Catechismo Tridentino 3500

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QUINTO COMANDAMENTO Non ammazzare.

Spiegazione del quinto comandamento.

327. L'insigne felicità promessa ai pacifici, che saranno chiamati figli di Dio (Mt 5,9), deve stimolare in sommo grado i Pastori a spiegare e inculcare con assidua diligenza, ai fedeli l'osservanza di questo comandamento; non v'è modo migliore di fondere le volontà umane nel rispetto universale e generoso di questo precetto, rettamente spiegato. Se ciò si verificherà, gli uomini, strettamente affratellati in un saldo consenso spirituale, conserveranno bene la pace e la concordia.

Quanto sia necessario spiegare questo precetto risulta dalla circostanza che, dopo il diluvio universale, fu questa la prima proibizione emanata da Dio agli uomini: Del vostro sangue faro vendetta sopra qualsiasi animale e faro vendetta della uccisione di un uomo sopra l'uomo (Gn 9,5). Nel Vangelo, là dove il Signore spiega le antiche leggi, questa è al primo posto come si legge in S. Matteo: E comandato: Non ammazzare; con tutto quel che segue nel passo indicato (5,21).

I fedeli dal canto loro devono prestare attento e volenteroso ascolto a questo comando. La sua forza vale a tutelare la vita di ciascuno. Con le parole infatti: Non ammazzare, è perentoriamente vietato l'omicidio. perciò ciascuno deve accoglierlo con si viva prontezza come se, con minaccia dell'ira di Dio e di altre gravissime pene stabilite, fosse tassativamente vietata la lesione di questo o quell'individuo. Come tale precetto è confortante ad essere ascoltato, cosi l'eliminazione del delitto che esso proibisce deve recare soddisfazione.

Eccezioni al quinto comandamento.

328. Spiegando il contenuto di questa legge, il Signore mostra che essa comprende due elementi: il primo, negativo: divieto dell'uccisione; il secondo, positivo: ingiunzione di estendere la nostra concorde e caritatevole amicizia anche ai nemici, per avere pace con tutti, sia pure affrontando con pazienza ogni contrarietà.

Enunciata la legge che vieta di uccidere, il Parroco dovrà subito indicare le uccisioni, che non sono proibite. Non è infatti vietato di uccidere animali. Se Dio ha concesso agli uomini di nutrirsene, deve essere lecito ucciderli. In proposito dice sant'Agostino: Non dobbiamo applicare la formula " non ammazzare " ai vegetali, cui manca ogni facoltà sensibile, né agli animali irragionevoli, che non sono collegati a noi da alcuna virtù razionale (La città di Dio, I,20).

Altra categoria di uccisioni permessa è quella, che rientra nei poteri di quei magistrati, i quali hanno facoltà di condannare a morte. Tale facoltà, esercitata secondo le norme legali, serve a reprimere i facinorosi e a difendere gli innocenti. Applicando tale facoltà, i magistrati non solamente non sono rei di omicidio, ma, al contrario, obbediscono in una maniera superiore alla Legge divina, che vieta di uccidere, poiché il fine della legge è la tutela della vita e della tranquillità umana. Ora, le decisioni dei magistrati, legittimi vendicatori dei misfatti, mirano appunto a garantire la tranquillità della vita civile, mediante la repressione punitiva dell'audacia e della delinquenza. Ha detto David: Sulle prime ore del giorno soppressi tutti i peccatori del territorio, onde eliminare dalla città del Signore tutti coloro che compiono iniquità (Ps 100,8).

Per le medesime ragioni non peccano neppure coloro che, durante una guerra giusta, non mossi da cupidigia o da crudeltà, ma solamente dall'amore del pubblico bene, tolgono la vita ai nemici.

Vi sono anzi delle uccisioni compiute per espresso comando di Dio. I figli di Levi non peccarono quando in un giorno solo uccisero tante migliaia di uomini; dopo di che, Mosè rivolse loro le parole: Oggi avete consacrato le mani vostre a Dio (Ex 32,29).

Infine non è reo di trasgressione a questo precetto chi, non di spontanea volontà e di proposito, ma per disgrazia uccide un altro. E scritto nel Deuteronomio: Chi per caso abbia colpito il suo prossimo, e si riesca a provare che né ieri, né ieri l'altro nutriva odio per il colpito, ma che recandosi insieme a far legna nel bosco, nel tagliare i tronchi, la scure gli sfuggi di mano e il ferro spiccato dal manico colpi l'amico e l'uccise (XIX), tale uccisione non compiuta per atto di volontà e studiatamente, non può assolutamente imputarsi a colpa. Lo conferma la sentenza di sant'Agostino: Nessuno pensi che possa esserci addebitato ciò che facciamo per il bene o per il lecito, anche se importi, senza il nostro volere, qualcosa di male (Lett. XLVII,5; CC3,6).

Ma anche in tali casi tuttavia può talora esserci colpa: se cioè l'uccisore involontario sia intento a cosa ingiusta, o se l'uccisione si verifichi per negligenza e imprudenza, non essendo state valutate tutte le circostanze. Un esempio del primo caso: se uno percuotendo con un pugno o un calcio una donna incinta, provochi l'aborto, pur essendo ciò fuori dell'intenzione del percussore, non si può dire immune da colpa, non essendo in alcun modo lecito percuotere una donna incinta.

Che la legge poi non colpisca chi uccide un altro in difesa della propria vita, avendo però adoperato ogni cautela, è evidente.

Azioni proibite dal quinto comandamento.

329. Queste sono dunque le categorie di uccisioni non comprese nella Legge. Fatta eccezione per esse, tutte le altre sono proibite, qualunque sia la qualità dell'uccisore, dell'ucciso e la modalità dell'atto omicida.

Per quanto riguarda la persona dell'uccisore, nessuno sfugge al precetto: non il ricco, non il potente, non il padrone, non i genitori. A tutti è vietato di uccidere, ripudiata ogni considerazione personale.

Per quanto riguarda gli uccisi, anche qui la Legge ha un ambito universale, né c'è individuo per quanto umile e misero, il quale non sia tutelato dalla validità di questa legge. Né ad alcuno è lecito togliersi quella vita su cui nessuno ha cosi pieno potere da essere in diritto di sopprimerla quando voglia. Il tenore stesso del precetto lo indica, poiché non è detto: Non ammazzare altri; ma puramente e semplicemente: Non ammazzare.

Infine avendo di mira i vari modi con cui può esser data la morte, neppure a questo proposito sussistono eccezioni. E vietato infatti non solamente uccidere chicchessia con le proprie mani, col ferro, con pietra, con bastone, con laccio o col veleno, ma anche il procurare la morte col consiglio, con l'aiuto, col concorso e qualsiasi altro mezzo. Sono evidenti l'ottusità e la fatuità degli Ebrei che ritenevano di rispettare la legge astenendosi semplicemente dall'uccidere con le proprie mani. Il cristiano che dalla parola di Gesù Cristo ha appreso come tale legge abbia un valore spirituale e impone non solo di conservare pure le mani, ma casto e e incontaminato lo spirito, non ritiene davvero sufficiente quel che gli Ebrei credevano cosi di adempiere a sufficienza. Il Vangelo insegna che non è lecito neppure farsi vincere dall'ira. Il Signore infatti ha detto: Ma io vi dico: chiunque si adira contro il suo fratello, sarà condannato in giudizio. E chi avrà detto al suo fratello: Raca, sarà condannato nel Sinedrio. E chi gli avrà detto: Stolto, verrà condannato al fuoco della Geenna (Mt 5,22).

Da queste parole risulta nettamente che non è esente da colpa chi si adira contro il proprio fratello, anche se chiuda l'ira nel proprio animo. Chi poi all'ira concede una espressione esterna, pecca gravemente; e più gravemente pecca chi osi trattare duramente e svillaneggiare il proprio simile. Naturalmente tutto ciò è vero nel caso che non sussista alcuna plausibile ragione per l'ira; poiché c'è una legittima ragione di sdegno, ammessa da Dio e dalle leggi. E si verifica quando ci leviamo contro le colpe di coloro che sono sottoposti al nostro comando e alla nostra potestà. Lo sdegno del cristiano deve però prorompere non dai sensi, ma dallo Spirito Santo, dovendo noi essere i suoi templi, e dimora di Gesù Cristo (1Co 6,19).

Molte parole del Signore si riferiscono alla perfezione di questa legge. Ad esempio: Non opporre resistenza al male; Se ti avran percosso sulla guancia destra, presenta anche l'altra; A chi vuoi bisticciarsi con te per aver la tua tunica, da pure il mantello; Continua ad andare per altre due miglia con chi ti avrà bistrattato già per un miglio intero (Mt 5,39).

L'omicidio.

330. Da quanto siamo venuti dicendo è lecito arguire quanto siano proclivi gli uomini alle colpe vietate da questo comandamento, e quanto numerosi siano coloro che, se non con le mani, almeno con l'animo cadono in questo peccato. E poiché le sacre Scritture indicano nettamente i rimedi salutari contro questo pericoloso morbo, è dovere del Parroco farne diligente esposizione ai fedeli, insistendo specialmente sulla gravita mostruosa dell'omicidio, quale traspare da copiosissime ed esplicite testimonianze della sacra Scrittura (Gn 4,10 Gn 9,16 Lv 24,17). L'abominazione di Dio contro l'omicidio giunge nella Bibbia fino a punire le bestie ree di omicidio, comandando che sia ucciso l'animale che abbia leso un essere umano (Ex 21,28). Anzi, la principale ragione per cui Dio volle che ogni uomo avesse orrore del sangue, è appunto qui: affinché conservasse integralmente mondi dal riprovevole omicidio l'animo e le mani. Sono in realtà omicidi del genere umano, e quindi nefasti avversari della natura, tutti coloro che, per quanto è loro dato, sovvertono l'opera universale di Dio sopprimendo l'uomo per il quale Dio dichiara di avere creato il mondo visibile (Gn 1,26). E poiché è scritto nella Genesi ch'è vietato di commettere omicidi, avendo Dio creato l'uomo a sua immagine e somiglianza, fa veramente una sfacciata ingiuria a Dio, quasi volesse menare con violenza le mani contro di Lui, chiunque toglie di mezzo una sua immagine (Gn 9,6). Meditando ciò con animo ispirato, David pronuncio gravi lamenti contro i sanguinari, quando disse: Rapidi sono i loro passi verso lo spargimento di sangue (Ps 13,36). Non disse egli puramente: uccidono, ma: spargono sangue, quasi a far risaltare la detestabilità del delitto e la smisurata crudeltà dell'omicida. E per illustrare come siano violentemente spinti dall'istinto diabolico al delitto, premette: Corrono rapidi i loro passi.

Azioni inculcate dal quinto comandamento.

331. In sostanza quanto nostro Signore Gesù Cristo prescrive che sia osservato con questo comandamento, mira a farci conservare rapporti pacifici con tutti. Dice infatti, interpretandolo: Se tu stai per fare l'offerta all'altare e là ti viene alla memoria che un tuo fratello ha qualche cosa contro di te, abbandona la tua offerta davanti all'altare, e va prima a riconciliarti col tuo fratello e poi ritorna a fare la tua offerta (Mt 5,23), con quel che segue. Il Parroco spiegherà tutto ciò in modo che s'intenda come tutti, senza eccezione, devono essere inclusi nel medesimo sentimento di carità. E a tale sentimento, nella spiegazione del precetto, stimolerà quanto più sarà possibile i fedeli, perché in esso riluce sopra tutto la virtù dell'amore del prossimo.

Infatti, vietandosi apertamente con questo comandamento l'odio, poiché chi odia il proprio fratello è omicida (1Jn 3,15), ne segue che c'è qui implicito il precetto dell'amore e della carità. E se nel comandamento che studiamo è imposta la legge della carità e dell'amore, nel medesimo tempo sono formulati i precetti di tutti quei servizi ed atti che sogliono scaturire dalla carità. " La carità è paziente ", dice san Paolo (1Co 13,4); anche la pazienza dunque ci è comandata; e con essa, secondo la parola del Salvatore, noi saremo in possesso delle anime nostre (Lc 21,19).

Segue, come prossima compagna della carità, la beneficenza, perché " la carità è benigna ". La virtù della benignità o della beneficenza possiede una sfera vasta, esplicandosi sopratutto nel provvedere ai poveri il necessario, agli affamati il cibo, agli assetati la bevanda, ai nudi il vestito. Essa vuole che la nostra liberalità vada con maggiore larghezza a chi più abbisogna del nostro soccorso. Le opere della beneficenza e della bontà, per sé già cosi meritevoli, assumono un valore insigne, se dirette ai nostri nemici. Disse infatti il Salvatore: Amate i vostri nemici; fate del bene a chi vi odia (Mt 5,44). Analogamente ammonisce l'Apostolo: Se il tuo avversario soffre la fame, nutrilo; se ha sete dagli da bere; cosi facendo, accumulerai sul suo capo carboni ardenti. Non ti far vincere dal male, ma vinci il male col bene (Rm 12,20). Infine, volendo esporre tutta la legge della carità, che è benigna, riconosceremo che il precetto ordina di uniformare sempre le nostre azioni a mitezza, a dolcezza e a tutte le altre virtù affini.

Però il compito più alto e più riboccante di carità, nel quale dobbiamo con maggior cura esercitarci, è quello di perdonare e di dimenticare con cuore sereno le ingiurie ricevute. Come abbiamo detto, la sacra Scrittura ammonisce insistentemente di farlo senza riluttanza, non solo dichiarando beati coloro che ciò praticano (Mt 5 , ma proclamando perdonate da Dio le loro colpe e imperdonabili quelle di coloro che vi si rifiutano o sono negligenti nel farlo (Si 27,1 Mt 6,15 Mt 18,34 Mc 11,26).

I motivi di perdonare le offese.

332. Poiché la brama della vendetta è quasi innata nello spirito degli uomini, il Parroco usi tutta la diligenza non solo nell'insegnare, ma proprio nell'inculcare e persuadere i fedeli che dimenticare le offese e perdonarle è stretto dovere del cristiano. Ed essendo copiose le testimonianze degli scrittori sacri in proposito, ne faccia tesoro per spezzare la pertinacia di coloro che hanno l'animo indurito nella voluttà della vendetta. Abbia perciò pronte le ponderate e opportunissime argomentazioni dei Padri, fra cui tre meritano speciale menzione.

Innanzi tutto, chi si ritiene ingiuriato deve convincersi che la causa principale del fatto non va ricercata in colui contro il quale agogna vendetta. L'ammirabile Gb gravemente danneggiato da Sabei, da Caldei e dal demonio, essendo uomo retto e pio, non tiene conto di loro, ma esce in queste pie e sante parole:Il Signore dono, il Signore tolse (Jb 1,21). Sull'esempio e sulla parola di quell'uomo pazientissimo, i cristiani vogliano persuadersi che in verità quanto soffriamo in questa vita, deriva da Dio, padre ed autore di ogni giustizia come di ogni misericordia. La sua immensa misericordia non ci punisce come avversari, ma ci corregge e castiga come figli.

A ben considerare le cose, gli uomini sono qui semplicemente ministri ed emissari di Dio; pur potendo un uomo odiare malvagiamente un altro e desiderargli ogni male, non può in realtà nuocergli se non lo permetta Dio. Persuasi di cio, Giuseppe sostenne serenamente gli empi propositi dei fratelli (Gn 45,5), e David le ingiurie di Simei (2S 16,10). In queste considerazioni rientra l'argomento svolto con grande dottrina dal Crisostomo, secondo il quale ciascuno è causa del proprio male. Infatti coloro che si ritengono maltrattati, se ben considerino la loro situazione, si accorgeranno di non aver subito ingiuria o danno dagli altri, potendo le lesioni e le offese provenire apparentemente dall'esterno; ma siamo in realtà noi stessi la causa del nostro male, contaminando l'animo con le nefaste passioni dell'odio, della cupidigia, dell'invidia.

In secondo luogo, due insigni vantaggi ricadono su coloro che, spinti dal santo amore di Dio, perdonano di buon grado le offese ricevute. Il primo è questo: Dio ha promesso che chi rimette agli altri i torti, otterrà il perdono delle proprie colpe (Mt 6,14); donde appare quanto gli sia gradito simile atto di virtù. L'altro sta nella nobiltà e nella perfezione conseguite da chi perdona. Dimenticando le ingiurie, diveniamo in certo modo simili a Doi, il quale fa sorgere il sole egualmente sui buoni e sui cattivi e distribuisce la pioggia su giusti ed ingiusti (Mt 5,45).

Infine, devono essere spiegati gli inconvenienti a cui andiamo incontro, non perdonando le ingiurie a noi recate. perciò il Parroco farà considerare a coloro che non vogliono perdonare ai propri nemici, come l'odio non solo sia un grave peccato, ma divenga più grave col persistervi. Chi è padroneggiato da questo sentimento, assetato del sangue dell'avversario, e pieno di speranza nella vendetta, trascorre notte e giorno in un tale permanente sconvolgimento malefico dello spirito che non sembra mai sgombro dal fantasma della strage o di qualche azione nefasta. Costui giammai, o solo da straordinari motivi, potrà essere indotto a perdonare del tutto, o a dimenticare in parte le ingiurie. A buon diritto viene paragonato alla ferita su cui il dardo è rimasto infitto.

Sono molteplici in verità i peccati stretti insieme da comune vincolo nella colpa unica dell'odio. San Giovanni disse chiaramente in proposito: Chi odia il proprio fratello giace nelle tenebre, e procede nell'oscurità, ignaro della sua meta; le tenebre tolsero il lume dai suoi occhi (1Jn 2,11), cosicché è destinato a cadere di frequente. Come, ad esempio, potrebbe approvare i detti o i fatti di colui che odia? Di qui i fallaci giudizi temerari, le ire, le invidie, le maldicenze e simili manifestazioni di malevolenza, che vanno a colpire anche chi è legato da parentela o da amicizia alla persona dell'odiato. Da una colpa ne nascono cosi diecine; e non a torto si dice che questo è il peccato del demonio, che fu omicida fin dall'inizio. Il Figlio di Dio, nostro Signore Gesù Cristo, disse appunto che i Farisei erano generati dal diavolo proprio perché desideravano di metterlo a morte (Jn 8,44).

Quanto abbiamo detto fin qui riguarda le ragioni che possono addursi per inculcare la determinazione di questo peccato. Ma nei monumenti della letteratura sacra è facile anche rinvenire i rimedi più opportuni a tanto flagello. Il primo e il più efficace è l'esempio del nostro Salvatore, che noi dobbiamo proporci di imitare. Sebbene la più tenue ombra di mancanza non potesse offuscare il suo immacolato candore, quantunque percosso con verghe, coronato di spine e confitto sulla croce, pronuncio queste parole, ricche di misericordia: Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno (Lc 23,34). L'effusione di questo sangue, secondo la testimonianza dell'Apostolo, parla ben più eloquentemente che quello di Abele (He 12,24).

Un secondo rimedio viene proposto dall'Ecclesiastico, e consiste nell'aver presenti la morte e il giorno del giudizio. Ricorda, esso dice, i tuoi ultimi eventi, e non peccherai in eterno (Si 7,40). In altri termini: pensa molto spesso che tra poco ti coglierà la morte; e poiché in quell'ora suprema sarà per te d'interesse massimo impetrare l'infinita misericordia di Dio, è necessario che essa ti sia dinanzi ora e sempre. Cosi quella bramosia di vendetta che cova in te, si estinguerà prontamente, non esistendo mezzo più valido, a ottenere la misericordia divina, del perdono delle ingiurie e dell'amore verace per coloro che, con la parola o con le azioni, offesero te o i tuoi.

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SESTO COMANDAMENTO Non commettere atti impuri.

Spiegazione del comandamento.

333. Se il vincolo tra marito e moglie è il più stretto che esista, e nulla può essere loro più dolce che il sentirsi vicendevolmente stretti da un affetto speciale, nulla, al contrario, può capitare a uno di essi di più amaro che sentire il legittimo amore del coniuge rivolgersi altrove.

Ragionevolmente, percio, alla legge, che garantisce la vita umana dall'omicidio, segue quella che vieta la fornicazione o l'adulterio, affinché nessuno tenti di contaminare o spezzare quella santa e veneranda unione matrimoniale, da cui suole scaturire cosi ardente fuoco di carità.

Toccando questo argomento, il Parroco usi la più prudente cautela e con sagge parole alluda a cose che esigono più la moderazione che l'abbondanza dell'eloquio. E da temersi infatti che, diffondendosi troppo a spiegare i modi con cui gli uomini possono trasgredire questo comandamento, finisca col dire frasi capaci di eccitare la sensualità, anziché reprimerla.

Ad ogni modo il precetto racchiude molti elementi che non possono essere trascurati, e il Parroco li spiegherà a suo tempo. Esso ha due parti: una che vieta apertamente l'adulterio; l'altra, più generale, che impone la castità dell'anima e del corpo.

L'adulterio.

334. Per iniziare l'insegnamento da quello che è vietato, diremo subito che adulterio è violazione del legittimo letto, proprio o altrui. Se un marito ha rapporti carnali con donna non coniugata, viola il proprio vincolo matrimoniale; se un individuo non coniugato ha rapporti con donna maritata, è contaminato, dal delitto di adulterio, il vincolo altrui.

Sant'Ambrogio e sant'Agostino confermano che con tale divieto dell'adulterio è proibito ogni atto disonesto e impudico. ciò risulta direttamente dalla Scrittura del vecchio come del nuovo Testamento. Nei libri mosaici vediamo puniti altri generi di libidine carnale, oltre l'adulterio. Leggiamo nella Genesi la sentenza pronunciata da Giuda contro la nuora (Gn 38,24); nel Deuteronomio è formulato questo precetto: tra le figlie d'Israele nessuna sia cortigiana (Dt 23,17). Tobia cosi esorta il figliuolo: Guardati, figlio mio, da ogni atto impudico (Tb 4,13). E l'Ecclesiastico dice: Vergognatevi di guardare la donna peccatrice (Si 41,25). Nel Vangelo Gesù Cristo dichiara che dal cuore emanano gli adulteri e le azioni disoneste che macchiano l'uomo (Mt 15,19). L'apostolo Paolo bolla di frequente, con parole roventi, questo vizio: Dio vuole la vostra santificazione; vuole che vi asteniate dalle impurità (1Th 4,3). E altrove: Evitate ogni fornicazione (1Co 6,18); Non vi mescolate agli impudichi (1Co 5,9); In mezzo a voi, non siano neppur nominate l'incontinenza, l'impurità di ogni genere e l'avarizia (Ep 5,3); Disonesti ed adulteri, effeminati e pederasti, non possederanno il regno di Dio (1Co 6,9).

L'adulterio è stato espressamente menzionato nel divieto, perché alla sconcezza che riveste in comune con tutte le altre forme di incontinenza, accoppia un peccato di ingiustizia verso il prossimo e la società civile. Inoltre è indubitato che chi non si tiene lontano dalle forme ordinarie dell'impudicizia, facilmente incapperà nel crimine di adulterio. Cosi è agevole comprendere come nel divieto dell'adulterio sia inclusa la proibizione di ogni genere di impurità contaminante il corpo. Del resto che questo comandamento investa ogni intima libidine dell'animo, appare dalla natura stessa della legge, che è spirituale, e dalle esplicite parole di nostro Signore: Udiste che fu detto agli antichi: Non fare adulterio. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per fine disonesto, in cuor suo ha già commesso adulterio su lei (Mt 5,27).

A ciò che riteniamo debba essere insegnato pubblicamente ai fedeli, si aggiungano i decreti del concilio di Trento contro gli adùlteri e coloro che mantengono prostitute e concubine (Sess. 24, e. 8), tralasciando di parlare dei vari e multiformi generi di libidine sessuale, intorno ai quali il Parroco ammonirà i singoli fedeli, qualora le circostanze di tempo e di persona lo richiedano.

Considerazioni per conservare la castità.

335. Siano pure spiegate le prescrizioni che hanno forza di precetto. I fedeli devono essere ammaestrati ed esortati a rispettare con ogni cura la pudicizia e la continenza, a conservarsi mondi da ogni contaminazione della carne e dello spirito, attuando la santificazione nel timore di Dio (2Co 7,1). Si dica loro che, sebbene la virtù della castità debba maggiormente brillare in quella categoria di persone che coltiva il magnifico e pressoché divino proposito della verginità, pure essa conviene anche a coloro che menano vita celibataria o, congiunti in matrimonio, si mantengono mondi dalla libidine vietata.

Le molte sentenze dei Padri, con cui siamo ammaestrati a dominare le passioni sensuali e a frenare l'istinto passionale, saranno dal Parroco accuratamente esposte al popolo, con una trattazione diligente e costante. Parte di esse riguarda il pensiero, parte l'azione.

Il rimedio che fa leva sull'intelligenza tende a farci comprendere quanto grandi siano la turpitudine e il pericolo di questo peccato. In base a simile apprezzamento, più viva arderà in noi l'avversione per esso. Si tratta di un peccato che è un vero flagello, a causa di esso sugli uomini incombe l'ultima rovina: l'espulsione dal regno di Dio e lo sterminio.

Questo può sembrare comune a ogni genere di peccato; ma qui abbiamo di caratteristico che i fornicatori, secondo la frase dell'Apostolo, peccano contro il proprio corpo: Fuggite l'impudicizia; qualunque peccato l'uomo commetta, si svolge fuori del corpo, ma il fornicatore pecca sul proprio corpo (1Co 6,18); vale a dire lo tratta ignominiosamente, violandone la santità. A quei di Tessalonica lo stesso san Paolo diceva: Dio vuole la vostra santificazione; che vi asteniate da atti impuri; che ciascuno di voi sappia mantenere il vaso del suo corpo in santità e dignità, non nella irrequietezza del desiderio, come i pagani che ignorano Dio (1Th 4,5).

E cosa ben più ripugnante, se è un cristiano colui che si unisce turpemente a una meretrice; perché rende membra di meretrice le membra di Gesù Cristo, come appunto dice san Paolo: Non sapete che i vostri corpi sono membra di Gesù Cristo? Sottraendo le membra a Gesù Cristo, le faro membra della meretrice? Non sia mai. Ignorate forse che aderendo alla meretrice, ne risulta un solo corpo? (1Co 6,15).

Inoltre il Cristiano, sempre secondo san Paolo, è tempio dello Spirito santo (1Co 6,19); violarlo significa espellerne lo Spirito santo stesso.

Tuttavia particolare malvagità è racchiusa nel delitto di adulterio. Infatti, come vuole l'Apostolo, i coniugi sono cosi vincolati da una scambievole sudditanza che nessuno dei due possiede illimitata potestà sul proprio corpo, ma sono cosi schiavi l'uno dell'altro che il marito deve uniformarsi alla volontà della moglie e la moglie a quella del marito (1Co 7,4). Ne consegue che chi dei due separa il proprio corpo, soggetto all'altrui diritto, da colui al quale è vincolato, si rende reo di specialissima iniquità.

E poiché l'orrore dell'infamia è per gli uomini un valido stimolo a fare quanto è prescritto e a fuggire quanto è vietato, il Parroco insisterà nel mostrare come l'adulterio imprima sugli individui un profondo segno di infamia. E scritto nella sacra Scrittura: L'adùltero, a causa della sua fragilità di cuore, perderà l'anima sua; condensa su di sé la vergogna e l'abbominio; la sua turpitudine non sarà mai cancellata (Pr 6,32).

La gravita di questa colpa può essere facilmente ricavata dalla severità della punizione stabilita. Nella legge fissata da Dio nel vecchio Testamento gli adulteri venivano lapidati (Lv 20,10 Dt 22,22). Anzi talora per la concupiscenza sfrenata di uno solo, non il reo semplicemente, ma l'intera città fu condannata alla distruzione; tale fu la sorte dei Sichemiti (Gn 34,25). Del resto numerosi appaiono nella sacra Scrittura gli esempi dell'ira divina, che il Parroco potrà evocare, per allontanare gli uomini dalla riprovevole libidine: la sorte di Sodoma e delle città confinanti (Gn 19,24); il supplizio degli Israeliti che avevano fornicato nel deserto con le figlie di Moab (Nb 25); la distruzione dei Beniamiti (Jg 20).

Se v'è qualcuno che sfugge alla morte, non si sottrae però a dolori intollerabili, a tormenti punitivi, che piombano inesorabili. Accecato com'è nella mente (ed è già questa pena gravissima), non tiene più conto di Dio, della fama, della dignità, dei figli, e della stessa vita. Resta cosi depravato e inutilizzato, da non poterglisi affidare nulla di importante, o assegnarlo come idoneo ad alcun ufficio. Possiamo scorgere esempi di questo in David come in Salomone. Il primo, resosi reo di adulterio, subitamente cambio natura e da mitissimo divenne feroce, si da mandare alla morte l'ottimo Uria (2S 11); l'altro, perduto nei piaceri delle donne, si allontano talmente dalla vera religione di Dio, da seguire divinità straniere (1R 11). Secondo la parola di Osea, questo peccato travia il cuore dell'uomo (Os 4,11) e ne acceca la mente.

Rimedi per conservare la castità.

336. Veniamo ai rimedi che riguardano l'azione da svolgere. Il primo consiste nel fuggire con ogni cura l'ozio. Impoltronendo nell'ozio, come dice Ezechiele (Ez 16,49), gli abitanti di Sodoma precipitarono nel più vergognoso crimine di concupiscenza.

Sono poi da evitarsi con grande vigilanza gli eccessi nel mangiare e nel bere. Li satollai, dice il Profeta, ed essi fornicarono (Jr 5,7). Il ventre ripieno provoca la libidine, come accenno il Signore con le parole: Badate, che i vostri cuori non si appesantiscano nella crapula e nell'ebrietà (Lc 21,34), e l'Apostolo: Non vogliate ubriacarvi, poiché il vino nasconde la lussuria (Ep 5,18).

Gli occhi sono i veicoli più pericolosi attraverso i quali l'animo suole accendersi alla libidine. Per questo il Signore ha detto: Se il tuo occhio destro ti scandalizza, cavalo e gettalo via da te (Mt 5,29). E molte sono in proposito le sentenze dei profeti. Giobbe dice ad esempio: Strinsi un patto con gli occhi miei, di neppure pensare a una vergine (Jb 31,1). Sono copiosi, anzi innumerevoli gli esempi di azioni perverse, provocate dalla vista. Pecco cosi David (2S 11,2); pecco cosi il re di Sichem (Gn 34,2); cosi finirono col farsi calunniatori di Susanna i vecchi, di cui parla Daniele (Da 13,8).

Spesso incentivo non indifferente alla libidine offre la moda ricercata, che solletica l'occhio. Per questo ammonisce l'Ecclesiastico: Volta la faccia dalla donna elegante (9,8). E poiché le donne sogliono badare troppo al loro abbigliamento, non sarà male che il Parroco attenda di frequente a premunirle in proposito, memore delle parole gravissime, che l'apostolo Pietro ha dettato sull'argomento: La pettinatura delle donne non sia appariscente, i monili e l'abbigliamento non siano ricercati (1P 3,3); e di quelle di san Paolo: Non badate ai capelli ben attoreigliati, agli ori, alle pietre preziose, alle vesti sontuose (1Tm 2,9); molte infatti che si erano adornate con oro e gioielli, smarrirono i veri ornamenti dell'anima e del corpo.

Insieme all'incentivo libidinoso che è dato dalla raffinata ricercatezza delle vesti, occorre aggiungere quello che emana dai discorsi turpi e osceni. L'oscenità delle parole, quasi fiaccola ardente, accende l'animo dei giovani: Le perverse conversazioni, dice l'Apostolo, corrompono i buoni costumi (1Co 15,33). E poiché il medesimo effetto producono, in misura anche più notevole, i balli e i canti sdolcinati, occorre tenersi lontani anche da questi.

Fra questi incitamenti alla voluttà vanno annoverati i libri osceni e trattanti dell'amore sessuale, che devono evitarsi con non minore severità delle figure rappresentanti qualcosa di turpe, la cui capacità di spingere al male e di infiammare i sensi giovanili è straordinaria. Il Parroco curi perciò soprattutto che siano osservate con il massimo rispetto le costituzioni sapienti del concilio Tridentino in proposito (Sess. 25).

Se con attenta cura e vigile amore si eviterà quanto abbiamo ricordato, sarà soppressa ogni occasione alla concupiscenza carnale; ma per la sua virulenza valgono in modo eminente la Confessione e la Comunione frequente; le assidue e umili preci a Dio, accompagnate da elemosine e da digiuni. La castità è, in fondo, un dono che Dio non nega a chi rettamente lo cerca (1Co 7,7), poiché Egli non consente che siamo tentati sopra le nostre forze (1Co 10,13).

Dobbiamo infine mortificare il corpo e i suoi appetiti malsani, non solamente con i digiuni, quelli specialmente prescritti dalla santa Chiesa, ma anche con le vigilie, i pii pellegrinaggi e con macerazioni di altro genere. In queste pratiche, infatti, si manifesta la virtù della temperanza. Scriveva appunto san Paolo a quei di Corinto: Chi si appresta a gareggiare nella palestra, segue un regime di grande astinenza. Eppure essi ambiscono una semplice corona corruttibile, mentre noi l'aspettiamo immortale. E poco appresso: Castigo il mio corpo e lo tengo in soggezione, affinché, dopo aver predicato agli altri, io stesso non divenga alla fine un reprobo (1Co 9,25). E altrove: Non vogliate pascere la carne nei suoi immoderati desideri (Rm 13,14).


Catechismo Tridentino 3500