Benedetto XVI Omelie 20610


BENEDIZIONE DELLA STATUA RESTAURATA DELLA "MADONNINA" DI MONTE MARIO IN ROMA E VISITA AL MONASTERO DOMENICANO SANTA MARIA DEL ROSARIO

CELEBRAZIONE DELL'ORA MEDIA E INCONTRO CON LE MONACHE DI CLAUSURA

Monastero Domenicano Santa Maria del Rosario, Giovedì, 24 giugno 2010

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Care sorelle,

a ciascuna di voi rivolgo le parole del Salmo 124, che abbiamo appena pregato: “La tua bontà, Signore, sia con i buoni e con i retti di cuore” (
Ps 124,4). È innanzitutto con questo augurio che vi saluto: su di voi sia la bontà del Signore. In particolare, saluto la vostra Madre Priora, e la ringrazio di cuore per le gentili espressioni che mi ha indirizzato a nome della Comunità. Con grande gioia ho accolto l’invito a visitare questo Monastero, per poter sostare insieme con voi ai piedi dell’immagine della Madonna acheropita di san Sisto, già protettrice dei Monasteri Romani di Santa Maria in Tempulo e di San Sisto.

Abbiamo pregato insieme l’Ora Media, una piccola parte di quella Preghiera Liturgica che, come claustrali, scandisce i ritmi delle vostre giornate e vi rende interpreti della Chiesa-Sposa, che si unisce, in modo speciale, con il suo Signore. Per questa preghiera corale, che trova il suo culmine nella partecipazione quotidiana al Sacrificio Eucaristico, la vostra consacrazione al Signore nel silenzio e nel nascondimento è resa feconda e ricca di frutti, non solo in ordine al cammino di santificazione e di purificazione personale, ma anche rispetto a quell’apostolato di intercessione che svolgete per la Chiesa intera, perché possa comparire pura e santa al cospetto del Signore. Voi, che ben conoscete l’efficacia della preghiera, sperimentate ogni giorno quante grazie di santificazione essa possa ottenere alla Chiesa.

Care sorelle, la comunità che voi formate è un luogo in cui poter dimorare nel Signore; essa è per voi la nuova Gerusalemme, a cui salgono le tribù del Signore per lodare il nome del Signore (cfr Ps 121,4). Siate grate alla divina Provvidenza per il dono sublime e gratuito della vocazione monastica, a cui il Signore vi ha chiamate senza alcun vostro merito. Con Isaia potete affermare “il Signore mi ha plasmato suo servo fin dal seno materno” (Is 49,5). Prima ancora che nasceste, il Signore aveva riservato a Sé il vostro cuore per poterlo ricolmare del suo amore. Attraverso il sacramento del Battesimo avete ricevuto in voi la Grazia divina e, immerse nella sua morte e risurrezione, siete state consacrate a Gesù, per appartenerGli esclusivamente. La forma di vita contemplativa, che dalle mani di san Domenico avete ricevuto nelle modalità della clausura, vi colloca, come membra vive e vitali, nel cuore del corpo mistico del Signore, che è la Chiesa; e come il cuore fa circolare il sangue e tiene in vita il corpo intero, così la vostra esistenza nascosta con Cristo, intessuta di lavoro e di preghiera, contribuisce a sostenere la Chiesa, strumento di salvezza per ogni uomo che il Signore ha redento con il suo Sangue.

È a questa fonte inesauribile che voi attingete con la preghiera, presentando al cospetto dell’Altissimo le necessità spirituali e materiali di tanti fratelli in difficoltà, la vita smarrita di quanti si sono allontanati dal Signore. Come non muoversi a compassione per coloro che sembrano vagare senza meta? Come non desiderare che nella loro vita avvenga l’incontro con Gesù, il solo che dà senso all’esistenza? Il santo desiderio che il Regno di Dio si instauri nel cuore di ogni uomo, si identifica con la preghiera stessa, come ci insegna sant’Agostino: “Ipsum desiderium tuum, oratio tua est; et si continuum desiderium, continua oratio”: "il tuo desiderio è la tua preghiera; e se è desiderio permanente, continuo, è anche preghiera continua" (cfr Ep. 130,18-20); perciò, come fuoco che arde e mai si spegne, il cuore è reso desto, non smette mai di desiderare e sempre innalza a Dio l’inno della lode.

Riconoscete perciò, care sorelle, che in tutto ciò che fate, al di là dei singoli momenti di orazione, il vostro cuore continua ad essere guidato dal desiderio di amare Dio. Con il Vescovo di Ippona, riconoscete che è il Signore ad avere messo nei vostri cuori il suo amore, desiderio che dilata il cuore, fino a renderlo capace di accogliere Dio stesso (cfr In Io. Ev. tr. 40, 10). Questo è l’orizzonte del pellegrinare terreno! Questa è la vostra meta! Per questo avete scelto di vivere nel nascondimento e nella rinuncia ai beni terreni: per desiderare sopra ogni cosa quel bene che non ha uguali, quella perla preziosa che merita la rinuncia ad ogni altro bene per entrarne in possesso.

Possiate pronunciare ogni giorno il vostro “sì” ai disegni di Dio, con la stessa umiltà con cui ha detto il suo “sì” la Vergine Santa. Ella, che nel silenzio ha accolto la Parola di Dio, vi guidi nella vostra quotidiana consacrazione verginale, perché possiate sperimentare nel nascondimento la profonda intimità da Lei stessa vissuta con Gesù. Invocando la sua materna intercessione, insieme a quella di san Domenico, di santa Caterina da Siena e dei tanti santi e sante dell’Ordine Domenicano, imparto a tutte voi una speciale Benedizione Apostolica, che estendo volentieri alle persone che si affidano alle vostre preghiere.



CAPPELLA PAPALE NELLA SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO


PRIMI VESPRI

Basilica di San Paolo Fuori le Mura, Domenica, 28 giugno 2010

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Cari fratelli e sorelle!

Con la celebrazione dei Primi Vespri entriamo nella solennità dei Santi Pietro e Paolo. Abbiamo la grazia di farlo nella Basilica Papale intitolata all’Apostolo delle genti, raccolti in preghiera presso la sua Tomba. Per questo, desidero orientare la mia breve riflessione nella prospettiva della vocazione missionaria della Chiesa. In questa direzione vanno la terza antifona della salmodia che abbiamo pregato e la Lettura biblica. Le prime due antifone sono dedicate a san Pietro, la terza a san Paolo e dice: “Tu sei il messaggero di Dio, Paolo apostolo santo: hai annunziato la verità nel mondo intero”. E nella Lettura breve, tratta dall’indirizzo iniziale della Lettera ai Romani, Paolo si presenta come “apostolo per vocazione, prescelto per annunziare il vangelo di Dio” (
Rm 1,1) La figura di Paolo – la sua persona e il suo ministero, tutta la sua esistenza e il suo duro lavoro per il Regno di Dio – sono completamente dedicati al servizio del Vangelo. In questi testi si avverte un senso di movimento, dove protagonista non è l’uomo, ma Dio, il soffio dello Spirito Santo, che spinge l’Apostolo sulle strade del mondo per portare a tutti la Buona Notizia: le promesse dei profeti si sono compiute in Gesù, il Cristo, il Figlio di Dio, morto per i nostri peccati e risorto per la nostra giustificazione. Saulo non c’è più, c’è Paolo, anzi, c’è Cristo che vive in lui (cfr Ga 2,20) e vuole raggiungere tutti gli uomini. Se dunque la festa dei Santi Patroni di Roma evoca la duplice tensione tipica di questa Chiesa, all’unità e all’universalità, il contesto in cui ci troviamo stasera ci chiama a privilegiare la seconda, lasciandoci, per così dire, “trascinare” da san Paolo e dalla sua straordinaria vocazione.

Il Servo di Dio Giovanni Battista Montini, quando fu eletto Successore di Pietro, nel pieno svolgimento del Concilio Vaticano II, scelse di portare il nome dell’Apostolo delle genti. All’interno del suo programma di attuazione del Concilio, Paolo VI convocò nel 1974 l’Assemblea del Sinodo dei Vescovi sul tema dell’evangelizzazione nel mondo contemporaneo, e circa un anno dopo pubblicò l’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, che si apre con queste parole: “L’impegno di annunziare il Vangelo agli uomini del nostro tempo, animati dalla speranza ma, parimenti, spesso travagliati dalla paura e dall’angoscia, è senza alcun dubbio un servizio reso non solo alla comunità cristiana, ma anche a tutta l’umanità” (EN 1). Colpisce l’attualità di queste espressioni. Si percepisce in esse tutta la particolare sensibilità missionaria di Paolo VI e, attraverso la sua voce, il grande anelito conciliare all’evangelizzazione del mondo contemporaneo, anelito che culmina nel Decreto Ad gentes, ma che permea tutti i documenti del Vaticano II e che, prima ancora, animava i pensieri e il lavoro dei Padri conciliari, convenuti a rappresentare in modo mai prima così tangibile la diffusione mondiale raggiunta dalla Chiesa.

Non servono parole per spiegare come il Venerabile Giovanni Paolo II, nel suo lungo pontificato, abbia sviluppato questa proiezione missionaria, che – va sempre ricordato – risponde alla natura stessa della Chiesa, la quale, con san Paolo, può e deve sempre ripetere: “Annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!” (1Co 9,16). Il Papa Giovanni Paolo II ha rappresentato “al vivo” la natura missionaria della Chiesa, con i viaggi apostolici e con l’insistenza del suo Magistero sull’urgenza di una “nuova evangelizzazione”: “nuova” non nei contenuti, ma nello slancio interiore, aperto alla grazia dello Spirito Santo che costituisce la forza della legge nuova del Vangelo e che sempre rinnova la Chiesa; “nuova” nella ricerca di modalità che corrispondano alla forza dello Spirito Santo e siano adeguate ai tempi e alle situazioni; “nuova” perché necessaria anche in Paesi che hanno già ricevuto l’annuncio del Vangelo. E’ a tutti evidente che il mio Predecessore ha dato un impulso straordinario alla missione della Chiesa, non solo – ripeto – per le distanze da lui percorse, ma soprattutto per il genuino spirito missionario che lo animava e che ci ha lasciato in eredità all’alba del terzo millennio.

Raccogliendo questa eredità, ho potuto affermare, all’inizio del mio ministero petrino, che la Chiesa è giovane, aperta al futuro. E lo ripeto oggi, vicino al sepolcro di san Paolo: la Chiesa è nel mondo un’immensa forza rinnovatrice, non certo per le sue forze, ma per la forza del Vangelo, in cui soffia lo Spirito Santo di Dio, il Dio creatore e redentore del mondo. Le sfide dell’epoca attuale sono certamente al di sopra delle capacità umane: lo sono le sfide storiche e sociali, e a maggior ragione quelle spirituali. Sembra a volte a noi Pastori della Chiesa di rivivere l’esperienza degli Apostoli, quando migliaia di persone bisognose seguivano Gesù, ed Egli domandava: che cosa possiamo fare per tutta questa gente? Essi allora sperimentavano la loro impotenza. Ma proprio Gesù aveva loro dimostrato che con la fede in Dio nulla è impossibile, e che pochi pani e pesci, benedetti e condivisi, potevano sfamare tutti. Ma non c’era – e non c’è – solo la fame di cibo materiale: c’è una fame più profonda, che solo Dio può saziare. Anche l’uomo del terzo millennio desidera una vita autentica e piena, ha bisogno di verità, di libertà profonda, di amore gratuito. Anche nei deserti del mondo secolarizzato, l’anima dell’uomo ha sete di Dio, del Dio vivente. Per questo Giovanni Paolo II ha scritto: “La missione di Cristo redentore, affidata alla Chiesa, è ancora ben lontana dal suo compimento”, e ha aggiunto: “uno sguardo d’insieme all’umanità dimostra che tale missione è ancora agli inizi e che dobbiamo impegnarci con tutte le forze al suo servizio” (Enc. Redemptoris missio RMi 1). Vi sono regioni del mondo che ancora attendono una prima evangelizzazione; altre che l’hanno ricevuta, ma necessitano di un lavoro più approfondito; altre ancora in cui il Vangelo ha messo da lungo tempo radici, dando luogo ad una vera tradizione cristiana, ma dove negli ultimi secoli – con dinamiche complesse – il processo di secolarizzazione ha prodotto una grave crisi del senso della fede cristiana e dell’appartenenza alla Chiesa.

In questa prospettiva, ho deciso di creare un nuovo Organismo, nella forma di “Pontificio Consiglio”, con il compito precipuo di promuovere una rinnovata evangelizzazione nei Paesi dove è già risuonato il primo annuncio della fede e sono presenti Chiese di antica fondazione, ma che stanno vivendo una progressiva secolarizzazione della società e una sorta di “eclissi del senso di Dio”, che costituiscono una sfida a trovare mezzi adeguati per riproporre la perenne verità del Vangelo di Cristo.

Cari fratelli e sorelle, la sfida della nuova evangelizzazione interpella la Chiesa universale, e ci chiede anche di proseguire con impegno la ricerca della piena unità tra i cristiani. Un eloquente segno di speranza in tal senso è la consuetudine delle visite reciproche tra la Chiesa di Roma e quella di Costantinopoli in occasione delle feste dei rispettivi Santi Patroni. Per questo accogliamo oggi con rinnovata gioia e riconoscenza la Delegazione inviata dal Patriarca Bartolomeo I, al quale indirizziamo il saluto più cordiale. L’intercessione dei santi Pietro e Paolo ottenga alla Chiesa intera fede ardente e coraggio apostolico, per annunciare al mondo la verità di cui tutti abbiamo bisogno, la verità che è Dio, origine e fine dell’universo e della storia, Padre misericordioso e fedele, speranza di vita eterna. Amen.




SANTA MESSA E IMPOSIZIONE DEL PALLIO AI NUOVI METROPOLITI

Basilica Vaticana, Martedì, 29 giugno 2010

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Cari fratelli e sorelle!

I testi biblici di questa Liturgia eucaristica della solennità dei santi Apostoli Pietro e Paolo, nella loro grande ricchezza, mettono in risalto un tema che si potrebbe riassumere così: Dio è vicino ai suoi fedeli servitori e li libera da ogni male, e libera la Chiesa dalle potenze negative. E’ il tema della libertà della Chiesa, che presenta un aspetto storico e un altro più profondamente spirituale.

Questa tematica attraversa tutta l’odierna Liturgia della Parola. La prima e la seconda Lettura parlano, rispettivamente, di san Pietro e di san Paolo sottolineando proprio l’azione liberatrice di Dio nei loro confronti. Specialmente il testo degli Atti degli Apostoli descrive con abbondanza di particolari l’intervento dell’angelo del Signore, che scioglie Pietro dalle catene e lo conduce fuori dal carcere di Gerusalemme, dove lo aveva fatto rinchiudere, sotto stretta sorveglianza, il re Erode (cfr
Ac 12,1-11). Paolo, invece, scrivendo a Timoteo quando ormai sente vicina la fine della vita terrena, ne fa un bilancio consuntivo da cui emerge che il Signore gli è stato sempre vicino, lo ha liberato da tanti pericoli e ancora lo libererà introducendolo nel suo Regno eterno (cfr 2Tm 4,6-8 2Tm 4,17-18). Il tema è rafforzato dal Salmo responsoriale (Ps 33), e trova un particolare sviluppo anche nel brano evangelico della confessione di Pietro, là dove Cristo promette che le potenze degli inferi non prevarranno sulla sua Chiesa (cfr Mt 16,18).

Osservando bene si nota, riguardo a questa tematica, una certa progressione. Nella prima Lettura viene narrato un episodio specifico che mostra l’intervento del Signore per liberare Pietro dalla prigione; nella seconda Paolo, sulla base della sua straordinaria esperienza apostolica, si dice convinto che il Signore, che già lo ha liberato “dalla bocca del leone”, lo libererà “da ogni male” aprendogli le porte del Cielo; nel Vangelo invece non si parla più dei singoli Apostoli, ma della Chiesa nel suo insieme e della sua sicurezza rispetto alle forze del male, intese in senso ampio e profondo. In tal modo vediamo che la promessa di Gesù – “le potenze degli inferi non prevarranno” sulla Chiesa – comprende sì le esperienze storiche di persecuzione subite da Pietro e da Paolo e dagli altri testimoni del Vangelo, ma va oltre, volendo assicurare la protezione soprattutto contro le minacce di ordine spirituale; secondo quanto Paolo stesso scrive nella Lettera agli Efesini: “La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (Ep 6,12).

In effetti, se pensiamo ai due millenni di storia della Chiesa, possiamo osservare che – come aveva preannunciato il Signore Gesù (cfr Mt 10,16-33) – non sono mai mancate per i cristiani le prove, che in alcuni periodi e luoghi hanno assunto il carattere di vere e proprie persecuzioni. Queste, però, malgrado le sofferenze che provocano, non costituiscono il pericolo più grave per la Chiesa. Il danno maggiore, infatti, essa lo subisce da ciò che inquina la fede e la vita cristiana dei suoi membri e delle sue comunità, intaccando l’integrità del Corpo mistico, indebolendo la sua capacità di profezia e di testimonianza, appannando la bellezza del suo volto. Questa realtà è attestata già dall’epistolario paolino. La Prima Lettera ai Corinzi, ad esempio, risponde proprio ad alcuni problemi di divisioni, di incoerenze, di infedeltà al Vangelo che minacciano seriamente la Chiesa. Ma anche la Seconda Lettera a Timoteo – di cui abbiamo ascoltato un brano – parla dei pericoli degli “ultimi tempi”, identificandoli con atteggiamenti negativi che appartengono al mondo e che possono contagiare la comunità cristiana: egoismo, vanità, orgoglio, attaccamento al denaro, eccetera (cfr 2Tm 3,1-5). La conclusione dell’Apostolo è rassicurante: gli uomini che operano il male – scrive – “non andranno molto lontano, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti” (2Tm 3,9). Vi è dunque una garanzia di libertà assicurata da Dio alla Chiesa, libertà sia dai lacci materiali che cercano di impedirne o coartarne la missione, sia dai mali spirituali e morali, che possono intaccarne l’autenticità e la credibilità.

Il tema della libertà della Chiesa, garantita da Cristo a Pietro, ha anche una specifica attinenza con il rito dell’imposizione del Pallio, che oggi rinnoviamo per trentotto Arcivescovi Metropoliti, ai quali rivolgo il mio più cordiale saluto, estendendolo con affetto a quanti hanno voluto accompagnarli in questo pellegrinaggio. La comunione con Pietro e i suoi successori, infatti, è garanzia di libertà per i Pastori della Chiesa e per le stesse Comunità loro affidate. Lo è su entrambi i piani messi in luce nelle riflessioni precedenti. Sul piano storico, l’unione con la Sede Apostolica assicura alle Chiese particolari e alle Conferenze Episcopali la libertà rispetto a poteri locali, nazionali o sovranazionali, che possono in certi casi ostacolare la missione della Chiesa. Inoltre, e più essenzialmente, il ministero petrino è garanzia di libertà nel senso della piena adesione alla verità, all’autentica tradizione, così che il Popolo di Dio sia preservato da errori concernenti la fede e la morale. Il fatto dunque che, ogni anno, i nuovi Metropoliti vengano a Roma a ricevere il Pallio dalle mani del Papa va compreso nel suo significato proprio, come gesto di comunione, e il tema della libertà della Chiesa ce ne offre una chiave di lettura particolarmente importante. Questo appare evidente nel caso di Chiese segnate da persecuzioni, oppure sottoposte a ingerenze politiche o ad altre dure prove. Ma ciò non è meno rilevante nel caso di Comunità che patiscono l’influenza di dottrine fuorvianti, o di tendenze ideologiche e pratiche contrarie al Vangelo. Il Pallio dunque diventa, in questo senso, un pegno di libertà, analogamente al “giogo” di Gesù, che Egli invita a prendere, ciascuno sulle proprie spalle (cfr Mt 11,29-30). Come il comandamento di Cristo – pur esigente – è “dolce e leggero” e, invece di pesare su chi lo porta, lo solleva, così il vincolo con la Sede Apostolica – pur impegnativo – sostiene il Pastore e la porzione di Chiesa affidata alle sue cure, rendendoli più liberi e più forti.

Un’ultima indicazione vorrei trarre dalla Parola di Dio, in particolare dalla promessa di Cristo che le potenze degli inferi non prevarranno sulla sua Chiesa. Queste parole possono avere anche una significativa valenza ecumenica, dal momento che, come accennavo poc’anzi, uno degli effetti tipici dell’azione del Maligno è proprio la divisione all’interno della Comunità ecclesiale. Le divisioni, infatti, sono sintomi della forza del peccato, che continua ad agire nei membri della Chiesa anche dopo la redenzione. Ma la parola di Cristo è chiara: “Non praevalebunt – non prevarranno” (Mt 16,18). L’unità della Chiesa è radicata nella sua unione con Cristo, e la causa della piena unità dei cristiani – sempre da ricercare e da rinnovare, di generazione in generazione – è pure sostenuta dalla sua preghiera e dalla sua promessa. Nella lotta contro lo spirito del male, Dio ci ha donato in Gesù l’“Avvocato” difensore, e, dopo la sua Pasqua, “un altro Paraclito” (cfr Jn 14,16), lo Spirito Santo, che rimane con noi per sempre e conduce la Chiesa verso la pienezza della verità (cfr Jn 14,16 Jn 16,13), che è anche la pienezza della carità e dell’unità. Con questi sentimenti di fiduciosa speranza, sono lieto di salutare la Delegazione del Patriarcato di Costantinopoli, che, secondo la bella consuetudine delle visite reciproche, partecipa alle celebrazioni dei Santi Patroni di Roma. Insieme rendiamo grazie a Dio per i progressi nelle relazioni ecumeniche tra cattolici ed ortodossi, e rinnoviamo l’impegno di corrispondere generosamente alla grazia di Dio, che ci conduce alla piena comunione.

Cari amici, saluto cordialmente ciascuno di voi: Signori Cardinali, Fratelli nell’Episcopato, Signori Ambasciatori e Autorità civili, in particolare il Sindaco di Roma, sacerdoti, religiosi e fedeli laici. Vi ringrazio per la vostra presenza. I santi Apostoli Pietro e Paolo vi ottengano di amare sempre più la santa Chiesa, corpo mistico di Cristo Signore e messaggera di unità e di pace per tutti gli uomini. Vi ottengano anche di offrire con letizia per la sua santità e la sua missione le fatiche e le sofferenze sopportate per la fedeltà al Vangelo. La Vergine Maria, Regina degli Apostoli e Madre della Chiesa, vegli sempre su di voi, in particolare sul ministero degli Arcivescovi Metropoliti. Col suo celeste aiuto possiate vivere e agire sempre in quella libertà, che Cristo ci ha guadagnato. Amen.





                                                                                  Luglio 2010

VISITA PASTORALE A SULMONA - CONCELEBRAZIONE EUCARISTICA

Piazza Garibaldi - Sulmona, Domenica, 4 luglio 2010

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Cari fratelli e sorelle!

Sono molto lieto di essere oggi in mezzo a voi e celebrare con voi e per voi questa solenne Eucaristia. Saluto il vostro Pastore, il Vescovo Mons. Angelo Spina: lo ringrazio per le calorose espressioni di benvenuto che mi ha rivolto a nome di tutti, e per i doni che mi ha offerto e che apprezzo molto nella loro qualità di “segni” - come li ha definiti - della comunione affettiva ed effettiva che lega il popolo di questa cara Terra d’Abruzzo al Successore di Pietro. Saluto gli Arcivescovi e i Vescovi presenti, i Sacerdoti, i Religiosi e le Religiose, i rappresentanti delle Associazioni e dei Movimenti ecclesiali. Rivolgo un deferente pensiero al Sindaco, Dottor Fabio Federico, grato per il cortese indirizzo di saluto e per i “segni”, i doni, al rappresentante del Governo ed alle Autorità civili e militari. Un ringraziamento speciale a quanti hanno generosamente offerto la loro collaborazione per realizzare questa mia Visita Pastorale. Cari fratelli e sorelle! Sono venuto per condividere con voi gioie e speranze, fatiche e impegni, ideali e aspirazioni di questa Comunità diocesana. So bene che anche a Sulmona non mancano difficoltà, problemi e preoccupazioni: penso, in particolare, a quanti vivono concretamente la loro esistenza in condizioni di precarietà, a causa della mancanza del lavoro, dell’incertezza per il futuro, della sofferenza fisica e morale e - come ha ricordato il Vescovo - del senso di smarrimento dovuto al sisma del 6 aprile 2009. A tutti voglio assicurare la mia vicinanza ed il mio ricordo nella preghiera, mentre incoraggio a perseverare nella testimonianza dei valori umani e cristiani così profondamente radicati nella fede e nella storia di questo territorio e della sua popolazione.

Cari amici! La mia Visita avviene in occasione dello speciale Anno Giubilare indetto dai Vescovi dell’Abruzzo e del Molise per celebrare gli ottocento anni della nascita di san Pietro Celestino. Sorvolando il vostro territorio, ho potuto contemplare la bellezza del paesaggio e, soprattutto, ammirare alcune località strettamente legate alla vita di questa insigne figura: il Monte Morrone, dove Pietro condusse per molto tempo vita eremitica; l’Eremo di Sant’Onofrio, dove nel 1294 lo raggiunse la notizia della sua elezione a Sommo Pontefice, avvenuta nel Conclave di Perugia; e l’Abbazia di Santo Spirito, il cui altare maggiore venne da lui consacrato dopo la sua incoronazione, avvenuta nella Basilica di Collemaggio a L’Aquila. In questa Basilica io stesso, nell’aprile dell’anno scorso, dopo il terremoto che ha devastato la Regione, mi sono recato per venerare l’urna con le sue spoglie e lasciare il pallio ricevuto nel giorno dell’inizio del mio Pontificato.

Sono passati ben ottocento anni dalla nascita di san Pietro Celestino V, ma egli rimane nella storia per le note vicende del suo tempo e del suo pontificato e,soprattutto, per la sua santità. La santità, infatti, non perde mai la propria forza attrattiva, non cade nell’oblio, non passa mai di moda, anzi, col trascorrere del tempo, risplende con sempre maggiore luminosità, esprimendo la perenne tensione dell’uomo verso Dio. Dalla vita di san Pietro Celestino vorrei allora raccogliere alcuni insegnamenti, validi anche nei nostri giorni.

Pietro Angelerio sin dalla sua giovinezza è stato un “cercatore di Dio”, un uomo desideroso di trovare risposte ai grandi interrogativi della nostra esistenza: chi sono, da dove vengo, perché vivo, per chi vivo? Egli si mette in viaggio alla ricerca della verità e della felicità, si mette alla ricerca di Dio e, per ascoltarne la voce, decide di separarsi dal mondo e di vivere da eremita. Il silenzio diventa così l'elemento che caratterizza il suo vivere quotidiano. Ed è proprio nel silenzio esteriore, ma soprattutto in quello interiore, che egli riesce a percepire la voce di Dio, capace di orientare la sua vita. C’è qui un primo aspetto importante per noi: viviamo in una società in cui ogni spazio, ogni momento sembra debba essere “riempito” da iniziative, da attività, da suoni; spesso non c’è il tempo neppure per ascoltare e per dialogare. Cari fratelli e sorelle! Non abbiamo paura di fare silenzio fuori e dentro di noi, se vogliamo essere capaci non solo di percepire la voce di Dio, ma anche la voce di chi ci sta accanto, la voce degli altri.

Ma è importante sottolineare anche un secondo elemento: la scoperta del Signore che fa Pietro Angelerio non è il risultato di uno sforzo, ma è resa possibile dalla Grazia stessa di Dio, che lo previene. Ciò che egli aveva, ciò che egli era, non gli veniva da sé: gli era stato donato, era grazia, ed era perciò anche responsabilità davanti a Dio e davanti agli altri. Sebbene la nostra vita sia molto diversa, anche per noi vale la stessa cosa: tutto l’essenziale della nostra esistenza ci è stato donato senza nostro apporto. Il fatto che io viva non dipende da me; il fatto che ci siano state persone che mi hanno introdotto nella vita, che mi hanno insegnato cosa sia amare ed essere amati, che mi hanno trasmesso la fede e mi hanno aperto lo sguardo a Dio: tutto ciò è grazia e non è “fatto da me”. Da noi stessi non avremmo potuto fare nulla se non ci fosse stato donato: Dio ci anticipa sempre e in ogni singola vita c’è del bello e del buono che noi possiamo riconoscere facilmente come sua grazia, come raggio di luce della sua bontà. Per questo dobbiamo essere attenti, tenere sempre aperti gli “occhi interiori”, quelli del nostro cuore. E se noi impariamo a conoscere Dio nella sua bontà infinita, allora saremo capaci anche di vedere, con stupore, nella nostra vita – come i Santi – i segni di quel Dio, che ci è sempre vicino, che è sempre buono con noi, che ci dice: “Abbi fede in me!”.

Nel silenzio interiore, nella percezione della presenza del Signore, Pietro del Morrone aveva maturato, inoltre, un’esperienza viva della bellezza del creato, opera delle mani di Dio: ne sapeva cogliere il senso profondo, ne rispettava i segni e i ritmi, ne faceva uso per ciò che è essenziale alla vita. So che questa Chiesa locale, come pure le altre dell’Abruzzo e del Molise, sono attivamente impegnate in una campagna di sensibilizzazione per la promozione del bene comune e della salvaguardia del creato: vi incoraggio in questo sforzo, esortando tutti a sentirsi responsabili del proprio futuro, come pure di quello degli altri, anche rispettando e custodendo la creazione, frutto e segno dell’Amore di Dio.

Nella seconda lettura di oggi, tratta dalla Lettera ai Galati, abbiamo ascoltato una bellissima espressione di san Paolo, che è anche un perfetto ritratto spirituale di san Pietro Celestino: «Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo» (
Ga 6,14). Davvero la Croce costituì il centro della sua vita, gli diede la forza per affrontare le aspre penitenze e i momenti più impegnativi, dalla giovinezza all’ultima ora: egli fu sempre consapevole che da essa viene la salvezza. La Croce diede a san Pietro Celestino anche una chiara coscienza del peccato, sempre accompagnata da un’altrettanto chiara coscienza dell’infinita misericordia di Dio verso la sua creatura. Vedendo le braccia aperte e spalancate del suo Dio crocifisso, egli si è sentito portare nel mare infinito dell’amore di Dio. Come sacerdote, ha fatto esperienza della bellezza di essere amministratore di questa misericordia assolvendo i penitenti dal peccato, e, quando fu eletto alla Sede dell’Apostolo Pietro, volle concedere una particolare indulgenza, denominata “La Perdonanza”. Desidero esortare i sacerdoti a farsi testimoni chiari e credibili della buona notizia della riconciliazione con Dio, aiutando l’uomo d’oggi a recuperare il senso del peccato e del perdono di Dio, per sperimentare quella gioia sovrabbondante di cui il profeta Isaia ci ha parlato nella prima lettura (cfr Is 66,10-14).

Infine, un ultimo elemento: san Pietro Celestino, pur conducendo vita eremitica, non era “chiuso in se stesso”, ma era preso dalla passione di portare la buona notizia del Vangelo ai fratelli. E il segreto della sua fecondità pastorale stava proprio nel “rimanere” con il Signore, nella preghiera, come ci è stato ricordato anche nel brano evangelico odierno: il primo imperativo è sempre quello di pregare il Signore della messe (cfr Lc 10,2). Ed è solo dopo questo invito che Gesù definisce alcuni impegni essenziali dei discepoli: l’annuncio sereno, chiaro e coraggioso del messaggio evangelico - anche nei momenti di persecuzione – senza cedere né al fascino della moda, né a quello della violenza o dell’imposizione; il distacco dalle preoccupazioni per le cose - il denaro e il vestito – confidando nella Provvidenza del Padre; l’attenzione e cura in particolare verso i malati nel corpo e nello spirito (cfr Lc 10,5-9). Queste furono anche le caratteristiche del breve e sofferto pontificato di Celestino V e queste sono le caratteristiche dell’attività missionaria della Chiesa in ogni epoca.

Cari fratelli e sorelle! Sono in mezzo a voi per confermarvi nella fede. Desidero esortarvi, con forza e con affetto, a rimanere saldi in quella fede che avete ricevuto, che dà senso alla vita e che dona la forza di amare. Ci accompagnino in questo cammino l’esempio e l’intercessione della Madre di Dio e di san Pietro Celestino. Amen!





                                                                                  Agosto 2010

SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DELL’ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA

Parrocchia di San Tommaso da Villanova, Castel Gandolfo, Domenica, 15 agosto 2010

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Eminenza, Eccellenza, Autorità,
Cari fratelli e sorelle,

oggi la Chiesa celebra una delle più importanti feste dell’anno liturgico dedicate a Maria Santissima: l’Assunzione. Al termine della sua vita terrena, Maria è stata portata in anima e corpo nel Cielo, cioè nella gloria della vita eterna, nella piena e perfetta comunione con Dio.

Quest’anno ricorre il sessantesimo anniversario da quando il Venerabile Papa Pio XII, il 1° novembre 1950, definì solennemente questo dogma, e vorrei leggere – anche se è un po’ complicato – la forma della dogmatizzazione. Dice il Papa: «in tal modo l’augusta Madre di Dio, arcanamente unita a Gesù Cristo fin da tutta l’eternità con uno stesso decreto di predestinazione, Immacolata nella sua Concezione, Vergine illibata nella sua divina maternità, generosa Socia del Divino Redentore, che ha riportato un pieno trionfo sul peccato e sulle sue conseguenze, alla fine, come supremo coronamento dei suoi privilegi, ottenne di essere preservata dalla corruzione del sepolcro e, vinta la morte, come già il suo Figlio, di essere innalzata in anima e corpo alla gloria del Cielo, dove risplende Regina alla destra del Figlio suo, Re immortale dei secoli» (Cost. ap. Munificentissimus Deus, AAS 42 (1950), 768-769).

Questo, quindi, è il nucleo della nostra fede nell’Assunzione: noi crediamo che Maria, come Cristo suo Figlio, ha già vinto la morte e trionfa già nella gloria celeste nella totalità del suo essere, «in anima e corpo».

San Paolo, nella seconda lettura di oggi, ci aiuta a gettare un po’ di luce su questo mistero partendo dal fatto centrale della storia umana e della nostra fede: il fatto, cioè, della risurrezione di Cristo, che è «la primizia di coloro che sono morti». Immersi nel Suo Mistero pasquale, noi siamo resi partecipi della sua vittoria sul peccato e sulla morte. Qui sta il segreto sorprendente e la realtà chiave dell’intera vicenda umana. San Paolo ci dice che tutti siamo «incorporati» in Adamo, il primo e vecchio uomo, tutti abbiamo la stessa eredità umana alla quale appartiene: la sofferenza, la morte, il peccato. Ma a questa realtà che noi tutti possiamo vedere e vivere ogni giorno aggiunge una cosa nuova: noi siamo non solo in questa eredità dell’unico essere umano, incominciato con Adamo, ma siamo «incorporati» anche nel nuovo uomo, in Cristo risorto, e così la vita della Risurrezione è già presente in noi. Quindi, questa prima «incorporazione» biologica è incorporazione nella morte, incorporazione che genera la morte. La seconda, nuova, che ci è donata nel Battesimo, è ««incorporazione» che da la vita. Cito ancora la seconda Lettura di oggi; dice San Paolo: «Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita. Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo. » (
1Co 15,21-24).

Ora, ciò che san Paolo afferma di tutti gli uomini, la Chiesa, nel suo Magistero infallibile, lo dice di Maria, in un modo e senso precisi: la Madre di Dio viene inserita a tal punto nel Mistero di Cristo da essere partecipe della Risurrezione del suo Figlio con tutta se stessa già al termine della vita terrena; vive quello che noi attendiamo alla fine dei tempi quando sarà annientato «l’ultimo nemico», la morte (cfr 1Co 15,26); vive già quello che proclamiamo nel Credo «Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà».

Allora ci possiamo chiedere: quali sono le radici di questa vittoria sulla morte prodigiosamente anticipata in Maria? Le radici stanno nella fede della Vergine di Nazareth, come testimonia il brano del Vangelo che abbiamo ascoltato (Lc 1,39-56): una fede che è obbedienza alla Parola di Dio e abbandono totale all’iniziativa e all’azione divina, secondo quanto le annuncia l’Arcangelo. La fede, dunque, è la grandezza di Maria, come proclama gioiosamente Elisabetta: Maria è «benedetta fra le donne», «benedetto è il frutto del suo grembo» perché è «la madre del Signore», perché crede e vive in maniera unica la «prima» delle beatitudini, la beatitudine della fede. Elisabetta lo confessa nella gioia sua e del bambino che le sussulta in grembo: «E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto» (Lc 1,45). Cari amici! Non ci limitiamo ad ammirare Maria nel suo destino di gloria, come una persona molto lontana da noi: no! Siamo chiamati a guardare quanto il Signore, nel suo amore, ha voluto anche per noi, per il nostro destino finale: vivere tramite la fede nella comunione perfetta di amore con Lui e così vivere veramente.

A questo riguardo, vorrei soffermarmi su un aspetto dell’affermazione dogmatica, là dove si parla di assunzione alla gloria celeste. Noi tutti oggi siamo ben consapevoli che col termine «cielo» non ci riferiamo ad un qualche luogo dell’universo, a una stella o a qualcosa di simile: no. Ci riferiamo a qualcosa di molto più grande e difficile da definire con i nostri limitati concetti umani. Con questo termine «cielo» vogliamo affermare che Dio, il Dio fattosi vicino a noi non ci abbandona neppure nella e oltre la morte, ma ha un posto per noi e ci dona l’eternità; vogliamo affermare che in Dio c’è un posto per noi. Per comprendere un po’ di più questa realtà guardiamo alla nostra stessa vita: noi tutti sperimentiamo che una persona, quando è morta, continua a sussistere in qualche modo nella memoria e nel cuore di coloro che l’hanno conosciuta ed amata. Potremmo dire che in essi continua a vivere una parte di questa persona, ma è come un’«ombra» perché anche questa sopravvivenza nel cuore dei propri cari è destinata a finire. Dio invece non passa mai e noi tutti esistiamo in forza del Suo amore. Esistiamo perché egli ci ama, perché egli ci ha pensati e ci ha chiamati alla vita. Esistiamo nei pensieri e nell’amore di Dio. Esistiamo in tutta la nostra realtà, non solo nella nostra «ombra». La nostra serenità, la nostra speranza, la nostra pace si fondano proprio su questo: in Dio, nel Suo pensiero e nel Suo amore, non sopravvive soltanto un’«ombra» di noi stessi, ma in Lui, nel suo amore creatore, noi siamo custoditi e introdotti con tutta la nostra vita, con tutto il nostro essere nell’eternità.

E’ il suo Amore che vince la morte e ci dona l’eternità, ed è questo amore che chiamiamo «cielo»: Dio è così grande da avere posto anche per noi. E l’uomo Gesù, che è al tempo stesso Dio, è per noi la garanzia che essere-uomo ed essere-Dio possono esistere e vivere eternamente l’uno nell’altro. Questo vuol dire che di ciascuno di noi non continuerà ad esistere solo una parte che ci viene, per così dire, strappata, mentre altre vanno in rovina; vuol dire piuttosto che Dio conosce ed ama tutto l’uomo, ciò che noi siamo. E Dio accoglie nella Sua eternità ciò che ora, nella nostra vita, fatta di sofferenza e amore, di speranza, di gioia e di tristezza, cresce e diviene. Tutto l’uomo, tutta la sua vita viene presa da Dio ed in Lui purificata riceve l’eternità. Cari Amici! Io penso che questa sia una verità che ci deve riempire di gioia profonda. Il Cristianesimo non annuncia solo una qualche salvezza dell’anima in un impreciso al di là, nel quale tutto ciò che in questo mondo ci è stato prezioso e caro verrebbe cancellato, ma promette la vita eterna, «la vita del mondo che verrà»: niente di ciò che ci è prezioso e caro andrà in rovina, ma troverà pienezza in Dio. Tutti i capelli del nostro capo sono contati, disse un giorno Gesù (cfr Mt 10,30). Il mondo definitivo sarà il compimento anche di questa terra, come afferma san Paolo: «la creazione stessa sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,21). Allora si comprende come il cristianesimo doni una speranza forte in un futuro luminoso ed apra la strada verso la realizzazione di questo futuro. Noi siamo chiamati, proprio come cristiani, ad edificare questo mondo nuovo, a lavorare affinché diventi un giorno il «mondo di Dio», un mondo che sorpasserà tutto ciò che noi stessi potremmo costruire. In Maria Assunta in cielo, pienamente partecipe della Risurrezione del Figlio, noi contempliamo la realizzazione della creatura umana secondo il «mondo di Dio».

Preghiamo il Signore affinché ci faccia comprendere quanto è preziosa ai Suo occhi tutta la nostra vita; rafforzi la nostra fede nella vita eterna; ci renda uomini della speranza, che operano per costruire un mondo aperto a Dio, uomini pieni di gioia, che sanno scorgere la bellezza del mondo futuro in mezzo agli affanni della vita quotidiana e in tale certezza vivono, credono e sperano.

Amen!



                                                                                  Settembre 2010

Benedetto XVI Omelie 20610