Agostino, Consenso Evang. 400

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:LIBRO QUARTO

Prologo.

1. Nei libri precedenti abbiamo esaminato il racconto di Matteo nella successione delle sue diverse parti e l'abbiamo confrontato con gli altri tre evangelisti. Giunti alla fine, abbiamo concluso che nei loro scritti non c'è alcun contrasto né all'interno di ciascuno né se li prendiamo in relazione l'uno con l'altro. Ora vogliamo con ugual metodo esaminare Marco in quel che contiene di diverso da Matteo, poiché delle parti che i due hanno in comune quanto ci sembrava di dover esporre l'abbiamo già fatto. Ci limiteremo quindi a investigare e confrontare i passi propri di Marco fino al racconto della cena del Signore per mostrare come in essi non si trovi alcuna contrapposizione con gli altri scritti evangelici. Se ci fermiamo alla cena, è perché dei fatti avvenuti dopo abbiamo già trattato: li abbiano esaminati in base al racconto di tutti e quattro gli evangelisti e, arrivati alla fine della ricerca, ne abbiano constatato un completo accordo.

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CAPITOLO 1

2. Marco comincia il suo scritto in questa maniera: Inizio del Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio, come è scritto nel profeta Isaia (Mc 1,1-2), fino alle parole: Andarono a Cafarnao ed entrato proprio di sabato nella sinagoga Gesù si mise ad insegnare loro (Mc 1,13). In tutto questo racconto le affermazioni con cui inizia sono state tutte esaminate in quanto comuni con Matteo; riguardo poi alla circostanza che il Signore entrato a Cafarnao nella sinagoga dei Giudei li istruiva di sabato, il suo racconto è parallelo a quanto descritto da Luca (Lc 4,31); né esistono difficoltà in proposito.

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CAPITOLO 2

La liberazione di un indemoniato.

3. Continua Marco: La gente era stupita del suo insegnamento, perché insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi. Allora un uomo che era nella sinagoga, posseduto da uno spirito immondo, si mise a gridare: " Che c'entri con noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci! " ecc. (Mc 1,22-24), fino al punto in cui dice: E ando per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demoni (Mc 1,39). In questo racconto ci sono, è vero, particolari che Marco ha in comune con il solo Luca (Lc 4,33-37), ma noi li abbiamo già esposti trattando la relazione che ne fa Matteo, la quale si presenta come continuativa e questi particolari sono stati cosi inseriti nella struttura stessa del racconto matteano che non mi sembrava ragionevole passarci sopra. Venendo poi a Luca, egli parlando dello spirito immondo ci informa che usci dall'uomo senza recargli alcun nocumento, mentre Marco scrive: Lo spirito immondo se ne usci da lui strapazzandolo ed emettendo forti grida (Mc 1,26). Sembrerebbero testi contrastanti. Come si puo dire infatti che lo strapazzo o, come leggono altri codici, che infieri su di lui, se al dire di Luca non gli reco alcun nocumento? Ma è da tener presente l'intero passo di Luca ove è detto: Avendolo scaraventato in mezzo il demonio se ne ando da lui e non gli reco alcun nocumento (Lc 4,35). Da cio si deduce che il termine di Marco: Infieri su di lui, equivale a quello di Luca: Lo scaravento in mezzo alla gente; dopo di che non gli reco alcun nocumento. Si lascia quindi intendere che, sebbene il corpo di quell'uomo fu gettato a terra e malmenato, non ci fu anche quello stato di prostrazione che si verifica tutte le volte che si scacciano i demoni e, senza che questi compiano particolari gesti di accanimento, l'una o l'altra delle parti del corpo viene colpita.

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CAPITOLO 3

Il nome di Simone è cambiato in Pietro.

4. Prosegue Marco e dice: Venne da lui un lebbroso: lo supplicava in ginocchio e gli diceva: "Se vuoi, puoi guarirmi! " (Mc 1,40)ecc. , fino alle parole: E gridavano dicendo: " Tu sei il Figlio di Dio! ". Ma egli li sgridava severamente perché non lo manifestassero (Mc 3,11-12). Affermazioni simili a queste ultime sono riportate anche da Luca (Lc 4,41), ma non creano alcuna difficoltà. E poi ancora Marco: Salito sul monte, chiamo a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui: ne costitui dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni. Costitui dunque i dodici: Simone, al quale impose il nome di Pietro (Mc 3,13 Mc 3,16), ecc. fino al punto in cui dice: Egli se ne ando e si mise a proclamare per la Decapoli cio che Gesù aveva fatto, e tutti ne erano ammirati (Mc 5,20). So di avere già parlato dei nomi degli Apostoli mentre esponevo gli avvenimenti seguendo l'ordine di Matteo. Qui debbo solo ripetere l'ammonizione, in modo che nessuno creda che a Simone fu in quel momento cambiato il nome con quello di Pietro: cosa che si opporrebbe a quanto detto da Giovanni, il quale riferisce che un tal nome gli fu imposto molto tempo prima, cioè quando Gesù gli disse: Tu ti chiamerai Cefa, che significa Pietro (Jn 1,42). In Giovanni infatti troviamo riportata in termini precisi la descrizione del Signore che impone a Pietro il nuovo nome, mentre Marco nel suo testo si limita a dire che il Signore impose a Simone il nome di Pietro (Mc 3,16), riportando il particolare del cambiamento come uno che faccia un riepilogo di cose avvenute. Volendo infatti elencare il nome dei dodici Apostoli e trovandosi nella necessità di menzionare anche Pietro, si senti in dovere di accennare che egli un tempo non si chiamava cosi ma fu il Signore a dargli quel nome. La cosa pero non avvenne allora ma quando la ricorda Giovanni, il quale riferisce le parole precise del Signore. Nel resto non ci sono opposizioni, e tutta la tematica è stata esposta antecedentemente.

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CAPITOLO 4

La prescienza del Signore in rapporto all'ordine di cui Mc 6,31.

5. Prosegue Marco: Quando Gesù si fu recato in barca all'altra sponda del lago gli si raduno attorno molta folla, ed egli stava lungo il mare (Mc 5,21) ecc. , fino alle parole: Gli Apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e insegnato (Mc 6,30). Quest'ultima notizia è riportata anche da Luca (Lc 9,10), né ci sono contrasti fra i due; il resto l'abbiamo già esaminato. Aggiunge Marco: Egli disse loro: " Venite in disparte in un luogo solitario e riposatevi un po' " (Mc 6,31), ecc. fino alle parole: Ma più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano e, pieni di stupore, dicevano: " Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti! "(Mc 7,36-37).

Nell'insieme di questo racconto, a quanto pare, non c'è nulla in cui Marco si trovi in disaccordo con Luca; quanto poi alle notizie riferite antecedentemente, le abbiamo vagliate tutte nel confronto fra Marco e Matteo. Tuttavia, nei riguardi del testo di Marco che ho riferito per ultimo occorre stare attenti per non ritenerlo contrario a quanto narrato dagli altri evangelisti, i quali narrando numerosi fatti e detti del Signore mostrano come egli conosceva tutto quanto avviene nell'uomo. Nulla cioè poteva essere a lui nascosto né dei pensieri né delle decisioni del volere umano, come con estrema chiarezza afferma Giovanni: Gesù al contrario non si confidava con loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che qualcuno gli desse testimonianza su un altro: egli infatti sapeva quello che c'è in ogni uomo (Jn 2,24-25). Osservate bene! Cosa c'è di straordinario nel fatto che egli riusciva a leggere il volere umano nelle sue scelte già effettuate se si pensa che fu in grado di predire a Pietro anche le scelte future: quelle cioè che non aveva affatto in mente allorché presumeva di poter morire per lui e con lui? (Mt 26,33-35) Ora, se le cose stanno veramente cosi, come si potrà affermare che con una cosi grande scienza e preveggenza non contrasti quanto riferito da Marco, che cioè: Egli comando loro di non dirlo a nessuno, ma quanto più egli si raccomandava tanto più essi ne parlavano? (Mc 7,36)

Se infatti egli conosceva la volontà umana e quel che avrebbe fatto quella gente li sul momento e poi anche in seguito, e cioè com'essa tanto più ne avrebbe parlato quanto più perentori erano gli ordini di non parlarne, a che pro impartire tali ordini? A meno che non si pensi che egli cio facendo voleva dare una lezione a chi sarebbe stato pigro nel ministero della predicazione, dicendo quasi alle persone incaricate di questo compito che debbono parlare di lui con diligenza e fervore molto grandi, dal momento che anche coloro ai quali la cosa era stata vietata non riuscivano a tacere.

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CAPITOLO 5

Non si deve ostacolare l'apporto costruttivo degli estranei.

6. Marco continua cosi il suo racconto: In quei giorni essendoci di nuovo molta folla che non aveva da mangiare ecc. , fino alle parole: Gli rispose Giovanni: " Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demoni nel tuo nome e glielo abbiamo vietato, perché non era dei nostri ". Ma Gesù disse: " Non glielo proibite, perché non c'è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlar male di me. Chi non è contro di voi è a vostro favore " (Mc 8,1 Mc 9,37-39). Identico il testo di Luca (Lc 9,49-50), se si escluda l'omissione, fatta dal terzo evangelista, delle parole: Non c'è nessuno che operi portenti nel mio nome e subito dopo possa parlar male di me. Tra i due quindi non c'è alcuna contrapposizione. Occorre pero vedere se tutto questo racconto non contrasti con quanto detto dal Signore quando affermava: Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me getta via (Lc 11,23 Mt 12,30). Se è vero che chi non è con lui è contro di lui, come si puo dire che non era contro di lui uno che non era con lui? Anzi di lui dice abbastanza chiaramente Giovanni che non era dei suoi seguaci. Se era contro di lui, come poté dire ai discepoli il Signore: Non glielo impedite!, poiché chi non è contro di voi è a vostro favore? (Mc 9,38) O che si possa in qualche modo distinguere fra le parole: Chi non è con voi è a vostro favore (Mc 9,39), le quali furono rivolte ai discepoli, mentre le altre: Chi non è con me è contro di me riguardavano lui personalmente?

Ma come si puo pensare che una persona sia unita ai discepoli e non lo sia anche con Cristo, se egli è unito ai discepoli come il capo alle membra? Se cosi non fosse, come sarebbero vere le parole: Chi accoglie voi accoglie me? (Mt 10,40). E ancora: Tutte le volte che avrete fatto tali cose a uno dei miei, anche al più piccolo, le avete fatte a me? (Mt 25,40). Parimenti, chi potrà immaginare che non sia in contrasto con lui uno che si mette in contrasto con i suoi discepoli? In tale ipotesi dove andrebbero a finire le parole: Chi disprezza voi disprezza me? (Lc 10,16). E le altre: Tutte le volte che non avrete fatto cio a uno dei miei, anche al più piccolo, non lo avrete fatto neppure a me? (Mt 25,45). E ancora le altre, rivolte a Saulo, che perseguitava non lui ma i discepoli: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? (At 9,4). In effetti quello che il Signore voleva farci comprendere era questo: uno non è con lui per quel tanto che è in contrasto con lui e, viceversa, non è in contrasto con lui per quel tanto che è con lui.

Ed eccone l'esempio, tratto proprio da quel tale che operava prodigi in nome di Cristo senza appartenere alla comunità dei discepoli. In quanto operava prodigi nel nome di Cristo egli era del numero dei seguaci di Cristo e non un loro avversario; per il fatto invece che non apparteneva al loro gruppo egli non era uno di loro ma un loro avversario. Siccome pero i discepoli gli avevano impedito di fare una cosa nella quale era in comunione con loro, il Signore li rimprovero dicendo: Non glielo impedite! Quello che avrebbero dovuto impedirgli era di trovarsi al di fuori del loro numero, inculcandogli in tal modo l'unità della Chiesa. Non avrebbero al contrario dovuto impedirgli cio che aveva in comune con loro e che era una cosa encomiabile: che cioè per scacciare i demoni si servisse del nome del loro Maestro e Signore. E cio che fa la Chiesa cattolica quando rimprovera agli eretici non il fatto di avere in comune i sacramenti nei quali convengono con noi e non sono in contrasto con noi, ma l'essere divisi e separati da noi o qualche altro punto di dottrina che si opponga alla pace e alla verità. E fa bene a rimproverarli perché in questo essi non sono con noi ma contro di noi, non raccolgono con noi ma piuttosto gettano via.

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CAPITOLO 6

L'esorcista estraneo al gruppo dei discepoli.

7. Marco proseguendo scrive: Chiunque vi darà da bere un bicchiere d'acqua nel mio nome, perché siete di Cristo, vi dico in verità che non perderà la sua ricompensa. Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli passassero al collo una mola da asino e lo buttassero in mare. Se la tua mano ti scandalizza, tagliala; è meglio per te entrare nella vita monco che con due mani andare nella Geenna, nel fuoco inestinguibile, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue ecc. (Mc 9,40-43), fino alle parole: Abbiate in voi il sale e state in pace fra voi (Mc 9,49). Dice Marco che il Signore tali parole le pronuncio subito dopo aver rimproverato i discepoli che non avrebbero dovuto opporsi a colui che scacciava i demoni nel nome di Cristo senza appartenere al gruppo dei suoi seguaci. Nel suo racconto inserisce dettagli non riferiti da nessun altro evangelista mentre altri dettagli sono riferiti dal solo Matteo (Mt 10,12) e altri da Matteo e da Luca (Mt 18,6 Lc 17,2) ma in circostanze diverse. Questi due evangelisti poi seguono un altro ordine, senza agganci con l'episodio riportato da Marco a questo punto, di colui che scacciava i demoni nel nome di Cristo senz'essere del numero dei discepoli.

A mio avviso e siccome Marco merita fiducia penserei che il Signore disse anche a questo punto quel che aveva detto già in altre occasioni, e lo fece in quanto l'operato di colui che non apparteneva al gruppo dei discepoli rientrava abbastanza logicamente nel divieto generale con cui si proibiva di operare prodigi nel suo nome. Cosi infatti scrive Marco subito appresso: Chi non è contro di voi è per voi. Chiunque vi darà da bere un bicchiere d'acqua nel mio nome, poiché siete di Cristo, vi dico in verità che non perderà la sua ricompensa (Mc 9,39-40). In questa maniera diede a divedere che nemmeno quel tale cui accennava Giovanni e che aveva dato lo spunto per l'attuale discorso del Signore era cosi al di fuori della comunità apostolica da aggredirla come farebbe un eretico. Era come uno di quei tanti che non se la sentono di ricevere i sacramenti di Cristo ma nello stesso tempo sono cosi favorevoli al nome cristiano da accogliere in casa i cristiani e tributar loro questi tratti di benevolenza senz'altro motivo all'infuori della loro adesione al cristianesimo. Di queste persone il Signore dice che non perderanno la loro ricompensa.

Non che costoro per la benevolenza verso i cristiani debbano ritenersi sicuri e tranquilli finché non siano lavati dal battesimo di Cristo e non siano incorporati all'unità della sua Chiesa; tuttavia quel loro lasciarsi dirigere dalla misericordia di Dio è certo un buon auspicio che arriveranno alla mèta, per partire poi con sicurezza da questo mondo. Quanti sono di questo numero, già prima d'essere parte della comunità cristiana le sono più utili che non quegli altri che, pur portando il nome cristiano e partecipando ai sacramenti della Chiesa cristiana, diffondono dottrine tali che chi si lascia persuadere finisce con loro nella rovina eterna. Chiamando questi scandalosi con nomi tratti dalle membra del corpo, quali mano o occhio, il Signore ordina che chi scandalizza dev'essere staccato dal corpo, cioè messo fuori dalla comunione con l'unità (Mc 9,42-49), essendo preferibile entrare nella vita senza gente siffatta anziché essere gettati nella Geenna insieme con loro. Se poi si parla di una separazione da costoro è perché non si dà l'assenso al male che essi divulgano, cioè non si subiscono i loro scandali.

Che se della loro perversione sono al corrente tutti i buoni in mezzo ai quali essi convivono, occorre allontanarli da tutt'intera la comunità dei buoni, senza eccezione, anzi li si deve escludere dalla stessa partecipazione ai divini sacramenti. Se al contrario essi sono conosciuti come tali solo da poche persone mentre la maggioranza è all'oscuro della loro infedeltà bisogna tollerarli, come nell'aia prima che arrivi il momento della vagliatura si tollera la pula insieme col buon grano. Non si deve consentire che si instauri con loro una vera comunione, che sarebbe riprovevole, né a causa loro si deve abbandonare la comunione con i buoni. Tale comportamento tengono coloro che hanno sale in testa e mantengono la pace con gli altri.

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CAPITOLO 7

I fatti che precedettero la Cena del Signore.

8. Continua Marco: Partitosi di là, si reco nel territorio della Giudea oltre il Giordano. La folla accorse di nuovo a lui e di nuovo egli l'ammaestrava (Mc 10,1) ecc. , fino alle parole: Poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece nella sua povertà vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere (Mc 12,44). In tutto questo succedersi di fatti le affermazioni iniziali sono state esaminate tutte nel raffronto tra Matteo e gli altri evangelisti per escluderne ogni contrapposizione. Riguardo poi alla vedova povera che getto nel tesoro del tempio i due spiccioli, ne parlano soltanto Marco e Luca (Mc 12,41-44 Lc 21,1-4), e il loro racconto, sostanzialmente concorde, non pone alcun problema. Da questo punto fino alla descrizione della cena del Signore (Mc 13,1-37), da dove abbiamo iniziato il nostro esame ampliato a tutti e quattro gli evangelisti, Marco non ha nulla che ci obblighi a istituire confronti con gli altri narratori per illustrare elementi di contrasto eventualmente esistenti nei loro racconti.

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CAPITOLO 8

Il prologo di Luca e l'inizio degli Atti.

9. Iniziamo qui l'esposizione ordinata del Vangelo di Luca escludendo quei racconti che ha in comune con Matteo e con Marco, dei quali già abbiamo trattato. Luca inizia il suo Vangelo con queste parole: Poiché molti hanno posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra noi come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni fin da principio e divennero ministri della parola, cosi ho deciso anch'io di far ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne per te un racconto ordinato, illustre Teofilo, perché ti possa rendere conto della verità degli insegnamenti che hai ricevuto (Lc 1,1-4). Questo prologo non rientra nella narrazione di fatti evangelici; vuol essere solo un avvertimento affinché riteniamo che lo stesso Luca, autore del Vangelo, è anche autore del libro chiamato Atti degli Apostoli. Lo si desume dal fatto che in apertura di questo secondo libro troviamo il nome Teofilo. La cosa di per sé sola non è certo una prova apodittica, poiché potrebbe trattarsi d'un Teofilo diverso dall'altro o, supposto che si tratti dello stesso Teofilo, il libro a lui dedicato potrebbe essere stato composto da un autore diverso da Luca, il quale nell'ipotesi sarebbe autore del solo Vangelo. Cio che rende sicura la prova è il modo come Luca inizia questo suo secondo libro. Egli scrive: In un primo mio intervento ho parlato, o Teofilo, di tutto quello che Gesù fece e insegno dal principio fino al giorno in cui scelse gli Apostoli, dopo aver per lo Spirito Santo dato ordine di predicare il Vangelo (At 1,12). Con tali affermazioni fa comprendere chiaramente che in antecedenza aveva scritto un altro libro, ed esattamente uno dei quattro Vangeli, la cui autorità è preminente nella Chiesa. In questo Vangelo, secondo l'attestazione dell'autore, sarebbe narrato tutto cio che Gesù comincio a fare e insegnare fino al giorno in cui diede l'incarico ufficiale agli Apostoli.

Questa sua affermazione non la si deve intendere nel senso che egli nel Vangelo abbia raccontato tutte le cose che Gesù fece e disse nel tempo che rimase in terra e visse con gli Apostoli. Cio sarebbe in contrasto con quel che afferma Giovanni, e cioè che Gesù fece molte altre cose, le quali, se fossero poste in iscritto, il mondo intero non basterebbe per contenere il numero dei libri che ne verrebbero fuori (Jn 21,25). Del resto, anche facendo il confronto fra Luca e gli altri evangelisti si trovano parecchie cose che, omesse da Luca, vengono riferite dagli altri. Se pertanto dice che ha raccontato tutte le cose concernenti Gesù, lo dice in riferimento alle cose che riteneva sufficienti, per l'affinità e la pertinenza, al compito che si era assunto; e quindi, fra tutte le gesta del Signore, ne scelse alcune per comporre il suo racconto. Se poi parla di molti che tentarono di stendere una narrazione ordinata delle cose successe nella nostra comunità, sembra accennare a quei tali che non riuscirono a portare a termine il compito cui avevano posto mano.

Mentre sottolinea che costoro non erano riusciti a completare l'opera intrapresa, di se stesso dice che, a differenza dei molti, che avevano fatto tentativi, aveva composto uno scritto a suo parere ordinato e diligente. Per il fatto stesso che precisa la loro non riuscita nell'intento propostosi ci lascia ragionevolmente concludere trattarsi di scrittori la cui autorità non è stata mai accettata nella Chiesa. Quanto a Luca invece, noi sappiamo che il suo racconto si estende fino alla risurrezione e ascensione del Signore e occupa un posto di prestigio tra i quattro compositori delle scritture evangeliche, cosi come merita una simile opera. Non solo ma egli vi aggiunse il racconto di cio che era successo in seguito ed egli riteneva sufficientemente utile per dare una struttura solida alla fede di coloro che l'avrebbero letto o ascoltato. Egli lo pose in iscritto nel suo libro: Gli Atti degli Apostoli; che, fra quanti ne furono composti per tramandarci le gesta degli Apostoli, è l'unico a meritare la fede della Chiesa. Tutti gli altri che osarono comporre opere contenenti i fatti e i detti degli Apostoli furono esclusi [dal canone] come scritti non meritevoli della necessaria fiducia e attendibilità. Ne è prova anche il fatto che Marco e Luca scrissero in un tempo in cui i loro libri potevano essere riconosciuti non solo dalla Chiesa di Cristo ma anche dagli stessi Apostoli, che quando essi pubblicavano i loro scritti erano ancora in vita.

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CAPITOLO 9

Particolarità del Vangelo di Luca.

10. Il Vangelo di Luca inizia cosi: Al tempo di Erode, re della Giudea, c'era un sacerdote chiamato Zaccaria, della classe di Abia, e aveva in moglie una discendente di Aronne chiamata Elisabetta (Lc 1,5), ecc. fino alle parole: Quando ebbe finito di parlare disse a Simone: " Prendi il largo e calate le reti per la pesca" (Lc 5,4). In tutto cio nessun problema: contrasti non esistono. E vero che Giovanni dà l'impressione di raccontare fatti somiglianti a quelli di cui Luca, ma la distanza in ordine di tempo è troppo grande, poiché l'episodio narrato da Giovanni si colloca presso il mare di Tiberiade (Jn 21,1-11), dopo la risurrezione del Signore. Né c'è solo diversità cronologica, ma anche il fatto in se stesso presenta notevoli divergenze. Secondo Giovanni in quell'occasione le reti, gettate dalla parte destra catturarono cento cinquantatré pesci, i quali per quanto fossero grossi, stando al premuroso racconto dell'evangelista erano, si, grossi ma le reti

non si squarciarono. E questa nota Giovanni la pone avendo dinanzi allo sguardo quel che riferisce Luca, il quale sottolinea che per la quantità di pesci le reti minacciavano di rompersi (Lc 5,6). Altre cose che possano somigliarsi a quelle tramandate da Giovanni, in Luca non se ne trovano, se si esclude il racconto della passione e risurrezione del Signore: sul quale racconto, a cominciare dalla cena sino alla fine, noi ci siamo intrattenuti in maniera completa ed esauriente confrontando le testimonianze di tutti e quattro gli evangelisti per concludere che fra loro non esiste divergenza.

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CAPITOLO 10

Episodi peculiari del Vangelo di Giovanni.

11. Rimarrebbe da trattare Giovanni, ma, essendo l'ultimo degli evangelisti non ci sono altri con cui confrontarlo. In effetti dove ciascuno ha narrato in proprio e gli altri non dicono niente è difficile trovare questioni di divergenza. Ora si osserva di primo acchito che gli evangelisti Matteo, Marco e Luca, si sono dilungati soprattutto su cio che riguarda l'umanità del nostro Signore Gesù Cristo, nella quale egli è nostro re e sacerdote. Se ne deduce che Marco, il quale nel noto simbolismo dei quattro animali (Ap 4,6-7)sembra doversi identificare con la figura dell'uomo, appare piuttosto compagno di Matteo. Con lui infatti riferisce molte cose in comune, richiamando con cio la figura di un re che non suole essere senza il corteo che l'accompagna. E una constatazione che ho fatta nel primo libro. Con maggiori probabilità si puo supporre che egli proceda di concerto con tutt'e due gli altri, poiché, se nella maggior parte del suo racconto coincide con Matteo, ci sono anche non poche sezioni in cui concorda con Luca. Da questa annotazione si puo dedurre che Cristo fa riferimento con il leone e con il vitello, che cioè possiede la dignità regale, cui si riferisce Matteo, e quella sacerdotale, di cui s'interessa Luca. Ora cio dipende dal fatto che egli è uomo; e questo suo esser uomo lo rappresenta Marco, con risvolti all'una e all'altra dignità del Signore. Cristo pero ha anche la divinità, per la quale è uguale al Padre. Per essa è Verbo e Dio presso Dio; è il Verbo che per abitare in mezzo a noi si è fatto carne (Jn 1,1-14), lui che nella sua divinità è una cosa sola con il Padre (Jn 1,15-36). Orbene questa divinità più che non il resto ha messo in risalto Giovanni.

Egli come un'aquila spazia nel firmamento riportando le sublimi parole di Cristo e solo raramente, diciamo cosi, posa i piedi sulla terra. E vero che anch'egli attesta, anzi dà come scontato che Cristo ebbe una madre, tuttavia non riferisce nulla di quanto sappiamo da Matteo e Luca a proposito della sua nascita né parla per niente del battesimo di Cristo di cui si occupano gli altri tre evangelisti (Jn 1,15-36). Ci tramanda, è vero, elevandola e sublimandola, la testimonianza che in quell'occasione gli rese Giovanni ma poi, staccandosi dai tre, in compagnia del Signore si reca a Cana di Galilea per la festa di nozze (Jn 2,1-11). A quelle nozze dice Giovanni che era presente la Madre del Signore, ma egli l'apostrofa cosi: Che c'è fra me e te, o donna? (Jn 2,4) Non che volesse respingere colei da cui aveva assunto la carne ma, sul punto di cambiare l'acqua in vino, voleva rimarcare con estrema fortezza la sua divinità: quella divinità con cui aveva creato la stessa sua madre e che in nessun modo era stata creata nel grembo di lei.

12. Dopo alcuni giorni trascorsi a Cafarnao torno dalla Galilea al tempio, dove, a quanto riferisce Giovanni, disse parlando del suo corpo: Distruggete pure questo tempio; in capo a tre giorni io lo riedifichero (Jn 2,19). Cosi dicendo inculco a chiare note non solo che in quel tempio c'era il Dio-Verbo fatto carne ma anche il fatto che fu lui a risuscitare il proprio corpo. E lo risuscito in quanto lui e il Padre sono una cosa sola e operano inseparabilmente uniti. In tutti gli altri passi dove la Scrittura parla della sua risurrezione, a quanto pare, non si trova detto se non che fu Dio a risuscitarlo dai morti. Non c'è alcun altro passo chiaro come questo nel quale, parlandosi della risurrezione di Cristo operata da Dio, si dica che fu lui a risuscitare se stesso, in quanto con il Padre egli era un unico Dio. La cosa invece risulta evidente dal testo: Distruggete pure questo tempio; in capo a tre giorni io lo riedifichero (Jn 2,19).

13. In seguito è ricordato Nicodemo, con il quale il Signore parlo di cose veramente straordinarie, anzi divine, e terminato quel colloquio l'evangelista ritorna a Giovanni e alla sua testimonianza, sottolineando che per l'amico dello sposo non esisteva altra gioia se non quella derivante dalla voce dello sposo (Jn 3,1-36). Con queste parole ci rammenta che l'anima umana di per se stessa non è luce né di per se stessa è beata; lo è solo per la partecipazione dell'immutabile sapienza. Ecco poi la donna di Samaria, che dà al Signore l'occasione per parlarci di quell'acqua bevendo la quale non si ha più sete in eterno (Jn 4,1-42). Successivamente lo troviamo a Cana di Galilea dove aveva cambiato l'acqua in vino (Jn 4,43-54). In questa seconda venuta disse all'ufficiale regio che aveva un figlio malato: Se non vedete segni e prodigi non credete (Jn 4,48). Dal che si deduce con quanta forza egli desideri che la mente di coloro che avrebbero creduto si elevi al di sopra di ogni realtà mutevole. I suoi fedeli infatti non debbono cercare da lui nemmeno i miracoli: i quali, sebbene opera della divinità, si attuano in corpi mutevoli.

14. In seguito torna a Gerusalemme, dove guarisce uno che era malato da trentotto anni (Jn 5,1-47). E quante cose disse in quell'occasione! Che discorsi prolungati! In tale contesto l'evangelista pone la nota che i Giudei cercavano di ucciderlo perché non soltanto violava il sabato ma anche perché chiamava Dio suo Padre, mettendosi sullo stesso piano di Dio (Jn 5,18). Da tale nota si deduce con sufficiente chiarezza che egli parlando di Dio asseriva che era suo Padre non nel senso ordinario della parola, come cioè dice di lui ogni persona santa, ma volendo sottolineare l'uguaglianza fra sé e Dio. Non per nulla infatti un po' prima rispondendo alle critiche di certuni riguardo al sabato aveva detto: Il Padre mio opera ancora e io opero (Jn 5,17). I suoi avversari al sentirlo arsero d'ira: e cio non tanto perché chiamava Dio suo Padre ma perché con le parole che aveva dette: Il Padre mio opera ancora e io opero pretendeva che lo si considerasse uguale al Padre. Tale infatti era la conclusione logica: se il Padre opera ne deriva che anche il Figlio opera poiché il Padre non opera mai senza il Figlio. Per queste parole essi andarono sulle furie, ma il Signore ripeté allora quanto aveva detto già prima: Tutto cio che Egli fa, lo fa in egual modo anche il Figlio (Jn 5,19).

15. Dopo che ha riferito quanto sopra, Giovanni scende al livello degli altri tre evangelisti, che camminavano terra terra sia pure in compagnia del Signore. E nell'episodio dei cinquemila saziati con cinque pani. Ma anche li è il solo Giovanni a riferirci che, quando il Signore s'accorse che lo volevano proclamare re, se ne fuggi tutto solo in cima al monte (Jn 6,1-15 Mt 14,13-21 Mc 6,32-44 Lc 9,10-17). Con questo particolare mi sembra che egli abbia voluto dare alla ragione umana il richiamo che il Signore regna sul nostro intelletto e sulla nostra ragione solo perché risiede nei cieli altissimi, senza avere in alcun modo comunione di natura con gli uomini, essendo lui solo l'Unigenito del Padre. Un simile mistero sfugge alla portata degli uomini carnali, che strisciano per terra: tanto grande è la sua elevatezza. Per questo motivo anche storicamente il Signore si rifugio sul monte, abbandonando quei tali che cercavano il suo regno con mentalità terrena, mentre il suo regno -come dirà lui stesso altrove -non è di questo mondo (Jn 18,36). E un particolare anche questo che il solo Giovanni menziona, elevandosi al di sopra delle realtà terrene con un volo, direi celestiale, come uno che già fruisce dell'illuminazione del Sole di giustizia.

Da quel monte dov'era asceso dopo il miracolo dei cinque pani, Giovanni scende per un breve tratto e si adegua agli altri tre evangelisti per narrarci la traversata del mare, quando il Signore cammino sulle acque. Subito dopo pero si eleva di nuovo, per tornare alle altezze del Verbo di Dio, con un discorso che ebbe origine dall'episodio del pane (Jn 6,16-72). Discorso grande, ampio e nella sua lunghezza celeste e divino! Disse il Signore all'inizio di quel discorso: In verità, in verità vi dico: Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna (Jn 6,26-27). E cosi di seguito in maniera quanto mai ampia e sublime. Fu in quell'occasione che diversi discepoli, non comprendendo l'elevatezza di tale discorso caddero né vollero più camminare con lui. Gli rimasero fedeli invece quei tali che riuscirono a capire com'è che lo Spirito dà la vita mentre la carne non giova a nulla (Jn 6,64). In effetti, anche là dove interviene la carne colui che giova è lo spirito: il quale spirito poi giova anche da solo, senza la carne, mentre la carne priva dello spirito non reca alcun giovamento.

16. C'è poi la risposta che egli diede ai suoi fratelli, cioè a coloro che gli erano parenti secondo la carne. Costoro gli suggerivano di recarsi a Gerusalemme per la festa, durante la quale si sarebbe potuto far conoscere dalle folle (Jn 7,1-5); ma il Signore dalla sua altezza replico loro: Il mio tempo non è ancora venuto, il vostro invece è sempre pronto. Il mondo non puo odiare voi ma odia me, perché di lui io attesto che le sue opere sono cattive (Jn 7,6-7). Con l'espressione: Il vostro tempo è sempre pronto vuol far loro notare che essi cercavano il tempo presente, del quale dice il profeta: Io pero non ho stentato a seguire te, Signore; io non ho cercato il giorno dell'uomo: tu lo sai (Ger 17,16). Ecco le parole di uno che vola alla luce del Verbo e desidera quel giorno che anche Abramo desidero vedere e, quando lo vide, se ne rallegro (Jn 8,56).

Quando poi, giunta la festa, egli sali al tempio, pronunzio le parole ricordate da Giovanni: parole stupende, divine, straordinarie! (Jn 7,10-53). Egli sarebbe andato là dov'essi non potevano andare. Essi lo conoscevano e sapevano la sua origine, ma non conoscevano quel vero che l'aveva mandato. Come a dire: " Sapete da dove sono, ma la mia vera origine non la conoscete ". E questo cos'altro significa se non che essi a livello carnale ne potevano conoscere la stirpe e la patria ma era per loro uno sconosciuto nella sua divinità? In quell'occasione parlo anche dello Spirito Santo, mostrando cosi chi egli era in realtà, se quel dono cosi eccelso poteva essere elargito da lui.

17. Racconta poi di Gesù che dal monte degli Ulivi rientra in città (Lc 8,1-59) e parla molto a lungo [con i Giudei] dopo aver perdonato l'adultera che essi per metterlo alla prova gli avevano presentato come meritevole di lapidazione. Fu allora che egli si mise a scrivere in terra con il dito, come per indicare che gli accusatori meritavano d'essere scritti in terra, non in cielo, cioè là dove con loro gioia erano scritti i nomi dei discepoli (Lc 10,20). Se tracciava segni in terra, lo faceva per indicare la sua umiliazione, rappresentata dal suo piegare il capo; o forse voleva anche significare che era giunto il tempo in cui la sua legge sarebbe stata scritta in una terra fruttifera e non più sterile come la pietra, quale era stata quella anteriore a lui. In seguito egli affermo di essere la Luce del mondo e chi l'avesse seguito non avrebbe camminato nelle tenebre ma avrebbe avuto la luce della vita (Jn 8,12). Disse ancora di essere il Principio che stava parlando con loro (Jn 8,25).

Attribuendosi un tal nome si presento chiaramente come distinto dalla luce che egli aveva creata e si identifico con la luce ad opera della quale furono create tutte le cose. Ne segue che, quando egli si era definito luce del mondo, non avremmo dovuto intendere quelle parole nello stesso senso delle altre rivolte ai discepoli: Voi siete la luce del mondo (Mt 5,14). Essi erano luce in quanto erano lucerne, da non collocarsi sotto il moggio ma sul candeliere (Mt 5,15); e di Giovanni Battista aveva detto che era una lucerna ardente e luminosa (Jn 5,35). Egli era luce in quanto era il Principio, del quale fu detto: Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo attinto (Jn 1,16); e in tale occasione parlando di se stesso, cioè del Figlio, disse che egli era la verità che rende liberi, mentre senza tale liberazione nessuno è libero (Jn 8,31-36).

18. Successivamente il Signore restituisce la vista a un cieco nato (Jn 9,1-41), e Giovanni prendendo lo spunto da quell'avvenimento si sofferma a narrare un lungo discorso del Signore. Egli parlo delle pecore, del pastore, della porta e del suo potere di abbandonare la vita e di riprenderla (Jn 10,1-21): splendida testimonianza in favore della suprema potenza che gli derivava dalla sua divinità. Quando a Gerusalemme si celebrava la festa della Dedicazione (Jn 10,22-23), ricorda Giovanni che alcuni Giudei lo interrogarono: Fino a quando ci terrai sospesi? Se sei davvero il Cristo, diccelo chiaramente (Jn 10,24). Dall'occasione che allora gli si presento il Signore tenne un lungo e sublime discorso riportato dall'evangelista (Jn 10,25-38), in cui fra l'altro disse: Io e il Padre siamo una cosa sola (Jn 10,30). In seguito l'evangelista narra la risurrezione di Lazzaro (Jn 11,1-46), quando Gesù ebbe a dire: Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se morrà, vivrà; chiunque vive e crede in me, anche se muore, vivrà (Jn 11,25-26). In tali parole cosa dobbiamo riconoscere se non le altezze della divinità presente in Cristo: quella divinità partecipando alla quale noi vivremo in eterno? Dopo questo episodio Giovanni concorda con Matteo e Marco e ci presenta Gesù a Betania, dove Maria gli unse i piedi e la testa con unguento pregiato. Da questo momento Giovanni procede di concerto con gli altri tre evangelisti per tutto il racconto della passione e risurrezione del Signore, distaccandosene peraltro in diversi particolari (Jn 12,1-8 Mt 26,6-13 Mc 14,3-9).

19. Riguardo ai discorsi del Signore Giovanni non cessa di sollevarsi ad altezze sempre maggiori, a cominciare dalle lunghe e sublimi conversazioni che tenne da quel momento in poi. Alla prima diedero occasione quei gentili che, desiderosi di vederlo, ricorsero alla mediazione di Filippo e Andrea: discorso elevatissimo, di cui non parlano gli altri evangelisti (Jn 12,20-50), nel quale Gesù si diffonde ancora una volta nella descrizione mirabile concernente la luce che ci illumina e rende figli della luce (Jn 13,1-38). E si arriva cosi alla cena. Del fatto in sé parlano tutti gli evangelisti; ma Giovanni quante parole (e quanto sublimi) ci riferisce, che invece gli altri suoi colleghi omettono! Ecco il Signore darci una lezione di umiltà lavando i piedi ai discepoli, e poi, dopo che fu uscito il traditore reso manifesto dal boccone di cibo a lui porto, quando erano rimasti con lui soltanto gli Undici, quale mirabile, sublime e amplissimo discorso tenne loro il Signore! E tale discorso è Giovanni a riferircelo: quel discorso in cui il Signore affermo: Chi ha visto me ha visto il Padre (Jn 14,9), e poi si dilungo a parlare dello Spirito Santo consolatore che egli avrebbe inviato (Jn 16,7-26). Parlo anche di quella sua gloria che aveva presso il Padre già prima della creazione del mondo, e promise che, appartenendo a lui, saremmo diventati una cosa sola come sono una cosa sola lui e il Padre. Non che noi saremmo stati una unità come lui lo è con il Padre, ma avremmo formato fra noi una cosa sola a somiglianza di quello che sono lui e il Padre. Disse molte altre cose ancora e tutte stupendamente sublimi, sulle quali non possiamo né vogliamo soffermarci, primo perché non siamo capaci di esporle come meritano e poi, come ognuno vede, perché in quest'opera non ci siamo proposti questo intento.

E un debito che, probabilmente, ci toccherà pagare; ma lo faremo in altra occasione, e non ci venga richiesto adesso! La cosa che qui vogliamo inculcare agli innamorati della parola di Dio e a quanti cercano appassionatamente la santa verità è questa: Giovanni nel suo Vangelo è certamente un araldo e un predicatore di quello stesso Cristo - l'unico Messia vero e verace - di cui si occupano gli altri tre evangelisti e tutti gli Apostoli, anche quelli che non se la sentirono di comporre una narrazione scritta ma esplicarono il compito loro affidato con la predicazione orale. Da tutti costoro pero Giovanni si distingue perché lo vediamo sollevarsi ad altezze molto superiori nel presentarci la figura di Cristo. E questo fin dall'inizio del suo libro. Solo raramente lo troviamo camminare insieme con gli altri. Cosi fa al principio quando riferisce la testimonianza di Giovanni Battista (Jn 1,29), e in seguito quando presenta Gesù che, all'altra sponda del mare di Tiberiade, nutre la folla con cinque pani e cammina sulle acque (Jn 6,1-21); in terzo luogo, quando ci descrive il Signore che a Betania fu cosparso di unguento pregiato da quella donna fedele e affezionata (Jn 12,1-8).

Concorda con gli altri invece quando si giunge alla passione, dove accaddero fatti che egli necessariamente voleva riferire. Tuttavia, considerando che in questo periodo rientra anche la cena del Signore, è vero che non c'è evangelista che non ne abbia parlato, tuttavia Giovanni ce ne ha presentato un'immagine molto più ricca, quasi che l'avesse desunta dal petto del Signore dove era solito posare il capo (Jn 13,1-26). Andando avanti, ci narra del Signore che con parole altamente spirituali colpisce Pilato. A proposito del suo regno egli dice che non è di questo mondo; che egli è re per nascita; che è venuto al mondo per rendere testimonianza alla verità (Cf. 18,36-37). Dopo la risurrezione, per rimanere nella sua elevazione mistica, il Signore s'incontra con Maria e le dice: Non toccarmi!, poiché non sono ancora asceso al Padre (Jn 20,17). Egli alitando sui discepoli conferi loro lo Spirito Santo, perché non si avesse a credere che lo Spirito Santo, consustanziale e coeterno con la Trinità, fosse Spirito solo del Padre e non del Figlio (Jn 20,22).

20. In ultimo il Signore affida le sue pecore a Pietro tutto preso d'amore per il Maestro tant'è vero che glielo conferma tre volte. Di Giovanni Gesù afferma essere sua intenzione che rimanga fino alla sua venuta (Jn 21,15-23). In questa affermazione mi sembra che ci venga insegnato un profondo mistero, cioè la stessa funzione evangelica di Giovanni. In forza di tale compito particolare egli si leva ad altezze sublimi, cioè alla luce fulgidissima del Verbo nella quale si puo scorgere l'uguaglianza e l'immutabilità del Dio Trino. Inoltre per tale incombenza egli fu capace di penetrare la distanza che ha sugli uomini comuni quell'uomo che fu assunto dal Verbo fatto carne. Se pertanto è vero che tutti questi misteri non si possono vedere né conoscere se non al ritorno del Signore, molto a proposito gli fu detto che resterà vivo fino al ritorno di lui. Ora dunque resterà vivo nella fede dei credenti; dopo lo si contemplerà a faccia a faccia (1Co 13,12), quando cioè colui che è la nostra vita apparirà di nuovo e noi insieme con lui appariremo glorificati (Col 3,4). Ci potrebbe essere a questo riguardo qualcuno che ritenga essere un tale privilegio possibile all'uomo anche in questa vita mortale. Tolta e dissipata ogni nebulosità di fantasmi corporei e carnali potrebbe, quest'uomo, godere della chiarissima luce della verità immutabile e aderire ad essa costantemente e indefettibilmente, essendo la sua mente divenuta del tutto estranea alle leggi cui soggiace la vita presente.

Ma chi ragiona cosi dà segno di non comprendere né cosa cerchi né chi sia la persona che compie la ricerca. Presti fede pertanto, un simile presuntuoso, all'autorità eminente e infallibile di colui che dice: Finché siamo uniti al corpo siamo pellegrini lontani dal Signore, e camminiamo nella fede, non nella visione (2Co 5,6-7). Conservando e custodendo con perseveranza la fede, la speranza e la carità, tenga fisso lo sguardo su cio che sarà l'oggetto della visione (Jn 16,13), della quale abbiamo ricevuto il pegno, cioè lo Spirito Santo, che ci insegnerà tutta intera la verità. Finalmente verrà il giorno nel quale Dio, che ha risuscitato Gesù Cristo dai morti, darà la vita anche ai nostri corpi mortali mediante il suo Spirito che abita in noi (Rm 8,10-11 2Co 4,11). Ma quel che in noi è morto a causa del peccato, prima che venga vivificato è evidentemente soggetto a corruzione e appesantisce l'anima (Sg 9,15). Se, come a volte succede, l'anima riesce con l'aiuto [di Dio] ad uscire dalla nebulosità che copre tutta la terra (Si 24,6), vale a dire dalla caligine della condizione carnale che copre l'intera vita qui in terra, quasi venga colpita da improvviso bagliore, subito si rapprende e torna alla sua nativa miseria. Per quanto infatti rimanga in lei vivo il desiderio di elevarsi, non è abbastanza purificata per un'adesione definitiva. In questo elevarsi da terra chi più riesce è più grande, chi meno riesce è più piccino.

Se poi c'è qualcuno la cui mente non ha mai esperimentato nulla di simile, sebbene per la fede sia in lui presente Cristo, deve lavorare sodo per diminuire e alla fine eliminare tutte le cupidige mondane facendo leva sulle virtù morali. Nel far cio egli sta camminando con Cristo mediatore in compagnia dei primi tre evangelisti, e deve tenersi stretto a lui mediante la fede congiunta alla gioia che proviene da viva speranza. Un tal uomo è vicino a Cristo, che, essendo sempre Figlio di Dio, per noi si è fatto uomo e cosi la sua eterna potenza e divinità si è abbassata al livello della nostra debolezza e mortalità e, prendendo in sé cio che era nostro, è diventato nostra via. Da Cristo re egli sarà retto in modo da non peccare e se avrà peccato, la colpa gli sarà condonata da Cristo sacerdote (1Jn 2,1-2). In tal modo, fortificato dal cibo della buona condotta e della vita spesa in buone azioni sarà elevato da terra dalle penne del duplice amore, che saranno per lui come due ali robuste, finché non sia illuminato dallo stesso Cristo-Verbo: quel Verbo che era in principio, che era presso Dio e che era Dio (Jn 1,1).

Sarà, la sua, una visione riflessa e confusa ma molto più elevata che non qualsiasi immagine corporea (1Co 13,12). E vero dunque che nei tre primi evangelisti rifulgono i doni delle virtù attive, mentre in Giovanni quelli della vita contemplativa (sempre che tali cose si sia in grado di penetrare); tuttavia anche il dono di Giovanni, essendo parziale, resterà fino a quando non giunga cio che è perfetto (1Co 13,9-10). E vero quindi che a uno vien dato, mediate lo Spirito, il dono della sapienza, mentre a un altro, sempre in forza del medesimo Spirito, il dono della scienza (1Co 12,8). E vero che uno gusta il giorno del Signore (Rm 14,6), un altro invece beve l'acqua che scaturisce dal petto del Signore, un terzo è elevato fino al terzo cielo e vi ascolta parole indicibili (2Co 12,2-4); nonostante questo, pero, finché sono nel corpo anche questi privilegiati sono tutti pellegrini, lontani dal Signore (2Co 5,6). Ad essi, come a tutti i fedeli animati dalla santa speranza, i cui nomi sono scritti nel libro della vita (Ap 21,27), è tenuto in serbo quel che promise il Signore: Io lo amero e gli mostrero me stesso (Jn 14,21). Per quel che concerne il presente pellegrinaggio sulla terra, quanto più uno avrà progredito nella conoscenza e nella comprensione di tali misteri, tanto più deve evitare i vizi diabolici della superbia e dell'invidia. Ricordi lo stesso Vangelo di Giovanni, il quale quanto più eleva alla contemplazione della verità tanto più insiste nell'inculcare il precetto della carità con la sua dolcezza. E siccome resta assolutamente vero e salutare il monito: Quanto più sei grande, tanto più sarai umile in tutte le cose (Si 3,20), ecco perché l'evangelista che presenta Cristo in un'altezza molto superiore a quella in cui lo collocano gli altri, ce lo presenta anche nell'atto di lavare i piedi ai discepoli (Cf. Jn 13,5,15).



Agostino, Consenso Evang. 400