Benedetto XVI Omelie 25019


FESTA DELLA PRESENTAZIONE DEL SIGNORE - XIII GIORNATA DELLA VITA CONSACRATA

Basilica Vaticana, Lunedì, 2 febbraio 2009

20209

Signor Cardinale,
venerati Fratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!

Con grande gioia vi incontro al termine del Santo Sacrificio della Messa, in questa Festa liturgica che, da tredici anni ormai, riunisce religiosi e religiose per la Giornata della Vita Consacrata. Saluto cordialmente il Cardinale Franc Rodé, con speciale riconoscenza a lui ed ai suoi collaboratori della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica per il servizio che rendono alla Santa Sede e a quello che chiamerei il "cosmo" della vita consacrata. Con affetto saluto i Superiori e le Superiore generali qui presenti e tutti voi, fratelli e sorelle, che sul modello della Vergine Maria portate nella Chiesa e nel mondo la luce di Cristo con la vostra testimonianza di persone consacrate. Faccio mie, in questo Anno Paolino, le parole dell'Apostolo: "Rendo grazie al mio Dio ogni volta che mi ricordo di voi. Sempre, quando prego per tutti voi, lo faccio con gioia a motivo della vostra cooperazione per il Vangelo, dal primo giorno fino al presente" (
Ph 1,3-5). In questo saluto, indirizzato alla comunità cristiana di Filippi, Paolo esprime il ricordo affettuoso che egli conserva di quanti vivono personalmente il Vangelo e si impegnano a trasmetterlo, unendo alla cura della vita interiore la fatica della missione apostolica.

Nella tradizione della Chiesa, san Paolo è stato sempre riconosciuto padre e maestro di quanti, chiamati dal Signore, hanno fatto la scelta di un'incondizionata dedizione a Lui e al suo Vangelo. Diversi Istituti religiosi prendono da san Paolo il nome e da lui attingono un'ispirazione carismatica specifica. Si può dire che per tutti i consacrati e le consacrate egli ripete un invito schietto e affettuoso: "Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo" (1Co 11,1). Che cos'è infatti la vita consacrata se non un'imitazione radicale di Gesù, una totale "sequela" di Lui? (cfr. Mt 19,27-28). Ebbene, in tutto ciò Paolo rappresenta una mediazione pedagogica sicura: imitarlo nel seguire Gesù, carissimi, è via privilegiata per corrispondere fino in fondo alla vostra vocazione di speciale consacrazione nella Chiesa.

Anzi, dalla sua stessa voce possiamo conoscere uno stile di vita che esprime la sostanza della vita consacrata ispirata ai consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza. Nella vita di povertà egli vede la garanzia di un annuncio del Vangelo realizzato in totale gratuità (cfr. 1Co 9,1-23), mentre esprime, allo stesso tempo, la concreta solidarietà verso i fratelli nel bisogno. Al riguardo tutti conosciamo la decisione di Paolo di mantenersi con il lavoro delle sue mani e il suo impegno per la colletta a favore dei poveri di Gerusalemme (cfr. 1Th 2,9 2Co 8-9). Paolo è anche un apostolo che, accogliendo la chiamata di Dio alla castità, ha donato il cuore al Signore in maniera indivisa, per poter servire con ancor più grande libertà e dedizione i suoi fratelli (cfr. 1Co 7,7 2Co 11,1-2); inoltre, in un mondo nel quale i valori della castità cristiana avevano scarsa cittadinanza (cfr. 1Co 6,12-20), egli offre un sicuro riferimento di condotta. Quanto poi all'obbedienza, basti notare che il compimento della volontà di Dio e l'"assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le chiese" (2Co 11,28) ne hanno animato, plasmato e consumato l'esistenza, resa sacrificio gradito a Dio. Tutto questo lo porta a proclamare, come scrive ai Filippesi: "Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno" (Ph 1,21).

Altro aspetto fondamentale della vita consacrata di Paolo è la missione.

Egli è tutto di Gesù per essere, come Gesù, di tutti; anzi, per essere Gesù per tutti: "Mi sono fatto tutto per tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno" (1Co 9,22). A lui, così strettamente unito alla persona di Cristo, riconosciamo una profonda capacità di coniugare vita spirituale e azione missionaria; in lui le due dimensioni si richiamano reciprocamente. E così, possiamo dire che egli appartiene a quella schiera di "mistici costruttori", la cui esistenza è insieme contemplativa ed attiva, aperta su Dio e sui fratelli per svolgere un efficace servizio al Vangelo. In questa tensione mistico-apostolica, mi piace rimarcare il coraggio dell'Apostolo di fronte al sacrificio nell'affrontare prove terribili, fino al martirio (cfr. 2Co 11,16-33), la fiducia incrollabile basata sulle parole del suo Signore: "Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza" (2Co 12,9-10). La sua esperienza spirituale ci appare così come la traduzione vissuta del mistero pasquale, che egli ha intensamente investigato ed annunciato come forma di vita del cristiano. Paolo vive per, con e in Cristo. "Sono stato crocifisso con Cristo - egli scrive -, e non vivo più io, ma Cristo vive in me" (Ga 2,20); e ancora: "per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno" (Ph 1,21).

Questo spiega perché egli non si stanchi di esortare a fare in modo che la parola di Cristo abiti in noi nella sua ricchezza (cfr. Col 3,16). Questo fa pensare all'invito a voi indirizzato dalla recente Istruzione su Il servizio dell'autorità e l'obbedienza, a cercare "ogni mattina il contatto vivo e costante con la Parola che in quel giorno è proclamata, meditandola e custodendola nel cuore come tesoro, facendone la radice d'ogni azione e il criterio primo d'ogni scelta" (n. 7). Auspico, pertanto, che l'Anno Paolino alimenti ancor più in voi il proposito di accogliere la testimonianza di san Paolo, meditando ogni giorno la Parola di Dio con la pratica fedele della lectio divina, pregando "con salmi, inni e canti ispirati, con gratitudine" (Col 3,16). Egli vi aiuti inoltre a realizzare il vostro servizio apostolico nella e con la Chiesa con uno spirito di comunione senza riserve, facendo dono agli altri dei propri carismi (cfr. 1Co 14,12), e testimoniando in primo luogo il carisma più grande che è la carità (cfr. 1Co 13).

Cari fratelli e sorelle, l'odierna liturgia ci esorta a guardare alla Vergine Maria, la "Consacrata" per eccellenza. Paolo parla di Lei con una formula concisa ma efficace, che ne descrive la grandezza e il compito: è la "donna" da cui, nella pienezza dei tempi, è nato il Figlio di Dio (cfr. Ga 4,4). Maria è la madre che oggi al Tempio presenta il Figlio al Padre, dando seguito anche in questo atto al "sì" pronunciato al momento dell'Annunciazione. Sia ancora essa la madre che accompagna e sostiene noi, figli di Dio e figli suoi, nel compimento di un servizio generoso a Dio e ai fratelli. A tal fine, invoco la sua celeste intercessione, mentre di cuore imparto la Benedizione Apostolica a tutti voi e alle vostre rispettive Famiglie religiose.


STATIO E PROCESSIONE PENITENZIALE DALLA CHIESA DI SANT'ANSELMO ALLA BASILICA DI SANTA SABINA ALL’AVENTINO

SANTA MESSA, BENEDIZIONE E IMPOSIZIONE DELLE CENERI

Basilica di Santa Sabina, Mercoledì delle Ceneri, 25 febbraio 2009

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Cari fratelli e sorelle!

Oggi, Mercoledì delle Ceneri - porta liturgica che introduce nella Quaresima -, i testi predisposti per la celebrazione tratteggiano, sia pure sommariamente, l’intera fisionomia del tempo quaresimale. La Chiesa si preoccupa di mostrarci quale debba essere l’orientamento del nostro spirito, e ci fornisce i sussidi divini per percorrere con decisione e coraggio, illuminati già dal fulgore del Mistero pasquale, il singolare itinerario spirituale che stiamo iniziando.

"Ritornate a me con tutto il cuore". L’appello alla conversione affiora come tema dominante in tutte le componenti dell’odierna liturgia. Già nell’antifona d’ingresso si dice che il Signore dimentica e perdona i peccati di quanti si convertono; nella colletta si invita il popolo cristiano a pregare perché ciascuno intraprenda "un cammino di vera conversione". Nella prima Lettura, il profeta Gioele esorta a far ritorno al Padre "con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti… perché egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore, pronto a ravvedersi riguardo al male e ricco di benevolenza" (
Jl 2,12-13). La promessa di Dio è chiara: se il popolo ascolterà l’invito a convertirsi, Dio farà trionfare la sua misericordia e i suoi amici saranno colmati di innumerevoli favori. Con il Salmo responsoriale, l’assemblea liturgica fa proprie le invocazioni del Salmo 50, domandando al Signore di creare in noi "un cuore puro", di rinnovare in noi "uno spirito saldo". Vi è poi la pagina evangelica, nella quale Gesù, mettendoci in guardia dal tarlo della vanità che porta all’ostentazione e all’ipocrisia, alla superficialità e all’autocompiacimento, ribadisce la necessità di nutrire la rettitudine del cuore. Egli mostra al tempo stesso il mezzo per crescere in questa purezza di intenzione: coltivare l’intimità con il Padre celeste.

Particolarmente gradita in questo anno giubilare, commemorativo del bimillenario della nascita di san Paolo, ci giunge la parola della seconda Lettera ai Corinti: "Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio" (2Co 5,20). Questo invito dell’Apostolo suona come un ulteriore stimolo a prendere sul serio l’appello quaresimale alla conversione. Paolo ha sperimentato in maniera straordinaria la potenza della grazia di Dio, la grazia del Mistero pasquale di cui la stessa Quaresima vive. Egli si presenta a noi come "ambasciatore" del Signore. Chi allora meglio di lui può aiutarci a percorrere in maniera fruttuosa questo itinerario di interiore conversione? Nella prima Lettera a Timoteo scrive: "Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io", ed aggiunge: "Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna" (1Tm 1,15-16). L’Apostolo è dunque cosciente di essere stato scelto come esempio, e questa sua esemplarità riguarda proprio la conversione, la trasformazione della sua vita avvenuta grazie all’amore misericordioso di Dio. "Prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento – egli riconosce - ma mi è stata usata misericordia … e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato" (ibid. 1Tm 1,13-14). L’intera sua predicazione, e prima ancora, tutta la sua esistenza missionaria furono sostenute da una spinta interiore riconducibile all’esperienza fondamentale della "grazia". "Per grazia di Dio sono quello che sono – scrive ai Corinzi – … ho faticato più di tutti loro [gli apostoli], non io però, ma la grazia di Dio che è con me" (1Co 15,10). Si tratta di una consapevolezza che affiora in ogni suo scritto ed ha funzionato come una "leva" interiore su cui Dio ha potuto agire per spingerlo avanti, verso sempre ulteriori confini non solo geografici, ma anche spirituali.

San Paolo riconosce che tutto in lui è opera della grazia divina, ma non dimentica che occorre aderire liberamente al dono della vita nuova ricevuta nel Battesimo. Nel testo del capitolo 6 della Lettera ai Romani, che sarà proclamato durante la Veglia pasquale, scrive: "Il peccato dunque non regni più nel vostro corpo mortale, così da sottomettervi ai suoi desideri. Non offrite al peccato le vostre membra come strumenti di ingiustizia, ma offrite voi stessi a Dio come viventi, ritornati dai morti, e le vostre membra a Dio come strumenti di giustizia" (Rm 6,12-13). In queste parole troviamo contenuto tutto il programma della Quaresima secondo la sua intrinseca prospettiva battesimale. Da una parte, si afferma la vittoria di Cristo sul peccato, avvenuta una volta per tutte con la sua morte e risurrezione; dall’altra, siamo esortati a non offrire al peccato le nostre membra, cioè a non concedere, per così dire, spazio di rivincita al peccato. La vittoria di Cristo attende che il discepolo la faccia sua, e questo avviene prima di tutto con il Battesimo, mediante il quale, uniti a Gesù, siamo diventati "viventi, ritornati dai morti". Il battezzato però, affinché Cristo possa regnare pienamente in lui, deve seguirne fedelmente gli insegnamenti; non deve mai abbassare la guardia, per non permettere all’avversario di recuperare in qualche modo terreno.

Ma come portare a compimento la vocazione battesimale, come essere vittoriosi nella lotta tra la carne e lo spirito, tra il bene e il male, lotta che segna la nostra esistenza? Nel brano evangelico il Signore ci indica oggi tre utili mezzi: la preghiera, l’elemosina e il digiuno. Nell’esperienza e negli scritti di San Paolo troviamo anche al riguardo utili riferimenti. Circa la preghiera, egli esorta a "perseverare" e a "vegliare in essa, rendendo grazie" (Rm 12,12 Col 4,2), a "pregare ininterrottamente" (1Th 5,17). Gesù è nel fondo del nostro cuore. La relazione con Lui è presente e rimane presente anche se parliamo, agiamo secondo i nostri doveri professionali. Per questo nella preghiera c’è la presenza interiore nel nostro cuore della relazione con Dio, che diventa volta a volta anche preghiera esplicita. Per quanto concerne l’elemosina, sono certamente importanti le pagine dedicate alla grande colletta in favore dei fratelli poveri (cfr 2Co 8-9), ma va sottolineato che per lui è la carità il vertice della vita del credente, il "vincolo della perfezione": "sopra tutte queste cose – scrive ai Colossesi - rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto" (Col 3,14). Del digiuno non parla espressamente, esorta però spesso alla sobrietà, come caratteristica di chi è chiamato a vivere in vigilante attesa del Signore (cfr 1Th 5,6-8 Tt 2,12). Interessante è pure il suo accenno a quell’"agonismo" spirituale che richiede temperanza: "ogni atleta – scrive ai Corinzi – è disciplinato in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona che appassisce, noi invece una che dura per sempre" (1Co 9,25). Il cristiano deve essere disciplinato per trovare la strada ed arrivare realmente al Signore.

Ecco dunque la vocazione dei cristiani: risorti con Cristo, essi sono passati attraverso la morte e ormai la loro vita è nascosta con Cristo in Dio (cfr Col 3,1-2). Per vivere questa "nuova" esistenza in Dio è indispensabile nutrirsi della Parola di Dio. Solo così possiamo realmente essere congiunti con Dio, vivere alla sua presenza, se siamo in dialogo con Lui. Gesù lo dice chiaramente quando risponde alla prima delle tre tentazioni nel deserto, citando il Deuteronomio: "Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio" (Mt 4,4 cfr Dt 8,3). San Paolo raccomanda: "La parola di Cristo abiti tra voi nella sua ricchezza. Con ogni sapienza istruitevi e ammonitevi a vicenda con salmi, inni e canti ispirati" (Col 3,16). Anche in questo, l’Apostolo è innanzitutto testimone: le sue Lettere sono la prova eloquente del fatto che egli viveva in permanente dialogo con la Parola di Dio: pensiero, azione, preghiera, teologia, predicazione, esortazione, tutto in lui era frutto della Parola, ricevuta fin dalla giovinezza nella fede ebraica, pienamente svelata ai suoi occhi dall’incontro con Cristo morto e risorto, predicata per il resto della vita durante la sua "corsa" missionaria. A lui fu rivelato che Dio ha pronunciato in Gesù Cristo la Parola definitiva, sé stesso, Parola di salvezza che coincide con il mistero pasquale, il dono di sé nella Croce che diventa poi risurrezione, perché l’amore è più forte della morte. San Paolo poteva così concludere: "Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo" (Ga 6,14). In Paolo la Parola si è fatta vita, ed unico suo vanto è Cristo crocifisso e risorto.

Cari fratelli e sorelle, mentre ci disponiamo a ricevere le ceneri sul capo in segno di conversione e di penitenza, apriamo il cuore all’azione vivificante della Parola di Dio. La Quaresima, contrassegnata da un più frequente ascolto di questa Parola, da più intensa preghiera, da uno stile di vita austero e penitenziale, sia stimolo alla conversione e all’amore sincero verso i fratelli, specialmente quelli più poveri e bisognosi. Ci accompagni l’apostolo Paolo, ci guidi Maria, attenta Vergine dell’ascolto e umile Serva del Signore. Potremo così giungere, rinnovati nello spirito, a celebrare con gioia la Pasqua. Amen!



VIAGGIO APOSTOLICO IN CAMERUN E ANGOLA (17-23 MARZO 2009)


CELEBRAZIONE EUCARISTICA IN OCCASIONE DELLA PUBBLICAZIONE DELL’INSTRUMENTUM LABORIS

Stadio Amadou Ahidjo di Yaoundé, Giovedì, 19 marzo 2009

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Cari Fratelli nell’Episcopato,
Cari fratelli e sorelle,

sia lodato Gesù Cristo che ci riunisce oggi in questo stadio, per farci penetrare più profondamente nella sua vita! Gesù Cristo ci raduna in questo giorno in cui la Chiesa, qui in Camerun come su tutta la terra, celebra la festa di san Giuseppe, sposo della Vergine Maria. Inizio coll’augurare un’ottima festa a tutti coloro che, come me, hanno ricevuto la grazia di portare questo bel nome, e chiedo a san Giuseppe di accordare loro una protezione speciale guidandoli verso il Signore Gesù Cristo tutti i giorni della loro vita. Saluto anche le parrocchie, le scuole e i collegi, le istituzioni che portano il nome di san Giuseppe. Ringrazio Mons. Tonyé Bakot, Arcivescovo di Yaoundé, per le sue gentili parole e rivolgo un saluto caloroso ai rappresentanti delle Conferenze Episcopali d’Africa venuti a Yaoundé in occasione della pubblicazione dell’Instrumentum laboris della Seconda Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi.

Come possiamo entrare nella grazia specifica di questo giorno? Fra poco, a conclusione della Messa, la liturgia ci svelerà il punto culminane della nostra meditazione, quando ci farà dire: «Con questo nutrimento ricevuto al tuo altare, Signore, hai saziato la tua famiglia, gioiosa di festeggiare san Giuseppe; custodiscila sempre sotto la tua protezione e veglia sui doni che le hai fatto». Voi vedete, noi domandiamo al Signore di custodire sempre la Chiesa sotto la sua costante protezione – ed Egli lo fa! – esattamente come Giuseppe ha protetto la sua famiglia e ha vegliato sui primi anni di Gesù bambino.

Il Vangelo ce lo ha appena ricordato. L’Angelo gli aveva detto: «Non temere di prendere con te Maria, tua sposa» (
Mt 1,20), ed è esattamente quello che ha fatto: «Egli fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore» (Mt 1,24). Perché san Matteo ha tenuto ad annotare questa fedeltà alle parole ricevute dal messaggero di Dio, se non per invitarci ad imitare questa fedeltà piena di amore?

La prima lettura che abbiamo appena ascoltato non parla esplicitamente di san Giuseppe, ma ci dice molte cose su di lui. Il profeta Natan va a dire a Davide su ordine del Signore stesso: «Io susciterò un tuo discendente dopo di te» (2S 7,12). Davide deve accettare di morire senza vedere la realizzazione di questa promessa, che si tradurrà in atto «quando i suoi giorni saranno compiuti» ed egli dormirà «con i suoi padri». Così vediamo che uno dei desideri più cari dell’uomo, quello di essere testimone della fecondità della sua azione, non è sempre esaudito da Dio. Penso a quelli tra di voi che sono padri e madri di famiglia: essi hanno molto legittimamente il desiderio di dare il meglio di loro stessi ai lori figli e li vogliono vedere pervenire ad una vera riuscita. Tuttavia, non bisogna ingannarsi circa questa riuscita: quello che Dio domanda a Davide è di darGli fiducia. Davide stesso non vedrà il suo successore, colui che avrà un trono «stabile per sempre» (2S 7,16), perché questo successore annunciato sotto il velo della profezia è Gesù. Davide si fida di Dio. Ugualmente, Giuseppe dà fiducia a Dio quando ascolta il suo messaggero, il suo Angelo, dirgli: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo» (Mt 1,20). Giuseppe è, nella storia, l’uomo che ha dato a Dio la più grande prova di fiducia, anche davanti ad un annuncio così stupefacente.

E voi, cari padri e madri di famiglia che mi ascoltate, avete fiducia in Dio che fa di voi i padri e le madri dei suoi figli di adozione? Accettate che Egli possa contare su di voi per trasmettere ai vostri figli i valori umani e spirituali che avete ricevuto e che li faranno vivere nell’amore e nel rispetto del suo santo Nome? In questo nostro tempo, in cui tante persone senza scrupoli cercano di imporre il regno del denaro disprezzando i più indigenti, voi dovete essere molto attenti. L’Africa in generale, ed il Camerun in particolare, sono in pericolo se non riconoscono il Vero Autore della Vita! Fratelli e sorelle del Camerun e dell’Africa, voi che avete ricevuto da Dio tante qualità umane, abbiate cura delle vostre anime! Non lasciatevi affascinare da false glorie e da falsi ideali. Credete, si, continuate a credere che Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, è il solo ad amarvi come voi vi aspettate, che è il solo a potervi soddisfare, a poter dare stabilità alle vostre vite. Cristo è l’unico cammino di Vita.

Solo Dio poteva dare a Giuseppe la forza di far credito all’angelo. Solo Dio vi darà, cari fratelli e sorelle che siete sposati, la forza di educare la vostra famiglia come Egli vuole. DomandateGlielo! Dio ama che gli si domandi quello che egli vuole donare. DomandateGli la grazia di un amore vero e sempre più fedele, ad immagine del Suo amore. Come dice magnificamente il Salmo: il suo «amore è edificato per sempre, [la sua] fedeltà è più stabile dei cieli» (Ps 88,3).

Come in altri continenti, oggi la famiglia conosce effettivamente, nel vostro Paese e nel resto dell’Africa, un periodo difficile che la sua fedeltà a Dio l’aiuterà a superare. Alcuni valori della vita tradizionale sono stati sconvolti. I rapporti tra le generazioni si sono modificati in una maniera tale da non favorire più come prima la trasmissione della conoscenze antiche e della saggezza ereditata dagli antenati. Troppo spesso si assiste ad un esodo rurale paragonabile a quello che numerosi altri periodi umani hanno conosciuto. La qualità dei legami familiari ne risulta profondamente intaccata. Sradicati e resi più fragili, i membri delle giovani generazioni, spesso –ahimè! - senza un vero lavoro, cercano rimedi al loro male di vivere rifugiandosi in paradisi effimeri e artificiali importati di cui si sa che non arrivano mai ad assicurare all’uomo una felicità profonda e duratura. A volte anche l’uomo africano è costretto a fuggire fuori da se stesso, e ad abbandonare tutto ciò che costituiva la sua ricchezza interiore. Messo a confronto col fenomeno di una urbanizzazione galoppante, egli abbandona la sua terra, fisicamente e moralmente, non come Abramo per rispondere alla chiamata del Signore, ma per una sorta di esilio interiore che lo allontana dal suo stesso essere, dai suoi fratelli e sorelle di sangue e da Dio stesso.

Vi è dunque una fatalità, una evoluzione inevitabile? Certo che no! Più che mai dobbiamo «sperare contro ogni speranza» (Rm 4,18). Voglio rendere omaggio qui con ammirazione e riconoscenza al notevole lavoro realizzato da innumerevoli associazioni che incoraggiano la vita di fede e la pratica della carità. Ne siano calorosamente ringraziate! Trovino nella Parola di Dio un ritorno di forza per portare felicemente a termine tutti i loro progetti al servizio di uno sviluppo integrale della persona umana in Africa, e in particolare in Camerun.

La prima priorità consisterà nel ridare senso all’accoglienza della vita come dono di Dio. Per la Sacra Scrittura come per la migliore saggezza del vostro continente, l’arrivo di un bambino è una grazia, una benedizione di Dio. L’umanità è oggi invitata a modificare il suo sguardo: in effetti, ogni essere umano, anche il più piccolo e povero, è creato «ad immagine e somiglianza di Dio» (Gn 1,27). Egli deve vivere! La morte non deve prevalere sulla vita! La morte non avrà mai l’ultima parola!

Figli e figlie d’Africa, non abbiate paura di credere, di sperare e di amare, non abbiate paura di dire che Gesù è la Via, la Verità e la Vita, che soltanto da lui possiamo essere salvati. San Paolo è l’autore ispirato che lo Spirito Santo ha donato alla Chiesa per essere il «maestro dei pagani» (1Tm 2,7), quando ci dice che Abramo «credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza» (Rm 4,18).

«Saldo nella speranza contro ogni speranza»: non è una magnifica definizione del cristiano? L’Africa è chiamata alla speranza attraverso voi e in voi! Col Cristo Gesù, che ha calpestato il suolo africano, l’Africa può diventare il continente della speranza. Noi tutti siamo membri dei popoli che Dio ha dato come discendenza ad Abramo. Ciascuno e ciascuna di noi è pensato, voluto e amato da Dio. Ciascuno e ciascuna di noi ha il suo ruolo da giocare nel piano di Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo. Se lo scoraggiamento vi invade, pensate alla fede di Giuseppe; se l’inquietudine vi prende, pensate alla speranza di Giuseppe, discendente di Abramo che sperava contro ogni speranza; se vi prende l’avversione o l’odio, pensate all’amore di Giuseppe, che fu il primo uomo a scoprire il volto umano di Dio nella persona del bambino concepito dallo Spirito santo nel seno della Vergine Maria. Benediciamo Cristo per essersi fatto così vicino a noi e rendiamoGli grazie di averci dato Giuseppe come esempio e modello dell’amore verso di Lui.

Cari fratelli e sorelle, ve lo dico di nuovo di tutto cuore: come Giuseppe, non temete di prendere Maria con voi, cioè non temete di amare la Chiesa. Maria, Madre della Chiesa, vi insegnerà a seguire i suoi Pastori, ad amare i vostri Vescovi, i vostri preti, i vostri diaconi e i vostri catechisti, e a seguire ciò che vi insegnano e a pregare secondo le loro intenzioni. Voi che siete sposati, guardate l’amore di Giuseppe per Maria e per Gesù; voi che vi preparate al matrimonio, rispettate la vostra o il vostro futuro coniuge come fece Giuseppe; voi che vi siete consacrati a Dio nel celibato, riflettete sull’insegnamento della Chiesa nostra Madre: «La verginità e il celibato per il Regno di Dio non solo non contraddicono alla dignità del matrimonio, ma la presuppongono e la confermano. Il matrimonio e la verginità soni i due modi di esprimere e di vivere l’unico mistero dell’Alleanza di Dio col suo popolo» (Redemptoris custos, 20).

Vorrei ancora rivolgere una esortazione particolare ai padri di famiglia, poiché san Giuseppe è il loro modello. San Giuseppe rivela il mistero della paternità di Dio su Cristo e su ciascuno di noi. E’ lui che può loro insegnare il segreto della loro stessa paternità, egli che ha vegliato sul Figlio dell’Uomo. Anche ogni padre riceve da Dio i suoi figli creati ad immagine e somiglianza di Lui. San Giuseppe è stato lo sposo di Maria. Anche ogni padre di famiglia si vede confidare il mistero della donna attraverso la sua propria sposa. Come San Giuseppe, cari padri di famiglia, rispettate e amate la vostra sposa, e guidate i vostri bambini, con amore e con la vostra presenza accorta, verso Dio dove essi devono essere (cfr Lc 2,49).

Infine, a tutti i giovani che sono qui, io rivolgo parole di amicizia e di incoraggiamento: davanti alle difficoltà della vita, mantenete il coraggio! La vostra esistenza ha un prezzo infinito agli occhi di Dio. Lasciatevi prendere da Cristo, accettate di donarGli il vostro amore e, perché no, voi stessi nel sacerdozio o nella vita consacrata! È il più alto servizio. Ai bambini che non hanno più un padre o che vivono abbandonati nella miseria della strada, a coloro che sono separati violentemente dai loro genitori, maltrattati e abusati, e arruolati a forza in gruppi militari che imperversano in alcuni Paesi, vorrei dire: Dio vi ama, non vi dimentica e san Giuseppe vi protegge! Invocatelo con fiducia.

Dio vi benedica e vi custodisca tutti! Vi dia la grazia di avanzare verso di Lui con fedeltà. Doni alle vostre vite la stabilità per raccogliere il frutto che Egli si aspetta da voi! Vi renda testimoni del suo amore, qui, in Camerun, e fino alle estremità della terra! Io Lo prego con fervore di farvi gustare la gioia di appartenerGli, ora e per i secoli dei secoli. Amen.



CELEBRAZIONE EUCARISTICA CON I VESCOVI, I SACERDOTI, I RELIGIOSI E LE RELIGIOSE, I MOVIMENTI ECCLESIALI E I CATECHISTI DELL’ANGOLA E SÃO TOMÉ

Chiesa São Paolo di Luanda, Sabato, 21 marzo 2009

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Carissimi fratelli e sorelle,
Amati lavoratori della vigna del Signore!

Come abbiamo sentito, i figli d’Israele si dicevano l’un l’altro: «Affrettiamoci a conoscere il Signore». Essi si rincuoravano con queste parole, mentre si vedevano sommersi dalle tribolazioni. Queste erano cadute su di loro – spiega il profeta – perché vivevano nell’ignoranza di Dio; il loro cuore era povero d’amore. E il solo medico in grado di guarirlo era il Signore. Anzi, è stato proprio Lui, come buon medico, ad aprire la ferita, affinché la piaga guarisse. E il popolo si decide: «Venite, ritorniamo al Signore: Egli ci ha straziato ed Egli ci guarirà» (
Os 6,1). In questo modo hanno potuto incrociarsi la miseria umana e la Misericordia divina, la quale null’altro desidera se non accogliere i miseri.

Lo vediamo nella pagina del Vangelo proclamata: «Due uomini salirono al tempio a pregare»; di là, uno «tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro» (Lc 18,10 Lc 18,14). Quest’ultimo aveva esposto tutti i suoi meriti davanti a Dio, quasi facendo di Lui un suo debitore. In fondo, egli non sentiva il bisogno di Dio, anche se Lo ringraziava per avergli concesso di essere così perfetto e «non come questo pubblicano». Eppure sarà proprio il pubblicano a scendere a casa sua giustificato. Consapevole dei suoi peccati, che lo fanno rimanere a testa bassa – in realtà però egli è tutto proteso verso il Cielo –, egli aspetta ogni cosa dal Signore: «O Dio, abbi pietà di me peccatore» (Lc 18,13). Egli bussa alla porta della Misericordia, la quale si apre e lo giustifica, «perché – conclude Gesù – chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato» (Lc 18,14).

Di questo Dio, ricco di Misericordia, ci parla per esperienza personale san Paolo, patrono della città di Luanda e di questa stupenda chiesa, edificata quasi cinquant’anni fa. Ho voluto sottolineare il bimillenario della nascita di san Paolo con il Giubileo paolino in corso, allo scopo di imparare da lui a conoscere meglio Gesù Cristo. Ecco la testimonianza che egli ci ha lasciato: «Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io. Ma appunto per questo io ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità, affinché «fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in Lui per avere la vita eterna» (1Tm 1,15-16). E, con il passare dei secoli, il numero dei raggiunti dalla grazia non ha cessato di aumentare. Tu ed io siamo di loro. Rendiamo grazie a Dio perché ci ha chiamati ad entrare in questa processione dei tempi per farci avanzare verso il futuro. Seguendo coloro che hanno seguito Gesù, con loro seguiamo lo stesso Cristo e così entriamo nella Luce.

Cari fratelli e sorelle, provo una grande gioia nel trovarmi oggi in mezzo a voi, miei compagni di giornata nella vigna del Signore; di questa vi occupate con cura quotidiana preparando il vino della Misericordia divina e versandolo poi sulle ferite del vostro popolo così tribolato. Mons. Gabriel Mbilingi si è fatto interprete delle vostre speranze e fatiche nelle gentili parole di benvenuto che mi ha rivolto. Con animo grato e pieno di speranza, vi saluto tutti – donne e uomini dediti alla causa di Gesù Cristo – che qui vi trovate e quanti ne rappresentate: Vescovi, presbiteri, consacrate e consacrati, seminaristi, catechisti, leaders dei più diversi Movimenti e Associazioni di questa amata Chiesa di Dio. Desidero ricordare inoltre le religiose contemplative, presenza invisibile ma estremamente feconda per i passi di tutti noi. Mi sia permessa infine una parola particolare di saluto ai Salesiani e ai fedeli di questa parrocchia di san Paolo che ci accolgono nella loro chiesa, senza esitare per questo a cederci il posto che abitualmente spetta ad essi nell’assemblea liturgica. Ho saputo che si trovano radunati nel campo adiacente e spero, al termine di quest’Eucaristia, di poterli vedere e benedire, ma fin d’ora dico loro: «Grazie tante! Dio susciti in mezzo a voi e per mezzo vostro tanti apostoli nella scia del vostro Patrono».

Fondamentale nella vita di Paolo è stato il suo incontro con Gesù, quando camminava per la strada verso Damasco: Cristo gli appare come luce abbagliante, gli parla, lo conquista. L’apostolo ha visto Gesù risorto, ossia l’uomo nella sua statura perfetta. Quindi si verifica in lui un’inversione di prospettiva, ed egli giunge a vedere ogni cosa a partire da questa statura finale dell’uomo in Gesù: ciò che prima gli sembrava essenziale e fondamentale, adesso per lui non vale più della «spazzatura»; non è più «guadagno» ma perdita, perché ora conta soltanto la vita in Cristo (cfr Ph 3,7-8). Non si tratta di semplice maturazione dell’«io» di Paolo, ma di morte a se stesso e di risurrezione in Cristo: è morta in lui una forma di esistenza; una forma nuova è nata in lui con Gesù risorto.

Miei fratelli e amici, «affrettiamoci a conoscere il Signore» risorto! Come sapete, Gesù, uomo perfetto, è anche il nostro vero Dio. In Lui, Dio è diventato visibile ai nostri occhi, per farci partecipi della sua vita divina. In questo modo, viene inaugurata con Lui una nuova dimensione dell’essere, della vita, nella quale viene integrata anche la materia e mediante la quale sorge un mondo nuovo. Ma questo salto di qualità della storia universale che Gesù ha compiuto al nostro posto e per noi, in concreto come raggiunge l’essere umano, permeando la sua vita e trascinandola verso l’Alto? Raggiunge ciascuno di noi attraverso la fede e il Battesimo. Infatti, questo sacramento è morte e risurrezione, trasformazione in una vita nuova, a tal punto che la persona battezzata può affermare con Paolo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Jl 2,20). Vivo io, ma già non più io. In certo modo, mi viene tolto il mio io, e viene integrato in un Io più grande; ho ancora il mio io, ma trasformato e aperto agli altri mediante il mio inserimento nell’Altro: in Cristo, acquisto il mio nuovo spazio di vita. Che cosa è dunque avvenuto di noi? Risponde Paolo: Voi siete diventati uno in Cristo Gesù (cfr Jl 3,28).

E, mediante questo nostro essere cristificato per opera e grazia dello Spirito di Dio, pian piano si va completando la gestazione del Corpo di Cristo lungo la storia. In questo momento, mi piace andare col pensiero indietro di cinquecento anni, ossia agli anni 1506 e seguenti, quando in queste terre, allora visitate dai portoghesi, venne costituito il primo regno cristiano sub-sahariano, grazie alla fede e alla determinazione del re Dom Afonso I Mbemba-a-Nzinga, che regnò dal menzionato anno 1506 fino al 1543, anno in cui morì; il regno rimase ufficialmente cattolico dal secolo XVI fino al XVIII, con un proprio ambasciatore in Roma. Vedete come due etnie tanto diverse – quella banta e quella lusiade – hanno potuto trovare nella religione cristiana una piattaforma d’intesa, e si sono impegnate poi perché quest’intesa durasse a lungo e le divergenze – ce ne sono state, e di gravi – non separassero i due regni! Di fatto, il Battesimo fa sì che tutti i credenti siano uno in Cristo.

Oggi spetta a voi, fratelli e sorelle, sulla scia di quegli eroici e santi messaggeri di Dio, offrire Cristo risorto ai vostri concittadini. Tanti di loro vivono nella paura degli spiriti, dei poteri nefasti da cui si credono minacciati; disorientati, arrivano al punto di condannare bambini della strada e anche i più anziani, perché – dicono – sono stregoni. Chi può recarsi da loro ad annunziare che Cristo ha vinto la morte e tutti quegli oscuri poteri (cfr Ep 1,19-23 Ep 6,10-12)? Qualcuno obietta: «Perché non li lasciamo in pace? Essi hanno la loro verità; e noi, la nostra. Cerchiamo di convivere pacificamente, lasciando ognuno com’è, perché realizzi nel modo migliore la propria autenticità». Ma, se noi siamo convinti e abbiamo fatto l’esperienza che, senza Cristo, la vita è incompleta, le manca una realtà – anzi la realtà fondamentale –, dobbiamo essere convinti anche del fatto che non facciamo ingiustizia a nessuno se gli presentiamo Cristo e gli diamo la possibilità di trovare, in questo modo, anche la sua vera autenticità, la gioia di avere trovato la vita. Anzi, dobbiamo farlo, è un obbligo nostro offrire a tutti questa possibilità di raggiungere la vita eterna.

Venerati e amati fratelli e sorelle, diciamo loro come il popolo israelita: «Venite, ritorniamo al Signore: Egli ci ha straziato ed Egli ci guarirà». Aiutiamo la miseria umana ad incontrarsi con la Misericordia divina. Il Signore fa di noi i suoi amici, Egli si affida a noi, ci consegna il suo Corpo nell’Eucaristia, ci affida la sua Chiesa. E allora dobbiamo essere davvero suoi amici, avere un solo sentire con Lui, volere ciò che Egli vuole e non volere ciò che Egli non vuole. Gesù stesso ha detto: «Voi siete miei amici, se farete ciò che Io vi comando» (Jn 15,14). Sia questo il nostro impegno comune: fare, tutti insieme, la sua santa volontà: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15). Abbracciamo la sua volontà, come ha fatto san Paolo: «Predicare il Vangelo (…) è un dovere per me: guai a me se non annuncio il Vangelo!» (1Ch 9,16).





Benedetto XVI Omelie 25019