un Vescovo possono mancare la mitra, il pastorale e persino la cattedrale, ma non può mancargli il seminario, poiché dal seminario dipende il futuro della sua Diocesi". Con questo profondo senso di paternità sacerdotale affrontò nuove persecuzioni ed esilî, ma garantendo sempre la preparazione degli studenti. Che l'esempio di San Rafael Guízar y Valencia sia una chiamata per i fratelli Vescovi e sacerdoti a considerare come fondamentale nei programmi pastorali, oltre allo spirito di povertà e dell'evangelizzazione, la promozione delle vocazioni sacerdotali e religiose, e la loro formazione secondo il cuore di Gesù!

San Filippo Smaldone, figlio del Meridione d'Italia, seppe trasfondere nella sua vita le migliori virtù proprie della sua terra. Sacerdote dal cuore grande, nutrito di costante preghiera e di adorazione eucaristica, fu soprattutto testimone e servo della carità, che manifestava in modo eminente nel servizio ai poveri, in particolare ai sordomuti, ai quali dedicò tutto se stesso. L'opera che egli iniziò prosegue grazie alla Congregazione delle Suore Salesiane dei Sacri Cuori da lui fondata, e che è diffusa in diverse parti d'Italia e del mondo. Nei sordomuti San Filippo Smaldone vedeva riflessa l'immagine di Gesù, ed era solito ripetere che, come ci si prostra davanti al Santissimo Sacramento, così bisogna inginocchiarsi dinanzi ad un sordomuto. Raccogliamo dal suo esempio l'invito a considerare sempre indissolubili l'amore per l'Eucaristia e l'amore per il prossimo. Anzi, la vera capacità di amare i fratelli ci può venire solo dall'incontro col Signore nel sacramento dell'Eucaristia.

Santa Rosa Venerini è un altro esempio di fedele discepola di Cristo, pronta ad abbandonare tutto per compiere la volontà di Dio. Amava ripetere: "Io mi trovo tanto inchiodata nella divina volontà, che non m'importa né morte, né vita: voglio vivere quanto egli vuole, e voglio servirlo quanto a lui piace e niente più" (Biografia Andreucci, p. 515). Da qui, dal suo abbandono in Dio, scaturiva la lungimirante attività che svolgeva con coraggio a favore dell'elevazione spirituale e dell'autentica emancipazione delle giovani donne del suo tempo. Santa Rosa non si accontentava di fornire alle ragazze un'adeguata istruzione, ma si preoccupava di assicurare loro una formazione completa, con saldi riferimenti all'insegnamento dottrinale della Chiesa. Il suo stesso stile apostolico continua a caratterizzare ancor oggi la vita della Congregazione delle Maestre Pie Venerini, da lei fondata. E quanto attuale ed importante è anche per l'odierna società il servizio che esse svolgono nel campo della scuola e specialmente della formazione della donna!

"Andate e vendete tutto ciò che avete e offrite il ricavato ai poveri... poi venite, seguitemi". Nel corso della storia della Chiesa queste parole hanno ispirato innumerevoli cristiani a seguire Cristo in una vita di povertà radicale, confidando nella Divina Misericordia. Fra questi generosi discepoli di Cristo c'è stata una donna francese che senza riserve ha risposto alla chiamata del divino Maestro. Madre Théodore Guérin entrò nella Congregazione delle Suore della Provvidenza nel 1823 e si dedicò all'opera di insegnamento nelle scuole. Poi, nel 1839, i suoi Superiori le chiesero di recarsi negli Stati Uniti per dirigere una comunità nell'Indiana. Dopo un lungo viaggio per terra e per mare, le sei suore arrivarono a St. Mary-of-the-Woods. In mezzo alla foresta trovarono un'umile cappella di legno. Si inginocchiarono di fronte al Santissimo Sacramento e resero grazie, chiedendo a Dio di guidarle nella nuova fondazione. Con grande fiducia nella Divina Provvidenza, Madre Théodore superò molte sfide e perseverò nell'opera che il Signore l'aveva chiamata a compiere. Quando morì, nel 1856, le suore gestivano scuole e orfanotrofi in tutto lo Stato dell'Indiana. Come ella stessa affermò: "Quanto bene è stato fatto dalle Suore di Saint Mary-of-the-Wood! Quanto bene ulteriore potranno fare se resteranno fedeli alla loro santa vocazione!".

Madre Théodore Guérin è una bella figura spirituale e un modello di vita cristiana. Fu sempre disponibile per le missioni che la Chiesa le affidava, e trovava la forza e l'audacia per metterle in pratica nell'Eucaristia, nella preghiera e in un'infinita fiducia nella Divina Provvidenza. La sua forza interiore la portava a rivolgere un'attenzione particolare ai poveri, e soprattutto ai bambini.

Cari fratelli e sorelle, rendiamo grazie al Signore per il dono della santità, che quest'oggi rifulge nella Chiesa con singolare bellezza. Gesù invita anche noi, come questi Santi, a seguirlo per avere in eredità la vita eterna. La loro esemplare testimonianza illumini e incoraggi specialmente i giovani, perché si lascino conquistare da Cristo, dal suo sguardo pieno d'amore. Maria, Regina dei Santi, susciti nel popolo cristiano uomini e donne come San Rafael Guízar y Valencia, San Filippo Smaldone, Santa Rosa Venerini e Santa Théodore Guérin, pronti ad abbandonare tutto per il Regno di Dio; disposti a far propria la logica del dono e del servizio, l'unica che salva il mondo. Amen!


Benedetto XVI Omelie 41