Agostino - Commento Gv 85

85

OMELIA 85

(Jn 15,14)

Jn 15,14,15


Non più servi ma amici.

E' una grande degnazione da parte del Signore, chiamare suoi amici quelli che sono suoi servi. E' dunque possibile essere servi e amici.

1. 1. Il Signore Gesù, dopo averci raccomandato l'amore che egli poi ci manifesto morendo per noi, e dopo aver detto: Nessuno può avere un amore più grande che dare la vita per i suoi amici, dice: Voi siete i miei amici, se farete cio che vi comando (Jn 15,13-14). Mirabile condiscendenza! Poiché la condizione per essere un buon servo è quella di eseguire gli ordini del padrone, vuole che i suoi amici siano considerati tali in base al criterio con cui si considerano buoni i servi. Ma, come dicevo, è una grande condiscendenza che il Signore dimostra, degnandosi chiamare amici quelli che sono suoi servi. Per convincervi che è dovere dei servi eseguire gli ordini del padrone, ricordate il rimprovero che in altra circostanza egli rivolge a chi si diceva suo servo: Perché mi chiamate Signore, Signore, e non fate ciò che vi dico? (Lc 6,46). Se dite: Signore, dimostrate ciò che dite eseguendo i suoi ordini. Non dirà forse al servo obbediente: Bravo, servo buono e fedele; sei stato fedele nel poco, ti daro potere su molto: entra nella gioia del tuo padrone (Mt 25,21)? Il servo buono, dunque, può essere ad un tempo servo ed amico.

2. Ma badiamo a quel che segue: Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone. Come potremo allora intendere che il servo buono è servo ed amico, se dice: Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone (Jn 15,15)? Gli dà il nome di amico, togliendogli quello di servo; non lascia tutti e due i nomi alla medesima persona, ma sostituisce uno con l'altro. Che significa cio? Che non siamo più servi quando osserviamo i comandamenti del Signore? E che non siamo servi quando siamo servi buoni? Ma chi può smentire la Verità che dice: Non vi chiamo più servi? Spiega il motivo della sua affermazione: perché il servo non sa quello che fa il suo padrone. Forse che al servo buono e fedele il padrone non confida anche i suoi segreti? Che significa dunque la frase: Il servo non sa quello che fa il suo padrone? Ma anche ammesso che il servo non conosca i segreti del suo padrone, forse non conoscerà nemmeno i suoi ordini? Se ignora anche questi, come fa a servirlo? E se non lo serve, che servo è? E tuttavia il Signore dice: Voi siete miei amici se farete ciò che vi comando. Non vi chiamo più servi. O meraviglia! Noi non possiamo essere servi del Signore se non osservando i comandamenti del Signore: e allora come possiamo non essere suoi servi quando li osserviamo? Se osservando i comandamenti non sono servo, e se non potro servirlo se non osservando i comandamenti, vuol dire che se lo serviro non saro più servo.

(Due timori e due servitù.)

2. 3. Sforziamoci di comprendere, o fratelli. Il Signore, da parte sua, ci conceda di comprendere, e anche di attuare ciò che saremo riusciti a comprendere. Se sappiamo questo, sapremo anche ciò che fa il Signore, perché solo il Signore può creare in noi le condizioni che ci consentono di partecipare alla sua amicizia. Come infatti vi sono due timori che creano due categorie di timorosi, così vi sono due modi di servire che creano due categorie di servi. C'è il timore che viene eliminato dalla carità perfetta (cf. 1Jn 4,18), e ce n'è un altro, quello casto, che permane in eterno (Ps 18,10). A quel timore, che non può coesistere con l'amore, si riferiva l'Apostolo quando diceva: Voi non avete ricevuto uno spirito di servitù, per ricadere nel timore (Rm 8,15). Mentre invece si riferiva al timore casto quando diceva: Non levarti in superbia, ma piuttosto temi (Rm 11,20). In quel timore che la carità bandisce, c'è anche della servitù che occorre bandire; servitù che l'Apostolo vede strettamente connessa con il timore: Voi non avete ricevuto lo spirito di servitù per ricadere nel timore. E' a questo servo dominato dallo spirito di servitù che il Signore si riferiva dicendo: Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone (Jn 15,15). Non si riferisce certo al servo animato dal timore casto, al quale verrà detto: Bravo, servo buono, entra nella gioia del tuo padrone (Mt 25,21). Egli ha in vista unicamente il servo dominato dal timore che dev'essere bandito dalla carità, e del quale sta scritto: Il servo non rimane nella casa per sempre; il figlio, invece, vi resta per sempre (Jn 8,35). Poiché ci ha dato il potere di diventare figli di Dio (Jn 1,12), non dobbiamo essere servi, ma figli; e così potremo, in modo mirabile e ineffabile e tuttavia vero, servirlo senza essere servi. Si, servi quanto al timore casto, che deve guidare il servo destinato ad entrare nella gioia del suo padrone; senza essere servi quanto al timore che deve essere bandito, dal quale è dominato il servo che non resta in casa per sempre. E per essere servi non servi, dobbiamo sapere che questo è grazia del Signore. Ecco ciò che ignora il servo che non sa quello che fa il suo padrone. Quando egli compie qualcosa di buono, se ne vanta come se l'avesse compiuto lui, non il suo Signore; e se ne gloria e non rende gloria al Signore. Illuso, perché si gloria come se non avesse ricevuto ciò che ha (1Co 4,7). Noi, invece, o carissimi, se vogliamo essere amici del Signore, dobbiamo sapere ciò che il nostro Signore fa. Non siamo noi infatti, ma è lui che ci fa essere non soltanto uomini, ma anche giusti. E chi può farci conoscere tutto cio, se non lui stesso? Infatti noi abbiamo ricevuto non lo spirito di questo mondo, ma lo Spirito che viene da Dio, per conoscere i doni che egli ci ha elargito (1Co 2,12). Tutto ciò che è buono, è dono suo. E siccome anche questa scienza è un bene, da lui ci viene elargito affinché si sappia che è lui la sorgente di ogni bene, e affinché chi si gloria di qualsiasi cosa buona, si glori nel Signore (1Co 1,31). Quello che il Signore dice subito dopo, e cioè: Io vi ho chiamato, invece, amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a voi (Jn 15,15), è tanto profondo che non è proprio il caso di commentarlo ora, ma bisogna rimandarlo al prossimo discorso.

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OMELIA 86

(Jn 15,15)

Jn 15,15,16


Non siete stati voi a scegliere me, ma io ho scelto voi.

Non meritavamo di essere scelti, e soltanto per grazia di chi ci ha scelti siamo diventati accetti a lui.

1. Giustamente si domanda in che senso bisogna prendere questa affermazione del Signore: Io vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio io l'ho fatto conoscere a voi (Jn 15,15). Chi infatti oserà affermare o credere che un uomo possa sapere tutto ciò che il Figlio unigenito ha appreso dal Padre, dato che nessuno può riuscire neppure a capire in qual modo il Figlio possa udire qualcosa dal Padre, essendo egli il Verbo unico del Padre? Non solo: un po' più avanti, in questo medesimo discorso che egli tenne ai discepoli dopo la cena e prima della passione, il Signore dichiara: Ho ancora molte cose da dirvi, ma adesso non siete in condizione di portarle (Jn 16,12). In che senso dunque dobbiamo intendere che egli ha fatto conoscere ai discepoli tutto ciò che ha udito dal Padre, se rinuncia a dire molte altre cose appunto perché sa che essi non sono in condizione di portarle? Gli è che asserisce come fatte le cose che vuol fare, egli che ha fatto le cose che saranno (Is 45,11). Allo stesso modo infatti che dice per bocca del profeta: Mi hanno trafitto mani e piedi (Ps 21,18), e non dice: "mi trafiggeranno" perché predice cose future parlandone come se già fossero avvenute; così anche qui dice di aver fatto conoscere ai discepoli tutto ciò che si propone di far conoscere in quel modo pieno e perfetto di cui parla l'Apostolo quando dice: Allorché sarà venuto ciò che è perfetto, quello che è parziale verrà abolito, e così continua: Ora conosco parzialmente, allora conoscero anch'io come sono conosciuto; al presente vediamo mediante specchio, in maniera enigmatica; allora invece faccia a faccia (1Co 13,10 1Co 12). Lo stesso Apostolo che ci dice che siamo stati salvati mediante il lavacro di rigenerazione (Tt 3,5), ci dice anche: Nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, la speranza che si vede non è più speranza: difatti una cosa che qualcuno vede, come potrebbe ancora sperarla? Se pertanto noi speriamo ciò che non vediamo, l'attendiamo mediante la pazienza (Rm 8,24-25). E' in questo senso che il suo collega Pietro dice: Ora voi credete in colui che non vedete; ma quando lo vedrete, esulterete d'una gioia ineffabile e gloriosa, ricevendo così il premio della fede: la salvezza delle vostre anime (1P 1P 1,8-9). Se ora dunque è il tempo della fede, e frutto della fede è la salvezza, chi potrà dubitare che bisogna trascorrere la vita nella fede, che opera mediante l'amore (Ga 5,6), e che al termine si potrà conseguire il fine della fede, che consiste non solo nella redenzione del nostro corpo di cui ci parla l'apostolo Paolo (Rm 8,23), ma anche nella salvezza della nostra anima di cui ci parla Pietro? Questa felicità del corpo e dell'anima, nel tempo presente e in questa vita mortale, si ha piuttosto nella speranza che nella realtà; con questa differenza che, mentre l'uomo esteriore, cioè il corpo, va corrompendosi, quello interiore, cioè l'anima, si rinnova di giorno in giorno (2Co 4,16). Pertanto, come aspettiamo l'immortalità della carne e la salvezza dell'anima nel futuro, sebbene l'Apostolo dica che a motivo del pegno già ricevuto siamo stati salvati, così dobbiamo sperare di sapere un giorno tutto ciò che l'Unigenito ha udito dal Padre, sebbene Cristo affermi che questo si è già ottenuto.

(Se è grazia, non c'è alcun merito.)

2. 2. Non siete voi che avete scelto me, ma io ho scelto voi (Jn 15,16). E' questa una grazia davvero ineffabile. Che cosa eravamo noi, infatti, quando ancora non avevamo scelto Cristo, e perciò non lo amavamo? Poiché, come può amarlo chi non lo ha scelto? Forse in noi c'erano quei sentimenti che vengono espressi nel salmo: Ho preferito rimanere alla soglia della casa di Dio, anziché abitare nei padiglioni dell'iniquo (Ps 83,11)? Certamente no. Che cosa eravamo dunque, se non iniqui e perduti? Non credevamo ancora in lui, per meritare che egli ci scegliesse; infatti, se egli scegliesse chi già crede in lui, sceglierebbe chi ha già scelto lui. Perché allora dice: Non siete voi che avete scelto me (Jn 15,16), se non perché la sua misericordia ci ha prevenuti? Di qui si vede quanto sia vana l'argomentazione di coloro che difendono la prescienza di Dio contro la grazia di Dio, sostenendo che noi siamo stati eletti prima della fondazione del mondo (cf. Ep 1,4), perché Dio preconobbe che noi saremmo stati buoni, non che lui ci avrebbe fatti diventare buoni. Non è di questo parere colui che dice: Non siete voi che avete scelto me. Se infatti ci avesse scelti perché aveva preconosciuto che saremmo diventati buoni, si sarebbe dovuto insieme accorgere che eravamo stati noi i primi a scegliere lui. Non avremmo potuto infatti in altro modo essere buoni, dal momento che non si può chiamare buono se non chi ha scelto il bene. Che cosa ha scelto dunque nei non buoni? Essi infatti non sono stati scelti perché erano buoni, dato che non sarebbero buoni se non fossero stati scelti. Se sosteniamo che la grazia è stata preceduta dal merito, non è più grazia. E' invece effetto della grazia questa elezione, di cui l'Apostolo dice: Anche oggi alcuni si salvano per elezione della grazia. E soggiunge: E se lo è per grazia non lo è dunque per le opere: altrimenti la grazia non sarebbe più grazia (Rm 11,5-6). Ascolta, ingrato, ascolta: Non siete voi che avete scelto me, ma io ho scelto voi. Non puoi dire: sono stato scelto perché credevo. Se già credevi in lui, vuol dire che sei stato tu a scegliere lui. Ma ascolta bene: Non siete stati voi a scegliere me. Non è il caso che tu dica: io già prima di credere operavo bene, e per questo sono stato scelto. Che opera buona ci può essere prima di aver la fede, se l'Apostolo dice: Tutto ciò che non viene dalla fede è peccato (Rm 14,23)? Che diremo dunque ascoltando le parole: Non siete voi che avete scelto me, se non che eravamo cattivi, e siamo stati scelti affinché fossimo buoni per grazia di chi ci ha scelti? Non sarebbe grazia, se essa fosse stata preceduta dai meriti; invece è grazia! Essa non presuppone dei meriti, ma ne è l'origine.

3. Ecco la prova, o carissimi, che egli non sceglie i buoni, ma fa diventare buoni quelli che ha scelto. Io vi ho scelto e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto, e il vostro frutto sia durevole (Jn 15,16). Non è forse questo il frutto di cui già aveva detto: Senza di me non potete far nulla (Jn 15,5)? Egli ci ha scelti e ci ha costituiti affinché andiamo e portiamo frutto; non avevamo quindi alcun frutto per cui potessimo essere scelti. Affinché andiate - dice -e portiate frutto. Andiamo per portare frutto: egli stesso è la via per la quale andiamo, la via nella quale ci ha posti affinché andiamo. In ogni modo, quindi, la sua misericordia ci ha prevenuti. E il vostro frutto sia durevole; affinché il Padre vi dia ciò che chiederete nel mio nome (Jn 15,16). Rimanga dunque l'amore: questo è il nostro frutto. Questo amore consiste ora nel desiderio, non essendo ancora stato saziato. E tutto ciò che, mossi da questo desiderio, noi chiediamo nel nome del Figlio unigenito, il Padre ce lo concede. Non illudiamoci pero di chiedere nel nome del Salvatore ciò che non giova alla nostra salvezza; noi chiediamo nel nome del Salvatore, solo se chiediamo ciò che conduce alla salvezza.

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OMELIA 87

(Jn 15,17-19)

Jn 15,17-19


Il comandamento dell'amore scambievole.

Uno può amare il prossimo come se stesso, soltanto se ama Dio; poiché se non ama Dio, non ama se stesso.

(E' buono soltanto chi lo diventa amando.)

1. Nella precedente lettura del Vangelo il Signore aveva detto: Non siete voi che avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti affinché andiate e portiate frutto, e il vostro frutto sia durevole; affinché il Padre vi dia cio che chiederete nel mio nome (Jn 15,16). Su queste parole ricordate che noi, con l'aiuto del Signore, ci siamo soffermati sufficientemente. Ora, in questa pagina che adesso avete sentito leggere, il Signore prosegue: Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri (Jn 15,17). E' precisamente questo il frutto che egli intendeva quando diceva: Io vi ho scelti perché andiate e portiate frutto, e il vostro frutto sia durevole. E quanto a ciò che ha aggiunto: affinché il Padre vi dia ciò che chiederete nel mio nome, vuol dire che egli manterrà la sua promessa, se noi ci ameremo a vicenda. Poiché egli stesso ci ha dato questo amore vicendevole, lui che ci ha scelti quando eravamo infruttuosi non avendo ancora scelto lui. Egli ci ha scelto e ci ha costituiti affinché portiamo frutto, cioè affinché ci amiamo a vicenda: senza di lui non potremmo portare questo frutto, così come i tralci non possono produrre alcunché senza la vite. Il nostro frutto è dunque la carità che, secondo l'Apostolo, nasce da un cuore puro e da una coscienza buona e da una fede sincera (1Tm 1,5). E' questa carità che ci consente di amarci a vicenda e di amare Dio: l'amore vicendevole non sarebbe autentico senza l'amore di Dio. Uno infatti ama il prossimo suo come se stesso, se ama Dio; perché se non ama Dio, non ama neppure se stesso. In questi due precetti della carità si riassumono infatti tutta la legge e i profeti (Mt 22,40): questo il nostro frutto. E a proposito di tale frutto ecco il suo comando: Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri. Per cui l'apostolo Paolo, volendo contrapporre alle opere della carne il frutto dello spirito, pone come base la carità: Frutto dello spirito è la carità; e ci presenta tutti gli altri frutti come derivanti dalla carità e ad essa strettamente legati, e cioè: la gioia, la pace, la longanimità, la benignità, la bontà, la fedeltà, la mitezza, la temperanza (Ga 5,22). E in verità come ci può essere gioia ben ordinata se ciò di cui si gode non è bene? Come si può essere veramente in pace se non con chi sinceramente si ama? Chi può essere longanime, rimanendo perseverante nel bene, se non chi ama fervidamente? Come può dirsi benigno uno che non ama colui che soccorre? Chi è buono se non chi lo diventa amando? Chi può essere credente in modo salutare, se non per quella fede che opera mediante la carità? Che utilità essere mansueto, se la mansuetudine non è ispirata dall'amore? E come potrà uno essere continente in ciò che lo contamina, se non ama ciò che lo nobilita? Con ragione, dunque, il Maestro buono insiste tanto sull'amore ritenendo sufficiente questo solo precetto. Senza l'amore tutto il resto non serve a niente, mentre l'amore non è concepibile senza le altre buone qualità grazie alle quali l'uomo diventa buono.

(Tutto il mondo è Chiesa.)

2. 2. In nome di questo amore, pero, dobbiamo sopportare pazientemente l'odio del mondo. E' inevitabile che il mondo ci odi, se vede che noi non amiamo ciò che esso ama. Ma il Signore ci offre, nella sua stessa persona, un grande motivo di consolazione. Dopo aver detto: Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri, soggiunge: Se il mondo vi odia, sappiate che ha odiato me prima di voi (Jn 15,18). Perché un membro pretende di essere al di sopra del capo? Rinunci a far parte del corpo, se non vuoi sopportare insieme al capo l'odio del mondo. Se voi foste del mondo - continua il Signore -il mondo amerebbe ciò che è suo (Jn 15,19). Queste parole sono rivolte alla Chiesa universale, la quale anch'essa talvolta è chiamata mondo, come fa l'Apostolo che dice: Dio era in Cristo, per riconciliare il mondo a sé (2Co 5,19). Anche l'evangelista dice: Non è venuto il Figlio dell'uomo per giudicare il mondo, ma affinché il mondo sia salvo per mezzo di lui (Jn 3,16). E nella sua lettera Giovanni dice: Abbiamo, come avvocato presso il Padre, Gesù Cristo giusto. Egli è il propiziatore per i nostri peccati e non per i nostri soltanto, ma anche per quelli di tutto il mondo (1Jn 2,1-2). La Chiesa è, dunque, tutto il mondo, e tutto il mondo odia la Chiesa. Il mondo odia il mondo, il mondo ostile odia il mondo riconciliato, il mondo condannato odia il mondo che è stato salvato, il mondo contaminato odia il mondo che è stato purificato.

1. 3. Ma questo mondo che Dio riconcilia a sé nella persona di Cristo, che per mezzo di Cristo viene salvato e al quale per mezzo di Cristo viene rimesso ogni peccato, è stato scelto dal mondo ostile, condannato, contaminato. Dalla medesima massa che tutta si è perduta in Adamo, vengono formati i vasi di misericordia di cui è composto il mondo destinato alla riconciliazione. Questo mondo è odiato dal mondo che pur nella stessa massa, è pero composto dai vasi dell'ira, destinati alla perdizione (Rm 9,21-23). Cosi, dopo aver detto: Se voi foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo, immediatamente aggiunge: invece, siccome non siete del mondo ma io vi ho scelti dal mondo, perciò il mondo vi odia (Jn 15,19). Anch'essi dunque erano del mondo, e dal mondo furono scelti perché non ne facessero più parte. Furono scelti non per meriti derivanti da opere buone precedenti, perché non ne avevano; non per la loro natura, perché essa, a causa del libero arbitrio, era stata tutta viziata nella sua stessa radice; ma furono scelti gratuitamente, cioè per una vera grazia. Colui infatti che scelse il mondo dal mondo, non trovo ma formo ciò che voleva scegliere, perché un resto è stato salvato mediante l'elezione della grazia. E se è stato eletto per grazia, non lo è dunque per le opere, altrimenti la grazia non sarebbe più grazia (Rm 11,5-6).

2. 4. Se ci si domanda, poi, come il mondo della perdizione che odia il mondo della redenzione, riesca ad amare se stesso, possiamo rispondere che è vero, si, che esso ama se stesso, ma di un amore falso, non vero. Il suo amore falso è un vero odio. Infatti chi ama l'iniquità, odia la propria vita (Ps 10,6). Tuttavia si usa dire che ama se stesso, perché ama l'iniquità che lo rende iniquo; e, insieme, si dice che odia se stesso perché ama ciò che lo rovina. Odia quindi in sé la sua natura, e ama ciò che vizia la natura; odia ciò che è stato creato per bontà di Dio, ama ciò che è diventato per sua propria volontà. Ecco perché, se ce ne rendiamo conto, ci vien comandato e insieme proibito di amare il mondo; ci è proibito di amarlo quando ci vien detto: Non amate il mondo (1Jn 2,15); ci è comandato invece di amarlo quando ci vien detto: Amate i vostri nemici (Lc 6,27). I nostri nemici sono appunto il mondo che ci odia. Ci vien proibito quindi di amare nel mondo ciò che in se stesso il mondo ama, e ci viene comandato di amare nel mondo ciò che in se stesso il mondo odia, cioè l'opera di Dio e le innumerevoli consolazioni della sua bontà. Sebbene il mondo ami ciò che in sé vizia la natura e odi la natura, noi non dobbiamo amare in esso il vizio e dobbiamo amare, invece, la natura. Così facendo noi lo ameremo e lo odieremo nel modo giusto, mentre esso si ama e si odia in modo sbagliato.

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OMELIA 88

(Jn 15,20)

Jn 15,20,21


Le persecuzioni a motivo del nome di Cristo.

Il che vuol dire che nei suoi discepoli è Cristo che viene perseguitato, è la sua parola che non viene osservata.

1. Il Signore, esortando i suoi servi a sopportare pazientemente l'odio del mondo, non poteva proporre loro un esempio maggiore e migliore del suo, poiché, come dice l'apostolo Pietro: Cristo pati per noi, lasciandoci l'esempio, affinché ne seguiamo le orme (1P 2,21). E' certo, pero, che non è possibile seguire il suo esempio senza il suo aiuto, tenendo conto appunto del suo avvertimento: Senza di me non potete far nulla. Insomma, ai discepoli ai quali prima aveva detto: Se il mondo vi odia sappiate che ha odiato me prima di voi, dice ora, come avete udito nella lettura del Vangelo: Ricordatevi della parola che vi dissi: Non c'è servo più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, anche la vostra osserveranno (Jn 15,17 Jn 18 Jn 20). Dicendo: non c'è servo più grande del suo padrone, evidentemente ha voluto mostrare come dobbiamo intendere ciò che aveva detto in precedenza: Non vi chiamo più servi (Jn 15,5 Jn 18 Jn 15). Ecco infatti che ora li chiama di nuovo servi. E' questo, e non altro, il significato della frase: Non c'è servo più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi. E' chiaro che quando diceva: Non vi chiamo più servi, si riferiva a quel servo che non rimane per sempre nella casa (Jn 8,35), dominato com'è dal timore che solo la carità può bandire (cf. 1Jn 4,18). Mentre, ora che dice: Non c'è servo più grande del suo padrone; se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi, si riferisce a quel servo che è guidato dal timore casto, che rimane in eterno (Ps 18,10). E' questo il servo che si sentirà dire: Bravo, servo buono, entra nella gioia del tuo padrone (Mt 25,21).

1. 2. Ma faranno tutto questo contro di voi a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato (Jn 15,21). Che cosa precisamente faranno? Tutto ciò di cui ha parlato: li odieranno, li perseguiteranno, disprezzeranno la loro parola. Perché, se si fossero limitati a non osservare la loro parola, senza odiarli e senza perseguitarli, oppure anche odiandoli, ma tuttavia senza perseguitarli, non avrebbero fatto loro tutto il male possibile. Dicendo, invece: Faranno tutto questo contro di voi a causa del mio nome, non vuol dire altro che questo: in voi odieranno me, in voi perseguiteranno me, e non osserveranno la vostra parola perché è la mia. Faranno tutto questo contro di voi, infatti, a causa del mio nome; non a causa del nome vostro, ma del mio. Quanto più miserabili dunque sono quelli che fanno ciò a causa di questo nome, tanto più beati sono quelli che soffrono tutto ciò a causa di questo nome, secondo quanto egli stesso dice altrove: Beati quelli che soffrono persecuzione a causa della giustizia (Mt 5,10). E soffrire a causa della giustizia è soffrire a causa sua, a causa del suo nome, poiché, come insegna l'Apostolo: Cristo è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione, affinché, come è scritto, chi si vanta si vanti nel Signore (1Co 1,30-31). Puo accadere, è vero, che malvagi facciano soffrire dei malvagi, ma non a causa della giustizia: sono allora miserabili gli uni e gli altri, sia coloro che fanno soffrire sia coloro che soffrono. E anche i buoni talvolta fanno soffrire i malvagi: in tal caso, anche se i buoni lo fanno per la giustizia, i cattivi tuttavia non soffrono per la giustizia.

2. 3. Ma si dirà: Se, quando i cattivi perseguitano i buoni a causa del nome di Cristo, è per la giustizia che i buoni soffrono, dunque è per la giustizia che i cattivi li fanno soffrire; e se è cosi, quando i buoni perseguitano i cattivi per la giustizia, anche i cattivi, allora, soffrono per la giustizia. Se infatti i cattivi possono perseguitare i buoni a causa del nome di Cristo, perché non possono anche i cattivi soffrire persecuzione da parte dei buoni a causa del nome di Cristo, che è quanto dire per la giustizia? Perché, se i cattivi non soffrono per la medesima causa per cui i buoni agiscono, - i buoni agiscono per amore della giustizia, mentre i cattivi soffrono a causa della loro iniquità -, neppure i cattivi possono agire per il medesimo motivo per cui i buoni soffrono, perché i cattivi agiscono spinti dall'iniquità mentre i buoni soffrono a motivo della giustizia. Come potrà allora essere vero che faranno tutto questo contro di voi a causa del mio amore, dal momento che essi non agiscono per la causa del nome di Cristo, cioè per la giustizia, ma spinti dalla loro iniquità? Questa difficoltà si risolve facilmente, se queste parole: faranno tutto questo contro di voi a causa del mio nome, si intendono riferite totalmente ai giusti; come a dire: Patirete tutto ciò da parte loro a causa del mio nome; sicché: faranno contro di voi, vuol dire: patirete da parte loro. E se la frase: a causa del mio nome si prende nel senso: a causa del mio nome che in voi odiano, si può prendere anche in quest'altro senso, e cioè: a causa della giustizia che in voi odiano. In questo caso si può dire con verità che quando per questa causa i buoni perseguitano i cattivi, lo fanno per la giustizia, per amore della quale li perseguitano, e per l'iniquità, che odiano in loro. E così si può dire che anche i cattivi soffrono per l'iniquità che in essi viene punita, e per la giustizia che attraverso la loro punizione viene esercitata.

3. 4. Nel caso poi che i cattivi perseguitino i cattivi - come accade quando re e magistrati empi, intenti a perseguitare i fedeli, puniscono anche gli omicidi e gli adulteri, nonché ogni specie di malfattori e sovvertitori dell'ordine pubblico - in che senso sono da intendere le parole del Signore: Se voi foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo (Jn 15,19)? Di fatto il mondo, che solitamente punisce le colpe elencate sopra, non ama quelli che punisce solo perché ad esso appartengono sia coloro che puniscono tali colpe, sia coloro che tali colpe amano. Questo mondo, che si identifica con i malvagi e con gli empi, odia ciò che è suo in quanto colpisce i malfattori, ama ciò che è suo in quanto favorisce i malviventi. Dunque le parole: Faranno tutto ciò contro di voi a causa del mio nome, si possono intendere nel senso che è a causa del mio nome che voi soffrite tali persecuzioni; oppure nel senso che è a causa del mio nome che essi ve le faranno subire, perché è il mio nome che essi odiano in voi perseguitandovi. E il Signore aggiunge: perché non conoscono colui che mi ha mandato. Queste parole sono dette in ordine a quella conoscenza, a proposito della quale altrove sta scritto: Conoscere te, è sapienza consumata (Sg 6,16). Coloro che hanno questa conoscenza del Padre, dal quale Cristo è stato inviato, assolutamente non possono perseguitare coloro che Cristo raccoglie; perché anch'essi insieme con loro vengono da Cristo raccolti.

(A causa della giustizia, o dell'iniquità?)

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OMELIA 89

(Jn 15,22)

Jn 15,22,23


La venuta di Cristo ha aumentato la responsabilità degli uomini.

Salutare per i credenti, la sua venuta è causa di perdizione per chi non crede in lui.

(Il peccato che li comprende tutti.)

1. 1. Il Signore aveva detto ai suoi discepoli: Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; ma faranno tutto questo contro di voi a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato (Jn 15,20-21). Se ora cerchiamo di sapere a chi si riferiscono queste parole, vediamo che il Signore ha parlato così dopo aver detto: Se il mondo vi odia, sappiate che ha odiato me prima di voi (Jn 15,18). Ciò che adesso aggiunge: Se io non fossi venuto e non avessi parlato ad essi, non avrebbero colpa (Jn 15,22), si riferisce in modo più esplicito ai Giudei. Ai Giudei alludeva anche prima, come lo indica tutto il contesto del discorso, quando diceva: Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, anche la vostra osserveranno; ma faranno tutto questo contro di voi a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato. A tali parole aggiunge quest'altre: Se io non fossi venuto e non avessi parlato ad essi, non avrebbero colpa. Come il Vangelo ampiamente documenta, i Giudei hanno perseguitato Cristo; Cristo ha parlato ai Giudei, non ad altri popoli; in essi quindi ha personificato il mondo che odia Cristo e i suoi discepoli; non ha inteso dire che solo essi sono quel mondo, ma ha voluto mostrare che essi a quel mondo appartengono. Che significa allora: Se io non fossi venuto e non avessi parlato ad essi, non avrebbero colpa? Forse che i Giudei erano senza peccato prima che Cristo venisse a loro nella carne? Chi è tanto stolto da affermare una simile cosa? Con un termine generico vuole riferirsi ad un particolare peccato grave, non ad ogni e qualsiasi peccato. E infatti, questo è un peccato che impedisce la remissione di tutti gli altri, e senza del quale tutti gli altri possono essere perdonati. Esso consiste nel fatto che non hanno creduto in Cristo, che era venuto appunto perché gli uomini credessero in lui. Questo peccato i Giudei certamente non l'avrebbero, se egli non fosse venuto. Sicché la sua venuta quanto è stata salutare ai credenti, altrettanto è stata funesta a quanti in lui non hanno creduto. Di lui, che è il capo e il principe degli Apostoli, si può dire quanto gli Apostoli hanno detto di se stessi, che per certuni è un profumo che dalla vita conduce alla vita, e per certi altri è invece un profumo che dalla morte conduce alla morte (2Co 2,16).

2. 2. Pero la frase che subito dopo aggiunge: Ma adesso non hanno scusa per il loro peccato (Jn 15,22), può far sorgere una domanda: coloro ai quali Cristo non si è mostrato e ai quali non ha parlato, sono scusati per il loro peccato? Se non hanno scusa, perché qui il Signore dice dei Giudei che non hanno scusa appunto perché egli è venuto ed ha parlato loro? E se gli altri popoli sono scusati, lo sono al punto da evitare la pena o soltanto una pena severa? A questa domanda, con l'aiuto del Signore e secondo la mia capacità, rispondo dicendo che questi popoli sono scusati del peccato di incredulità nei confronti di Cristo, in quanto Cristo non si è presentato e non ha parlato loro, ma non sono scusati per tutti i peccati. Ma non fanno parte di questi, quei popoli che Cristo ha raggiunto nella persona dei discepoli, e ai quali per mezzo dei discepoli ha parlato. E' quanto egli fa al presente: per mezzo della sua Chiesa, infatti, raggiunge i popoli, e ad essi per mezzo della sua Chiesa rivolge la sua parola. E' in questo senso che ha detto: Chi accoglie voi accoglie me (Mt 10,40); chi disprezza voi disprezza me (Lc 10,16). Ecco perché l'apostolo Paolo può dire ai Corinti: Volete forse una prova del Cristo che parla in me? (2Co 13,3).

1. 3. Ci rimane da sapere se possono avere questa scusa coloro che sono morti o muoiono prima che Cristo per mezzo della Chiesa sia venuto a loro, e prima di aver udito il messaggio evangelico. Certamente sono scusati, ma non per questo possono sfuggire alla condanna. Quanti infatti hanno peccato senza la legge, senza la legge pure periranno; quanti invece hanno peccato avendo la legge, per mezzo della legge saranno giudicati (Rm 2,12). Questa parola dell'Apostolo: periranno, suona più terribilmente dell'altra: saranno giudicati. Essa quindi sembra mostrare che questa scusa non solo non giova, ma aggrava la situazione. Coloro infatti che invocheranno la scusa di non aver udito, periranno senza la legge.

2. 4. E' il caso di chiederci se coloro che hanno disprezzato o fatto resistenza a quanto hanno udito, e, non contenti di cio, hanno anche perseguitato accanitamente quelli che hanno loro parlato, sono da annoverare tra coloro per i quali un po' meno severa è risuonata l'affermazione: per mezzo della legge saranno giudicati. Infatti, se una cosa è perire senza la legge e un'altra essere giudicati per mezzo della legge, ed una cosa è più grave e l'altra più leggera, è evidente che non sono da collocare tra quelli che subiranno una pena più lieve coloro che non solamente hanno peccato senza la legge, ma a nessun costo hanno voluto accogliere la legge di Cristo, e che anzi, per quanto è dipeso da loro, hanno cercato di distruggerla. Peccano invece nella legge coloro che hanno la legge, coloro cioè che l'accolgono e la riconoscono santa e riconoscono santi, giusti e buoni i comandamenti (Rm 7,12) ma che per debolezza non adempiono i precetti, della cui giustizia non possono assolutamente dubitare. Si potrebbe forse distinguere la loro sorte da quella di coloro che sono senza legge, se si potesse intendere l'affermazione dell'Apostolo: per mezzo della legge saranno giudicati, non nel senso che costoro non periranno; ma questa interpretazione sarebbe strana. Infatti qui l'Apostolo non parla di infedeli e di fedeli, ma di Gentili e di Giudei: gli uni e gli altri, se non saranno salvati dal Salvatore che è venuto a cercare ciò che era perduto (Lc 19,10), certamente andranno perduti. Si può tuttavia ritenere che alcuni periranno più gravemente degli altri, cioè subiranno pene più gravi. Perire, agli occhi di Dio, significa essere privato, in seguito alla condanna, della beatitudine che Dio concede ai suoi santi: e la diversità delle pene corrisponde alla diversità dei peccati. Tale diversità, comunque, è riservata all'insondabile giudizio della sapienza divina, e sfugge all'indagine e al giudizio dell'uomo. Certamente, coloro ai quali il Signore si è recato e ai quali ha rivolto la sua parola, non hanno scusa per il loro grande peccato d'incredulità, e non possono dire: Non l'abbiamo visto, non l'abbiamo sentito. Sia che tale scusante fosse stata accettata o respinta da colui i cui giudizi sono imperscrutabili, certamente, anche se non avrebbero evitato ogni condanna, avrebbero tuttavia subito una condanna un po' più lieve.

3. 5. Chi odia me odia anche mio Padre (Jn 15,23). Qui forse ci si dirà: Come si fa a odiare uno che non si conosce? Difatti, prima di dire: Se io non fossi venuto e non avessi parlato ad essi, non avrebbero colpa, aveva detto ai suoi discepoli: faranno tutto ciò contro di voi, perché non conoscono colui che mi ha mandato. Come possono dunque non conoscerlo e odiarlo? Se infatti credono che egli sia non ciò che è, ma un'altra cosa, si trovano a odiare, non lui, ma l'idea sbagliata che di lui si sono fatta. E tuttavia, se gli uomini non fossero capaci di tutt'e due le cose: ignorare e odiare il Padre suo, la Verità non avrebbe detto che essi non conoscono suo Padre e insieme lo odiano. Ammesso che sia possibile dimostrare come ciò avvenga, non è possibile farlo ora, perché questo discorso deve avere termine.


Agostino - Commento Gv 85