Benedetto XVI Omelie 15106


CAPPELLA PAPALE PER LE ESEQUIE DELL'EM.MO CARDINALE DINO MONDUZZI

PREFETTO EMERITO DELLA CASA PONTIFICIA

Basilica Vaticana, Lunedì, 16 ottobre 2006

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Cari fratelli e sorelle!

Con questa Celebrazione eucaristica ci congediamo dal caro Cardinale Monduzzi. Di fronte al silenzio della morte ed al venir meno delle attese umane, sentiamo viva la speranza cristiana che, oltre le apparenze, scorge l'amore del Dio fedele alle promesse. Nella prima Lettura, poc'anzi proclamata, abbiamo ascoltato queste parole: "Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno" (
Da 12,2). Ed aggiunge il profeta Daniele: "I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come stelle per sempre" (Da 12,3). Il testo sacro mette in evidenza la saggezza di chi ha posto soltanto nel Signore la propria speranza ed ha insegnato agli altri a fare altrettanto. Questi, al termine della sua esistenza terrena, non resterà deluso perché sarà partecipe della stessa luce divina e riceverà da Dio la vita che non ha fine.

La pagina evangelica ci offre poi la consolante certezza che nessuno è escluso dall'amore di Colui che, in Cristo, "ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce" (Col 1,12). Il Signore Gesù ci assicura che "nella casa del Padre mio vi sono molti posti... quando sarò andato e vi avrò preparato un posto ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io" (Jn 14,2-3). Gesù pronunciava queste parole nel clima trepido del Cenacolo, poco prima che iniziasse la sua passione. Come ai discepoli anche a noi oggi Gesù rivolge il suo incoraggiamento ad affrontare le vicende della vita con piena fiducia nella sua presenza misteriosa, che ci accompagna in ogni momento, soprattutto nei più difficili. Nell'ora della prova e dell'abbandono sentiamo risuonare densa di consolazione questa sua parola: "Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me" (Jn 14,1). La speranza cristiana, radicata in una fede solida nella parola di Cristo, è l'ancora di salvezza che ci aiuta a superare le difficoltà apparentemente insormontabili e ci permette di intravedere la luce della gioia anche oltre il buio del dolore e della morte.

Ci piace pensare il caro Cardinale Monduzzi tra le braccia amorevoli del Padre celeste, che lo ha chiamato a sé dopo una lunga e sofferta malattia. Ripercorriamo con la memoria la sua non breve esistenza, animata da una fede evangelica semplice e profonda, appresa fin dalla prima infanzia in famiglia e nella comunità cristiana di Brisighella, dove era nato il 2 aprile 1922. Grazie all'esempio e agli insegnamenti dei genitori, dei sacerdoti e degli educatori dell'Associazione di Azione Cattolica a cui aderì ancora fanciullo, il Signore preparava il suo cuore a ricevere il grande dono della vocazione sacerdotale. Egli rispose con pronta generosità alla chiamata di Dio, entrando in giovane età nel Seminario diocesano di Faenza, dove compì gli studi ginnasiali, liceali e teologici. Ordinato sacerdote nel 1945 nella sua Brisighella, iniziò il ministero sacerdotale in diocesi, per recarsi poco dopo a Roma, dove, terminati gli studi giuridici, fu chiamato a far parte del gruppo di sacerdoti e laici impegnati in interessanti attività pastorali di risveglio religioso e morale, denominate "Missioni sociali". Tale moderna forma di evangelizzazione lo condusse in Calabria e in Sardegna e lo preparò all'impegno quasi pionieristico di cappellano dei braccianti e dei contadini presso l'Ente Riforma Agraria del Fucino, che tante speranze dischiudeva in una zona caratterizzata da pesante depressione umana. Per circa un decennio, con pazienza, tenacia e fatica egli fu presente presso famiglie, cantieri, centri parrocchiali.

Dopo questi anni di intenso lavoro apostolico, nel 1959 fu chiamato al servizio della Santa Sede per ricoprire l'incarico di Segretario dell'Ufficio di Maestro di Camera e, nel 1967, in seguito alla Riforma della Curia voluta dal servo di Dio Paolo VI, fu nominato Segretario e Reggente del Palazzo Apostolico. Il suo fu un lungo e apprezzato servizio reso a ben quattro Pontefici, che nel 1986 fu coronato dalla nomina a Prefetto della Casa Pontificia e dall'elevazione a Vescovo titolare di Capri. In tale mansione egli confermò le sue non comuni doti organizzative sia nell'ordinaria attività della Prefettura della Casa Pontificia, sia nei viaggi apostolici del Papa in Italia. A conclusione di una lunga e fedele collaborazione con il Successore di Pietro, il servo di Dio Giovanni Paolo II nel Concistoro pubblico del 21 febbraio 1998 lo annoverò tra i membri del Collegio Cardinalizio.

Nella seconda Lettura che è stata proclamata nella nostra orante assemblea, l'apostolo Paolo ricorda ai Filippesi che "la nostra patria è nei cieli e di là aspettiamo il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso" (Ph 3,20-21). Il Cardinale Monduzzi, dopo un lungo itinerario umano e sacerdotale, giunge ora alla patria celeste, patria promessa a coloro che spendono la vita al servizio di Dio e dei fratelli. Per il Regno dei cieli egli ha lavorato vedendo negli incontri con la gente occasioni preziose per suscitare la nostalgia delle cose di lassù e l'amore per la Chiesa "germe e inizio" del Regno di Dio. Egli si sentiva un umile collaboratore della missione affidata da Cristo a Pietro ed ai suoi Successori. Come Prefetto della Casa Pontificia ebbe modo di incontrare gli uomini più potenti del mondo, che accolse con la cortesia, con il calore e la simpatia che nascevano dalla sua fede convinta e dalle sue origini romagnole. Con loro, come con le persone comuni, che si rivolgevano a Lui presentando le più disparate richieste, nell'organizzare grandi momenti ecclesiali come nell'esercizio feriale del suo ministero di Prefetto della Casa del Papa, egli si ispirava costantemente al motto episcopale che aveva scelto: "Patientiam praeficere caritati". In ogni circostanza, infatti, seppe trovare nella virtù della pazienza la via maestra per conformare la sua vita a Cristo, sopportando difficoltà e sofferenze, e cercando di esercitare la carità verso tutti.

Lo affidiamo ora alla paterna bontà di Dio, che trasfigurerà il suo corpo logorato dalla malattia conformandolo al Corpo glorioso di Cristo. Nel tributare al caro Cardinale Monduzzi l'estremo saluto, rendiamo grazie al Signore per il bene che egli ha compiuto ed invochiamo al tempo stesso per lui la misericordia divina. Egli, che fu chiamato a sovrintendere alla Casa del Vicario di Cristo e che dell'accoglienza aveva fatto una dimensione primaria della sua vita sacerdotale, trovi nel Signore Gesù l'amico fedele che lo prende con sé per assegnargli un posto nella casa del Padre, dimora di luce e di pace. La Vergine Maria, che egli teneramente amò, si mostri a lui Madre di misericordia e lo accolga nella comunione dei Santi. Amen.


VISITA PASTORALE A VERONA IN OCCASIONE DEL IV CONVEGNO NAZIONALE DELLA CHIESA ITALIANA

Stadio Comunale "Bentegodi", Giovedì, 19 ottobre 2006

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Venerati Fratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio!
Cari fratelli e sorelle!

In questa Celebrazione Eucaristica viviamo il momento centrale del IV Convegno nazionale della Chiesa in Italia, che si raccoglie quest'oggi attorno al Successore di Pietro. Il cuore di ogni evento ecclesiale è l'Eucaristia, nella quale Cristo Signore ci convoca, ci parla, ci nutre e ci invia. È significativo che il luogo prescelto per questa solenne Liturgia sia lo stadio di Verona: uno spazio dove abitualmente si celebrano non riti religiosi, ma manifestazioni sportive, coinvolgendo migliaia di appassionati. Oggi, questo spazio ospita Gesù risorto, realmente presente nella sua Parola, nell'assemblea del Popolo di Dio con i suoi Pastori e, in modo eminente, nel Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue. Cristo viene oggi, in questo moderno areopago, per effondere il suo Spirito sulla Chiesa che è in Italia, perché, ravvivata dal soffio di una nuova Pentecoste, sappia "comunicare il Vangelo in un mondo che cambia", come propongono gli Orientamenti pastorali della Conferenza Episcopale Italiana per il decennio 2000-2010.

A voi, venerati Fratelli Vescovi, con i Presbiteri e i Diaconi, a voi, cari delegati delle Diocesi e delle aggregazioni laicali, a voi religiose, religiosi e laici impegnati rivolgo il mio più cordiale saluto, che estendo a quanti si uniscono a noi mediante la radio e la televisione. Saluto e abbraccio spiritualmente l'intera Comunità ecclesiale italiana, Corpo di Cristo vivente. Desidero esprimere in modo speciale il mio apprezzamento a quanti hanno a lungo faticato per la preparazione e l'organizzazione di questo Convegno: il Presidente della Conferenza Episcopale Cardinale Camillo Ruini, il Segretario Generale Mons. Giuseppe Betori con i collaboratori dei vari uffici; il Cardinale Dionigi Tettamanzi e gli altri membri del Comitato preparatorio; il Vescovo di Verona, Mons. Flavio Roberto Carraro, al quale sono grato per le cortesi parole che mi ha rivolto all'inizio della celebrazione a nome anche di questa amata comunità veronese che ci accoglie. Un deferente pensiero va anche al Signor Presidente del Consiglio dei Ministri e alle altre distinte Autorità presenti; un cordiale ringraziamento infine agli operatori della comunicazione che seguono i lavori di quest'importante assise della Chiesa in Italia.

Le Letture bibliche, che poc'anzi sono state proclamate, illuminano il tema del Convegno: "Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo". La Parola di Dio pone in evidenza la risurrezione di Cristo, evento che ha rigenerato i credenti a una speranza viva, come si esprime l'apostolo Pietro all'inizio della sua Prima Lettera. Questo testo ha costituito l'asse portante dell'itinerario di preparazione a questo grande incontro nazionale. Quale suo successore, anch'io esclamo con gioia: "Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo" (
1P 1,3), perché mediante la risurrezione del suo Figlio ci ha rigenerati e, nella fede, ci ha donato una speranza invincibile nella vita eterna, così che noi viviamo nel presente sempre protesi verso la meta, che è l'incontro finale con il nostro Signore e Salvatore. Forti di questa speranza non abbiamo paura delle prove, le quali, per quanto dolorose e pesanti, mai possono intaccare la gioia profonda che ci deriva dall'essere amati da Dio. Egli, nella sua provvidente misericordia, ha dato il suo Figlio per noi e noi, pur senza vederlo, crediamo in Lui e Lo amiamo (cfr 1P 1,3-9). Il suo amore ci basta.

Dalla forza di questo amore, dalla salda fede nella risurrezione di Gesù che fonda la speranza, nasce e costantemente si rinnova la nostra testimonianza cristiana. È lì che si radica il nostro "Credo", il simbolo di fede a cui ha attinto la predicazione iniziale e che continua inalterato ad alimentare il Popolo di Dio. Il contenuto del "kerygma" dell'annuncio, che costituisce la sostanza dell'intero messaggio evangelico, è Cristo, il Figlio di Dio fatto Uomo, morto e risuscitato per noi. La sua risurrezione è il mistero qualificante del Cristianesimo, il compimento sovrabbondante di tutte le profezie di salvezza, anche di quella che abbiamo ascoltato nella prima Lettura, tratta dalla parte finale del Libro del profeta Isaia. Dal Cristo Risorto, primizia dell'umanità nuova, rigenerata e rigenerante, è nato in realtà, come predisse il profeta, il popolo dei "poveri" che hanno aperto il cuore al Vangelo e sono diventati e diventano sempre di nuovo "querce di giustizia", "piantagione del Signore per manifestare la sua gloria", ricostruttori di rovine, restauratori di città desolate, stimati da tutti come stirpe benedetta dal Signore (cfr Is 61,3-4 Is 61,9). Il mistero della risurrezione del Figlio di Dio, che, salito al cielo accanto al Padre, ha effuso su di noi lo Spirito Santo, ci fa abbracciare con un solo sguardo Cristo e la Chiesa: il Risorto e i risorti, la Primizia e il campo di Dio, la Pietra angolare e le pietre vive, per usare un'altra immagine della Prima Lettera di Pietro (cfr 1P 2,4-8). Così avvenne all'inizio, con la prima comunità apostolica, e così deve avvenire anche ora.

Dal giorno della Pentecoste, infatti, la luce del Signore risorto ha trasfigurato la vita degli Apostoli. Essi ormai avevano la chiara percezione di non essere semplicemente discepoli di una dottrina nuova ed interessante, ma testimoni prescelti e responsabili di una rivelazione a cui era legata la salvezza dei loro contemporanei e di tutte le future generazioni. La fede pasquale riempiva il loro cuore di un ardore e di uno zelo straordinario, che li rendeva pronti ad affrontare ogni difficoltà e persino la morte, ed imprimeva alle loro parole un'irresistibile energia di persuasione. E così, un manipolo di persone, sprovviste di umane risorse e forti soltanto della loro fede, affrontò senza paura dure persecuzioni e il martirio. Scrive l'apostolo Giovanni: "Questa è la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede" (1Jn 5,4b). La verità di quest'affermazione è documentata anche in Italia da quasi due millenni di storia cristiana, con innumerevoli testimonianze di martiri, di santi e beati, che hanno lasciato tracce indelebili in ogni angolo della bella Penisola nella quale viviamo. Alcuni di loro sono stati evocati all'inizio del Convegno e i loro volti ne accompagnano i lavori.

Noi oggi siamo gli eredi di quei testimoni vittoriosi! Ma proprio da questa costatazione nasce la domanda: che ne è della nostra fede? In che misura sappiamo noi oggi comunicarla? La certezza che Cristo è risorto ci assicura che nessuna forza avversa potrà mai distruggere la Chiesa. Ci anima anche la consapevolezza che soltanto Cristo può pienamente soddisfare le attese profonde di ogni cuore umano e rispondere agli interrogativi più inquietanti sul dolore, l'ingiustizia e il male, sulla morte e l'aldilà. Dunque, la nostra fede è fondata, ma occorre che questa fede diventi vita in ciascuno di noi. C'è allora un vasto e capillare sforzo da compiere perché ogni cristiano si trasformi in "testimone" capace e pronto ad assumere l'impegno di rendere conto a tutti e sempre della speranza che lo anima (cfr 1P 3,15). Per questo occorre tornare ad annunciare con vigore e gioia l'evento della morte e risurrezione di Cristo, cuore del Cristianesimo, fulcro portante della nostra fede, leva potente delle nostre certezze, vento impetuoso che spazza ogni paura e indecisione, ogni dubbio e calcolo umano. Solo da Dio può venire il cambiamento decisivo del mondo. Soltanto a partire dalla Risurrezione si comprende la vera natura della Chiesa e della sua testimonianza, che non è qualcosa di staccato dal mistero pasquale, bensì ne è frutto, manifestazione e attuazione da parte di quanti, ricevendo lo Spirito Santo, sono inviati da Cristo a proseguire la sua stessa missione (cfr Jn 20,21-23).

"Testimoni di Gesù risorto": questa definizione dei cristiani deriva direttamente dal brano del Vangelo di Luca oggi proclamato, ma anche dagli Atti degli Apostoli (cfr Ac 1,8 Ac 1,22). Testimoni di Gesù risorto. Quel "di" va capito bene! Vuol dire che il testimone è "di" Gesù risorto, cioè appartiene a Lui, e proprio in quanto tale può rendergli valida testimonianza, può parlare di Lui, farLo conoscere, condurre a Lui, trasmettere la sua presenza. È esattamente il contrario di quello che avviene per l'altra espressione: "speranza del mondo". Qui la preposizione "del" non indica affatto appartenenza, perché Cristo non è del mondo, come pure i cristiani non devono essere del mondo. La speranza, che è Cristo, è nel mondo, è per il mondo, ma lo è proprio perché Cristo è Dio, è "il Santo" (in ebraico Qadosh). Cristo è speranza per il mondo perché è risorto, ed è risorto perché è Dio. Anche i cristiani possono portare al mondo la speranza, perché sono di Cristo e di Dio nella misura in cui muoiono con Lui al peccato e risorgono con Lui alla vita nuova dell'amore, del perdono, del servizio, della non-violenza. Come dice sant'Agostino: "Hai creduto, sei stato battezzato: è morta la vita vecchia, è stata uccisa sulla croce, sepolta nel battesimo. È stata sepolta la vecchia, nella quale malamente sei vissuto: risorga la nuova" (Sermone Guelf. IX, in M. Pellegrino, Vox Patrum, 177). Solo se, come Cristo, non sono del mondo, i cristiani possono essere speranza nel mondo e per il mondo.

Cari fratelli e sorelle, il mio augurio, che sicuramente voi tutti condividete, è che la Chiesa in Italia possa ripartire da questo Convegno come sospinta dalla parola del Signore risorto che ripete a tutti e a ciascuno: siate nel mondo di oggi testimoni della mia passione e della mia risurrezione (cfr Lc 24,48). In un mondo che cambia, il Vangelo non muta. La Buona Notizia resta sempre la stessa: Cristo è morto ed è risorto per la nostra salvezza! Nel suo nome recate a tutti l'annuncio della conversione e del perdono dei peccati, ma date voi per primi testimonianza di una vita convertita e perdonata. Sappiamo bene che questo non è possibile senza essere "rivestiti di potenza dall'alto" (Lc 24,49), cioè senza la forza interiore dello Spirito del Risorto. Per riceverla occorre, come disse Gesù ai discepoli, non allontanarsi da Gerusalemme, rimanere nella "città" dove si è consumato il mistero della salvezza, il supremo Atto d'amore di Dio per l'umanità. Occorre rimanere in preghiera con Maria, la Madre che Cristo ci ha donato dalla Croce. Per i cristiani, cittadini del mondo, restare in Gerusalemme non può che significare rimanere nella Chiesa, la "città di Dio", dove attingere dai Sacramenti l'"unzione" dello Spirito Santo. In questi giorni del Convegno ecclesiale nazionale, la Chiesa che è in Italia, obbedendo al comando del Signore risorto, si è radunata, ha rivissuto l'esperienza originaria del Cenacolo, per ricevere nuovamente il dono dall'Alto. Ora, consacrati dalla sua "unzione", andate! Portate il lieto annuncio ai poveri, fasciate le piaghe dei cuori spezzati, proclamate la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, promulgate l'anno di misericordia del Signore (cfr Is 61,1-2). Ricostruite le antiche rovine, rialzate gli antichi ruderi, restaurate le città desolate (cfr Is 61,4). Sono tante le situazioni difficili che attendono un intervento risolutore! Portate nel mondo la speranza di Dio, che è Cristo Signore, il quale è risorto dai morti, e vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.


ESEQUIE DELL'EM.MO CARDINALE MARIO FRANCESCO POMPEDDA Basilica Vaticana, Venerdì, 20 ottobre 2006

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Cari fratelli e sorelle!

A distanza di qualche giorno soltanto, ci ritroviamo riuniti in preghiera per porgere l’ultimo saluto ad un altro nostro fratello, il Cardinale Mario Francesco Pompedda, che il Signore ha chiamato a sé, dopo un lungo periodo di sofferenza. In questi momenti di mestizia e di dolore ci viene in aiuto la parola di Dio, che illumina la nostra fede e sostiene la nostra speranza: la morte non ha l’ultima parola sul destino dell’uomo. "La vita non è tolta – ci assicura la Liturgia – ma trasformata, e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo" (Prefazio dei defunti I).

Nella prima Lettura, tratta dal libro del profeta Ezechiele, abbiamo ascoltato parole cariche di consolazione: "Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete…; saprete che io sono il Signore" (
Ez 37,5-6). La visione del profeta ci proietta verso il trionfo definitivo di Dio, quando farà risorgere i morti alla vita senza fine. La descrizione che Ezechiele traccia di "un esercito grande, sterminato" ci fa pensare ad una moltitudine di salvati, tra i quali amiamo pensare ci sia anche questo nostro fratello. Dice Gesù nel Vangelo: "Chi crede in me, anche se muore vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno" (Jn 11,25-26).

Con questa certezza ha vissuto ed è morto il Cardinale Mario Francesco Pompedda. Era nato il 18 aprile del 1929 a Ozieri, in Sardegna e, dopo aver compiuto gli studi ginnasiali nel seminario arcivescovile di Sassari e quelli liceali nel seminario regionale di Cagliari, aveva completato la formazione filosofica, teologica e giuridica a Roma presso la Pontificia Università Gregoriana, il Pontificio Istituto Biblico e la Pontificia Università Lateranense. Ottenne anche il titolo di Avvocato Rotale frequentando lo "Studium Sacrae Romanae Rotae". Venne ordinato sacerdote il 23 dicembre di 55 anni fa in questa stessa Basilica di San Pietro. Ed ancora in questa Basilica fu consacrato Vescovo con il titolo arcivescovile di Bisarcio dal mio Predecessore, il servo di Dio Giovanni Paolo II, il 6 gennaio 1998. Qui oggi, ancora nella Basilica di San Pietro, si celebra il suo funerale.

Tutta la vita egli ha speso al servizio della Santa Sede da quando, nel 1955, iniziò a lavorare presso il Tribunale della Rota Romana con vari incarichi fino alla nomina di Difensore del vincolo e successivamente, nel 1969, di Prelato Uditore. Nel 1993 divenne Decano del medesimo Tribunale Apostolico e Presidente della Corte d’Appello dello Stato della Città del Vaticano. La sua preparazione teologica, biblica e specialmente giuridica lo rese competente collaboratore di diversi Dicasteri della Curia Romana, sino ad assumere l’alta responsabilità di Prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica e di Presidente della Corte di Cassazione dello Stato della Città del Vaticano.

Al quotidiano lavoro nella Rota Romana e poi nella Segnatura Apostolica, all’insegnamento presso la Facoltà di Diritto Canonico della Pontificia Università Gregoriana e dell’Ateneo Romano della Santa Croce, il Cardinale Pompedda ha unito l’attività pastorale, esercitando il ministero sacerdotale per una trentina d’anni nella parrocchia di Nostra Signora di Guadalupe a Monte Mario. Comunicava a quanti lo incontravano la solidità della sua fede ed illuminava le coscienze con i principi e gli insegnamenti della dottrina cattolica. Con i limiti di ogni umana creatura, si è sforzato di servire Cristo servendo la Chiesa, collaborando con il Successore di Pietro in tutte le varie mansioni che gli furono via via affidate. Quando cinque anni or sono, il 21 febbraio del 2001, venne creato Cardinale dall’amato Giovanni Paolo II, egli avvertì ancor più il valore e la responsabilità di dover servire e testimoniare il Vangelo "usque ad effusionem sanguinis".

L’ultimo tratto del suo cammino terreno è stato segnato da una malattia, che gli ha praticamente impedito di svolgere qualsiasi attività. Assimilato così alla passione di Cristo, questo nostro amico e fratello si è dovuto progressivamente distaccare da tutto per abbandonarsi senza riserve alla volontà divina. "Soli Deo" era il motto che scelse quando fu eletto Arcivescovo; solo in Dio ha potuto trovare vero conforto nei momenti della sofferenza e della prova ed ora è Lui, il Padre celeste, a spalancargli le braccia del suo amore misericordioso. Ricorda san Paolo nella Lettera ai Romani: "Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati per il suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui" (Rm 5,6-9). La fiducia in Cristo ha guidato sempre, ma in particolar modo negli ultimi mesi, l’esistenza del Cardinale Pompedda, la cui anima ora affidiamo alla misericordia del Padre.

Quanto confortanti risuonano, a questo proposito, le parole che abbiamo ascoltato qualche minuto fa nel Vangelo: "Questa è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell’ultimo giorno" (Jn 6,40). Chi crede in Cristo ha la vita eterna. Gesù non elimina la morte. Essa resta come pesante debito da pagare al nostro limite umano e al potere del male. Con la sua risurrezione, però, Egli ha sconfitto la morte per sempre. E con Lui l’hanno sconfitta anche coloro che in Lui credono e dalla sua pienezza attingono grazia su grazia (cfr Jn 1,16) Questa consapevolezza illumina ed orienta l’esistenza di tutti i credenti. Con la certezza che Cristo è il vincitore della morte e con la speranza di essere da Lui risuscitato nell’ultimo giorno, si è spento il Cardinale Mario Francesco Pompedda. Nel suo esodo da questo mondo lo accompagniamo con la nostra fraterna preghiera, affidandolo alla celeste protezione di Maria. Gli conceda il Signore, per intercessione della Vergine Santissima, il riposo promesso ai suoi amici, e nella sua misericordia lo introduca nel Regno della luce e della pace. Stretti con affetto attorno alle spoglie mortali del Cardinale Pompedda, noi chiediamo a Dio di vivere costantemente protesi verso Cristo che "prendendo su di sé la nostra morte, ci ha liberati dalla morte e sacrificando la sua vita ci ha aperto il passaggio alla vita immortale" (Prefazio dei defunti II). Amen!



CAPPELLA PAPALE PER LA SOLENNITÀ DI TUTTI I SANTI Basilica Vaticana, Mercoledì, 1° novembre 2006

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Il Santo Padre ha introdotto la Celebrazione e l'atto penitenziale con le seguenti parole:

Fratelli e sorelle amatissimi, noi oggi contempliamo il mistero della comunione dei santi del cielo e della terra. Noi non siamo soli, ma siamo avvolti da una grande nuvola di testimoni: con loro formiamo il Corpo di Cristo, con loro siamo figli di Dio, con loro siamo fatti santi dello Spirito Santo. Gioia in cielo, esulti la terra! La gloriosa schiera dei santi intercede per noi presso il Signore, ci accompagna nel nostro cammino verso il Regno, ci sprona a tenere fisso lo sguardo su Gesù il Signore, che verrà nella gloria in mezzo ai suoi santi. Disponiamoci a celebrare il grande mistero della fede e dell'amore, confessandoci bisognosi della misericordia di Dio.

Cari fratelli e sorelle,

la nostra celebrazione eucaristica si è aperta con l'esortazione "Rallegriamoci tutti nel Signore". La liturgia ci invita a condividere il gaudio celeste dei santi, ad assaporarne la gioia. I santi non sono una esigua casta di eletti, ma una folla senza numero, verso la quale la liturgia ci esorta oggi a levare lo sguardo. In tale moltitudine non vi sono soltanto i santi ufficialmente riconosciuti, ma i battezzati di ogni epoca e nazione, che hanno cercato di compiere con amore e fedeltà la volontà divina. Della gran parte di essi non conosciamo i volti e nemmeno i nomi, ma con gli occhi della fede li vediamo risplendere, come astri pieni di gloria, nel firmamento di Dio.

Quest'oggi la Chiesa festeggia la sua dignità di "madre dei santi, immagine della città superna" (A. Manzoni), e manifesta la sua bellezza di sposa immacolata di Cristo, sorgente e modello di ogni santità. Non le mancano certo figli riottosi e addirittura ribelli, ma è nei santi che essa riconosce i suoi tratti caratteristici, e proprio in loro assapora la sua gioia più profonda. Nella prima Lettura, l'autore del libro dell'Apocalisse li descrive come "una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua" (
Ap 7,9). Questo popolo comprende i santi dell'Antico Testamento, a partire dal giusto Abele e dal fedele Patriarca Abramo, quelli del Nuovo Testamento, i numerosi martiri dell'inizio del cristianesimo e i beati e i santi dei secoli successivi, sino ai testimoni di Cristo di questa nostra epoca. Li accomuna tutti la volontà di incarnare nella loro esistenza il Vangelo, sotto l'impulso dell'eterno animatore del Popolo di Dio che è lo Spirito Santo.

Ma "a che serve la nostra lode ai santi, a che il nostro tributo di gloria, a che questa stessa nostra solennità?". Con questa domanda comincia una famosa omelia di san Bernardo per il giorno di Tutti i Santi. È domanda che ci si potrebbe porre anche oggi. E attuale è anche la risposta che il Santo ci offre: "I nostri santi - egli dice - non hanno bisogno dei nostri onori e nulla viene a loro dal nostro culto. Per parte mia, devo confessare che, quando penso ai santi, mi sento ardere da grandi desideri" (Disc. 2; Opera Omnia Cisterc. 5, 364ss). Ecco dunque il significato dell'odierna solennità: guardando al luminoso esempio dei santi risvegliare in noi il grande desiderio di essere come i santi: felici di vivere vicini a Dio, nella sua luce, nella grande famiglia degli amici di Dio. Essere Santo significa: vivere nella vicinanza con Dio, vivere nella sua famiglia. E questa è la vocazione di noi tutti, con vigore ribadita dal Concilio Vaticano II, ed oggi riproposta in modo solenne alla nostra attenzione.

Ma come possiamo divenire santi, amici di Dio? All'interrogativo si può rispondere anzitutto in negativo: per essere santi non occorre compiere azioni e opere straordinarie, né possedere carismi eccezionali. Viene poi la risposta in positivo: è necessario innanzitutto ascoltare Gesù e poi seguirlo senza perdersi d'animo di fronte alle difficoltà. "Se uno mi vuol servire - Egli ci ammonisce - mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre lo onorerà" (Jn 12,26). Chi si fida di Lui e lo ama con sincerità, come il chicco di grano sepolto nella terra, accetta di morire a sé stesso. Egli infatti sa che chi cerca di avere la sua vita per se stesso la perde, e chi si dà, si perde, trova proprio così la vita (Cfr Jn 12,24-25). L'esperienza della Chiesa dimostra che ogni forma di santità, pur seguendo tracciati differenti, passa sempre per la via della croce, la via della rinuncia a se stesso. Le biografie dei santi descrivono uomini e donne che, docili ai disegni divini, hanno affrontato talvolta prove e sofferenze indescrivibili, persecuzioni e martirio. Hanno perseverato nel loro impegno, "sono passati attraverso la grande tribolazione - si legge nell'Apocalisse - e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello" (Ap 7,14). I loro nomi sono scritti nel libro della vita (cfr Ap 20,12); loro eterna dimora è il Paradiso. L'esempio dei santi è per noi un incoraggiamento a seguire le stesse orme, a sperimentare la gioia di chi si fida di Dio, perché l'unica vera causa di tristezza e di infelicità per l'uomo è vivere lontano da Lui.

La santità esige uno sforzo costante, ma è possibile a tutti perché, più che opera dell'uomo, è anzitutto dono di Dio, tre volte Santo (cfr Is 6,3). Nella seconda Lettura, l'apostolo Giovanni osserva: "Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!" (1Jn 3,1). È Dio, dunque, che per primo ci ha amati e in Gesù ci ha resi suoi figli adottivi. Nella nostra vita tutto è dono del suo amore: come restare indifferenti dinanzi a un così grande mistero? Come non rispondere all'amore del Padre celeste con una vita da figli riconoscenti? In Cristo ci ha fatto dono di tutto se stesso, e ci chiama a una relazione personale e profonda con Lui. Quanto più pertanto imitiamo Gesù e Gli restiamo uniti, tanto più entriamo nel mistero della santità divina. Scopriamo di essere amati da Lui in modo infinito, e questo ci spinge, a nostra volta, ad amare i fratelli. Amare implica sempre un atto di rinuncia a se stessi, il "perdere se stessi", e proprio così ci rende felici.

Così siamo arrivati al Vangelo di questa festa, all'annuncio delle Beatitudini che poco fa abbiamo sentito risuonare in questa Basilica. Dice Gesù: Beati i poveri in spirito, beati gli afflitti, i miti, beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, i misericordiosi, beati i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati per causa della giustizia (cfr Mt 5,3-10). In verità, il Beato per eccellenza è solo Lui, Gesù. È Lui, infatti, il vero povero in spirito, l'afflitto, il mite, l'affamato e l'assetato di giustizia, il misericordioso, il puro di cuore, l'operatore di pace; è Lui il perseguitato a causa della giustizia. Le Beatitudini ci mostrano la fisionomia spirituale di Gesù e così esprimono il suo mistero, il mistero di Morte e Risurrezione, di Passione e di gioia della Risurrezione. Questo mistero, che è mistero della vera beatitudine, ci invita alla sequela di Gesù e così al cammino verso di essa. Nella misura in cui accogliamo la sua proposta e ci poniamo alla sua sequela - ognuno nelle sue circostanze - anche noi possiamo partecipare della sua beatitudine. Con Lui l'impossibile diventa possibile e persino un cammello passa per la cruna dell'ago (cfr Mc 10,25); con il suo aiuto, solo con il suo aiuto ci è dato di diventare perfetti come è perfetto il Padre celeste (cfr Mt 5,48).

Cari fratelli e sorelle, entriamo ora nel cuore della Celebrazione eucaristica, stimolo e nutrimento di santità. Tra poco si farà presente nel modo più alto Cristo, vera Vite, a cui, come tralci, sono uniti i fedeli che sono sulla terra ed i santi del cielo. Più stretta pertanto sarà la comunione della Chiesa pellegrinante nel mondo con la Chiesa trionfante nella gloria. Nel Prefazio proclameremo che i santi sono per noi amici e modelli di vita. Invochiamoli perché ci aiutino ad imitarli e impegniamoci a rispondere con generosità, come hanno fatto loro, alla divina chiamata. Invochiamo specialmente Maria, Madre del Signore e specchio di ogni santità. Lei, la Tutta Santa, ci faccia fedeli discepoli del suo figlio Gesù Cristo! Amen.


Benedetto XVI Omelie 15106