Agostino - Commento Gv 80

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OMELIA 80

(Jn 15,1-3)

Jn 15,1-3


La potenza della parola che il Signore ha rivolto a noi.

Questa parola della fede possiede tale efficacia nella Chiesa di Dio che quando per mezzo di questa crede, offre il sacrificio, benedice e battezza, essa rende puro anche un piccolo bambino che non è ancora in grado di credere col cuore per ottenere giustizia né di fare con la bocca professione di fede per la salvezza.

1. 1. In questo passo del Vangelo, o fratelli, in cui il Signore dice che lui è la vite e i suoi discepoli i tralci, lo dice in quanto egli, l'uomo Cristo Gesù, mediatore tra Dio e gli uomini (1Tm 2,5), è capo della Chiesa e noi membra di lui. La vite e i tralci, infatti, sono della medesima natura; perciò, essendo egli Dio, della cui natura noi non siamo, si fece uomo affinché in lui l'umana natura diventasse la vite, di cui noi uomini potessimo essere i tralci. Ma perché dice: Io sono la vite vera (Jn 15,1). Forse ha aggiunto vera riferendosi a quella vite da cui ha tratto la sua similitudine? Egli si dà infatti il nome di vite in senso figurato, non in senso proprio, così come altrove si è dato il nome di pecora, agnello, leone, roccia, pietra angolare, o altre cose del genere, che sono quel che sono e dalle quali vengono desunte queste similitudini, e non già le loro proprietà. Ma dicendo: Io sono la vite vera, il Signore evidentemente distingue se stesso da quella vite, alla quale il profeta dice: Come ti sei mutata in amarezza, vite che hai tralignato! (Ger 2,21). Come può infatti esser vera quella vite, che si aspettava facesse uva e invece produsse spine (Is 5,4)?

2. 2. Io sono - egli dice -la vera vite e il Padre mio è l'agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto egli lo recide e ogni tralcio che porta frutto lo monda, affinché fruttifichi di più (Jn 15,12). Forse che l'agricoltore e la vite sono la medesima cosa? Secondo la sua affermazione: Il Padre è più grande di me (Jn 14,28), Cristo è la vite; secondo l'altra sua affermazione: Io e il Padre siamo una cosa sola (Jn 10,30), anche lui è l'agricoltore. E non è come chi operando all'esterno esercita un ministero; egli possiede anche la capacità di far crescere interiormente. Infatti né chi pianta è qualcosa, né chi innaffia, ma chi fa crescere, cioè Dio (1Co 3,7). E Cristo è Dio, perché il Verbo era Dio: egli e il Padre sono una cosa sola; e se il Verbo incarnandosi (Jn 1,1-14), si è fatto ciò che non era, tuttavia rimane ciò che era. E cosi, dopo averci parlato del Padre come agricoltore, che recide i tralci infruttuosi e monda quelli fruttuosi perché producano maggior frutto, subito dopo presenta se stesso come colui che monda, dicendo: Voi siete già mondi per la parola che vi ho annunziato (Jn 15,3). Ecco che anch'egli monda i tralci, compito che è proprio dell'agricoltore, non della vite; egli che ha voluto che anche i suoi tralci fossero suoi operai; i quali, benché non facciano crescere, tuttavia vi contribuiscono con il loro lavoro; sebbene non per loro potere, perché senza di me - egli dice -voi non potete far nulla. Anch'essi lo riconoscono; ascoltali: Che cosa è dunque Apollo? E che cosa è Paolo? Essi sono dei ministri, per mezzo dei quali voi avete creduto, e ciascuno secondo che il Signore gli ha concesso. Io ho piantato, Apollo ha innaffiato. E questo dunque secondo che il Signore ha concesso a ciascuno, non per loro potere. E in verità quello che segue, e cioè: è Dio che ha fatto crescere (1Co 3,5-7), non lo fa per mezzo di essi, ma lui direttamente. E' un'opera, questa, che trascende l'umana pochezza, trascende la sublimità angelica, e unicamente va attribuita alla Trinità, che sola feconda il campo. Voi siete mondi; cioè mondi e insieme da mondare. Se già non fossero mondi, non potrebbero produrre frutti, e tuttavia ogni tralcio che porta frutto, l'agricoltore lo monda affinché fruttifichi di più. Porta frutto perché è mondo, e viene mondato affinché fruttifichi di più. Chi infatti è così mondo in questa vita, che non debba ancora essere mondato? Se diciamo di non aver peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, egli è tanto fedele e giusto da rimetterceli e mondarci da ogni iniquità (1Jn 1,8-9). Si, voglia mondare quelli che sono già mondi, cioè fruttuosi affinché siano tanto più fruttuosi quanto più saranno mondi.

(Il sacramento è come una parola visibile.)

3. Voi siete già mondi per la parola che vi ho annunziato. Perché non dice: Voi siete mondi per il battesimo con cui siete stati lavati? Egli dice: per la parola che vi ho annunziato, perché assieme all'acqua è la parola che purifica. Se togli la parola, che cos'è l'acqua se non acqua? Se a questo elemento si unisce la parola, si forma il sacramento, che è, a sua volta, come una parola visibile. Appunto questo aveva detto, lavando i piedi ai discepoli: Chi è pulito, non ha bisogno che di lavarsi i piedi, perché è tutto mondo (Jn 13,10). Donde viene all'acqua questa grande virtù di purificare il cuore toccando il corpo, se non dalla parola, che è efficace, non perché pronunciata ma perché creduta? Nella parola stessa, infatti, una cosa è il suono che passa, e un'altra cosa è la virtù che permane. Questa è la parola della fede che noi predichiamo - dice l'Apostolo -poiché se confessi con la tua bocca che Gesù è il Signore e nel tuo cuore credi che Iddio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Col cuore infatti si crede per ottenere giustizia, con la bocca poi si fa professione di fede per la salvezza (Rm 10,8-10). Per questo negli Atti degli Apostoli si legge che Dio purificava i cuori mediante la fede (Ac 15,9); e san Pietro nella sua lettera dice: E' il battesimo che vi salva; il quale non è deposizione di lordure del corpo, petizione di una coscienza pura (1P 3,21). Questa è la parola della fede che noi predichiamo, dalla quale senza dubbio viene consacrato il battesimo e deriva la sua virtù purificatrice. Si, Cristo, che è vite insieme con noi e agricoltore insieme col Padre, ha amato la Chiesa e si è offerto per essa. Continua a leggere e vedi che cosa aggiunge l'Apostolo: al fine di santificarla, purificandola con il lavacro dell'acqua mediante la parola (Ep 5,25-26). Non si potrebbe certo attribuire la virtù di purificare ad un elemento così fluido e labile, com'è appunto l'acqua, se ad essa non si aggiungesse la parola. Questa parola della fede possiede tale efficacia nella Chiesa di Dio che quando per mezzo di questa crede, offre il sacrificio, benedice e battezza, essa rende puro anche un piccolo bambino che non è ancora in grado di credere col cuore per ottenere giustizia né di fare con la bocca professione di fede per la salvezza. Tutto questo avviene in virtù della parola, della quale il Signore dice: Voi siete già mondi per la parola che vi ho annunziato.

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OMELIA 81

(Jn 15,4-7)

Jn 15,4-7


Senza di me non potete far nulla

Non dice: senza di me potete far poco, ma dice: "non potete far nulla". Non poco o molto, ma nulla si può fare senza di lui.

1. Gesù ha detto che egli è la vite, i suoi discepoli i tralci e il Padre l'agricoltore: su questo ci siamo già intrattenuti, come abbiamo potuto. In questa lettura, continuando a parlare di sé come vite e dei suoi tralci, cioè dei discepoli, il Signore dice: Rimanete in me e io rimarro in voi (Jn 15,4). Essi pero sono in lui non allo stesso modo in cui egli è in loro. L'una e l'altra presenza non giova a lui, ma a loro. Si, perché i tralci sono nella vite in modo tale che, senza giovare alla vite, ricevono da essa la linfa che li fa vivere; a sua volta la vite si trova nei tralci per far scorrere in essi la linfa vitale e non per riceverne da essi. Cosi, questo rimanere di Cristo nei discepoli e dei discepoli in Cristo, giova non a Cristo, ma ai discepoli. Se un tralcio è reciso, può un altro pullulare dalla viva radice, mentre il tralcio reciso non può vivere separato dalla vite.

(Chi non è in Cristo, non è cristiano.)

2. 2. Il Signore prosegue: Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non resta nella vite, così neppure voi se non rimanete in me (Jn 15,4). Questo grande elogio della grazia, o miei fratelli, istruisce gli umili, chiude la bocca ai superbi. Replichino ora, se ne hanno il coraggio, coloro che ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non sono sottomessi alla giustizia di Dio (Rm 10,3). Replichino i presuntuosi e quanti ritengono di non aver bisogno di Dio per compiere le opere buone. Non si oppongono forse a questa verità, da uomini corrotti di mente come sono, riprovati circa la fede (2Tm 3,8), coloro che rispondendo a sproposito dicono: Lo dobbiamo a Dio se siamo uomini, ma lo dobbiamo a noi stessi se siamo giusti? Che dite, o illusi, voi che non siete gli assertori ma i demolitori del libero arbitrio, che, per una ridicola presunzione, dall'alto del vostro orgoglio lo precipitate nell'abisso più profondo? Voi andate dicendo che l'uomo può compiere la giustizia da se stesso: questa è la vetta del vostro orgoglio. Se non che la Verità vi smentisce, dicendo: Il tralcio non può portar frutto da se stesso, ma solo se resta nella vite. Vi arrampicate sui dirupi senza avere dove fissare il piede, e vi gonfiate con parole vuote. Queste sono ciance della vostra presunzione. Ma ascoltate ciò che vi attende e inorridite, se vi rimane un briciolo di senno. Chi si illude di poter da sé portare frutto, non è unito alla vite; e chi non è unito alla vite, non è in Cristo; e chi non è in Cristo, non è cristiano. Ecco l'abisso in cui siete precipitati.

3. 3. Ma con attenzione ancora maggiore considerate ciò che aggiunge e afferma la Verità: Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla (Jn 15,5). Affinché nessuno pensi che il tralcio può produrre almeno qualche piccolo frutto da se stesso, il Signore, dopo aver detto che chi rimane in lui produce molto frutto, non dice: perché senza di me potete far poco, ma: senza di me non potete far nulla. Sia il poco sia il molto, non si può farlo comunque senza di lui, poiché senza di lui non si può far nulla. Infatti, anche quando il tralcio produce poco frutto, l'agricoltore lo monda affinché produca di più; tuttavia, se non resterà unito alla vite e non trarrà alimento dalla radice, non potrà da se stesso produrre alcun frutto. Quantunque poi il Cristo non potrebbe essere la vite se non fosse uomo, tuttavia non potrebbe comunicare ai tralci questa fecondità se non fosse anche Dio. Siccome pero senza la grazia è impossibile la vita, in potere del libero arbitrio non rimane che la morte. Chi non rimane in me è buttato via, come il tralcio, e si dissecca; poi i tralci secchi li raccolgono e li buttano nel fuoco, e bruciano (Jn 15,6). I tralci della vite infatti tanto sono preziosi se restano uniti alla vite, altrettanto sono spregevoli se vengono recisi. Come il Signore fa rilevare per bocca del profeta Ezechiele, i tralci recisi dalla vite non possono essere né utili all'agricoltore, né usati dal falegname in alcuna opera (Ez 15,5). Il tralcio deve scegliere tra una cosa e l'altra: o la vite o il fuoco: se non rimane unito alla vite sarà gettato nel fuoco. Quindi, se non vuol essere gettato nel fuoco, deve rimanere unito alla vite.

4. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà fatto (Jn 15,7). Rimanendo in Cristo, che altro possono volere i fedeli se non ciò che è conforme a Cristo? Che altro possono volere, rimanendo nel Salvatore, se non ciò che è orientato alla salvezza? Una cosa infatti vogliamo in quanto siamo in Cristo, e altra cosa vogliamo in quanto siamo ancora in questo mondo. Puo accadere, invero, che il fatto di dimorare in questo mondo ci spinga a chiedere qualcosa che, senza che ce ne rendiamo conto, non giova alla nostra salvezza. Ma se rimaniamo in Cristo, non saremo esauditi, perché egli non ci concede, quando preghiamo, se non quanto giova alla nostra salvezza. Rimanendo dunque noi in lui e in noi rimanendo le sue parole, domandiamo quel che vogliamo e l'avremo. Se chiediamo e non otteniamo, vuol dire che quanto chiediamo non si concilia con la sua dimora in noi e non è conforme alle sue parole che dimorano in noi, ma ci viene suggerito dalle brame e dalla debolezza della carne, la quale non è certo in lui, e nella quale non dimorano le sue parole. Di sicuro fa parte delle sue parole l'orazione che egli ci ha insegnato e nella quale diciamo: Padre nostro, che sei nei cieli (Mt 6,9). Non allontaniamoci, nelle nostre richieste, dalle parole e dai sentimenti di questa orazione, e qualunque cosa chiederemo egli ce la concederà. Le sue parole rimangono in noi, quando facciamo quanto ci ha ordinato e desideriamo quanto ci ha promesso; quando invece le sue parole rimangono nella memoria, ma senza riflesso nella vita, allora il tralcio non fa più parte della vite, perché non attinge vita dalla radice. In ordine a questa differenza vale la frase: Conservano nella memoria i suoi precetti, per osservarli (Ps 102,18). Molti, infatti, li conservano nella memoria per disprezzarli, per deriderli e combatterli. Non si può dire che dimorano le parole di Cristo in costoro, che sono, si, in contatto con esse, ma senza aderirvi. Esse, perciò, non recheranno loro alcun beneficio, ma renderanno invece testimonianza contro di loro. E poiché quelle parole sono in loro, ma essi non le custodiscono, le posseggono soltanto per esserne giudicati e condannati.

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OMELIA 82

(Jn 15,8-10)

Jn 15,8-10


Rimanete nel mio amore.

Tutto nasce dalla fede operante per mezzo dell'amore. Ma come potremmo amare se prima non fossimo stati amati da Dio?

(Siamo opera di Dio, creati in Cristo Gesù.)

1. Richiamando con insistenza l'attenzione dei discepoli sulla grazia che ci fa salvi, il Salvatore dice: ciò che glorifica il Padre mio è che portiate molto frutto; e così vi dimostrerete miei discepoli (Jn 15,8). Che si dica glorificato o clarificato, ambedue i termini derivano dal greco . Il greco , in latino significa "gloria". Ritengo opportuna questa osservazione, perché l'Apostolo dice: Se Abramo fu giustificato per le opere, ha di che gloriarsi, ma non presso Dio (Rm,4,2). E' gloria presso Dio quella in cui viene glorificato, non l'uomo, ma Dio; poiché l'uomo è giustificato non per le sue opere ma per la fede; poiché è Dio che gli concede di operare bene. Infatti il tralcio, come ho già detto precedentemente, non può portar frutto da se stesso. Se dunque ciò che glorifica Dio Padre è che portiamo molto frutto e diventiamo discepoli di Cristo, di tutto questo non possiamo gloriarcene, come se provenisse da noi. E' grazia sua; perciò sua, non nostra, è la gloria. Ecco perché, in altra circostanza, dopo aver detto ai discepoli: Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, acciocché vedano le vostre buone opere, affinché non dovessero attribuire a se stessi queste buone opere, subito aggiunge: e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli (Mt 5,16). Ciò che glorifica, infatti, il Padre è che produciamo molto frutto e diventiamo discepoli di Cristo. E in grazia di chi lo diventiamo, se non di colui che ci ha prevenuti con la sua misericordia? Di lui infatti siamo fattura, creati in Cristo Gesù per compiere le opere buone (cf. Ep 2,10).

2. 2. Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi: rimanete nel mio amore (Jn 15,9). Ecco l'origine di tutte le nostre buone opere. Quale origine potrebbero avere, infatti, se non la fede che opera mediante l'amore (Ga 5,6)? E come potremmo noi amare, se prima non fossimo amati? Lo dice molto chiaramente, nella sua lettera, questo medesimo evangelista: Amiamo Dio, perché egli ci ha amati per primo (1Jn 3,19). L'espressione poi: Come il Padre ha amato me così anch'io ho amato voi, non vuole significare che la nostra natura è uguale alla sua, così come la sua è uguale a quella del Padre, ma vuole indicare la grazia per cui l'uomo Cristo Gesù è mediatore tra Dio e gli uomini (1Tm 2,5). E' appunto come mediatore che egli si presenta dicendo: Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi. E' certo, infatti, che il Padre ama anche noi, ma ci ama in lui; perché ciò che glorifica il Padre è che noi portiamo frutto nella vite, cioè nel Figlio, e diventiamo così suoi discepoli.

3. 3. Rimanete nel mio amore. In che modo ci rimarremo? Ascolta ciò che segue: Se osservate i miei comandamenti - dice -rimarrete nel mio amore (Jn 15,10). E' l'amore che ci fa osservare i comandamenti, oppure è l'osservanza dei comandamenti che fa nascere l'amore? Ma chi può mettere in dubbio che l'amore precede l'osservanza dei comandamenti? Chi non ama è privo di motivazioni per osservare i comandamenti. Con le parole: Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore, il Signore non vuole indicare l'origine dell'amore, ma la prova. Come a dire: Non crediate di poter rimanere nel mio amore se non osservate i miei comandamenti: potrete rimanervi solo se li osserverete. Cioè, questa sarà la prova che rimanete nel mio amore, se osserverete i miei comandamenti. Nessuno quindi si illuda di amare il Signore, se non osserva i suoi comandamenti; poiché in tanto lo amiamo in quanto osserviamo i suoi comandamenti, e quanto meno li osserviamo tanto meno lo amiamo. Anche se dalle parole: Rimanete nel mio amore, non appare chiaro di quale amore egli stia parlando, se di quello con cui amiamo lui o di quello con cui egli ama noi, possiamo pero dedurlo dalla frase precedente. Egli aveva detto: anch'io ho amato voi, e subito dopo ha aggiunto: Rimanete nel mio amore. Si tratta dunque dell'amore che egli nutre per noi. E allora che vuol dire: Rimanete nel mio amore, se non: rimanete nella mia grazia? E che significa: Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore, se non che voi potete avere la certezza di essere nel mio amore, cioè nell'amore che io vi porto, se osserverete i miei comandamenti? Non siamo dunque noi che prima osserviamo i comandamenti di modo che egli venga ad amarci, ma il contrario: se egli non ci amasse, noi non potremmo osservare i suoi comandamenti. Questa è la grazia che è stata rivelata agli umili mentre è rimasta nascosta ai superbi.

4. Ma cosa vogliono dire le parole che il Signore subito aggiunge: Come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore (Jn 15,10)? Certamente anche qui vuole che ci rendiamo conto dell'amore che il Padre ha per lui. Aveva infatti cominciato col dire Come il Padre ha amato me così anch'io ho amato voi; e a queste parole aveva fatto seguire le altre: Rimanete nel mio amore, cioè, senza dubbio, nell'amore che io ho per voi. Così ora, parlando del Padre, dice: Rimango nel suo amore, cioè nell'amore che egli ha per me. Diremo pero che questo amore con cui il Padre ama il Figlio è grazia, come è grazia l'amore con cui il Figlio ama noi; e ciò nonostante che noi siamo figli per grazia non per natura, mentre l'Unigenito è Figlio per natura non per grazia? Ovvero dobbiamo intendere queste parole come dette in relazione all'umanità assunta dal Figlio? E' proprio così che dobbiamo intenderle. Infatti, dicendo: Come il Padre ha amato me così anch'io ho amato voi, egli ha voluto mettere in risalto la sua grazia di mediatore. E Gesù Cristo è mediatore tra Dio e gli uomini non in quanto è Dio, ma in quanto uomo. E' così che di Gesù in quanto uomo si legge: Gesù cresceva in sapienza e statura e grazia, presso Dio e gli uomini (Lc 2,52). Dunque possiamo ben dire che, siccome la natura umana non rientra nella natura divina, se appartiene alla persona dell'unigenito Figlio di Dio lo è per grazia e per una tale grazia di cui non è concepibile una maggiore e neppure uguale. Nessun merito ha preceduto l'incarnazione, e tutti hanno origine da essa. Il Figlio rimane nell'amore con cui il Padre lo ha amato, e perciò osserva i suoi comandamenti. A che cosa deve la sua grandezza umana se non al fatto che Dio l'ha assunta (Ps 3,4)? Il Verbo infatti era Dio, era l'Unigenito coeterno al Padre; ma affinché noi avessimo un mediatore, per grazia ineffabile il Verbo si è fatto carne e abito fra noi (Jn 1,14).

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OMELIA 83

(Jn 15,11)

Jn 15,11,12 La gioia di Cristo e la nostra gioia.

In che consiste la gioia di Cristo in noi, se non nel fatto che Cristo si degna trovare in noi la sua gioia? E in che consiste la nostra gioia che egli dice di voler rendere piena, se non nella comunione con lui?

1. 1. Avete sentito, carissimi, il Signore che dice ai suoi discepoli: Vi ho detto queste cose affinché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia perfetta (Jn 15,11). In che consiste la gioia di Cristo in noi, se non nel fatto che egli si degna godere di noi? E in che consiste la nostra gioia perfetta, se non nell'essere in comunione con lui? Per questo aveva detto a san Pietro: Se non ti lavero, non avrai parte con me (Jn 13,8). La sua gioia in noi, quindi, è la grazia che egli ci ha accordato; e questa grazia è la nostra gioia. Ma di questa gioia egli gode dall'eternità, fin da quando ci elesse, prima della creazione del mondo (cf. Ep 1,4). E davvero non possiamo dire che allora la sua gioia non fosse perfetta, poiché non c'è stato mai un momento in cui Dio abbia goduto in modo imperfetto. Ma quella gioia non era allora in noi, perché nessuno di noi esisteva per poterla avere in sé, né abbiamo cominciato ad averla appena venuti all'esistenza. Ma da sempre era in lui, che, nella infallibile realtà della sua prescienza, godeva per noi che saremmo stati suoi. Quando posava su di noi il suo sguardo e ci predestinava, la gioia che egli provava per noi era perfetta; in quella gioia, infatti, non v'era alcun timore che il suo disegno potesse non compiersi. Né quando questo suo disegno comincio a realizzarsi, crebbe la sua gioia che lo rende beato; altrimenti si dovrebbe dire che egli divenne più beato per averci creato. Questo, fratelli, non può essere: la felicità di Dio, che non era minore senza di noi, non divento maggiore per noi. Quindi la sua gioia per la nostra salvezza, che era in lui fin da quando egli poso su di noi il suo sguardo e ci predestino, comincio ad essere in noi quando ci chiamo; e giustamente diciamo nostra questa gioia, che ci renderà beati in eterno. Questa nostra gioia cresce e progredisce ogni giorno, e, mediante la perseveranza, tende verso la sua perfezione. Essa comincia nella fede di coloro che rinascono, e raggiungerà il suo compimento nel premio di coloro che risorgeranno. Credo che questo sia il senso delle parole: Vi ho detto queste cose affinché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia perfetta: la mia gioia sia in voi; la vostra gioia sia perfetta: La mia gioia, infatti, è sempre stata perfetta, anche prima che voi foste chiamati, quando io già sapevo che vi avrei chiamati: e questa gioia si accende in voi quando in voi comincia a realizzarsi il mio disegno. La vostra gioia sarà perfetta allorché sarete beati; non lo siete ancora, così come un tempo, voi che non esistevate, siete stati creati.

2. 2. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amato (Jn 15,12). Si dica precetto, si dica comandamento, il significato è lo stesso, anche perché ambedue i termini sono la traduzione del greco . Il Signore aveva già fatto prima questa esortazione, sulla quale ricorderete che vi ho intrattenuti meglio che ho potuto. Allora egli si espresse cosi: Vi do un comandamento nuovo: di amarvi gli uni gli altri; come io ho amato voi, così voi pure amatevi a vicenda (Jn 13,34). La ripetizione che fa di questo comandamento, ne sottolinea l'importanza: con la sola differenza che mentre prima aveva detto: Vi do un comandamento nuovo, ora dice: Questo è il mio comandamento. Prima si era espresso come se quel comandamento non esistesse già prima di lui; qui si esprime quasi non esista altro suo comandamento. Ma in realtà la prima volta dice nuovo, perché non dovessimo rimanere legati all'uomo vecchio, mentre qui dice mio, perché lo tenessimo in gran conto. (Dove è l'amore, non possono mancare la fede e la speranza.)

3. Ora siccome qui dice: Questo è il mio comandamento, come se non ce ne fosse altro, dovremmo pensare, o fratelli miei, che di lui esiste solo questo comandamento dell'amore, con cui dobbiamo amarci a vicenda? Non esiste forse l'altro più grande, di amare Dio? Ovvero Dio ci ha comandato soltanto l'amore fraterno, sicché non dobbiamo preoccuparci d'altro? E' certo che l'Apostolo raccomanda tre cose, quando dice: Ora rimangono bensi la fede, la speranza, la carità, queste tre cose; ma la più grande di esse è la carità (1Co 13,13). E quantunque nella carità, cioè nell'amore, siano racchiusi quei due precetti, tuttavia ci dice che essa è la più grande, non la sola. Quante raccomandazioni ci vengono fatte, sia riguardo alla fede che riguardo alla speranza! Chi può metterle insieme? Chi può contarle? Ma badiamo a ciò che dice il medesimo Apostolo: La pienezza della legge è la carità (Rm 13,10). Laddove dunque è la carità, che cosa potrà mancare? E dove non è, che cosa potrà giovare? Il diavolo crede (cf. Jc 2,19), ma non ama; e tuttavia non si può amare se non si crede. Sia pure invano, tuttavia anche chi non ama può conservare la speranza del perdono, ma non può perderla nessuno che ama. Dunque, laddove c'è l'amore, c'è necessariamente la fede e c'è la speranza; e dove c'è l'amore del prossimo, c'è necessariamente anche l'amore di Dio. Chi infatti non ama Dio, come potrà amare il prossimo come se stesso, dal momento che non ama neppure se stesso? Egli è un empio e un uomo iniquo; e chi ama l'iniquità, non solo non ama ma odia la sua anima (Ps 10,6). Manteniamoci dunque fedeli a questo comandamento del Signore, di amarci gli uni gli altri, e osserveremo tutti gli altri suoi comandamenti, perché tutti gli altri comandamenti sono compresi in questo. Certo, questo amore si distingue da quell'amore con cui reciprocamente si amano gli uomini in quanto uomini; ed è per distinguerlo da esso che il Signore aggiunge: come io ho amato voi. E perché ci ama Cristo, se non perché possiamo regnare con lui? A questo fine dunque noi dobbiamo amarci, in modo che il nostro amore si distingua da quello degli altri, che non si amano a questo fine perché neppure si amano. Coloro che invece si amano al fine di possedere Dio, si amano davvero: per amarsi, quindi, amano Dio. Questo amore non esiste in tutti gli uomini: sono pochi, anzi, quelli che si amano affinché Dio sia tutto in tutti (1Co 15,28).

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OMELIA 84

(Jn 15,13)

Jn 15,13




Dare la vita per gli amici.

Quanti ci accostiamo alla mensa del Signore, dove riceviamo il corpo e il sangue di colui che ha offerto la sua vita per noi, dobbiamo anche noi dare la vita per i fratelli.

1. Il Signore, fratelli carissimi, ha definito l'apice dell'amore, con cui dobbiamo amarci a vicenda, affermando: Nessuno può avere amore più grande che dare la vita per i suoi amici (Jn 15,13). A quanto aveva detto prima: Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi (Jn 15,12), aggiunge quanto avete appena ascoltato: Nessuno può avere amore più grande che dare la vita per i suoi amici. Ne consegue ciò che questo medesimo evangelista espone nella sua lettera: Allo stesso modo che Cristo diede per noi la sua vita, così anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli (1Jn 3,16), precisamente amandoci a vicenda come ci amo Cristo che diede la sua vita per noi. E' quanto appunto si legge nei Proverbi di Salomone: Se ti siedi a mangiare con un potente, guarda e renditi conto di ciò che ti vien messo davanti, e, mentre stendi la mano, pensa che anche tu dovrai preparare qualcosa di simile (Pr 23,1-2). Quale è la mensa del potente, se non quella in cui si riceve il corpo e il sangue di colui che ha dato la sua vita per noi? Che significa sedere a questa mensa, se non accostarvisi con umiltà? E che significa guardare e rendersi conto di ciò che vien presentato, se non prendere coscienza del dono che si riceve? E che vuol dire stendere la mano pensando che anche tu dovrai preparare qualcosa di simile, se non quel che ho detto sopra e cioè: come Cristo diede la sua vita per noi, così anche noi dobbiamo esser pronti a dare la nostra vita per i fratelli? E' quello che dice anche l'apostolo Pietro: Cristo soffri per noi, lasciandoci l'esempio, affinché seguiamo le sue orme (1P 2,21). Ecco cosa significa preparare altrettanto. E' questo che hanno fatto i martiri con ardente amore; e se noi non vogliamo celebrare invano la loro memoria, e non vogliamo accostarci invano alla mensa del Signore, alla quale anch'essi sono stati saziati, è necessario che anche noi, come loro, ci prepariamo a ricambiare il dono ricevuto. Alla mensa del Signore, perciò, non commemoriamo i martiri nello stesso modo che commemoriamo quelli che riposano in pace; come se dovessimo pregare per loro, quando siamo noi che abbiamo bisogno delle loro preghiere onde poter seguire le loro orme, in quanto essi hanno realizzato quella carità, che il Signore defini la maggiore possibile. Essi infatti hanno dato ai loro fratelli la medesima testimonianza di amore che essi stessi avevano ricevuto alla mensa del Signore.

(Imitiamo Cristo con devota obbedienza.)

2. 2. Dicendo così non pensiamo di poter essere pari a Cristo Signore, qualora giungessimo a versare il sangue per lui col martirio. Egli aveva il potere di dare la sua vita e di riprenderla di nuovo (Jn 10,18); noi, invece, non possiamo vivere quanto vogliamo, e moriamo anche se non vogliamo; egli, morendo, ha ucciso subito in sé la morte, noi veniamo liberati dalla morte mediante la sua morte. La sua carne non ha conosciuto la corruzione (cf. Ac 2,31), mentre la nostra rivestirà l'incorruttibilità per mezzo di lui alla fine del mondo, solo dopo aver conosciuto la corruzione; egli non ha avuto bisogno di noi per salvarci, mentre noi senza di lui non possiamo far nulla. Egli si è offerto come vite a noi che siamo i tralci, a noi che senza di lui non abbiamo la vita. Infine, anche se i fratelli arrivano a morire per i fratelli, tuttavia, non può essere versato il sangue di nessun martire per la remissione dei peccati dei fratelli, cosa che invece egli fece per noi; offrendoci con questo non un esempio da imitare, ma un dono di cui essergli grati. Ogniqualvolta i martiri versano il loro sangue per i fratelli, ricambiano il dono da essi ricevuto alla mensa del Signore. Per questo, e per ogni altro motivo che si potrebbe ricordare, il martire è di gran lunga inferiore a Cristo. Ebbene se qualcuno osa confrontarsi, non dico con la potenza, ma con l'innocenza di Cristo, e non in quanto crede di poter guarire i peccati degli altri, ma ritenendo di esserne esente, anche così il suo desiderio è sproporzionato alle sue possibilità di salvezza: è troppo per lui che non è da tanto. Viene a proposito l'ammonimento dei Proverbi che segue: Non essere troppo avido e non bramare il cibo della sua tavola; perché è meglio che tu non prenda niente anziché prendere più del conveniente. Queste cose, infatti, sono un cibo ingannevole (Prv 23,3-4), cioè falso. Se tu dici di essere senza peccato, non dimostri di essere giusto, ma falso. Ecco in che senso sono un cibo ingannevole. C'è uno solo che ha potuto rivestire la carne umana, e insieme essere senza peccato. Ciò che segue costituisce per noi un precetto, in quanto il libro dei Proverbi tiene conto dell'umana debolezza, alla quale vien detto: Non voler competere con chi è ricco, tu che sei povero. E' ricco chi è senza debiti, propri o ereditati: è Cristo, il giusto che rende giusti gli altri. Non voler competere con lui, tu che sei tanto povero che ogni giorno, pregando, implori il perdono dei tuoi peccati. Guardati da un simile atteggiamento, che è sbagliato, e che soltanto la tua presunzione può suggerirti. Egli, che non è soltanto uomo ma è anche Dio, non può essere in alcun modo colpevole. Se tenterai di fissare il tuo sguardo su di lui, non riuscirai a vederlo. Se rivolgerai a lui il tuo occhio - cioè il tuo occhio umano col quale puoi vedere solo cose umane -non apparirà mai al tuo sguardo, perché non può essere visto da te nel modo che a te è consentito di vedere; perché si fa delle ali e come l'aquila s'invola alla dimora del suo Signore (Prv 23,5): è di lassù che è venuto a noi, e qui non ha trovato nessuno di noi uguale a sé. Amiamoci dunque a vicenda, come il Cristo ci ha amato e ha offerto se stesso per noi (Ga 2,20). Si, perché nessuno può avere amore più grande che dare la vita per i suoi amici. Imitiamolo dunque con devota obbedienza, senza avere la presunzione irriverente di confrontarci con lui.


Agostino - Commento Gv 80