Agostino Salmi 6

SUL SALMO 6

6 Ps 6

ESPOSIZIONE

Il giorno del giudizio.

1. [v 1.] Per la fine, a guisa di inni sull’ottavo, salmo di David. Le parole sull’ottavo appaiono oscure, mentre le altre parti di questo titolo sono più chiare. Alcuni hanno ritenuto che indichi il giorno del giudizio, cioè il tempo dell’avvento di nostro Signore, in cui verrà a giudicare i vivi e i morti. Si crede che questo avvento, computando gli anni da Adamo, avverrà dopo settemila anni; di modo che, trascorsi i settemila anni come sette giorni, venga poi quel momento come fosse l’ottavo giorno. Ma, poiché il Signore ha detto: non vi è dato conoscere i tempi che il Padre ha posto in suo potere (Ac 1,7), e: quanto poi a quel giorno e a quell’ora nessuno lo conosce né l’angelo, né la virtù, né il Figlio, ma solo il Padre (Mt 24,36), e siccome sta scritto che il giorno del Signore verrà come un ladro (Cf. 1Th 5,2), è a sufficienza dimostrato che nessuno può pretendere di conoscere quel tempo attraverso un computo di anni. Se infatti quel giorno venisse dopo settemila anni, ogni uomo potrebbe venire a conoscenza della data del suo avvento contando gli anni. Quando verrà dunque quella data, dato che non la conosce neppure il Figlio? Certamente così è detto perché gli uomini non la apprendono dal Figlio di Dio, non perché egli in se stesso non la conosca. Si tratta di una espressione analoga alle altre: il Signore Dio vostro vi tenta per sapere (Dt 13,3), cioè perché voi sappiate, e: lèvati, Signore (Ps 3,7), cioè facci sorgere. Essendo dunque stato detto che il Figlio di Dio non conosce questo giorno, non perché non lo sa, ma perché non vuole renderlo noto a coloro ai quali non conviene conoscerlo, cioè non conviene che sia ad essi indicato; per questo non so proprio con quale presunzione qualcuno, contando gli anni, tiene per certo il giorno del Signore dopo settemila anni!

2. Quanto a noi, ignoriamo volentieri quel che il Signore non ha voluto farci conoscere e cerchiamo che cosa voglia dire questo titolo, laddove è scritto: sull’ottavo. Certamente si può, anche senza nessun temerario calcolo di anni, interpretare l’ottavo come il giorno del giudizio, in quanto le anime dei giusti, già dopo la fine di questo secolo, ricevuta la vita eterna, non saranno più soggette al tempo; e poiché tutti i tempi si svolgono nella ripetizione di questi sette giorni, può forse essere detto l’ottavo quello che non avrà questa instabilità. E vi è anche un altro motivo per il quale si può ragionevolmente accettare che sia chiamato ottavo il giudizio, in quanto esso si compirà dopo due generazioni, delle quali l’una concerne il corpo, l’altra l’anima. Da Adamo fino a Mosè infatti, il genere umano ha vissuto nel corpo, cioè secondo la carne, che è detta anche uomo esteriore e uomo vecchio (Cf. Ep 4,22), cui è stato dato il Vecchio Testamento affinché prefigurasse le future opere spirituali, con atti religiosi, ma tuttavia ancora carnali. In tutto questo tempo in cui si viveva secondo il corpo, regnò la morte, come dice l’Apostolo, anche su coloro che non peccarono. Ma regnò a somiglianza della trasgressione di Adamo, come l’Apostolo stesso dice, poiché fino a Mosè (Cf. Rm 5,14) deve essere inteso fino a quando le opere della legge, cioè quei sacramenti osservati carnalmente, non tennero assoggettati, in forza del sicuro mistero, anche coloro che erano sottoposti all’unico Dio. Ma dall’avvento del Signore, a partire dal quale fu compiuto il passaggio dalla circoncisione della carne alla circoncisione del cuore, si è operata la vocazione, affinché si vivesse secondo l’anima, cioè secondo l’uomo interiore, che è detto anche uomo nuovo (Cf. Col 3,10) a cagione della rigenerazione e del rinnovamento dei costumi spirituali. Pertanto è chiaro che il numero quattro si riferisce al corpo, in quanto consta dei quattro elementi a tutti noti e delle quattro qualità, secca, umida, calda e fredda. Donde anche deriva che è regolato da quattro stagioni; primavera, estate, autunno e inverno. Tutte queste sono cose notissime. Del numero quattro riferito al corpo si discute infatti anche altrove in modo più sottile, ma più oscuro: cosa che dobbiamo evitare in questo sermone, che vogliamo sia alla portata anche dei meno colti. Si può intendere poi che il numero tre si riferisca all’animo, in quanto ci viene ordinato di amare in tre modi, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente (Cf. Dt 6,5 Mt 22,37); riguardo a ciascuno di questi modi è più opportuno discutere non nel Salterio, ma nel Vangelo. Per ora ritengo che quanto si è detto sia sufficiente per dimostrare che il numero tre si riferisce all’animo. Ebbene, esaminati i numeri del corpo concernenti il vecchio uomo e il Vecchio Testamento, esaminati del pari i numeri dell’animo che si riferiscono al nuovo uomo e al Nuovo Testamento - ed ottenuto così il numero sette, poiché ciascuna cosa si compie secondo il tempo - assegnato poi il quattro al corpo e il tre all’animo, ne viene l’ottavo giorno del giudizio, il quale, dando ai meriti quanto è dovuto, trasferirà i santi non più alle opere temporali ma alla vita eterna, mentre condannerà per sempre gli empi.

Le pene.

3. [v 2.] Temendo tale condanna la Chiesa prega in questo salmo, dicendo: Signore, non mi riprendere nell’ira tua. Anche l’Apostolo la chiama ira del giudizio: ti accumuli - dice - l’ira per il giorno dell’ira del giusto giudizio di Dio (Rm 2,5). In questa ira non vuole essere ripreso chiunque desidera essere risanato in questa vita. E nel tuo furore non mi correggere. Correggere appare più mite: mira infatti a emendare. Infatti chi è ripreso, cioè è accusato, c’è da temere che finisca col subire la condanna. Ma poiché il furore sembra essere più forte dell’ira, può destare stupore il fatto che ciò che è più mite, cioè la correzione, sia posta insieme con ciò che è più severo, ossia con il furore. Credo però che si voglia intendere una sola cosa con due parole: infatti in greco  che è nel primo versetto, ha lo stesso significato di  che leggiamo nel secondo. Siccome però anche i latini volevano porre due parole, ci si è chiesti che cosa fosse prossimo all’ira, e si è scritto furore: ecco perché in questo punto sono diverse le lezioni dei codici; in alcuni infatti si trova prima ira e poi furore, in altri prima furore e poi ira, in altri ancora al posto di furore c’è indignazione, oppure collera. Ma, quale che sia la parola, si tratta sempre di un turbamento dell’animo che induce a infliggere una pena. Tale turbamento non può essere attribuito a Dio, come si può attribuirlo all’anima. A proposito di Dio infatti è detto: ma tu Signore delle virtù, con tranquillità giudichi (Sg 12,18), e ciò che è tranquillo non è turbato. Il turbamento non colpisce Dio giudice: ma l’ira che si accende nei suoi servi, in quanto si manifesta a cagione delle sue leggi, è detta ira di Dio. In questa ira, non soltanto l’anima che ora prega non vuole essere ripresa, ma neppure corretta, cioè emendata o ammaestrata: in greco infatti sta scritto  cioè ammaestri. Nel giorno del giudizio, poi, saranno ripresi tutti coloro che non posseggono il fondamento, che è Cristo; saranno emendati, invece, cioè purificati, coloro che su questo fondamento avranno sovrapposto legno, erba e stoppia: infatti costoro soffriranno danno, ma saranno salvi, come attraverso il fuoco (Cf. 1Co 3,11). A qual fine prega dunque costui che non vuole essere né ripreso né emendato nell’ira del Signore, se non per essere risanato? Dove c’è infatti la salute non c’è da temere la morte, né la mano del medico che brucia e taglia.

La conversione è una grazia.

4. [vv. 3.4.] Continua perciò e dice: abbi pietà di me, Signore, perché sono infermo; risanami, Signore, perché turbate sono le mie ossa, cioè è turbata la stabilità o la fermezza della mia anima: questo infatti significano le ossa. Menzionando le ossa, l’anima dice dunque che la sua fermezza è turbata, poiché non dobbiamo credere che essa abbia le ossa che vediamo nel corpo. Per questo motivo le parole che seguono: e l’anima mia è grandemente turbata, ci appaiono una spiegazione, volta ad evitare che, quando ha detto ossa, si intendano quelle del corpo. E tu, Signore, fino a quando? Chi non comprende che è qui rappresentata l’anima in lotta con le sue malattie, [l’anima] a lungo privata del medico perché sia ben persuasa in quali mali, peccando, si è precipitata? Non incute infatti molto timore ciò da cui facilmente si guarisce; dalle difficoltà della guarigione nascerà invece una più diligente custodia della salute ritrovata. Quindi non dobbiamo considerare come crudele Dio, al quale sono rivolte le parole: e tu Signore fino a quando, ma dobbiamo piuttosto considerarlo come un buon maestro che fa capire all’anima il male che si è procurata da se stessa. Infatti quest’anima non prega ancora in modo tanto perfetto che [Iddio] le possa dire: mentre ancora parli ti dirò: ecco son qui (Is 65,24). Comprenda anche nel contempo quanto deve essere grande la pena preparata per gli empi che non vogliono convertirsi a Dio, se tanta è la difficoltà che incontrano coloro che si convertono; come appunto è scritto in altro luogo: se il giusto a stento si salverà, dove finiranno l’empio e il peccatore? (1P 4,18)

5. [v 5.] Volgiti, o Signore e libera l’anima mia. Nel convertirsi prega che anche Dio si volga verso di lei, come sta scritto: volgetevi a me ed io mi volgerò a voi, dice il Signore (Za 1,3). Oppure con quell’espressione: volgiti o Signore, dobbiamo intendere: fa’ si che io mi converta, in quanto sente la difficoltà e la fatica connesse alla sua stessa conversione? La nostra perfetta conversione trova infatti Dio pronto, come dice il profeta: come l’aurora lo troveremo pronto (Os 6,3 sec. LXX), perché quel che ce Lo ha fatto perdere non fu la sua assenza - Egli è ovunque presente - ma il nostro distoglierci da Lui. Sta scritto: era in questo mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui e il mondo non lo conobbe (Jn 1,10). Ebbene, se era in questo mondo e il mondo non lo conobbe, è la nostra impurità che non sopporta la sua vista. Ma quando ci convertiamo, ossia quando, nella trasformazione della vecchia vita, veniamo come a dare una nuova effigie al nostro spirito, sperimentiamo bene quanto è duro e faticoso rivolgersi dalla caligine delle passioni terrene alla serenità e alla tranquillità della luce divina. E in tale difficoltà diciamo: volgiti, o Signore, cioè aiutaci, affinché si compia in noi quella conversione che ti trova pronto e nell’atto di offrirti in godimento a coloro che ti amano. Per questo, dopo aver detto: volgiti, o Signore, ha aggiunto: e libera l’anima mia, in quanto essa è avvinta alle perplessità di questo secolo, ed è trafitta dalle spine dei laceranti desideri nell’atto stesso in cui si converte. Dice: salvami per la tua misericordia. Si rende conto che non è risanata per i suoi meriti, giacché una giusta condanna era dovuta al peccatore che aveva violato il comandamento dato [da Dio]. Sanami dunque - dice - non per i miei meriti, ma per la tua misericordia.

Morte ed inferno.

6. [v 6.] Perché non vi è nella morte chi si ricorda di te. Comprende anche che è ora il tempo della conversione; perché quando sarà trascorsa questa vita, non resterà altro che la ricompensa dei meriti. E nell’inferno chi ti confesserà? Confessò [Dio] nell’inferno quel ricco di cui parla il Signore, quel ricco che vide Lazzaro in pace mentre egli soffriva nei supplizi; ha confessato fino al punto da voler avvisare i suoi a guardarsi dai peccati, a cagione delle pene che non si crede siano nell’inferno (Cf. Lc 16,23-31). Sebbene invano, confessava tuttavia che quei supplizi lo avevano colpito giustamente, quando desiderava avvisare i suoi perché non precipitassero in tali tormenti. Perché allora è scritto: e nell’inferno chi ti confesserà? O forse si intende per inferno il luogo in cui, dopo il giudizio, saranno precipitati gli empi, e dove ormai, a cagione delle profonde tenebre, non vedranno nessuna luce di Dio cui rivolgere la loro confessione? Sta di fatto che costui, alzando gli occhi, sebbene vi fosse tra loro un immane abisso, ha potuto tuttavia vedere Lazzaro stabilito nella pace e, paragonandosi a lui, è stato costretto a confessare i meriti di questo. Possiamo anche intendere le parole del salmo nel senso che chiami morte il peccato che si commette disprezzando la legge divina; di modo che chiamiamo morte il pungiglione della morte che procura la morte, e il pungiglione della morte è il peccato (Cf. 1Co 15,56). In questa morte, non ricordarsi di Dio significa disprezzare la sua legge e i suoi comandamenti, di modo che avrebbe chiamato inferno la cecità dell’animo, che accoglie e avviluppa il peccatore, ossia il morente; così come sta scritto: poiché non si diedero cura di conoscere Dio, li abbandonò Iddio ai reprobi sentimenti (Rm 1,28). Ebbene, l’anima scongiura di essere preservata da questa morte e da questo inferno, mentre si sforza di convertirsi a Dio, e ne esperimenta le difficoltà.

7. [v 7.] Ecco perché continua dicendo: mi sono sfinito nel mio gemere, e aggiunge, come se a poco gli avesse giovato: laverò [col pianto] ogni notte il mio letto. In questo passo è chiamato letto il luogo ove l’anima ammalata e inferma cerca riposo, cioè nei piaceri del corpo e in ogni voluttà del mondo. Lava questa seduzione con le lacrime chi tenta di strappare se stesso alla sua stretta. Infatti si avvede già che le concupiscenze carnali lo portano alla dannazione; e tuttavia la sua debolezza è prigioniera del diletto e in esso giace volentieri l’anima che non può risollevarsi, se non è risanata. Dicendo: ogni notte, vuol fare intendere forse che colui il quale nella risoluzione dello spirito avverte una certa luce di verità e ricade tuttavia di tanto in tanto nelle seduzioni di questo secolo a causa della debolezza della carne, si trova allora costretto a subire l’alternarsi dei sentimenti come i giorni e le notti; così che quando dice: con lo spirito obbedisco alla legge di Dio, è come se avanzasse nel giorno, e quando dice ancora: ma con la carne alla legge del peccato (Rm 7,25) allora precipita nella notte, finché non trascorra ogni notte e venga quell’unico giorno a proposito del quale è detto: al mattino mi presenterò a te e vedrò (Ps 5,5). Allora starà in piedi: ma per ora giace, poiché è nel letto che ogni notte laverà per ottenere, versando tante lacrime, la medicina efficacissima da parte della misericordia di Dio. Nelle lacrime irrigherò il mio giaciglio, è una ripetizione: dicendo infatti nelle lacrime ripete ciò che prima ha detto dicendo laverò. E con giaciglio intendiamo quanto ha detto prima con letto. Tuttavia, irrigherò è qualcosa di più che laverò, perché si può lavare qualcosa anche solo in superficie, mentre l’irrigazione giunge a permeare l’interno, il che significa che il pianto giunge fino al profondo del cuore. Quanto poi al cambiamento dei tempi verbali - ha usato il passato dicendo: mi sono sfinito nel mio gemere, e il futuro col dire: laverò ogni notte il mio letto, e di nuovo il futuro: nelle lacrime irrigherò il mio giaciglio - esso mostra che cosa ciascuno deve dire a se stesso, quando si è affaticato gemendo invano; è come se dicesse: non mi ha giovato far questo, farò quindi quest’altro.

La sapienza di Dio è luce interiore.

8. [v 8.] Turbato dall’ira è il mio occhio. Dall’ira sua o da quella di Dio, nella quale chiede di non essere ripreso o corretto? Ma se essa significa il giorno del giudizio, come si può ora [così] intendere? Ovvero si tratta del suo inizio, dato che qui gli uomini soffrono dolori e tormenti, e soffrono soprattutto la riduzione della conoscenza della verità, secondo quanto ho già ricordato: Dio li ha abbandonati ai perversi sentimenti (Rm 1,28)? È questa infatti la cecità dello spirito e chiunque è abbandonato ad essa, è escluso dall’interiore luce di Dio: ma non ancora del tutto, finché è in questa vita. Vi sono infatti le tenebre esteriori (Cf. Mt 25,30), che paiono essere più pertinenti al giorno del giudizio, di modo che rimanga completamente fuori da Dio chiunque ha ricusato di correggersi fino a che era in tempo. Cosa è essere completamente estranei a Dio, se non essere nella totale cecità? Dio infatti abita la luce inaccessibile (Cf. 1Tm 6,16), ove hanno accesso soltanto coloro ai quali è detto: entra nel gaudio del tuo Signore (Mt 25,21-23). Quel che soffre ogni peccatore in questa vita è dunque l’inizio di questa ira: temendo perciò il giorno del giudizio, si affatica e piange, per non arrivare a [quella ira] il cui inizio tanto micidiale esperimenta già fin da ora. Per questo non ha detto: si è spento, ma ha detto: turbato dall’ira è il mio occhio. Se poi dice che per la sua ira è turbato il suo occhio, non c’è da meravigliarsi e forse in ordine a questo sta l’espressione: non tramonti il sole sulla vostra ira (Ep 4,26); poiché pare che lasci tramontare in sé il sole interiore - cioè la sapienza di Dio - la mente che per il suo turbamento resta impedita di vederlo.

Dimora dell'animo è il suo amore.

9. Sono invecchiato fra tutti i miei nemici. Aveva parlato soltanto dell’ira (se è solo alla sua ira che si riferiva); ma considerando gli altri vizi, scopre di essere assediato da tutti, e siccome questi vizi appartengono alla vecchia vita e al vecchio uomo, di cui dobbiamo spogliarci per rivestirci del nuovo (Cf. Col 3,9 Col 10), giustamente è detto: sono invecchiato. E dice ancora: fra tutti i miei nemici, ossia o in mezzo ai vizi stessi, oppure in mezzo agli uomini che non vogliono convertirsi a Dio. Costoro infatti, anche se non se ne rendono conto, anche se sono clementi, anche se prendono parte agli stessi banchetti e convivono nelle medesime case e città senza che si frapponga alcuna lite, e fanno conversazioni frequenti e concordi, pur tuttavia, data la diversità della loro intenzione, sono nemici di coloro che si convertono a Dio. Infatti, poiché gli uni amano e desiderano questo mondo, mentre gli altri desiderano liberarsene, come possono quelli non essere nemici di questi? Se potessero, infatti, li trascinerebbero con sé nella via che porta alla pena. Ed è davvero un grande dono vivere ogni giorno in mezzo alle loro conversazioni e non allontanarsi dalla via dei comandamenti di Dio. Spesso, infatti, la mente che si sforza di tendere a Dio, sconvolta, trepida nel cammino stesso; e il più delle volte non adempie al suo buon proposito per non offendere coloro con cui vive, i quali amano e inseguono altri beni, passeggeri ed effimeri. Ogni spirito sano è separato da costoro, non nello spazio, ma nell’anima: i corpi infatti sono contenuti nello spazio, mentre lo spazio dell’anima è l’affetto [che la pervade].

Ora i giusti convivono con gli empi.

10. [v 9.] Ecco perché, dopo la fatica, il gemito, i torrenti abbondantissimi di lacrime, siccome non può essere vana la preghiera innalzata con tanto vigore a colui che è la fonte di ogni misericordia con grande verità è detto: vicino è il Signore a chi ha il cuore contrito (Ps 33,19). Osserva poi che cosa aggiunge l’anima pia, nella quale è lecito scorgere anche la Chiesa, nel dichiararsi esaudita dopo tante difficoltà: allontanatevi da me, tutti voi che operate iniquità; giacché il Signore ha udita la voce del mio pianto. Queste parole sono dette sia in senso profetico, in quanto gli empi si allontaneranno, cioè saranno separati dai giusti quando verrà il giorno del giudizio, sia in senso attuale, perché, anche se sono raccolti insieme e negli stessi luoghi, tuttavia sulla nuda aia il grano è già separato dalla paglia sebbene sia celato tra la paglia. Possono pertanto stare insieme, ma non possono essere portati via insieme dal vento.

11. [v 10.] Giacché il Signore ha udito la voce del mio pianto; il Signore ha esaudito la mia supplica; il Signore ha accolto la mia preghiera. La frequente ripetizione dello stesso concetto sta ad indicare non la necessità della narrazione, ma il sentimento dell’anima esultante. Sono soliti infatti parlare così coloro che gioiscono; come se non bastasse loro proclamare una volta sola la propria gioia. Questo è il frutto di quel gemito nel quale ci si affatica, di quelle lacrime con cui si lava il letto e si irriga il giaciglio; perché miete nella gioia chi semina nelle lacrime (Cf. Ps 125,5), e beati sono coloro che piangono, perché saranno consolati (Cf. Mt 5,5).

Nel giudizio saranno separati.

12. [v 11.] Siano svergognati e turbati tutti i miei nemici. Allontanatevi da me tutti voi, ha detto prima, ciò può accadere anche in questa vita, come abbiamo spiegato; ma quando ora dice: siano svergognati e turbati, non vedo in qual modo possa accadere se non in quel giorno in cui saranno resi noti i premi dei giusti e i supplizi dei peccatori. Infatti ora non solo gli empi non si vergognano, al punto che non cessano di insultarci, ma hanno spesso tanta forza con le loro beffe, che inducono gli uomini deboli a vergognarsi del nome di Cristo. Per questo il Signore ha detto: chiunque si vergognerà di me al cospetto degli uomini, io mi vergognerò di lui al cospetto del Padre mio (Mt 10,32 s; Lc 9,26). Chi invece avrà voluto adempiere ai sublimi precetti di distribuire le ricchezze e darle ai poveri, onde in eterno rimanga la giustizia di lui (Cf. Ps 111,9), e, dopo aver venduto tutti i suoi beni terreni e averne dato il ricavato ai bisognosi, avrà voluto seguire Cristo, dicendo: nulla abbiamo portato in questo mondo, ma neppure possiamo portar via qualcosa: avendo di che sostentarci e di che coprirci, di questo siamo contenti (1Tm 6,7 1Tm 8), ebbene costui cade nella mordacità sacrilega di questi, ed è chiamato pazzo da coloro che non vogliono essere risanati; e spesso, per evitare di essere chiamato così da questi uomini perduti, ha paura di compiere e rimanda quanto ha ordinato il fedelissimo e onnipotente medico di tutti. Ora dunque non possono arrossire costoro, a cagione dei quali c’è da augurarci di non arrossire noi, e di non essere, o indotti a tornare indietro, o ostacolati, o ritardati nel cammino che ci siamo proposti. Ma verrà per essi tempo di arrossire, quando diranno, come sta scritto: questi sono coloro che un tempo avemmo a scherno e a oggetto di vituperio; noi insensati consideravamo follia la loro vita e senza onore la loro fine; in qual modo sono annoverati tra i figli di Dio e la loro sorte è tra i santi? Noi dunque abbiamo deviato dalla via della verità, la luce della giustizia non ha brillato per noi, e per noi il sole non è sorto; ci siamo stancati per la via dell’iniquità e della perdizione, e abbiamo camminato per impervie solitudini, ma non abbiamo conosciuto la via del Signore. Che ci ha giovato la superbia, o che cosa ci ha portato il vantarci delle ricchezze? Tutte quelle cose passarono come ombra (Sg 5,3-9).

13. Quanto poi alle parole che seguono: si convertano e siano confusi, chi non penserà che è giustissimo castigo che abbiano in sorte una conversione a [loro] confusione coloro che non hanno voluto riceverla come salvezza? Ha aggiunto poi: molto rapidamente. Quando comincerà infatti a non essere più atteso il giorno del giudizio, quando essi diranno: pace, allora d’improvviso verrà per loro la fine (Cf. 1Th 5,3). Quale che sia il momento in cui verrà, viene rapidissimo ciò di cui non si attende la venuta; e solo la speranza di vivere fa sentire la lunghezza di questa vita: niente infatti sembra essere più fulmineo di quanto in essa è già passato. Orbene, quando sarà venuto il giorno del giudizio, allora i peccatori si renderanno conto di come sia breve ogni vita che passa. In nessun modo potrà sembrar loro essere venuto tardi ciò che sopraggiunge mentre non solo non lo desiderano, ma ancor più non vi credono. Queste parole possono tuttavia essere anche interpretate nel senso che l’anima esaudita da Dio per i gemiti e i frequenti e lunghi pianti, è stata liberata dai suoi peccati e ha domato ogni malvagio moto dei suoi affetti carnali, dato che dice: allontanatevi da me tutti voi che operate iniquità giacché il Signore ha esaudito la voce del mio pianto. Riflettendo al bene conseguito, non è da meravigliarsi che sia già così perfetta da pregare per i suoi nemici. A questo possono riferirsi anche le parole: arrossiscano e si turbino tutti i miei nemici, in modo che facciano penitenza dei loro peccati, il che non può avvenire senza vergogna e turbamento. Niente vieta quindi di intendere in questo senso anche quel che segue: si convertano e arrossiscano, cioè si convertano a Dio e arrossiscano di se stessi che un tempo si sono gloriati nelle vecchie tenebre dei peccati, secondo le parole dell’Apostolo: quale gloria aveste un tempo in ciò di cui oggi arrossite? (Rm 6,21) Quanto poi aggiunge: molto rapidamente, è da riferire o al sentimento di chi desidera o alla potenza di Cristo, il quale con così grande celerità di tempo ha convertito alla fede del Vangelo le genti che perseguitavano la Chiesa per difendere i loro idoli.

SUL SALMO 7

7 Ps 7

ESPOSIZIONE

1. [v 1.] Salmo dello stesso David, che [egli] cantò al Signore a causa delle parole di Cusi, figlio di Iemini. Nel secondo libro dei Regni è facile riconoscere il fatto storico da cui questa profezia ha preso spunto (Cf. Sam 2S 16). Ivi si narra infatti che Cusi, amico del re David, passò dalla parte del figlio di lui Assalonne, il quale conduceva guerra contro il padre, per cercare di scoprire e sventare i piani che egli preparava ai danni del genitore dietro suggerimento di Achitofel: questi aveva rotto l’amicizia con David e istigava il figlio contro il padre, con i consigli che era in grado di dare. Ma poiché non dobbiamo in questo salmo considerare la medesima storia dalla quale il profeta ha tratto il velo che copre i misteri, se ci spostiamo verso Cristo, sarà tolto il velo (Cf. 2Co 3,16). In primo luogo esamineremo che cosa indica il significato dei nomi stessi. Non sono infatti mancati interpreti i quali, indagando su questo significato non in maniera carnale secondo la lettera, ma in maniera spirituale, ci hanno dichiarato che Cusi vuol dire silenzio, Iemini destro e Achitofel delitto del fratello. Con queste interpretazioni ci imbattiamo di nuovo in Giuda il traditore, così come Assalonne evoca la sua immagine per il fatto che il suo nome è tradotto con pace del padre: infatti il padre è apparso animato da sentimenti di pace nei suoi confronti, sebbene egli avesse nel cuore la guerra, [operando] con i suoi inganni, come abbiamo già spiegato nel terzo salmo. Ebbene, come si legge nel Vangelo che i discepoli sono detti figli di nostro Signore Gesù Cristo (Cf. Mt 9,15), nello stesso Vangelo troviamo che essi sono chiamati anche fratelli. Il Signore che risorge dice infatti: Va’ e di’ ai miei fratelli (Jn 20,17) e l’Apostolo lo chiama primogenito tra molti fratelli (Cf. Rm 8,29). Perciò il delitto del suo discepolo che lo tradì si può bene intendere come delitto del fratello: abbiamo infatti detto che questo è il significato di Achitofel. Cusi invece, che significa silenzio, ci mostra giustamente che nostro Signore ha combattuto, contro i tranelli tesigli, con il silenzio, cioè secondo quel profondissimo segreto per il quale si è verificata la cecità di una parte di Israele, allorché [i giudei] perseguitavano il Signore, in modo che subentrasse la totalità delle genti e fosse così, allora, salvato tutto Israele. Riferendosi a questo segreto profondo e a questo alto silenzio, l’Apostolo come colpito da una sorta di sacro orrore per la sua stessa profondità esclamava: O abisso delle ricchezze della sapienza e della scienza di Dio, quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e investigabili le sue vie! Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore, o chi è stato suo consigliere? (Rm 11,33 Rm 34) In tal modo, non tanto rivela, spiegandolo, questo grande silenzio, ma piuttosto lo mostra alla nostra ammirazione. Il Signore, nascondendo con questo silenzio il mistero della sua venerabile passione, ha convertito il volontario delitto del fratello, cioè il nefando crimine del suo traditore, nel piano della sua misericordia e della sua provvidenza; in modo che quello che egli compiva con animo perverso per la rovina di un uomo solo, con provvidenziale disposizione ha volto alla salvezza di tutti gli uomini. Canta dunque il salmo al Signore l’anima perfetta, che è già degna di conoscere il segreto di Dio. Canta a causa delle parole di Cusi, perché ha meritato di conoscere le parole di quel silenzio. Per gli infedeli e i persecutori esso è silenzio e segreto, ma presso i suoi, ai quali è detto: più non vi dico servi, perché il servo non conosce ciò che fa il suo Signore; voi invece vi ho chiamati amici, perché vi ho rivelate tutte le cose che ho udito dal Padre mio (Jn 15,15), presso i suoi amici, dunque, non c’è il silenzio, ma le parole del silenzio, cioè il chiaro e manifesto significato di quel silenzio. E questo silenzio, ossia Cusi, è detto figlio di Iemini, cioè del destro: non doveva infatti rimaner nascosto ai santi ciò che è stato compiuto a loro vantaggio. E tuttavia dice: non sappia la sinistra quel che fa la destra (Mt 6,3). In questa profezia canta dunque l’anima perfetta, cui quel mistero è stato reso noto, a causa delle parole di Cusi, cioè a causa della conoscenza di quel medesimo mistero. Dio “destro”, cioè a lui propizio e favorevole, ha compiuto questo mistero: ecco perché tale silenzio è detto figlio del destro, ossia Cusi figlio di Iemini.

La salvezza dono di Dio.

2. [vv 2.3.] Signore Dio mio, in te ho sperato; salvami da tutti coloro che mi perseguitano, e liberami. Al pari di chi, già perfetto, ha vinto ogni assalto e ogni opposizione dei vizi e gli resta soltanto da superare l’invidia del diavolo, dice: salvami da tutti coloro che mi perseguitano, e liberami; affinché mai, come leone, rapisca la anima mia. Dice l’Apostolo: il vostro nemico - il diavolo - come leone ruggente gira intorno, cercando chi divorare (1P 5,8). Per questo, dopo aver detto, usando il plurale: salvami da tutti coloro che mi perseguitano, introduce poi il singolare dicendo: affinché mai, come leone, rapisca l’anima mia. Non dice: affinché non rapiscano, in quanto sa quale è il nemico che resiste e come si oppone violentemente all’anima perfetta. Mentre non c’è chi riscatta né chi salva, cioè affinché egli non mi rapisca mentre tu non mi riscatti né mi salvi. Se Dio, infatti, non riscatta né salva, il diavolo rapisce.

Vinciamo l'ira.

3. [vv 4.5.] E perché sia chiaro che chi dice tutto questo è l’anima già perfetta, la quale deve ormai guardarsi soltanto dalle insidie fraudolente del diavolo, stai attento alle parole che seguono: Signore mio Dio, se questo ho fatto. Cos’è ciò che chiama questo? dobbiamo forse intendere il peccato in generale, dato che non specifica il nome del peccato? Se questa interpretazione non è soddisfacente, intendiamo come una risposta quel che segue, quasi avessimo chiesto il significato della parola questo: se c’è iniquità nelle mie mani. Ed è evidente che si riferisce ad ogni peccato: se ho reso male a coloro che così mi retribuivano; il che non può dire in verità se non chi è perfetto. Dice infatti il Signore: siate perfetti come il Padre vostro che è nei cieli, il quale fa sorgere il suo sole su buoni e cattivi e fa piovere su giusti e ingiusti (Mt 5,48 Mt 45). È perfetto dunque chi non ricambia il male per il male. Pertanto, quando l’anima perfetta prega a causa delle parole di Cusi, figlio di Iemini, cioè per la conoscenza di quel segreto e di quel silenzio che il Signore, benigno a noi e misericordioso, ha operato per la nostra salvezza, tanto da tollerare e sopportare con la più grande pazienza l’inganno del suo traditore; dica dunque [il Signore] a questa anima perfetta, spiegando la ragione del suo stesso segreto: io per te, empio e peccatore, perché le tue iniquità fossero lavate con lo spargimento del mio sangue, ho sopportato il mio traditore, con grande silenzio e con immensa pazienza; e tu non mi imiterai, tanto da non restituire male per male? L’anima, accorgendosi e comprendendo quanto ha fatto per lei il Signore, ed allo scopo di progredire, sul suo esempio, verso la perfezione, dice: se ho reso male a coloro che mi retribuivano, cioè se non ho compiuto ciò che tu con i fatti mi hai insegnato, soccomba pure, senza speranza, sotto ai miei nemici. Giustamente non ha detto: se ho ricambiato coloro che mi hanno dato il male, ma: coloro che retribuivano. Già qualcosa ha ricevuto colui che ricambia, ed è segno di maggior pazienza non ricambiare il male a chi restituisce male per bene, pur avendo ricevuto dei benefici, anziché a colui che cercasse di farci del male senza avere ricevuto prima alcun beneficio. Se ho ricambiato male - dice - a coloro che mi retribuivano, ossia se non ti ho imitato in quel silenzio, cioè in quella pazienza che tu hai manifestato per me, ebbene, soccomba pure, senza speranza, sotto ai miei nemici. Invano si vanta dunque chi, essendo un uomo, brama vendicarsi di un altro uomo; e, mentre tenta apertamente di vincere un uomo, è di nascosto vinto dal diavolo, annientato dalla esultanza vana e superba per la quale crede di non poter quasi essere vinto. [Il Salmista] comprende dunque quand’è che si consegue più grande vittoria e quand’è che il Padre, che vede nell’intimo, contraccambia (Cf. Mt 6,6). Per non ricambiare perciò male per male, vince l’ira piuttosto che l’uomo, colui che ricorda anche l’ammonimento della Scrittura: È migliore chi vince l’ira di chi conquista una città (Pr 16,32 sec. LXX). Se ho reso male a coloro che così mi retribuivano, soccomba pure senza speranza sotto ai miei nemici. Sembra giurare con una maledizione, modo questo gravissimo di giurare, di cui si serve l’uomo che dice: se questo io ho fatto, questo io subisca. Ma altro è il giuramento sulle labbra di chi giura, altro è sulle labbra di chi profetizza. Qui infatti egli esprime quanto realmente accadrà agli uomini che ricambiano male per male; non augura del male a sé, o ad un altro, come se imprecasse.

Il vizio della superbia.

4. [v 6.] Perseguiti pure il nemico la mia anima, e se ne impadronisca. Nominando di nuovo il nemico al singolare indica ancor più chiaramente quello che pnma aveva definito come un leone: è infatti esso stesso che insegue l’anima; e, se riuscirà a sedurla, se ne impadronirà. Gli uomini infatti possono incrudelire fino alla morte del corpo, ma non possono avere in loro potere l’anima dopo questa morte visibile; il diavolo, invece, possederà le anime di cui si sarà impadronito dopo averle inseguite. E calpesti a terra la mia vita, cioè, calpestandola, faccia della mia vita terra, ossia suo cibo. Non soltanto leone, ma anche serpente è chiamato infatti colui al quale fu detto: mangerai la terra (Gn 3,14), così come fu detto all’uomo peccatore: terra sei e alla terra tornerai (Gn 3,19). E la mia gloria trascini nella polvere. Questa è la polvere che il vento spazza via dalla faccia della terra (Cf. Ps 1,4), cioè l’inutile e impotente vanità dei superbi, gonfiata, non solida, come un globo di polvere sollevato dal vento. Giustamente dunque fa qui menzione di quella gloria che non vuole che sia trascinata nella polvere: vuole infatti possederla solida nella coscienza al cospetto di Dio, ove non è vanità alcuna; così come dice l’Apostolo: chi si gloria, si glori nel Signore (1Co 1,31). Questa solidità è trascinata nella polvere se qualcuno, disprezzando per superbia i segreti della coscienza ove solo Dio giudica l’uomo, vuole avere gloria presso gli uomini. Di qui derivano le parole che altrove leggiamo: Dio spezzerà le ossa di coloro che piacciono agli uomini (Ps 52,6). Ma chi ha bene appreso, oppure conosce già il cammino per vincere i vizi, comprende che tale vizio della vanagloria è il solo o quello da cui principalmente devono guardarsi i perfetti, poiché il vizio che per primo sedusse l’anima, è da essa vinto per ultimo. L’inizio di ogni peccato è la superbia; e: l’inizio della superbia dell’uomo è apostatare da Dio (Si 10,15 Si 14).

Il diavolo padre della superbia.

5. [v 7.] Sorgi, Signore, nella tua ira. Perché provoca ancora Dio all’ira colui che abbiamo chiamato perfetto? Non sarebbe invece da ritenersi perfetto piuttosto il martire che, mentre veniva lapidato, disse: Signore, non imputare loro questo peccato (Ac 7 Ac 59)? Oppure [l’anima perfetta] non invoca l’ira contro gli uomini, ma contro il diavolo e gli angeli suoi, nelle cui mani sono i peccatori e gli empi? Non è dunque crudele, ma misericordioso verso il peccatore chiunque prega affinché questo schiavo del diavolo sia liberato dal Signore che giustifica l’empio (Cf. Rm 4,5). Quando, infatti l’empio viene giustificato, da empio diventa giusto, e da possesso del diavolo diviene tempio di Dio. E poiché chiunque è privato del possesso di qualcosa su cui desiderava dominare subisce una pena, chiama questa pena ira di Dio contro il diavolo, perché questi cessi di possedere quanto possiede. Sorgi, Signore, nella tua ira. Qui sorgi vuol dire renditi manifesto, con parole umane e velate, come se Dio dormisse, in quanto è nascosto e sconosciuto nei suoi segreti. Grandeggia, entro i confini dei miei nemici. Chiama confini quel possesso ove vuole che sia innalzato, cioè onorato e glorificato, Dio piuttosto che il diavolo, quando gli empi vengono giustificati e lodano Dio. E sorgi, Signore Dio mio, nel precetto che hai comandato, cioè mostrati umile, giacché hai ordinato l’umiltà; adempi tu per primo ciò che hai comandato, affinché vincendo la superbia con il tuo esempio, [gli uomini] non siano posseduti dal diavolo che istigò alla superbia contro i tuoi ordini, dicendo: mangiate e si apriranno i vostri occhi e sarete come dèi (Gn 3,5).

6. [v 8.] E l’assemblea dei popoli ti circonderà. Possiamo interpretare in due modi queste parole. Si può intendere trattarsi sia dell’assemblea dei popoli dei credenti, come di quella dei persecutori, perché gli uni e gli altri si sono riuniti a cagione della medesima umiltà di nostro Signore. Disprezzando tale umiltà, Lo ha circondato la folla dei persecutori di cui sta scritto: a che scopo hanno mormorato le genti e i popoli hanno tramato cose vane? (Ps 2,1) D’altra parte la moltitudine di coloro che credono grazie alla sua umiltà Lo ha circondato a tal punto che con grande verità è detto: si è verificato l’accecamento di una parte di Israele, affinché entrasse la totalità delle genti (Rm 11,25); e ancora: chiedi a me e ti darò le genti in tua eredità e in tuo possesso i confini della terra (Ps 2,8). E a cagione di questa, ritorna in alto, cioè ritorna in alto a cagione di questa assemblea, il che si comprende che ha compiuto risorgendo e ascendendo al cielo. Così glorificato, infatti, ha donato lo Spirito Santo che non poteva esserci donato prima della sua glorificazione, dato che leggiamo nel Vangelo: ma lo Spirito non era stato ancora donato perché Gesù non era stato ancora glorificato (Jn 7,39). Ritornato dunque in alto a cagione dell’assemblea dei popoli, ha mandato lo Spirito Santo; ripieni di esso, i predicatori del Vangelo hanno riempito di Chiese il mondo intero.

Fede ed incredulità.

7. Le parole: sorgi, Signore, nella tua ira, innalzati entro i confini dei miei nemici, possono essere intese anche in un altro senso: si può intendere, cioè, sorgi nella tua ira e non ti comprendano i miei nemici; in modo che innalzati significhi: lèvati tanto in alto da non essere compreso, il che ben si accorda con quel silenzio [di cui abbiamo parlato]. A proposito di questo innalzarsi, leggiamo in un altro salmo: e salì su un Cherubino e volava. E delle tenebre fece il suo velo (Ps 17,11 Ps 12). In forza di questo innalzamento, ovvero di questo occultamento, poiché non ti avranno compreso - a causa dei loro peccati - coloro che ti crocifiggeranno, ti circonderà l’assemblea dei credenti. È infatti nella sua stessa umiliazione che si è innalzato, cioè non è stato compreso. A questo si debbono riferire le parole: e sorgi, Signore Dio mio, nel precetto che hai comandato: cioè sii alto nel momento in cui sembri umile, in modo che i miei nemici non ti comprendano. I peccatori sono infatti i nemici del giusto, e gli empi del pio. E l’assemblea dei popoli ti circonderà, cioè, per il fatto stesso che non ti conoscono quelli che ti crocifiggono, le genti crederanno in te, e così ti circonderà l’assemblea dei popoli. Ma quel che segue, se veramente ha questo significato, comporta più dolore, dato che già comincia a sentirsi, che gioia di comprendere. Continua infatti: e a cagione di questa, ritorna in alto, cioè a cagione di questa assemblea del genere umano nella quale sono disseminate le chiese, ritorna in alto, ossia cessa di nuovo di farti intendere. Che vuol dire dunque a cagione di questa, se non che ti offenderà anche questa assemblea, tanto che con grande verità profeterai, dicendo: credi che quando verrà il Figlio dell’uomo troverà la fede sulla terra? (Lc 18,8) E del pari, riferendosi ai falsi profeti, nei quali sono designati gli eretici, dice: a cagione della loro iniquità, si raggelerà la carità di molti (Mt 24,12). Quando dunque anche nelle chiese, cioè in quell’assemblea di popoli e di nazioni ove il nome cristiano si è largamente diffuso, avrà tanto dilagato quel cumulo di peccati che già attualmente sentiamo in gran parte, viene qui predetta [che si manifesterà allora] quella fame della parola, che è stata preannunziata anche per bocca di un altro profeta (Cf. Am 8,11). E non è a cagione di questa assemblea, che allontana da sé la luce della verità per i suoi peccati, che Dio ritorna in alto, ossia che nessuno, o soltanto pochissimi - dei quali è detto: beato chi avrà perseverato fino alla fine, perché sarà salvo (Mt 10,22) - potranno conseguire e sperimentare la fede sincera, purificata dalle macchie di tutte le perverse dottrine? Non senza motivo dice perciò: e a cagione di questa assemblea ritorna in alto, cioè allontanati di nuovo nella profondità dei tuoi misteri anche a cagione di questa assemblea di popoli che porta il tuo nome ma non compie le tue opere.

Da Dio abbiamo la santità.

8. [v 9.] Ma, sia più pertinente la prima o la seconda spiegazione di questo passo, senza che si escluda qualche altra spiegazione migliore o di pari valore, molto opportunamente si aggiunge: il Signore giudica i popoli. Se infatti è ritornato in alto quando è asceso in cielo dopo la risurrezione, opportunamente aggiunge: il Signore giudica i popoli, in quanto verrà dall’alto per giudicare i vivi e i morti; se invece è ritornato in alto perché l’intelligenza della verità ha abbandonato i cristiani caduti in peccato (dato che a proposito di tale avvento è detto: credi che venendo il Figlio dell’uomo troverà la fede sulla terra? (Lc 18,8)), opportunamente aggiunge: il Signore giudica i popoli. Quale Signore, se non Gesù Cristo? Poiché il Padre non giudica nessuno, ma ogni giudizio ha dato in mano al Figlio (Jn 5,22). Osserva perciò come quest’anima, che prega in modo perfetto, non tema il giorno del giudizio e in verità dica nella preghiera con tranquillo desiderio: venga il regno tuo (Mt 6,10): Giudicami - dice - Signore, secondo la mia giustizia. Nel salmo precedente il debole scongiurava, implorando la misericordia di Dio piuttosto che menzionando alcun suo merito; perché il Figlio di Dio è venuto a chiamare i peccatori alla penitenza (Cf. Lc 5,32). Per questo motivo diceva in tale salmo: salvami, Signore, per la tua misericordia (Ps 6,5); cioè non a cagione del mio merito. Ora invece, poiché, chiamato, ha abbracciato e osservato i comandamenti che ha ricevuto, osa dire: giudicami, Signore, secondo la mia giustizia, e secondo la mia innocenza [che è] in me. La vera innocenza è quella che non nuoce neppure al nemico. Chiede perciò giustamente di essere giudicato secondo la sua innocenza colui che sinceramente ha potuto dire: se ho ricambiato chi mi ha restituito il male (Ps 7,5). L’aggiunta in me, può essere riferita non soltanto all’innocenza ma anche alla giustizia, in modo che questo sia il senso: giudicami, Signore, secondo la mia giustizia e secondo la mia innocenza, giustizia e innocenza che sono in me. Con questa aggiunta dimostra che l’anima che è giusta e innocente, non lo è per se stessa, ma perché Dio la rischiara e la illumina; a proposito di questo concetto, in un altro salmo dice: tu darai luce alla mia lampada, Signore (Ps 17,29); e di Giovanni leggiamo che non era egli la luce, ma rendeva testimonianza alla luce (Jn 1,8). Egli era lampada che ardeva e risplendeva (Jn 5,35). La Luce dunque dalla quale le anime sono accese come fossero lampade, non rifulge per lo splendore altrui, ma per il proprio, che è la stessa verità. Per questo è detto: secondo la mia giustizia e secondo la mia innocenza in me, come se la lampada che arde e splende dicesse: giudicami secondo la fiamma che è in me; non per quello che io sono, ma perché rifulgo, da te accesa.

La coscienza via per andare a Dio.

9. [v 10.] Ma giunga a consumazione l’iniquità dei peccatori. Giunga a consumazione - dice - cioè si completi, secondo le parole che leggiamo nell’Apocalisse: il giusto divenga più giusto, e il contaminato si contamini ancora di più (Ap 22,11). Malvagità consumata si direbbe infatti quella degli uomini che crocifissero il Figlio di Dio; ma maggiore della loro è l’iniquità di quelli che non vogliono vivere rettamente e hanno odiato i comandamenti della verità per i quali fu crocifisso il Figlio di Dio. Dice: giunga, dunque, a consumazione l’iniquità dei peccatori, cioè raggiunga il colmo dell’iniquità, affinché possa venire finalmente il giusto giudizio. Ma, siccome non è stato detto soltanto: il contaminato si contamini ancora di più, ma anche: il giusto divenga più giusto, continua e dice: e guiderai il giusto, o Dio che scruti i cuori e i reni. Nei primi tempi del Cristianesimo, quando i santi erano ancora oppressi dalla persecuzione dei figli del secolo, vi erano cose che apparivano agli uomini degne di ammirazione; ma ora che il nome cristiano ha incominciato ad essere in così alta considerazione, proprio in quelle cose è cresciuta l’ipocrisia, cioè la simulazione di chi, cristiano solo di nome, preferisce piacere agli uomini anziché a Dio. E allora in qual modo il giusto può essere guidato, se non nell’intimo? In qual modo, insomma, il giusto è guidato in mezzo a tanta confusione di simulazione, se non perché Dio scruta i cuori e i reni, vedendo i pensieri di tutti, che sono significati nel cuore, e i diletti [dei sensi] raffigurati nei reni? Giustamente il piacere [che proviene] dalle cose temporali e terrene è attribuito ai reni, perché è questa la parte inferiore dell’uomo, è questa la sede riservata alla voluttà della generazione carnale per il cui mezzo in questa vita piena di affanni e di ingannevole gioia si trasmette la natura umana, attraverso il succedersi dei figli. Quindi Dio, scrutando il nostro cuore e vedendo perfettamente che esso è là dove è il nostro tesoro (Cf. Mt 6,21), cioè nei cieli; e scrutando nello stesso tempo i reni, e vedendo che noi non accondiscendiamo alla carne e al sangue (Cf. Ga 1,16), ma ci deliziamo nel Signore, guida il giusto dinanzi a sé nella sua coscienza stessa, ove nessun uomo vede, ma solo colui che penetra nei pensieri di ciascuno e vede ciò in cui ognuno trova piacere. Il piacere è infatti il fine dell’affanno: per questo ognuno si sforza, con gli affanni ed i pensieri, di pervenire al suo piacere. Vede dunque le nostre preoccupazioni colui che scruta il cuore; vede poi il fine degli affanni, cioè i piaceri, colui che scruta i reni: in tal modo, quando avrà scoperto che le nostre preoccupazioni non sono dedite alla concupiscenza della carne né a quella degli occhi, e neppure alle ambizioni del secolo - tutte cose che passano come ombre (Cf. Gv 1Jn 2,16 1Jn 17) - ma si elevano alle gioie delle cose eterne che non sono insidiate da nessun mutamento, allora Dio dirige il giusto scrutando cuori e reni. Perché gli uomini possono conoscere le nostre opere che compiamo con le azioni e con le parole, ma con quale animo le compiamo, e dove desideriamo giungere con esse, lo sa solo quel Dio che scruta reni e cuori.

Cristo nostra medicina.

10. [v 11.] Il mio giusto aiuto [procede] dal Signore, che salva i retti di cuore. Due sono i compiti della medicina, risanare le infermità e conservare la salute. Riferendosi al primo compito nel salmo precedente è detto: abbi pietà di me, Signore, perché sono infermo (Ps 6,3); riferendosi all’altro è detto in questo salmo: se c’è iniquità nelle mie mani, se ho ricambiato chi mi ha restituito il male, soccomba pure, misero, ai miei nemici (Ps 7,4 Ps 5). Là l’infermo prega per essere liberato; qui, ormai sano, prega per non ammalarsi: nel primo intento, là dice: salvami per la tua misericordia (Ps 6,5); nel secondo caso, qui dice: giudicami, Signore, secondo la mia giustizia (Ps 7,9). Là chiede il rimedio per sfuggire al male, qui chiede protezione per non ricadere nel male; nel primo caso ha detto: salvami, Signore, secondo la tua misericordia; qui esclama: Il mio giusto aiuto [procede] dal Signore, che salva i retti di cuore. Infatti la misericordia e l’aiuto salvano ambedue; ma la misericordia porta alla salute dalla malattia, l’aiuto conserva nella salute stessa: nel primo caso l’aiuto è misericordioso, perché non ha alcun merito il peccatore che desidera essere giustificato, credendo in colui che giustifica l’empio (Cf. Rm 4,5); qui invece l’aiuto è giusto, perché viene dato a chi è già giusto. Ebbene, il peccatore che ha detto: sono infermo, dica ora: Salvami, Signore, per la tua misericordia! e il giusto che ha detto: se ho ricambiato chi mi ha restituito il male, gridi: Il mio giusto aiuto [procede] dal Signore che salva i retti di cuore. Se infatti il Signore ci porge la medicina per risanarci quando siamo infermi, quanto più ci porgerà la medicina per conservarci in salute? Che se Cristo è morto per noi quando ancora eravamo peccatori, quanto più, ora che siamo giustificati (Cf. Rm 5,8 Rm 9), saremo salvi dall’ira per mezzo di lui?

La sede delle dilettazioni.

11. Il mio giusto aiuto [procede] dal Signore, che salva i retti di cuore. Dio guida il giusto scrutando il cuore e i reni; e con il suo giusto aiuto salva i retti di cuore. Non però allo stesso modo per cui scruta i cuori e i reni, salva anche i retti di cuore e di reni. Infatti i pensieri malvagi si trovano in un cuore perverso, e i pensieri buoni in un cuore retto; i piaceri non buoni, in quanto inferiori e terreni, competono ai reni, mentre i piaceri buoni non riguardano i reni, ma il cuore stesso. Ecco perché non si può parlare di retti di reni come si parla di retti di cuore, poiché dove sono i pensieri, là è presente il godimento; e questo non può accadere se non quando si pensa alle cose divine ed eterne. Perciò ha detto: hai infuso letizia nel mio cuore solo dopo aver detto: è impressa in noi la luce del tuo volto, Signore (Ps 4,7). Infatti, benché i fantasmi delle cose terrene, che l’animo simula a se stesso quando si esalta con speranza inutile e mortale, spesso arrechino una letizia folle e delirante dovuta a vacue immaginazioni, tuttavia non dobbiamo attribuire questo piacere al cuore, ma ai reni; perché tutte quelle fantasie scaturiscono dalle cose inferiori, cioè dalle cose carnali e terrene. Accade perciò che Dio, scrutando cuori e reni, se vede nel cuore retti pensieri, e nessun piacere nei reni, offre il suo giusto aiuto ai retti di cuore, nei quali sublimi delizie si associano a puri pensieri. Per questo in un altro salmo, dopo aver detto: perfino nella notte mi castigarono i miei reni, subito parla dell’aiuto, dicendo: vedevo sempre il Signore al mio cospetto, giacché è alla mia destra perché io non vacilli (Ps 15,7 Ps 8). Mostra cioè di avere subito soltanto tentazioni da parte dei reni, non di aver provato anche dei piaceri, perché di certo avrebbe vacillato se anche questi avesse sentito. E dopo aver detto: il Signore è alla mia destra perché io non vacilli, aggiunge: per questo si è allietato il mio cuore (Ps 15,9), in quanto i reni hanno potuto metterlo alla prova, non dilettarlo. Perciò la gioia è suscitata non nei reni, ma là dove Dio ha procurato di essere alla destra per opporsi alle tentazioni dei reni, ossia nel cuore.

Il giudizio giorno d'ira.

12. [v 12.] Dio giudice giusto, forte e longanime. Quale Dio è giudice, se non il Signore, che giudica i popoli? Egli stesso è il giusto, che renderà a ciascuno secondo le sue opere (Cf. Mt 16,27); è il forte, che, pur essendo potentissimo, ha sopportato per la nostra salvezza anche gli empi persecutori; è il longanime, che non ha precipitato nel supplizio, subito dopo la sua risurrezione, coloro che lo avevano perseguitato, ma li ha tollerati affinché una buona volta si convertissero dall’empietà alla salvezza; e ancora li sopporta riservando l’ultima pena per l’ultimo giudizio, ed invitando anche ora i peccatori alla penitenza. Che non suscita l’ira ogni giorno. È forse più efficace dire: suscita l’ira, anziché si adira (come abbiamo letto in molti esemplari greci), in quanto l’ira con la quale punisce non è in lui, ma negli animi dei suoi ministri che osservano i comandamenti della verità, e per cui mezzo viene trasmesso l’ordine di punire i peccati anche ai ministri di grado inferiore, chiamati angeli dell’ira i quali si compiacciono del castigo inflitto agli uomini non a cagione della giustizia, nella quale non trovano gioia, ma a cagione della malvagità. Dio, dunque, non suscita l’ira ogni giorno, cioè non convoca tutti i giorni i suoi ministri per la vendetta. Infatti, ora, la pazienza di Dio invita alla penitenza; ma nell’ultima ora, quando gli uomini, per la loro ostinazione e il loro cuore non rinnovato, avranno accumulato per sé l’ira per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio (Cf. Rm 2,5), [il Signore] vibrerà la sua spada.

13. [v 13.] Se non vi convertite - dice - vibrerà la sua spada. Si può vedere anche l’Uomo del Signore nella spada di Dio a due tagli, cioè nella lancia, che nel primo avvento non ha vibrato, ma ha nascosto come nel fodero dell’umiltà; la vibrerà però quando, venendo nel secondo avvento per giudicare i vivi e i morti nel manifesto splendore della sua gloria, balenerà luce per i suoi giusti e terrore per gli empi. Al posto di vibrerà la sua spada, leggiamo infatti in altri codici le parole: la sua lancia farà sfolgorare; espressione che mi sembra significare in modo assai efficace l’ultimo avvento dello splendore del Signore, se si intende riferito alla sua stessa persona ciò che reca un altro salmo: libera, Signore, la mia anima dagli empi, la tua lancia dai nemici della tua mano (Ps 16,13). Ha teso il suo arco, e lo ha preparato. Non dobbiamo dimenticare e trascurare i tempi dei verbi: ha detto infatti, al futuro, che vibrerà la spada, e, al passato, che ha teso l’arco; seguono poi altri verbi al tempo passato.

14. [v 14.] E in esso ha preparato strumenti di morte; ha forgiato le sue frecce per coloro che ardono. Propendo a ritenere che questo arco siano le Sante Scritture, dove la durezza del Vecchio Testamento è stata piegata e domata dal vigore del Nuovo Testamento, quasi fosse un nerbo. È da esso che sono inviati, come frecce, gli Apostoli; di qui sono lanciati gli annunzi divini. Queste frecce egli ha forgiate per coloro che ardono, ossia perché, da esse percossi, si infiammino di amore divino. Da quale altra freccia è colpita infatti colei che dice: introducetemi nella cella del vino, mettetemi in mezzo ai profumi, collocatemi tra il miele, perché sono ferita d’amore (Ct 2,4 sec. LXX)? Da quali altre frecce è infiammato colui che, anelando di andare a Dio e di far ritorno da questo esilio, chiede aiuto contro le lingue ingannatrici, e a lui è detto: cosa ti sarà dato, o che cosa ti sarà apprestato contro la lingua ingannatrice? Le frecce aguzze del potente, con i carboni devastatori (Ps 119,3 Ps 4)? In modo cioè che, ferito e infiammato da essi, tu arda di tanto amore per il regno dei cieli, da disprezzare le lingue di tutti coloro che ti si oppongono e vogliono distoglierti dal tuo proposito, e da deridere le loro persecuzioni dicendo: chi mi separerà dall’amore di Cristo? Le tribolazioni, le ristrettezze, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Sono certo infatti - dice - che né la morte, né la vita, né l’angelo, né il principato, né le cose di oggi, ne quelle future, né la virtù, né l’altezza, né la profondità, né un’altra creatura potrà separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù nostro Signore (Rm 8,35 Rm 38 Rm 39). Così ha forgiato le sue frecce per coloro che ardono. Leggiamo infatti nei codici greci: ha forgiato le sue frecce per coloro che ardono. Molti codici latini recano invece: ha reso infuocate le sue frecce. Ma sia che le frecce stesse ardano, sia che facciano ardere, cosa che non potrebbero fare se non ardessero esse stesse, il senso permane inalterato.

15. Ma poiché ha detto che il Signore ha preparato nell’arco non soltanto le frecce, ma anche gli strumenti di morte, possiamo chiederci quali siano questi strumenti. Sono forse gli eretici? Anch’essi infatti balzano fuori dal medesimo arco, cioè dalle medesime Scritture, sulle anime, non per infiammarle d’amore, ma per ucciderle con i veleni, il che non accade però senza loro colpa. Anche tale disposizione è perciò da attribuirsi alla provvidenza divina, non perché sia essa che crea i peccatori, ma perché sa disporre al bene anche il loro peccato. Infatti, leggendo con perversa disposizione a causa del peccato, gli eretici necessariamente comprendono male, tanto che proprio in questa errata comprensione sta la pena del peccato medesimo; ma dalla loro morte i figli della Chiesa cattolica sono svegliati dal sonno, come da altrettante spine, e progrediscono nella intelligenza delle Scritture divine. Bisogna infatti che vi siano le eresie, affinché i provati divengano manifesti tra voi (1Co 11,19), cioè tra gli uomini, poiché già sono conosciuti da Dio. Oppure ha preparato le frecce stesse e gli strumenti di morte per la rovina degli infedeli, e ha forgiato quelle ardenti - o per coloro che ardono - allo scopo di esercitare i fedeli nella virtù? Non sono false infatti le parole dell’Apostolo: per alcuni siamo odore di vita per la vita, per altri odore di morte per la morte: e a tali cose chi è adatto? (2Co 2,16) Non c’è quindi da stupirsi che gli Apostoli stessi siano strumenti di morte per coloro dai quali hanno subìto persecuzioni, e frecce infuocate per infiammare i cuori dei credenti.

16. [v 15.] Dopo questa “economia” verrà il giusto giudizio, del quale ci parla in modo da farci comprendere che per ogni uomo il supplizio nasce dal suo peccato, e la sua iniquità si tramuta in pena: non dobbiamo infatti credere che la tranquillità e la luce ineffabile di Dio suscitino in sé il castigo con cui vengono puniti i peccati, ma che ordinino i peccati stessi in modo tale che le cose che sono state delizia per l’uomo peccatore, divengano gli strumenti per il Signore che punisce. Ecco, dice, ha partorito ingiustizia. Che cosa ha concepito per partorire ingiustizia? Aggiunge: ha concepito travaglio. Derivano da qui le parole: nel travaglio mangerai il tuo pane (Gn 3,17); ed anche le altre: venite a me tutti voi che siete travagliati e aggravati. Perché il mio giogo è dolce e il mio peso lieve (Mt 11,28 Mt 30). Il travaglio non potrà infatti avere fine se ognuno di noi non amerà ciò che non gli potrà essere tolto contro la sua volontà. Se si amano infatti le cose che possiamo perdere anche contro la nostra volontà, è inevitabile che ci affatichiamo miserevolmente per esse; e, per ottenerle, in mezzo alle angustie delle difficoltà terrene, quando uno desidera rubarle per sé, prevenire l’altro o strapparle all’altro, macchiniamo ingiustizie. A ragione dunque, e secondo l’ordine, chi ha concepito il travaglio partorisce ingiustizia. Dà alla luce quel che ha partorito, anche se non partorirà ciò che ha concepito: non nasce ciò che è stato concepito, ma si concepisce il seme e nasce ciò che si forma dal seme. Il travaglio dunque è il seme dell’iniquità; e la concezione del travaglio è il peccato, cioè quel primo peccato che consiste nell’apostatare da Dio (Cf. Si 10,14). Insomma, chi ha concepito il travaglio ha partorito l’ingiustizia. E ha generato iniquità. L’iniquità non è altro che l’ingiustizia; cioè ha dato alla luce ciò che ha partorito. Che cosa segue?

17. [v 16.] Ha aperta una buca e l’ha scavata. Aprire una buca nelle cose terrene è come preparare una trappola nella terra, nella quale cada colui che l’ingiusto vuole ingannare. Si apre pertanto questa buca quando si acconsente alle malvage suggestioni dei desideri terreni; e la si scava quando, dopo il consenso, si insiste nell’azione dell’inganno. Ma come può accadere che l’iniquità ferisca l’uomo giusto, contro cui è diretta, prima del cuore ingiusto dal quale procede? Così, tanto per fare un esempio, colui che froda il denaro, mentre desidera far male ad altri, è a sua volta lacerato dalla ferita dell’avarizia. Ma chi è tanto stolto da non vedere quanta differenza vi sia tra costoro, dato che quello subisce danno nel denaro, questo nell’innocenza? Cadrà, dunque, nella fossa che ha fatta. Lo stesso concetto troviamo in un altro salmo: è conosciuto il Signore nel fare giustizia, il peccatore è preso nelle opere delle sue mani (Ps 9,17).

18. [v 17.] Il suo male ricadrà sul suo capo, e discenderà sulla sua testa la sua iniquità. Egli non ha voluto infatti sfuggire al peccato; ma sotto il peccato è divenuto come uno schiavo, così come dice il Signore: chiunque pecca, è schiavo (Jn 8,34). Quindi l’iniquità si porrà al di sopra di lui, quando egli si fa suddito della sua ingiustizia e non può perciò dire al Signore ciò che dicono gli innocenti e retti: tu mia gloria, e colui che levi in alto il mio capo (Ps 3,4). Tanto egli sarà in basso che la sua ingiustizia lo sovrasta e discende su di lui, perché lo appesantisce, lo schiaccia, e non gli consente di ritornare in volo nella pace dei santi. Questo accade quando nell’uomo perverso la ragione è schiava e il piacere domina.

L'essere è luce.

19. [v 18.] Confesserò al Signore secondo la sua giustizia. Non è questa la confessione dei peccati. Qui parla infatti colui che prima diceva con grande verità: se c’è iniquità nelle mie mani.È la confessione della giustizia di Dio, nella quale così diciamo: veramente, Signore, tu sei giusto, perché tanto proteggi i giusti che li illumini mediante te stesso, e fai in modo che i peccatori siano puniti non dalla tua, ma dalla loro malvagità. Questa confessione loda a tal punto il Signore, che più a nulla valgono le bestemmie degli empi, i quali, volendo scusare i loro delitti non vogliono imputare i propri peccati a loro colpa, cioè non vogliono imputare a loro colpa la loro stessa colpa. Trovano modo perciò di accusare o la fortuna o il destino; oppure il diavolo, mentre colui che ci ha creati ha posto in nostro potere la facoltà di non consentire ad esso; oppure tirano in ballo un’altra natura, che non procederebbe da Dio, oscillando miseri e vagando piuttosto che confessare Dio perché li perdoni. Il perdono conviene infatti solo a colui che dice: ho peccato. Orbene, chi comprende che i meriti delle anime sono ordinati da Dio in modo che, mentre a ciascuno viene dato il suo, in nessuna parte sia violata la bellezza dell’universo, loda Dio in ogni cosa: e questa è la confessione dei giusti, quella nella quale il Signore dice: ti confesso, Signore del cielo e della terra, perché hai tenute nascoste queste cose ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli (Mt 11,25). Del pari nell’Ecclesiastico è detto: confessate il Signore in tutte le sue opere. E questo confesserete: che ottime sono tutte le opere del Signore (Si 39,19-21). Il che si può intendere anche in questo salmo se uno, con pia intenzione e con l’aiuto del Signore, discerne tra i premi dei giusti e i supplizi dei peccatori in qual modo da queste due disposizioni l’intera creazione, che Dio governa dopo averla creata, è adornata con meravigliosa bellezza che a pochi è nota. Dice pertanto: confesserò al Signore secondo la sua giustizia, come chi abbia visto che le tenebre non furon create da Dio, ma tuttavia ordinate da lui. Dio ha detto infatti: sia fatta la luce, e la luce fu fatta (Gn 1,3). Non ha detto: siano fatte le tenebre e le tenebre furono fatte, tuttavia ha ordinato anche le tenebre. Per questo leggiamo: Dio separò la luce dalle tenebre, e chiamò la luce giorno e le tenebre notte (Gn 1,4 Gn 5). Ecco la distinzione: una cosa ha fatta e ha ordinata; mentre un’altra cosa non ha fatta, e tuttavia ha ordinato anche questa. Che nelle tenebre siano significati i peccati, si legge già nel profeta: e le tue tenebre saranno come il mezzogiorno (Is 58,10); e nell’Apostolo che dice: Chi odia il suo fratello è nelle tenebre (1 Gv 1Jn 2,11); e soprattutto nelle parole: spogliamoci delle opere delle tenebre e rivestiamoci delle armi della luce (Rm 13,12). Questo non vuol dire che esista una natura propria delle tenebre: infatti ogni natura, in quanto è natura è necessariamente essere. E poiché l’essere attiene alla luce e il non essere alle tenebre, chi dunque abbandona colui dal quale è fatto, per decadere in ciò di cui fu fatto, cioè nel nulla, diviene tenebra in questo peccato; e tuttavia non perisce del tutto, ma si colloca nell’estrema bassezza. Per questo dopo aver detto: confesserò al Signore, per farci intendere che non si tratta della confessione dei peccati, aggiunge come conclusione: e inneggerò al Nome del Signore Altissimo. Poiché alla gioia appartiene l’inneggiare, mentre la penitenza dei peccati appartiene al dolore.

20. Questo salmo può intendersi anche (riferito) alla persona dell’Uomo del Signore, purché le cose che in esso esprimono debolezza sian riferite all’infermità della nostra natura da lui assunta.


Agostino Salmi 6