Benedetto XVI Omelie 13510

SANTA MESSA

Grande Piazzale di Av. dos Aliados di Porto, Venerdì, 14 maggio 2010

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Cari Fratelli e Sorelle,

«Sta scritto […] nel libro dei Salmi: […] il suo incarico lo prenda un altro. Bisogna dunque che […] uno divenga testimone, insieme a noi, della sua risurrezione» (
Ac 1,20-22). Così disse Pietro, leggendo ed interpretando la parola di Dio in mezzo ai suoi fratelli, radunati nel Cenacolo dopo l’Ascensione di Gesù al Cielo. Fu scelto Mattia, che era stato testimone della vita pubblica di Gesù e del suo trionfo sulla morte, restandogli fedele sino alla fine, nonostante l’abbandono di molti. La «sproporzione» tra le forze in campo che oggi ci spaventa, già duemila anni fa stupiva coloro che vedevano e ascoltavano Cristo. C’era soltanto Lui, dalle sponde del Lago di Galilea fino alle piazze di Gerusalemme, solo o quasi solo nei momenti decisivi: Lui in unione con il Padre, Lui nella forza dello Spirito. Eppure è avvenuto che, alla fine, dallo stesso amore che ha creato il mondo, la novità del Regno è spuntata come piccolo seme che germina dalla terra, come scintilla di luce che irrompe nelle tenebre, come alba di un giorno senza tramonto: È Cristo risorto. Ed è apparso ai suoi amici, mostrando loro la necessità della croce per giungere alla risurrezione.

Un testimone di tutto ciò cercava Pietro in quel giorno. Presentati due, il Cielo ha designato «Mattia, che fu associato agli undici apostoli» (Ac 1,26). Oggi celebriamo la sua gloriosa memoria in questa «Città Invitta», che si è rivestita di festa per accogliere il Successore di Pietro. Rendo grazie a Dio per avermi portato in mezzo a voi, incontrandovi attorno all’altare. Il mio cordiale saluto va a voi, fratelli e amici della città e diocesi di Porto, a quelli che sono venuti dalla provincia ecclesiastica del nord di Portogallo e anche dalla vicina Spagna, e a quanti altri sono in comunione fisica o spirituale con questa nostra assemblea liturgica. Saluto il Vescovo di Porto, Mons. Manuel Clemente, che ha desiderato con grande sollecitudine la mia visita, che mi ha accolto con grande affetto e si è fatto interprete dei vostri sentimenti all’inizio di quest’Eucaristia. Saluto i suoi Predecessori e gli altri Fratelli nell’Episcopato, i sacerdoti, i consacrati e le consacrate, e i fedeli laici, con un pensiero particolare verso quanti sono coinvolti nel dare dinamicità alla Missione diocesana e, più in concreto, nella preparazione di questa mia Visita. So che essa ha potuto contare sull’effettiva collaborazione del Sindaco di Porto e di altre Autorità pubbliche, molte delle quali mi onorano con la loro presenza; approfitto di questo momento per salutarle e augurare ad esse, e a quanti rappresentano e servono, i migliori successi per il bene di tutti.

«Bisogna che uno divenga testimone, insieme a noi, della risurrezione», diceva Pietro. E il suo attuale Successore ripete a ciascuno di voi: Miei fratelli e sorelle, bisogna che diventiate con me testimoni della risurrezione di Gesù. In effetti, se non sarete voi i suoi testimoni nel vostro ambiente, chi lo sarà al vostro posto? Il cristiano è, nella Chiesa e con la Chiesa, un missionario di Cristo inviato nel mondo. Questa è la missione improrogabile di ogni comunità ecclesiale: ricevere da Dio e offrire al mondo Cristo risorto, affinché ogni situazione di indebolimento e di morte sia trasformata, mediante lo Spirito Santo, in occasione di crescita e di vita. A tale scopo, in ogni celebrazione eucaristica, ascolteremo più attentamente la Parola di Cristo e gusteremo assiduamente il Pane della sua presenza. Ciò farà di noi testimoni e, più ancora, portatori di Gesù risorto nel mondo, recandolo ai diversi settori della società e a quanti in essi vivono e lavorano, diffondendo quella «vita in abbondanza» (cfr Jn 10,10) che Egli ci ha guadagnato con la sua croce e risurrezione e che sazia i più legittimi aneliti del cuore umano.

Nulla imponiamo, ma sempre proponiamo, come Pietro ci raccomanda in una delle sue lettere: «Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1P 3,15). E tutti, alla fine, ce la domandano, anche coloro che sembrano non domandarla. Per esperienza personale e comune, sappiamo bene che è Gesù colui che tutti attendono. Infatti le più profonde attese del mondo e le grandi certezze del Vangelo si incrociano nell’irrecusabile missione che ci compete, poiché «senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia. Di fronte agli enormi problemi dello sviluppo dei popoli che quasi ci spingono allo sconforto e alla resa, ci viene in aiuto la parola del Signore Gesù Cristo che ci fa consapevoli: “Senza di me non potete far nulla” (Jn 15,5), e c’incoraggia: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20)» (Benedetto XVI, Enc. Caritas in veritate, ).

Tuttavia, se questa certezza ci consola e ci tranquillizza, non ci esime dall’andare incontro agli altri. Dobbiamo vincere la tentazione di limitarci a ciò che ancora abbiamo, o riteniamo di avere, di nostro e di sicuro: sarebbe un morire a termine, in quanto presenza di Chiesa nel mondo, la quale, d’altronde, può soltanto essere missionaria nel movimento diffusivo dello Spirito. Sin dalle sue origini, il popolo cristiano ha avvertito con chiarezza l’importanza di comunicare la Buona Novella di Gesù a quanti non lo conoscevano ancora. In questi ultimi anni, è cambiato il quadro antropologico, culturale, sociale e religioso dell’umanità; oggi la Chiesa è chiamata ad affrontare nuove sfide ed è pronta a dialogare con culture e religioni diverse, cercando di costruire insieme ad ogni persona di buona volontà la pacifica convivenza dei popoli. Il campo della missione ad gentes si presenta oggi notevolmente ampliato e non definibile soltanto in base a considerazioni geografiche; in effetti ci attendono non soltanto i popoli non cristiani e le terre lontane, ma anche gli ambiti socio-culturali e soprattutto i cuori che sono i veri destinatari dell’azione missionaria del popolo di Dio.

Si tratta di un mandato il cui fedele compimento «deve procedere per la stessa strada seguita da Cristo, la strada, cioè, della povertà, dell’obbedienza, del servizio e dell’immolazione di se stesso fino alla morte, da cui uscì vincitore con la sua risurrezione» (Decr. Ad gentes AGD 5). Sì! Siamo chiamati a servire l’umanità del nostro tempo, confidando unicamente in Gesù, lasciandoci illuminare dalla sua Parola: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (Jn 15,16). Quanto tempo perduto, quanto lavoro rimandato, per inavvertenza su questo punto! Tutto si definisce a partire da Cristo, quanto all’origine e all’efficacia della missione: la missione la riceviamo sempre da Cristo, che ci ha fatto conoscere ciò che ha udito dal Padre suo, e siamo investiti in essa per mezzo dello Spirito, nella Chiesa. Come la Chiesa stessa, opera di Cristo e del suo Spirito, si tratta di rinnovare la faccia della terra partendo da Dio, sempre e solo da Dio!

Cari fratelli e amici di Porto, alzate gli occhi verso Colei che avete scelto come patrona della città, Nostra Signora di Vandoma. L’Angelo dell’annunciazione ha salutato Maria come «piena di grazia», significando con quest’espressione che il suo cuore e la sua vita erano totalmente aperti a Dio e, perciò, completamente invasi dalla sua grazia. Che Ella vi aiuti a fare di voi stessi un «sì» libero e pieno alla grazia di Dio, affinché possiate essere rinnovati e rinnovare l’umanità attraverso la luce e la gioia dello Spirito Santo.



CAPPELLA PAPALE NELLA SOLENNITÀ DI PENTECOSTE

Basilica Vaticana, Domenica, 23 maggio 2010

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Cari fratelli e sorelle,

nella celebrazione solenne della Pentecoste siamo invitati a professare la nostra fede nella presenza e nell’azione dello Spirito Santo e a invocarne l’effusione su di noi, sulla Chiesa e sul mondo intero. Facciamo nostra, dunque, e con particolare intensità, l’invocazione della Chiesa stessa: Veni, Sancte Spiritus! Un’invocazione tanto semplice e immediata, ma insieme straordinariamente profonda, sgorgata prima di tutto dal cuore di Cristo. Lo Spirito Santo, infatti, è il dono che Gesù ha chiesto e continuamente chiede al Padre per i suoi amici; il primo e principale dono che ci ha ottenuto con la sua Risurrezione e Ascensione al Cielo.

Di questa preghiera di Cristo ci parla il brano evangelico odierno, che ha come contesto l’Ultima Cena. Il Signore Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre» (
Jn 14,15-16). Qui ci viene svelato il cuore orante di Gesù, il suo cuore filiale e fraterno. Questa preghiera raggiunge il suo vertice e il suo compimento sulla croce, dove l’invocazione di Cristo fa tutt’uno con il dono totale che Egli fa di se stesso, e così il suo pregare diventa per così dire il sigillo stesso del suo donarsi in pienezza per amore del Padre e dell’umanità: invocazione e donazione dello Spirito s’incontrano, si compenetrano, diventano un’unica realtà. «E io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre». In realtà, la preghiera di Gesù – quella dell’Ultima Cena e quella sulla croce – è una preghiera che permane anche in Cielo, dove Cristo siede alla destra del Padre. Gesù, infatti, vive sempre il suo sacerdozio d’intercessione a favore del popolo di Dio e dell’umanità e quindi prega per tutti noi chiedendo al Padre il dono dello Spirito Santo.

Il racconto della Pentecoste nel libro degli Atti degli Apostoli – lo abbiamo ascoltato nella prima lettura (cfr Ac 2,1-11) – presenta il “nuovo corso” dell’opera di Dio iniziato con la risurrezione di Cristo, opera che coinvolge l’uomo, la storia e il cosmo. Dal Figlio di Dio morto e risorto e ritornato al Padre spira ora sull’umanità, con inedita energia, il soffio divino, lo Spirito Santo. E cosa produce questa nuova e potente auto-comunicazione di Dio? Là dove ci sono lacerazioni ed estraneità, essa crea unità e comprensione. Si innesca un processo di riunificazione tra le parti della famiglia umana, divise e disperse; le persone, spesso ridotte a individui in competizione o in conflitto tra loro, raggiunte dallo Spirito di Cristo, si aprono all’esperienza della comunione, che può coinvolgerle a tal punto da fare di loro un nuovo organismo, un nuovo soggetto: la Chiesa. Questo è l’effetto dell’opera di Dio: l’unità; perciò l’unità è il segno di riconoscimento, il “biglietto da visita” della Chiesa nel corso della sua storia universale. Fin dall’inizio, dal giorno di Pentecoste, essa parla tutte le lingue. La Chiesa universale precede le Chiese particolari, e queste devono sempre conformarsi a quella, secondo un criterio di unità e universalità. La Chiesa non rimane mai prigioniera di confini politici, razziali e culturali; non si può confondere con gli Stati e neppure con le Federazioni di Stati, perché la sua unità è di genere diverso e aspira ad attraversare tutte le frontiere umane.

Da questo, cari fratelli, deriva un criterio pratico di discernimento per la vita cristiana: quando una persona, o una comunità, si chiude nel proprio modo di pensare e di agire, è segno che si è allontanata dallo Spirito Santo. Il cammino dei cristiani e delle Chiese particolari deve sempre confrontarsi con quello della Chiesa una e cattolica, e armonizzarsi con esso. Ciò non significa che l’unità creata dallo Spirito Santo sia una specie di egualitarismo. Al contrario, questo è piuttosto il modello di Babele, cioè l’imposizione di una cultura dell’unità che potremmo definire “tecnica”. La Bibbia, infatti, ci dice (cfr Gn 11,1-9) che a Babele tutti parlavano una sola lingua. A Pentecoste, invece, gli Apostoli parlano lingue diverse in modo che ciascuno comprenda il messaggio nel proprio idioma. L’unità dello Spirito si manifesta nella pluralità della comprensione. La Chiesa è per sua natura una e molteplice, destinata com’è a vivere presso tutte le nazioni, tutti i popoli, e nei più diversi contesti sociali. Essa risponde alla sua vocazione, di essere segno e strumento di unità di tutto il genere umano (cfr Lumen gentium LG 1), solo se rimane autonoma da ogni Stato e da ogni cultura particolare. Sempre e in ogni luogo la Chiesa dev’essere veramente, cattolica e universale, la casa di tutti in cui ciascuno si può ritrovare.

Il racconto degli Atti degli Apostoli ci offre anche un altro spunto molto concreto. L’universalità della Chiesa viene espressa dall’elenco dei popoli, secondo l’antica tradizione: “Siamo Parti, Medi, Elamiti…”, eccetera. Si può osservare qui che san Luca va oltre il numero 12, che già esprime sempre un’universalità. Egli guarda oltre gli orizzonti dell’Asia e dell’Africa nord-occidentale, e aggiunge altri tre elementi: i “Romani”, cioè il mondo occidentale; i “Giudei e prosèliti”, comprendendo in modo nuovo l’unità tra Israele e il mondo; e infine “Cretesi e Arabi”, che rappresentano Occidente e Oriente, isole e terra ferma. Questa apertura di orizzonti conferma ulteriormente la novità di Cristo nella dimensione dello spazio umano, della storia delle genti: lo Spirito Santo coinvolge uomini e popoli e, attraverso di essi, supera muri e barriere.

A Pentecoste lo Spirito Santo si manifesta come fuoco. La sua fiamma è discesa sui discepoli riuniti, si è accesa in essi e ha donato loro il nuovo ardore di Dio. Si realizza così ciò che aveva predetto il Signore Gesù: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!» (Lc 12,49). Gli Apostoli, insieme ai fedeli delle diverse comunità, hanno portato questa fiamma divina fino agli estremi confini della Terra; hanno aperto così una strada per l’umanità, una strada luminosa, e hanno collaborato con Dio che con il suo fuoco vuole rinnovare la faccia della terra. Com’è diverso questo fuoco da quello delle guerre e delle bombe! Com’è diverso l’incendio di Cristo, propagato dalla Chiesa, rispetto a quelli accesi dai dittatori di ogni epoca, anche del secolo scorso, che lasciano dietro di sé terra bruciata. Il fuoco di Dio, il fuoco dello Spirito Santo, è quello del roveto che divampa senza bruciare (cfr Ex 3,2). E’ una fiamma che arde, ma non distrugge; che, anzi, divampando fa emergere la parte migliore e più vera dell’uomo, come in una fusione fa emergere la sua forma interiore, la sua vocazione alla verità e all’amore.

Un Padre della Chiesa, Origene, in una delle sue Omelie su Geremia, riporta un detto attribuito a Gesù, non contenuto nelle Sacre Scritture ma forse autentico, che recita così: «Chi è presso di me è presso il fuoco» (Omelia su Geremia L. I [III]). In Cristo, infatti, abita la pienezza di Dio, che nella Bibbia è paragonato al fuoco. Abbiamo osservato poco fa che la fiamma dello Spirito Santo arde ma non brucia. E tuttavia essa opera una trasformazione, e perciò deve consumare qualcosa nell’uomo, le scorie che lo corrompono e lo ostacolano nelle sue relazioni con Dio e con il prossimo. Questo effetto del fuoco divino però ci spaventa, abbiamo paura di essere “scottati”, preferiremmo rimanere così come siamo. Ciò dipende dal fatto che molte volte la nostra vita è impostata secondo la logica dell’avere, del possedere e non del donarsi. Molte persone credono in Dio e ammirano la figura di Gesù Cristo, ma quando viene chiesto loro di perdere qualcosa di se stessi, allora si tirano indietro, hanno paura delle esigenze della fede. C’è il timore di dover rinunciare a qualcosa di bello, a cui siamo attaccati; il timore che seguire Cristo ci privi della libertà, di certe esperienze, di una parte di noi stessi. Da un lato vogliamo stare con Gesù, seguirlo da vicino, e dall’altro abbiamo paura delle conseguenze che ciò comporta.

Cari fratelli e sorelle, abbiamo sempre bisogno di sentirci dire dal Signore Gesù quello che spesso ripeteva ai suoi amici: “Non abbiate paura”. Come Simon Pietro e gli altri, dobbiamo lasciare che la sua presenza e la sua grazia trasformino il nostro cuore, sempre soggetto alle debolezze umane. Dobbiamo saper riconoscere che perdere qualcosa, anzi, se stessi per il vero Dio, il Dio dell’amore e della vita, è in realtà guadagnare, ritrovarsi più pienamente. Chi si affida a Gesù sperimenta già in questa vita la pace e la gioia del cuore, che il mondo non può dare, e non può nemmeno togliere una volta che Dio ce le ha donate. Vale dunque la pena di lasciarsi toccare dal fuoco dello Spirito Santo! Il dolore che ci procura è necessario alla nostra trasformazione. E’ la realtà della croce: non per nulla nel linguaggio di Gesù il “fuoco” è soprattutto una rappresentazione del mistero della croce, senza il quale non esiste cristianesimo. Perciò, illuminati e confortati da queste parole di vita, eleviamo la nostra invocazione: Vieni, Spirito Santo! Accendi in noi il fuoco del tuo amore! Sappiamo che questa è una preghiera audace, con la quale chiediamo di essere toccati dalla fiamma di Dio; ma sappiamo soprattutto che questa fiamma – e solo essa – ha il potere di salvarci. Non vogliamo, per difendere la nostra vita, perdere quella eterna che Dio ci vuole donare. Abbiamo bisogno del fuoco dello Spirito Santo, perché solo l’Amore redime. Amen.





                                                                                  Giugno 2010

SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DEL SANTISSIMO CORPO E SANGUE DI CRISTO

Basilica di San Giovanni in Laterano, Giovedì, 3 giugno 2010

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Cari fratelli e sorelle!

Il sacerdozio del Nuovo Testamento è strettamente legato all’Eucaristia. Per questo oggi, nella solennità del Corpus Domini e quasi al termine dell’Anno Sacerdotale, siamo invitati a meditare sul rapporto tra l’Eucaristia e il Sacerdozio di Cristo. In questa direzione ci orientano anche la prima lettura e il salmo responsoriale, che presentano la figura di Melchisedek. Il breve passo del Libro della Genesi (cfr
Gn 14,18-20) afferma che Melchisedek, re di Salem, era “sacerdote del Dio altissimo”, e per questo “offrì pane e vino” e “benedisse Abram”, reduce da una vittoria in battaglia; Abramo stesso diede a lui la decima di ogni cosa. Il salmo, a sua volta, contiene nell’ultima strofa un’espressione solenne, un giuramento di Dio stesso, che dichiara al Re Messia: “Tu sei sacerdote per sempre / al modo di Melchisedek” (Ps 110,4); così il Messia viene proclamato non solo Re, ma anche Sacerdote. Da questo passo prende spunto l’autore della Lettera agli Ebrei per la sua ampia e articolata esposizione. E noi lo abbiamo riecheggiato nel ritornello: “Tu sei sacerdote per sempre, Cristo Signore”: quasi una professione di fede, che acquista un particolare significato nella festa odierna. E’ la gioia della comunità, la gioia della Chiesa intera, che, contemplando e adorando il Santissimo Sacramento, riconosce in esso la presenza reale e permanente di Gesù sommo ed eterno Sacerdote.

La seconda lettura e il Vangelo portano invece l’attenzione sul mistero eucaristico. Dalla Prima Lettera ai Corinzi (cfr 1Co 11,23-26) è tratto il brano fondamentale in cui san Paolo richiama a quella comunità il significato e il valore della “Cena del Signore”, che l’Apostolo aveva trasmesso e insegnato, ma che rischiavano di perdersi. Il Vangelo invece è il racconto del miracolo dei pani e dei pesci, nella redazione di san Luca: un segno attestato da tutti gli Evangelisti e che preannuncia il dono che Cristo farà di se stesso, per donare all’umanità la vita eterna. Entrambi questi testi mettono in risalto la preghiera di Cristo, nell’atto dello spezzare il pane. Naturalmente c’è una netta differenza tra i due momenti: quando divide i pani e i pesci per le folle, Gesù ringrazia il Padre celeste per la sua provvidenza, confidando che Egli non farà mancare il cibo per tutta quella gente. Nell’Ultima Cena, invece, Gesù trasforma il pane e il vino nel proprio Corpo e Sangue, affinché i discepoli possano nutrirsi di Lui e vivere in comunione intima e reale con Lui.

La prima cosa che occorre sempre ricordare è che Gesù non era un sacerdote secondo la tradizione giudaica. La sua non era una famiglia sacerdotale. Non apparteneva alla discendenza di Aronne, bensì a quella di Giuda, e quindi legalmente gli era preclusa la via del sacerdozio. La persona e l’attività di Gesù di Nazaret non si collocano nella scia dei sacerdoti antichi, ma piuttosto in quella dei profeti. E in questa linea, Gesù prese le distanze da una concezione rituale della religione, criticando l’impostazione che dava valore ai precetti umani legati alla purità rituale piuttosto che all’osservanza dei comandamenti di Dio, cioè all’amore per Dio e per il prossimo, che, come dice il Signore, “vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici” (Mc 12,33). Persino all’interno del Tempio di Gerusalemme, luogo sacro per eccellenza, Gesù compie un gesto squisitamente profetico, quando scaccia i cambiavalute e i venditori di animali, tutte cose che servivano per l’offerta dei sacrifici tradizionali. Dunque, Gesù non viene riconosciuto come un Messia sacerdotale, ma profetico e regale. Anche la sua morte, che noi cristiani giustamente chiamiamo “sacrificio”, non aveva nulla dei sacrifici antichi, anzi, era tutto l’opposto: l’esecuzione di una condanna a morte, per crocifissione, la più infamante, avvenuta fuori dalle mura di Gerusalemme.

Allora, in che senso Gesù è sacerdote? Ce lo dice proprio l’Eucaristia. Possiamo ripartire da quelle semplici parole che descrivono Melchisedek: “offrì pane e vino” (Gn 14,18). E’ ciò che ha fatto Gesù nell’ultima Cena: ha offerto pane e vino, e in quel gesto ha riassunto tutto se stesso e tutta la propria missione. In quell’atto, nella preghiera che lo precede e nelle parole che l’accompagnano c’è tutto il senso del mistero di Cristo, così come lo esprime la Lettera agli Ebrei in un passo decisivo, che è necessario riportare: “Nei giorni della sua vita terrena – scrive l’autore riferendosi a Gesù – egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo dalla morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek” (He 5,8-10). In questo testo, che chiaramente allude all’agonia spirituale del Getsemani, la passione di Cristo è presentata come una preghiera e come un’offerta. Gesù affronta la sua “ora”, che lo conduce alla morte di croce, immerso in una profonda preghiera, che consiste nell’unione della sua propria volontà con quella del Padre. Questa duplice ed unica volontà è una volontà d’amore. Vissuta in questa preghiera, la tragica prova che Gesù affronta viene trasformata in offerta, in sacrificio vivente.

Dice la Lettera agli Ebrei che Gesù “venne esaudito”. In che senso? Nel senso che Dio Padre lo ha liberato dalla morte e lo ha risuscitato. E’ stato esaudito proprio per il suo pieno abbandono alla volontà del Padre: il disegno d’amore di Dio ha potuto compiersi perfettamente in Gesù, che, avendo obbedito fino all’estremo della morte in croce, è diventato “causa di salvezza” per tutti coloro che obbediscono a Lui. E’ diventato cioè sommo Sacerdote per avere Egli stesso preso su di sé tutto il peccato del mondo, come “Agnello di Dio”. E’ il Padre che gli conferisce questo sacerdozio nel momento stesso in cui Gesù attraversa il passaggio della sua morte e risurrezione. Non è un sacerdozio secondo l’ordinamento della legge mosaica (cfr Lv 8-9), ma “secondo l’ordine di Melchisedek”, secondo un ordine profetico, dipendente soltanto dalla sua singolare relazione con Dio.

Ritorniamo all’espressione della Lettera agli Ebrei che dice: “Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì”. Il sacerdozio di Cristo comporta la sofferenza. Gesù ha veramente sofferto, e lo ha fatto per noi. Egli era il Figlio e non aveva bisogno di imparare l’obbedienza, ma noi sì, ne avevamo e ne abbiamo sempre bisogno. Perciò il Figlio ha assunto la nostra umanità e per noi si è lasciato “educare” nel crogiuolo della sofferenza, si è lasciato trasformare da essa, come il chicco di grano che per portare frutto deve morire nella terra. Attraverso questo processo Gesù è stato “reso perfetto”, in greco teleiotheis.Dobbiamo fermarci su questo termine, perché è molto significativo. Esso indica il compimento di un cammino, cioè proprio il cammino di educazione e trasformazione del Figlio di Dio mediante la sofferenza, mediante la passione dolorosa. E’ grazie a questa trasformazione che Gesù Cristo è diventato “sommo sacerdote” e può salvare tutti coloro che si affidano a Lui. Il termine teleiotheis, tradotto giustamente con “reso perfetto”, appartiene ad una radice verbale che, nella versione greca del Pentateuco, cioè i primi cinque libri della Bibbia, viene sempre usata per indicare la consacrazione degli antichi sacerdoti. Questa scoperta è assai preziosa, perché ci dice che la passione è stata per Gesù come una consacrazione sacerdotale. Egli non era sacerdote secondo la Legge, ma lo è diventato in maniera esistenziale nella sua Pasqua di passione, morte e risurrezione: ha offerto se stesso in espiazione e il Padre, esaltandolo al di sopra di ogni creatura, lo ha costituito Mediatore universale di salvezza.

Ritorniamo, nella nostra meditazione, all’Eucaristia, che tra poco sarà al centro della nostra assemblea liturgica. In essa Gesù ha anticipato il suo Sacrificio, un Sacrificio non rituale, ma personale. Nell’Ultima Cena Egli agisce mosso da quello “spirito eterno” con il quale si offrirà poi sulla Croce (cfr He 9,14). Ringraziando e benedicendo, Gesù trasforma il pane e il vino. E’ l’amore divino che trasforma: l’amore con cui Gesù accetta in anticipo di dare tutto se stesso per noi. Questo amore non è altro che lo Spirito Santo, lo Spirito del Padre e del Figlio, che consacra il pane e il vino e muta la loro sostanza nel Corpo e nel Sangue del Signore, rendendo presente nel Sacramento lo stesso Sacrificio che si compie poi in modo cruento sulla Croce. Possiamo dunque concludere che Cristo è sacerdote vero ed efficace perché era pieno della forza dello Spirito Santo, era colmo di tutta la pienezza dell’amore di Dio, e questo proprio “nella notte in cui fu tradito”, proprio nell’“ora delle tenebre” (cfr Lc 22,53). E’ questa forza divina, la stessa che realizzò l’Incarnazione del Verbo, a trasformare l’estrema violenza e l’estrema ingiustizia in atto supremo d’amore e di giustizia. Questa è l’opera del sacerdozio di Cristo, che la Chiesa ha ereditato e prolunga nella storia, nella duplice forma del sacerdozio comune dei battezzati e di quello ordinato dei ministri, per trasformare il mondo con l’amore di Dio. Tutti, sacerdoti e fedeli, ci nutriamo della stessa Eucaristia, tutti ci prostriamo ad adorarLa, perché in essa è presente il nostro Maestro e Signore, è presente il vero Corpo di Gesù, Vittima e Sacerdote, salvezza del mondo. Venite, esultiamo con canti di gioia! Venite, adoriamo! Amen.



VIAGGIO APOSTOLICO A CIPRO (4-6 GIUGNO 2010)


SANTA MESSA CON SACERDOTI, RELIGIOSI, RELIGIOSE, DIACONI, CATECHISTI ED ESPONENTI DI MOVIMENTI ECCLESIALI DI CIPRO

Chiesa parrocchiale latina della Santa Croce - Nicosia, Sabato, 5 giugno 2010

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Cari fratelli e sorelle in Cristo,

il Figlio dell’Uomo deve essere innalzato, affinché chiunque crede in lui abbia la vita eterna (cfr
Jn 3,14-15). In questa Messa votiva adoriamo e lodiamo il nostro Signore Gesù Cristo, poiché con la sua Santa Croce ha redento il mondo. Con la sua morte e risurrezione ha spalancato le porte del Cielo e ci ha preparato un posto, affinché a noi, suoi seguaci, venga donato di partecipare alla sua gloria.

Nella gioia della vittoria redentrice di Cristo, saluto tutti voi riuniti nella chiesa della Santa Croce e vi ringrazio per la vostra presenza. Apprezzo molto il calore con il quale mi avete accolto. Sono particolarmente grato a Sua Beatitudine il Patriarca latino di Gerusalemme per le sue parole di benvenuto all’inizio della Messa, e per la presenza del Padre Custode di Terra Santa. Qui a Cipro, terra che fu il primo porto di approdo dei viaggi missionari di san Paolo attraverso il Mediterraneo, giungo oggi fra voi, sulle orme di quel grande Apostolo, per rinsaldarvi nella vostra fede cristiana e per predicare il Vangelo che offre vita e speranza al mondo.

Il centro della celebrazione odierna è la Croce di Cristo. Molti potrebbero essere tentati di chiedere perché noi cristiani celebriamo uno strumento di tortura, un segno di sofferenza, di sconfitta e di fallimento. E’ vero che la croce esprime tutti questi significati. E tuttavia a causa di colui che è stato innalzato sulla croce per la nostra salvezza, rappresenta anche il definitivo trionfo dell’amore di Dio su tutti i mali del mondo.

Vi è un’antica tradizione che il legno della croce sia stato preso da un albero piantato da Seth, figlio di Adamo, nel luogo dove Adamo fu sepolto. In quello stesso luogo, conosciuto come il Golgota, il luogo del cranio, Seth piantò un seme dall’albero della conoscenza del bene e del male, l’albero che si trovava al centro del giardino dell’Eden. Attraverso la provvidenza di Dio, l’opera del Maligno sarebbe stata sconfitta ritorcendo le sue stesse armi contro di lui.

Ingannato dal serpente, Adamo ha abbandonato la filiale fiducia in Dio ed ha peccato mangiando i frutti dell’unico albero del giardino che gli era stato proibito. Come conseguenza di quel peccato entrarono nel mondo la sofferenza e la morte. I tragici effetti del peccato, e cioè la sofferenza e la morte, divennero del tutto evidenti nella storia dei discendenti di Adamo. Lo vediamo dalla prima lettura di oggi, che fa eco alla caduta e prefigura la redenzione di Cristo.

Come punizione dei propri peccati, il popolo di Israele, mentre languiva nel deserto, venne morso dai serpenti ed avrebbe potuto salvarsi dalla morte solo volgendo lo sguardo al simbolo che Mosè aveva innalzato, prefigurando la croce che avrebbe posto fine al peccato e alla morte una volta per tutte. Vediamo chiaramente che l’uomo non può salvare se stesso dalle conseguenze del proprio peccato. Non può salvare se stesso dalla morte. Soltanto Dio può liberarlo dalla sua schiavitù morale e fisica. E poiché Dio ha amato così tanto il mondo, ha inviato il suo Figlio unigenito non per condannare il mondo – come avrebbe richiesto la giustizia – ma affinché attraverso di Lui il mondo potesse essere salvato. L’unigenito Figlio di Dio avrebbe dovuto essere innalzato come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così che quanti avrebbero rivolto lo sguardo a lui con fede potessero avere la vita.

Il legno della croce divenne lo strumento per la nostra redenzione, proprio come l’albero dal quale era stato tratto aveva originato la caduta dei nostri progenitori. La sofferenza e la morte, che erano conseguenze del peccato, divennero il mezzo stesso attraverso il quale il peccato fu sconfitto. L’agnello innocente fu sacrificato sull’altare della croce, e tuttavia dall’immolazione della vittima scaturì una vita nuova: il potere del maligno fu distrutto dalla potenza dell’amore che sacrifica se stesso.

La croce, pertanto, è qualcosa di più grande e misterioso di quanto a prima vista possa apparire. Indubbiamente è uno strumento di tortura, di sofferenza e di sconfitta, ma allo stesso tempo esprime la completa trasformazione, la definitiva rivincita su questi mali, e questo lo rende il simbolo più eloquente della speranza che il mondo abbia mai visto. Parla a tutti coloro che soffrono – gli oppressi, i malati, i poveri, gli emarginati, le vittime della violenza – ed offre loro la speranza che Dio può trasformare la loro sofferenza in gioia, il loro isolamento in comunione, la loro morte in vita. Offre speranza senza limiti al nostro mondo decaduto.

Ecco perché il mondo ha bisogno della croce. Essa non è semplicemente un simbolo privato di devozione, non è un distintivo di appartenenza a qualche gruppo all’interno della società, ed il suo significato più profondo non ha nulla a che fare con l’imposizione forzata di un credo o di una filosofia. Parla di speranza, parla di amore, parla della vittoria della non violenza sull’oppressione, parla di Dio che innalza gli umili, dà forza ai deboli, fa superare le divisioni, e vincere l’odio con l’amore. Un mondo senza croce sarebbe un mondo senza speranza, un mondo in cui la tortura e la brutalità rimarrebbero sfrenati, il debole sarebbe sfruttato e l’avidità avrebbe la parola ultima. L’inumanità dell’uomo nei confronti dell’uomo si manifesterebbe in modi ancor più orrendi, e non ci sarebbe la parola fine al cerchio malefico della violenza. Solo la croce vi pone fine. Mentre nessun potere terreno può salvarci dalle conseguenze del nostro peccato, e nessuna potenza terrena può sconfiggere l’ingiustizia sin dalla sua sorgente, tuttavia l’intervento salvifico del nostro Dio misericordioso ha trasformato la realtà del peccato e della morte nel suo opposto. Questo è quanto celebriamo quando diamo gloria alla croce del Redentore. Giustamente sant’Andrea di Creta descrive la croce come “più nobile e preziosa di qualsiasi cosa sulla terra […], poiché in essa e mediante di essa e per essa tutta la ricchezza della nostra salvezza è stata accumulata e a noi restituita” (Oratio X , PG 97,1018-1019).

Cari fratelli sacerdoti, cari religiosi, cari catechisti, il messaggio della croce è stato affidato a noi, così che possiamo offrire speranza al mondo. Quando proclamiamo Cristo crocifisso, non proclamiamo noi stessi, ma lui. Non offriamo la nostra sapienza al mondo, non parliamo dei nostri propri meriti, ma fungiamo da canali della sua sapienza, del suo amore, dei suoi meriti salvifici. Sappiamo di essere semplicemente dei vasi fatti di creta e, tuttavia, sorprendentemente siamo stati scelti per essere araldi della verità salvifica che il mondo ha bisogno di udire. Non stanchiamoci mai di meravigliarci di fronte alla grazia straordinaria che ci è stata data, non cessiamo mai di riconoscere la nostra indegnità, ma allo stesso tempo sforziamoci sempre di diventare meno indegni della nostra nobile chiamata, in modo da non indebolire mediante i nostri errori e le nostre cadute la credibilità della nostra testimonianza.

In questo Anno Sacerdotale permettetemi di rivolgere una parola speciale ai sacerdoti oggi qui presenti e a quanti si preparano all’ordinazione. Riflettete sulle parole pronunciate al novello sacerdote dal Vescovo, mentre gli presenta il calice e la patena: “Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore”.

Mentre proclamiamo la croce di Cristo, cerchiamo sempre di imitare l’amore disinteressato di colui che offrì se stesso per noi sull’altare della croce, di colui che è allo stesso tempo sacerdote e vittima, di colui nella cui persona parliamo ed agiamo quando esercitiamo il ministero ricevuto. Nel riflettere sulle nostre mancanze, sia individualmente sia collettivamente, riconosciamo umilmente di aver meritato il castigo che lui, l’Agnello innocente, ha patito in nostra vece. E se, in accordo con quanto abbiamo meritato, avessimo qualche parte nelle sofferenze di Cristo, rallegriamoci, perché ne avremo una felicità ben più grande quando sarà rivelata la sua gloria.

Nei miei pensieri e nelle mie preghiere mi ricordo in modo speciale dei molti sacerdoti e religiosi del Medio Oriente che stanno sperimentando in questi momenti una particolare chiamata a conformare le proprie vite al mistero della croce del Signore. Dove i cristiani sono in minoranza, dove soffrono privazioni a causa delle tensioni etniche e religiose, molte famiglie prendono la decisione di andare via, e anche i pastori sono tentati di fare lo stesso. In situazioni come queste, tuttavia, un sacerdote, una comunità religiosa, una parrocchia che rimane salda e continua a dar testimonianza a Cristo è un segno straordinario di speranza non solo per i cristiani, ma anche per quanti vivono nella Regione. La loro sola presenza è un’espressione eloquente del Vangelo della pace, della decisione del Buon Pastore di prendersi cura di tutte le pecore, dell’incrollabile impegno della Chiesa al dialogo, alla riconciliazione e all’amorevole accettazione dell’altro. Abbracciando la croce loro offerta, i sacerdoti e i religiosi del Medio Oriente possono realmente irradiare la speranza che è al cuore del mistero che celebriamo nella liturgia odierna.

Rinfranchiamoci con le parole della seconda lettura di oggi, che parla così bene del trionfo riservato a Cristo dopo la morte in croce, un trionfo che siamo invitati a condividere. “Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni altro nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra” (Ph 2,9-10).

[Sì, amati fratelli e sorelle in Cristo, lungi da noi la gloria che non sia quella nella croce di Nostro Signore Gesù Cristo (cfr Ga 6,14). Lui è la nostra vita, la nostra salvezza e la nostra risurrezione. Per lui noi siamo stati salvati e resi liberi.]





Benedetto XVI Omelie 13510