Agostino Salmi 11813

SULLO STESSO SALMO 118

11813 Ps 118

DISCORSO 12

In attesa della salvezza definitiva, gemiamo fra le vanità.

1. [v 37.] Nel salmo che stiamo esponendo siamo arrivati alle parole : Distogli i miei occhi dal vedere la vanità, nella tua via ridammi vita. Diametralmente opposte sono fra loro vanità e verità. Il mondo con le sue cupidige è vanità ; la verità invece è Cristo, che ci libera dal mondo. Egli è anche la via, nella quale il salmista si augura d’essere vivificato, in quanto il medesimo Cristo è anche la vita. Diceva infatti : Io sono la via, la verità e la vita (Jn 14,6). Ma che significa : Distogli i miei occhi dal vedere la vanità ? È mai possibile, finché siamo in questo mondo, non vedere la vanità, se sta scritto : Ogni creatura è soggetta alla vanità (Rm 8,20) ? Da queste parole si comprende che la vanità è nell’uomo, anzi, tutto è vanità. Cosa ne viene all’uomo da tutti i lavori che affronta sotto il sole ? (Qo 1,2-3) Pregherà forse il salmista perché la sua vita non trascorra sotto il sole, dove ogni cosa è vanità, ma sia [nascosta] in colui presso il quale chiede di trovare la vita ? E difatti Cristo ascese non solamente al di sopra del sole ma sopra tutti i cieli per riempire ogni cosa (Ep 4,10) ; e in lui, non nell’orbita del sole, vivono quanti ascoltano fruttuosamente l’esortazione dell’Apostolo : Cercate le cose di lassù, dove è Cristo, assiso alla destra del Padre ; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Poiché siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio (Col 3,1). Pertanto, se la nostra vita è là dov’è la verità, non sarà sotto il sole, dove regna la vanità. Purtroppo però di una meta così luminosa abbiamo soltanto la speranza, non il possesso effettivo ; e le parole che diceva l’Apostolo le diceva contemperandosi alla nostra speranza. Tant’è vero che anche in quell’altro testo : La creazione è soggetta alla vanità, egli si sentì in dovere di aggiungere [la precisazione] : Non per sua scelta ma a causa di colui che ve la sottopose nella speranza (Rm 8,20). Provvisoriamente quindi noi siamo soggetti alla vanità, anche se abbiamo la speranza che un giorno contempleremo la verità e le saremo totalmente uniti. Difatti tutta la creazione di cui l’Apostolo parla, cioè tanto gli esseri spirituali quanto quelli materiali, animati o no, si ritrovano nell’uomo, o meglio sono l’uomo. La creazione quindi peccò deliberatamente e divenne nemica della verità e per questo fu giustamente punita divenendo, sia pure contro sua voglia, soggetta alla vanità. Continua infatti, dopo un poco, l’Apostolo : Né soltanto essa, ma anche noi stessi, che pure abbiamo le primizie dello spirito (Rm 8,23). Cioè : per quanto non ancora con tutto il nostro essere ma soltanto con quella porzione che ci rende superiori ai bruti, cioè con le primizie dello spirito, noi siamo soggetti a Dio, non alla vanità. Nonostante questo, però, anche noi gemiamo aspettando l’adozione, cioè la redenzione del nostro corpo. Nella speranza siamo stati salvati ma quando quel che si spera si vede, codesta non è più speranza ; perché chi già vede una cosa, come fa a sperarla ancora ? Che se invece speriamo quel che non vediamo, allora l’aspettiamo con pazienza (Rm 8,25). Finché dunque siamo sulla terra e portiamo il corpo di carne (quel corpo di cui, con la pazienza che è frutto della speranza, aspettiamo l’adozione e la redenzione), finché cioè viviamo sotto il sole, per questi elementi condizionati dal tempo noi siamo soggetti alla vanità. Sorge allora la domanda : Finché siamo in tali condizioni, come possiamo non vedere la vanità se ad essa, sia pure sorretti dalla speranza, siamo sottoposti ? E come intendere le parole del salmo : Distogli i miei occhi affinché non vedano la vanità ? Non chiederà per caso che le sue aspettative si adempiano non in questa vita, che è all’insegna della speranza, ma quando a suo tempo si troverà nella sorte felice di veder realizzate le sue aspirazioni ? Quando cioè egli sarà liberato dall’asservimento alla corruzione e con lo spirito, l’anima e il corpo entrerà nella libertà gloriosa dei figli di Dio (Rm 8,21), dove finalmente non avrà più da vedere la vanità ?

Dio, ricompensa della nostra vita buona.

2. In effetti le parole del salmo si potrebbero intendere in questa maniera, né sarebbe questa una interpretazione contraria alla norma della fede. Tuttavia il testo è suscettibile d’un’altra spiegazione che, lo dico francamente, a me piace di più. Dice il Signore nel Vangelo : Se il tuo occhio è limpido tutto il tuo corpo sarà luminoso. Se invece il tuo occhio è torbido tutto il tuo corpo sarà nelle tenebre. Se dunque la luce che è in te è oscurità, quanto grandi saranno le tenebre ! (Mt 6,22-23) È di somma importanza, cioè, che noi, quando compiamo un’opera buona, badiamo al fine in vista del quale la compiamo. Infatti il nostro dovere si valuta non sulla base dell’opera compiuta ma sul fine per cui la si compie. In altre parole, dobbiamo pensare non soltanto se sia buona l’opera compiuta ma anche, e soprattutto, se sia buono il fine per cui la compiamo. Ora il salmista prega che siano distolti dalla vanità (cosicché non la vedano) quegli occhi con i quali fissiamo le finalità che ci proponiamo nel nostro agire. Non vuole essere incantato dalla vanità né agire per suo influsso, allorché compie il bene. Nella vanità poi occupa il primo posto la ricerca del plauso degli uomini. Per suo amore compirono gesta notevoli coloro che passano come i grandi del mondo e che nel mondo pagano hanno riscosso i più grandi elogi. Essi ambivano la gloria non presso Dio ma presso gli uomini, e per ottenerla vissero con prudenza, fortezza, temperanza e giustizia. La raggiunsero di fatto e ne ricevettero adeguata ricompensa. Essendo vani, la loro ricompensa fu la vanità, quella vanità da cui il Signore voleva fossero distolti gli occhi dei suoi fedeli. Per questo diceva : Badate a non compiere le vostre opere buone dinanzi agli uomini per essere veduti da loro, altrimenti non ne avrete la ricompensa dal Padre vostro che è nei cieli (Mt 6,1). Scende poi ad aspetti particolari della giustizia stessa e imparte precetti riguardo all’elemosina, all’orazione e al digiuno ; ma sempre ammonisce di non agire con l’intenzione di ottenere la lode degli uomini. Anzi afferma che chi si comporta in questa maniera ha già ricevuto la sua ricompensa. Non otterrà quindi la ricompensa eterna che è riservata ai santi presso il Padre, ma la ricompensa di cui vanno a caccia coloro che nelle loro opere si prefiggono la vanità. Non che sia da disapprovarsi la lode umana in se stessa (cos’altro mai infatti dovrebbero desiderare gli uomini se non il piacere di quelle cose cui debbono conformare la propria vita ?) ; ma il compiere il bene in vista del plauso degli uomini, questo è un agire da persone incantate dalla vanità. Che se al giusto viene tributata dai propri simili una qualche lode, piccola o grande che sia, egli non deve fare di essa il fine del suo retto agire, ma la stessa lode che riceve deve essere riferita a lode di Dio, per dono del quale compiono il bene coloro che sono veramente buoni. Se infatti sono buoni, non lo sono di per se stessi ma per un dono del Signore. Lo segnalava nello stesso discorso il Signore, quando ai discepoli diceva : Risplenda la vostra luce dinanzi agli uomini, in modo tale che vedendo le vostre opere buone diano gloria al Padre vostro che è nei cieli (Mt 5,16). Ecco il fine che ci propone : la gloria di Dio, e a tal fine dobbiamo noi mirare quando compiamo il bene, se vogliamo che i nostri occhi siano effettivamente distolti dalla vanità. Quindi, il fine per cui agiamo bene non sia mai quello di ottenere il consenso degli uomini ; e se dalla gente ci vengono elogi, indirizziamoli a chi di dovere : riferiamo ogni cosa a lode di Dio, da cui ci viene tutto quello che la gente, senza sbagliarsi, trova in noi di lodevole. Ma c’è di più. Se è vano compiere il bene per conseguire il plauso degli uomini, quanto più lo sarebbe se lo si compisse per ricavarne denaro, per accumulare tesori o conservarne la proprietà o per ottenere un qualche altro vantaggio, sempre d’ordine materiale, che ci toccasse solo dall’esterno ? Veramente tutto è vanità e quale vantaggio ha l’uomo da tutta la stia fatica con cui si affanna sotto il sole ? (Qo 1,2-3) Nel fare il bene non dobbiamo avere come movente nemmeno la nostra salute corporale, ma la salvezza che speriamo nella eternità, quando godremo del bene immutabile : bene che ci sarà donato da Dio, che anzi sarà Dio stesso. Se infatti i santi di Dio avessero compiuto il bene per amore della loro salute corporale, non si sarebbero mai avuti i martiri di Cristo che per compiere l’opera buona della loro professione di fede sacrificarono la loro stessa vita. Essi al contrario ricevettero la forza dalla tribolazione né volsero lo sguardo alla vanità, considerando vana la stessa salute fisica dell’uomo (Cf. Ps 59,13). Non si attaccarono [smodatamente] al giorno dell’uomo (Cf. Jr 17,16), perché l’uomo rientra nella dimensione della vanità e i suoi giorni passano come ombra (Cf. Ps 143,4).

Doni divini sono la riuscita nel bene e il timore salutare.

413 3. [v 38.] Fra le cose che, a quanto sembra, sono in nostro potere c’è la facoltà di distogliere gli occhi perché non si posino sulla vanità. Se quindi si prega Dio affinché ci conceda tale riuscita, cos’altro si fa se non sottolineare l’apporto della sua grazia ? Ci sono stati infatti certuni che ritenevano di poter diventare giusti e buoni con le loro proprie forze. In tal modo però essi non distoglievano gli occhi dalla vanità. Preferivano alla gloria di Dio la gloria umana (Cf. Jn 12,43) : erano uomini e per di più uomini infatuati di se stessi e presuntuosi delle capacità del proprio libero arbitrio. Ma tutto questo è vanità e presunzione di spirito (Cf. Qo 6,9). Al riguardo ha detto il salmista : Distogli i miei occhi affinché non vedano la vanità ; nella tua via fammi vivere. E siccome la via [di Dio] non è vanità ma verità, eccolo soggiungere : Conferma nel tuo servo la tua parola affinché progredisca nel tuo timore. Cosa significa questa invocazione se non : “ Dammi la forza di eseguire ciò che mi ordini ? ”. La parola di Dio infatti non è stabile in coloro che se la scrollano di dosso e la trasgrediscono, ma in coloro che l’osservano costantemente. Dio, comunque, conferma la sua parola, sicché conduce al [possesso del] suo timore, in coloro ai quali dà lo spirito di questo suo timore : non quel timore di cui l’Apostolo dice : Voi non avete ricevuto lo spirito di servi per cui dobbiate ancora essere nel timore (Rm 8,15) (il quale timore viene escluso dalla carità perfetta (Cf. Gv 1Jn 4,18)), ma quel timore che il Profeta chiama spirito del timore di Dio (Cf. Is 11,3). È un timore casto, un timore che rimane in eterno (Cf. Ps 18,10). È il timore per il quale si teme di offendere la persona amata. Diverso infatti è il timore che hanno nei riguardi del marito la moglie adultera e la moglie casta : la prima teme che torni a casa, la seconda teme che se ne vada e la lasci sola.

Non giudichiamo, per non essere giudicati.

4. [v 39.] Dice : Fa’ cessare il mio disonore che io ho sospettato, perché i tuoi giudizi sono soavi. Chi può nutrire sospetti nei riguardi d’un disonore personale e non piuttosto esserne pienamente consapevole ? Ciascuno infatti ben conosce il suo disonore, a differenza di quello altrui : per cui, se si può sospettare sul conto degli altri, non si può fare altrettanto quando si tratta di noi stessi, poiché il sospetto implica ignoranza e quindi in fatto di disonore personale, essendoci l’attestato della coscienza, c’è piena cognizione e non un vago sospetto. Quale allora il significato delle parole : Fa’ cessare il mio disonore che io ho sospettato ? Occorre ricavarlo dal testo precedente. In effetti, quando uno non distoglie gli occhi dal fissare la vanità, sospetta sempre che negli altri capiti la stessa cosa che avviene in lui. E cioè : siccome lui serve Dio e compie il bene per secondi fini, immagina che per gli stessi motivi agiscano anche gli altri. Questo succede perché gli estranei, se possono osservare le azioni che compiamo, rimane loro nascosto il motivo per il quale le compiamo. Da qui i sospetti. L’estraneo si sente autorizzato a sentenziare su ciò che non conosce del suo prossimo e quindi formula sospetti che il più delle volte si rivelano falsi o, se veri, riguardano cose sconosciute, per cui il sospetto è temerario. Ascoltiamo il Signore. Parlando del fine per il quale dobbiamo compiere la nostra giustizia, egli volle impedire che i nostri occhi fissassero la vanità, e per questo ci proibì di compiere il bene per ottenere lodi dagli uomini. Diceva : Badate di non fare le vostre opere buone dinanzi agli uomini per essere veduti da loro. Ci proibì ancora di essere giusti per accumulare ricchezze, dicendo : Non ammassate tesori sulla terra ; e ancora : Voi non potete servire Dio e mammona. Anzi, giunse a direi che nemmeno per procurarci le cose indispensabili come il vitto e il vestito dobbiamo compiere il bene. Non preoccupatevi - diceva - per la vostra vita di cosa mangerete né per il vostro corpo di cosa vestirete (Cf. Mt 6,1 Mt Mt 6,19 Mt Mt 6,24-25). Dopo tutte queste prescrizioni aggiunse : Non giudicate per non essere voi stessi giudicati (Mt 7,1). Motivo di questa aggiunta è da ricercarsi nel fatto che noi quando vediamo gli altri compiere il bene, non sapendo con quale intenzione lo facciano, potremmo sospettare che nelle opere buone siano animati da finalità mondane. Non diversamente il salmista. Avendo detto : Fa’ cessare il mio disonore che io ho sospettato, aggiunge : poiché, i tuoi giudizi sono soavi, cioè : i tuoi giudizi sono veri. Da innamorato della verità egli grida che quanto è vero è anche soave ; mentre i giudizi degli uomini nei confronti dei propri simili e dei loro segreti sono temerari e quindi non soavi. Se pertanto egli parla d’un suo disonore che ha sospettato negli altri, è perché c’è della gente che non capisce le parole dell’Apostolo che deplora chi confronta sé con se stesso (2Co 10,12). E in realtà l’uomo propende a sospettare negli altri quel che riscontra in se stesso. Questo disonore, che aveva avvertito in se stesso e sospettato negli altri, chiede ora il salmista che gli venga tolto, per non diventare simile al diavolo che, volendo penetrare nell’intimo del santo Giobbe, avanzò il sospetto che egli onorasse Dio per secondi fini. Tant’è vero che chiese il permesso di tentarlo per trovare una colpa da rinfacciargli (Cf. Jb 1,9).

L’invidia genera sospetti, la carità li elimina.

5. [v 40.] Chi fa avanzare sospetti (e talvolta anche volentieri) sul disonore del prossimo altri non è se non l’invidia. È lei che, non potendo attaccare l’opera buona in se stessa in quanto è manifesta e la si può controllare, attacca il motivo per cui è stata compiuta : il quale, per essere occulto, sfugge a ogni controllo. Può quindi a suo agio sospettare male di chi le pare e piace, dal momento che non vede ciò che è di natura sua occulto, mentre ha in uggia ciò che le è superiore. Contro questo vizio, che porta l’uomo a sospettare nell’altro il male che non vede, occorre avere la carità, la quale non è invidiosa (Cf. 1Co 13,4). Tale carità inculcava, come precetto fondamentale, nostro Signore quando diceva : Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate gli uni gli altri. E ancora : Da questo tutti conosceranno che siete miei discepoli, se vi amerete scambievolmente (Jn 13,34-35). Unificando poi l’amore di Dio e l’amore del prossimo diceva : In questi due comandamenti si compendia tutta la Legge e i Profeti (Mt 22,40). Anche il salmista desidera che gli venga reciso il disonore del suo sospetto, e per questo dice : Ecco, io ho amato i tuoi comandamenti ; nella tua giustizia fammi vivere. Ecco, ho desiderato amare te con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente ; ho desiderato amare il mio prossimo come me stesso. Nella tua giustizia fammi vivere, non nella mia. Cioè : riempimi di carità, della quale io ho desiderio. Aiutami a praticare ciò che mi inculchi ; dammi tu stesso quel che mi comandi. Nella tua giustizia fammi vivere : poiché io ho trovato in me di che morire ma di che vivere non lo trovo se non in te. La tua giustizia è Cristo, il quale da Dio è stato reso per noi e sapienza e giustizia e santificazione e redenzione, affinché, come sta scritto, chi si gloria si glori nel Signore (1Co 1,30-31). In lui trovo i tuoi precetti, che io ho desiderato affinché tu nella tua giustizia, cioè in Cristo, mi conducessi alla vita. Egli infatti è il Verbo, è Dio, e se egli, il Verbo, si è fatto carne (Cf. Jn 1,14). Vi Si è fatto per essermi vicino.

SULLO STESSO SALMO 118

11814 Ps 118

DISCORSO 13

Figli della promessa per un dono della misericordia divina.

1. [v 41.] Il presente discorso riguarda ancora il salmo che fra tutti è il più lungo, e si ricollega all’altro che vi abbiamo tenuto poc’anzi. Ha per tema le parole con cui il salmo stesso continua, e cioè : E venga su di me la tua misericordia, Signore. È una frase che, a quanto sembra, si riallaccia alla precedente. Non dice infatti : Venga su di me, ma : E venga. Ora la frase antecedente suonava così : Ecco, io ho amato i tuoi comandamenti ; nella tua giustizia fammi vivere. Continuandola dice : E venga su di me la tua misericordia, Signore. Cosa chiede con queste parole se non di attuare, aiutato dalla misericordia di colui dal quale gli viene il precetto, i comandamenti che già prima desiderava ? Con quel che aggiunge vuole come spiegarci il senso di quella espressione : Nella tua giustizia fammi vivere. Dice infatti : E venga su di me la tua misericordia, Signore : la tua salvezza, in conformità della tua parola, cioè della tua promessa. È in relazione a questo che l’Apostolo ama considerarci figli della promessa (Rm 9,8), sicché noi, tutto ciò che siamo, non lo riteniamo nostro ma l’attribuiamo totalmente alla grazia di Dio. Cristo infatti è stato fatto da Dio sapienza per noi e giustizia e santificazione e redenzione, affinché, come sta scritto, chi si gloria si glori del Signore (1Co 1,30-31). Dunque, quando il salmista dice : Nella tua giustizia fammi vivere, desidera senza dubbio essere vivificato in Cristo ; e questa è la misericordia che invoca su di sé : lo stesso Cristo, il quale è la salvezza di Dio. Parlando di Cristo salvezza, spiega quale fosse la misericordia a cui si riferivano le parole : E venga su di me la tua misericordia, Signore. Se dunque vogliamo assodare cosa sia questa misericordia, ascoltiamo quanto il salmo aggiunge e cioè : La tua salvezza, in conformità della tua parola. Si tratta della promessa fatta da colui che chiama le cose che non sono come se fossero (Rm 4,17). Difatti al tempo della promessa le stesse persone cui la promessa era indirizzata non esistevano, per cui nessuno può gloriarsi dei propri meriti. Gli stessi destinatari della promessa sono in effetti oggetto della promessa, sicché tutto il corpo di Cristo ha da dire : Per grazia di Dio sono quello che sono (1Co 15,10).

Non temere gli insulti per il nome di Cristo.

2. [v 42.] Dice : E risponderò a coloro che mi rinfacciano la parola. È incerto se si debba leggere : Mi rinfacciano la parola, ovvero : Risponderò la parola ; ma in ogni caso il testo parla di Cristo. È lui infatti che ci rinfacciano coloro per i quali il Crocifisso è uno scandalo o una insensatezza (Cf. 1Co 1,23). Essi non sanno che la Parola si è fatta carne ed ha abitato fra noi : quella Parola che era in principio, che era presso Dio ed era Dio (Cf. Jn 1,14 Jn 1,1. È vero che quanti ci rinfacciano la Parola non si rendono conto di quale Parola si tratti, come è vero che non conoscevano la sua divinità quanti ne disprezzavano la debolezza quando era sulla croce. Noi tuttavia rispondiamo che si tratta proprio della Parola ; non spaventiamoci né vergogniamoci degli insulti. Se infatti essi avessero potuto riconoscere quella Parola, mai avrebbero crocifisso il Signore della gloria (Cf. 2, 8). In grado però di rispondere la Parola chi lo insulta è colui sul quale è scesa la misericordia di Dio : colui cioè nel quale è venuta, proteggerlo non schiacciarlo, la stessa salvezza del Signore. Il Signore infatti da certuni verrà, ma per schiacciarli ; questi sono coloro che ora ne disprezzano l’umile condizione, sicché inciampando in lui, un giorno saranno sconvolti. Se ne parla nel Vangelo. Chi cadrà su questa pietra dice sarà sfracellato, [la pietra] stritolerà colui sul quale proprio così. Coloro che ci insultano inciampano su quella pietra vi cadono. Noi al contrario, per non inciampare né cadere, non temiamo i loro insulti ma rispondiamo loro la Parola, cioè la parola della fede che predichiamo. Se infatti così continua tu crederai nel tuo cuore che Gesù è il Signore con la tua bocca confesserai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo, poiché col cuore si crede per la giustizia con la bocca si fa la confessione per la salute (Rm 10, 9-10). Val poco quindi lo stesso fatto di avere Cristo nel cuore quando ci si rifiuta di confessarlo per timore dell’insulto. Occorre rispondere la Parola coloro che la rinfacciano. I martiri ci sono riusciti, ci sono riusciti in forza di quella promessa : Non siete voi che parlate ma è lo Spirito del Padre che parla in voi (Mt 10, 20). Nello stesso senso anche il salmo, dopo aver detto : Risponderò coloro che mi rinfacciano la parola, subito aggiunge : Poiché confido nelle tue parole, cioè nelle tue promesse.

Testimoni saldi nella fede e testimoni ravveduti.

3. [v 43.] Ci sono stati moltissimi che, pur appartenendo a quel corpo che pronuncia queste parole, dinanzi all’insorgere della persecuzione non ressero all’urto né seppero accettare gli insulti, ma vennero meno e rinnegarono Cristo. Per questo continua il salmo : E non togliere dalla mia bocca la parola della verità fino all’estremo. Si esprime in prima persona, perché chi parla è l’unità del corpo di Cristo, fra le cui membra sono da annoverarsi anche coloro che, dopo essere venuti meno e averlo momentaneamente rinnegato, poi si sono pentiti, son tornati in vita e col martirio hanno perfino conquistato, in una nuova confessione della fede, la palma che antecedentemente avevano perduta. Non fu dunque loro tolta la Parola della verità fino all’estremo o, come legge qualche codice, completamente, cioè totalmente. Così accadde a Pietro, in cui troviamo una figura della Chiesa. Sconvolto dal timore, egli rinnegò momentaneamente Cristo, ma col suo pianto riottenne il suo posto [nella Chiesa] e più tardi, mediante la confessione di Cristo, consegui la corona (Cf. Mt 26,70). È dunque tutto il corpo di Cristo che parla così, è la santa Chiesa nella sua universalità. A questo corpo, globalmente preso, non viene tolta dalla sua bocca la Parola di verità fino all’estremo o perché, anche quando parecchi apostatarono, rimasero in lei dei forti che per la verità combatterono fino alla morte, o perché, anche fra gli apostati, molti riabbracciarono la fede. L’espressione : Non distogliere è da intendersi nel senso di : “ Non permettere che mi sia tolta ” ; come quando nell’orazione diciamo : Non ci indurre in tentazione (Mt 6,13). Non diversamente il Signore, rivolto a Pietro, diceva : Io ho pregato per te affinché non venga meno la tua fede (Lc 22,32). Ecco cosa significa la preghiera che non venga tolta dalla sua bocca la Parola della verità fino all’estremo. Continua : Poiché io ho sperato nei tuoi giudizi o, come con maggiore aderenza al testo greco certuni hanno tradotto : Ho arcisperato. È, questa, una parola improvvisata e di raro impiego, tuttavia si presta bene a rendere fedelmente il senso della frase. Occorrerà quindi scrutare a fondo il significato di questo passo per comprendere, con l’aiuto divino, quale sia il messaggio che contengono le parole : Ho sperato nelle tue parole ; e : Ho arcisperato nei tuoi giudizi. Dice : E risponderò a coloro che mi rinfacciano la parola, poiché confido nelle tue parole (e, cioè, perché tu stesso me l’hai promesso) ; e non distogliere dalla mia bocca la parola della verità fino all’estremo, poiché ho arcisperato nei tuoi giudizi. E intende : I tuoi giudizi, con i quali tu mi richiami e sferzi, non solo non mi tolgono la speranza ma al contrario me l’accrescono. So infatti che Dio tratta severamente la persona che ama e sferza ogni figlio che gli è accetto (Cf. He 12,6). Così avvenne ai santi e agli umili di cuore : riposero in te la loro fiducia e non vennero meno nella persecuzione. Così anche in coloro che, avendo defezionato per la loro presunzione, rimasero nella compagine del corpo [della Chiesa] : aprendo gli occhi sul loro stato piansero l’errore e, scrollata di dosso la propria superbia, incontrarono la tua grazia e in essa rimasero stabili più di prima. Ottimamente quindi [può dire] : Non distogliere dalla mia bocca la parola della verità fino all’estremo, poiché ho arcisperato nei tuoi giudizi.

414 La carità dura in eterno

4. [v 44.] E custodirò per sempre la tua legge. Cioè : Se tu non sottrarrai dalla mia bocca la Parola della verità, io custodirò per sempre la tua legge. A spiegare meglio la parola sempre specifica : Nel secolo e nel secolo del secolo. A volte infatti sempre significa : Finché si vive quaggiù ; ma questo non è il senso della frase : Nel secolo e nel secolo del secolo. Questa lezione è preferibile all’altra contenuta in certi codici che recano : In eterno e nel secolo del secolo, non ‘avendo potuto tradurre : “ E nell’eterno dell’eterno ”. Quanto alla legge di cui si parla, è da intendersi quella ricordata dall’Apostolo : Pienezza della legge è la carità (
Rm 13,10). È infatti la carità una legge che i santi (coloro cioè dalla cui bocca non sarà mai sottratta la Parola di verità), ovvero la Chiesa di Cristo, custodiranno non solo in questo secolo (cioè finché durerà il mondo attuale) ma anche nel secolo avvenire, designato con la perifrasi : Il secolo del secolo. In cielo, è vero, non ci saranno imposte delle prescrizioni legali da osservare, ma della legge custodiremo, come ho detto, la pienezza, e questo senza alcun timore di peccato. Infatti vedendo Dio lo ameremo senza riserve ; e ameremo anche il prossimo, essendo Dio tutto in tutti (Cf. 1Co 15,28). Né ci sarà più posto, allora, per falsi sospetti sul conto del prossimo, dal momento che ognuno sarà totalmente palese a tutti.

SULLO STESSO SALMO 118

11815 Ps 118

DISCORSO 14

Sezione narrativa del salmo.

1. [vv 45-48.] I precedenti versetti di questo lungo salmo sono in forma di preghiera ; gli altri, a cominciare da quello che dobbiamo esporre adesso, sono invece in forma narrativa. Antecedentemente l’uomo di Dio implorava l’ausilio della grazia divina, come quando diceva : Nella tua giustizia fammi vivere ; e venga su di me la tua misericordia, o Signore (Ps 118,40-41), e così nelle altre espressioni da lui pronunciate prima o dopo di questa. Ecco invece come suonano le sue parole d’ora in avanti : E camminavo nella spaziosità, perché i tuoi comandamenti io ricercai. E parlavo delle tue testimonianze al cospetto dei re, e non avevo rossore. E meditavo sui tuoi precetti che io ho amati. E tenevo levate le mie mani ai tuoi precetti che ho amati, e mi esercitavo nelle vie della tua giustizia. Sono parole di uno che racconta, non di chi implora. Sembra quasi che il salmista, ottenuto da Dio quel che chiedeva, voglia celebrare, a lode di Dio, cosa sia divenuto per i doni della misericordia divina antecedentemente invocata. Egli non ricollega le sue parole al contesto di prima, dicendo ad esempio : E non togliere dalla mia bocca la parola della verità fino, all’estremo, poiché nei tuoi giudizi ho arcisperato ; e custodirò per sempre la tua legge, nel secolo e nel secolo del secolo ; e camminerò nella spaziosità, perché i tuoi comandamenti io ricercai ; e parlerò delle tue testimonianze al cospetto dei re, e non avrò rossore (Ps 118,43-46). E via di seguito. In effetti sarebbe stato logico, a quanto sembra, connettere in questa maniera le due parti. Contrariamente a ciò, il salmista dice : E io camminavo nella spaziosità, dove la congiunzione copulativa e è una incongruenza logica, in quanto non dice : “ E io camminerò ”, com’era da attendersi dopo le parole : E custodirò per sempre la tua legge. Che se queste parole avessero senso ottativo (Possa io custodire la tua legge), avrebbe dovuto dire : “ E possa io camminare nella spaziosità ”, come se due fossero le cose desiderate e richieste. Egli viceversa dice : E io camminavo nella spaziosità. Se non ci fosse stata la congiunzione e, e la frase : Io camminavo fosse stata aggiunta senza legami col contesto precedente, come un asserto a sé stante, sarebbe stato un modo d’esprimersi tutt’altro che insolito e il lettore non avrebbe dovuto affatto stupirsene, né ci sarebbe stato alcun bisogno d’andare a cercare significati occulti. Viceversa il salmista vuol farci comprendere come a questo punto siano da inserirsi cose che egli omette di narrare (ci indica cioè che egli è stato esaudito da Dio) e poi passa a descrivere il livello di vita raggiunto. È come se avesse detto : “ Quando io pregavo così, tu mi esaudisti, e io camminavo nella spaziosità ”, e tutto il resto del discorso che si sviluppa in questo tono [narrativo].

Lo Spirito ci fa chiedere doni spirituali.

2. Che significano dunque le parole : E io camminavo nella spaziosità ? Non forse che io camminavo nella carità, diffusa nei nostri cuori dallo Spirito Santo che ci è stato donato (Cf. Rm 5,5) ? In questa spaziosità camminava quel tale che diceva : La nostra parola è a voi manifesta, o Corinzi ; il nostro cuore è dilatato (2Co 6,11). Ora la carità piena e totale è racchiusa nei due precetti d’amare Dio e il prossimo : precetti che compendiano tutta la Legge e i Profeti (Cf. Mt 22,40). In relazione a questo il salmista, dopo aver detto : E io camminavo nella spaziosità, come per indicarne la causa soggiunge : Poiché ho ricercato i tuoi comandamenti. Alcuni codici non recano comandamenti ma testimonianze, ma la lezione comandamenti è la più attestata, specialmente dai codici greci, lingua alla quale (come tutti concordano) occorre dare la preferenza, essendo quella che soggiace alla nostra e dalla quale i nostri testi sono stati tradotti. Se vogliamo poi sapere in che maniera egli abbia ricercato i comandamenti di Dio (che poi è la maniera in cui occorre ricercarli sempre), dobbiamo riflettere sulle parole del Maestro buono, rivelatore e autore [della nostra salvezza]. Chiedete e riceverete, - diceva - cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. E poco dopo : Se dunque voi, pur essendo cattivi, sapete donare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli donerà cose buone a chi gliele chiederà ? (Mt 7,7-11) Sono parole che esprimono all’evidenza il senso delle altre : Chiedete, cercate, bussate, da riferirsi quindi esclusivamente alla insistenza nel chiedere, cioè nel pregare. L’altro Evangelista al riguardo non dice : Donerà cose buone a chi gliele chiederà, parole che potrebbero intendersi in più maniere, cioè tanto dei beni materiali quanto di quelli spirituali. Escludendo con un taglio netto ogni altra cosa, nel suo dire accurato Luca determina quale, a detta del Signore, debba essere l’oggetto delle nostre suppliche più fervide e insistenti. Dice : Quanto più il Padre vostro celeste donerà lo Spirito buono a chi glielo chiederà ? (Lc 11,13) È questo lo Spirito ad opera del quale è diffusa nei nostri cuori la carità (Cf. Rm 5,5) per la quale amiamo Dio e il prossimo, osservando così i precetti del Signore. È questo lo Spirito in virtù del quale gridiamo : Abba, Padre (Cf. Rm 8,15). È dunque lo Spirito che ci dà la facoltà di chiedere, ed è lo stesso Spirito ciò che noi desideriamo ricevere. È lui che ci fa cercare, ed è lui che desideriamo trovare. Per lui ancora ci è dato bussare, ed è lui la meta a cui ci sforziamo di pervenire. Lo insegna l’Apostolo. In un passo scrive che noi gridiamo : Abba, Padre, in virtù dello Spirito Santo, mentre in un altro asserisce : Dio inviò lo Spirito del Figlio suo nei nostri cuori, il quale grida : Abba, Padre (Ga 4,6). Se è lui che grida in noi, come sì dice che siamo noi stessi a gridare ? Non sarà forse per il fatto che, da quando ha cominciato ad abitare in noi, è lo Spirito che ci dà la facoltà di gridare ? Sì. Una volta ricevuto, egli opera in noi e ci conferisce il potere d’invocarlo al fine di riceverlo più abbondantemente : cosa che avviene mediante il nostro chiedere, cercare e bussare. Insomma, tanto se lo si invoca mediante la vita buona [già vissuta] quanto se lo si fa per vivere bene, è lo Spirito di Dio che muove quanti sono figli di Dio (Cf. Rm 8,14). Per questo dice : Io camminavo nella spaziosità, perché i tuoi comandamenti ho ricercato. Li aveva ricercati premurosamente e li aveva trovati poiché aveva chiesto e ricevuto lo Spirito Santo, che l’aveva reso buono e capace di compiere in modo degno il bene mediante la fede che opera attraverso l’amore (Cf. Ga 5,6).

3. Dice : E parlavo delle tue testimonianze al cospetto dei re, e non avevo rossore. Lo aveva chiesto e ricevuto. Così poteva rispondere a coloro che gli rinfacciavano la Parola né gli veniva tolta dalla bocca la Parola di verità. Deciso a combattere fino alla morte in difesa di questa Parola, non arrossiva di parlarne alla presenza degli stessi re. Parlava infatti delle testimonianze divine che in greco si dicono , nome ormai d’uso comune anche in latino. Da questo nome deriva anche il sostantivo “ martire ”, con cui si indicano quelle persone alle quali Gesù predisse che l’avrebbero confessato anche dinanzi ai re (Cf. Mt 10,18).

La carità, fine della Legge.

4. Dice : E meditavo sui tuoi precetti che ho amati. E tenevo levate le mie mani ai tuoi precetti che ho amati. Alcuni codici, tanto nel primo che nel secondo versetto leggono : Ho amato molto, ovvero assai, o anche intensamente, rendendo liberamente, come a ciascuno garbava, l’unica parola greca che è . Amava dunque i comandamenti di Dio sfruttando quelle risorse che gli consentivano di camminare nella spaziosità, mediante cioè l’azione dello Spirito Santo che diffonde nei fedeli la carità e così ne dilata il cuore (Cf. Rm 5,5). Questo suo amore poi si esplicava e nel pensare e nell’agire, per cui, in riferimento al pensiero, dice : E io meditavo sui tuoi precetti, mentre in riferimento alle azioni dice : E tenevo levate le mie mani ai tuoi precetti. Completa le due frasi aggiungendo : Che io ho amato, poiché fine della legge è la carità che procede da cuore puro (Cf. 1Tm 1,5). Quando i comandamenti di Dio vengono osservati con questa finalità, cioè in vista dell’amore, allora l’opera che si compie è veramente buona e le mani vengono veramente elevate, poiché alta è la meta verso la quale si elevano. Non per altro infatti l’Apostolo, prima di iniziare il discorso sulla carità, diceva : Voglio mostrarvi una via più alta (1Co 12,31) ; e in un altro luogo : [Possiate] comprendere anche l’amore di Cristo che sovrasta ogni scienza (Ep 3,19). Se quindi dalla pratica dei comandamenti di Dio ci si ripromette in premio la felicità terrena, le mani si abbassano, non si sollevano, in quanto i beni che con tali opere si intendono conseguire, per essere terreni, non sono in alto ma in basso. Al pensare e all’agire si riferiscono le altre parole : E mi esercitavo nelle vie della tua giustizia. È questa la lezione preferita dalla maggior parte dei traduttori, mentre alcuni hanno reso il vocabolo greco (che è ) o con : Mi rallegravo o con : Ero loquace. Si esercita infatti nelle vie della giustizia di Dio, divenendoci anche lieto o, se si vuole, loquace, colui che ama i comandamenti del Signore e li osserva con quel gusto che lo porta a pensarli e a praticarli.


Agostino Salmi 11813