Catechismo Tridentino 3900

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NONO e DECIMO COMANDAMENTO

Non desiderare la casa del prossimo tuo, né la moglie, il servo, la serva, il bue, l'asino e tutto quello che è suo.

In questi due comandamenti è riposto il modo per osservare gli altri.

352. Si noti prima di tutto che in questi due comandamenti, che sono stati dati per ultimi, è quasi riposto il segreto per cui si possono osservare tutti gli altri. Poiché quello che è imposto con queste parole mira a questo: che se uno vuole osservare i suddetti comandi della Legge, deve sopratutto badare a noii desiderare disordinatamente. Infatti chi è contento di quel che possiede, non desidera né brama le cose altrui. Egli godrà dei vantaggi degli altri, darà gloria a Dio immortale, lo ringrazierà più che puo, onorerà il sabato, cioè godrà di perpetua pace, onorerà i suoi maggiori, infine non offenderà alcuno né con atti né con parole, né in altro modo. Infatti, origine e seme di tutti i mali è la malvagia concupiscenza (1Tm 6,10 Jc 1,14; 1Tm 4,1), giacché, chi ne è acceso, cade a precipizio in ogni sorta di turpitudini e di colpe. Premesse queste avvertenze, il Parroco sarà molto diligente nell'esporre quel che segue, e i fedeli più attentamente lo ascolteranno.

Quantunque qui noi abbiamo unito due comandamenti, perché, essendone simile l'argomento, tengono la medesima via nell'ammaestrarci, il Parroco tuttavia, nell'esortare e nelPammonire, potrà trattarli insieme o separatamente, come gli sembrerà più conveniente. Se poi si assumerà il compito di spiegare il Decalogo, mostri quale sia la dissomiglianza tra i due comandamenti e in che cosa una concupiscenza differisca dall'altra; la quale differenza è esposta da sant'Agostino nel libro delle questioni sull'Esodo.

L'una di esse mira soltanto a ciò che è utile e a ciò che è vantaggioso; l'altra ha per oggetto le libidini e i piaceri sessuali. Se dunque uno desidera il podere o la casa d'altri, brama più il lucro o l'utile che il piacere; se invece desidera la moglie altrui, arde non del desiderio dell'utile, ma del piacere.

Duplice fu la necessità di questi comandamenti: la prima deriva dall'esigenza di spiegare il senso del sesto e settimo comandamento. Perché, quantunque con un certo naturale acume si potesse comprendere che, vietato l'adulterio, era pur proibita la brama di possedere la moglie altrui - giacché se fosse lecito il desiderare, dovrebbe esserlo ugualmente il possedere - tuttavia molti Ebrei, accecati dal peccato, non potevano essere indotti a credere che ciò fosse proibito; anzi, dopo che fu divulgata e conosciuta questa legge divina, molti che si professavano interpreti della Legge, caddero in questo errore, come si può capire dal discorso del Signore, nel Vangelo di san Matteo: Udiste come fu detto agli antichi: Non fare adulterio. Ma io vi dico... (Mt 5,27), con quel che segue. Seconda necessità di questi comandamenti è di vietare distintamente ed esplicitamente certe colpe, non vietate esplicitamente nei comandamenti sesto e settimo. Il settimo comandamento, per es., proibisce che uno desideri ingiustamente le cose altrui o tenti di prenderle; questo invece vieta che uno possa in qualche modo desiderare le cose altrui, quand'anche potesse ottenerle a buon diritto e secondo la legge, quando dal loro possesso derivasse un danno al prossimo.

In questi precetti è manifesta la bontà di Dio verso di noi.

353. Siano avvertiti i fedeli, prima di venire alla spiegazione del comandamento, che noi con questa legge non siamo soltanto ammaestrati a frenare le nostre cupidigie, ma anche a conoscer la pietà di Dio verso di noi, che è immensa. Egli infatti, avendoci fornito con i precedenti comandamenti della Legge una specie di difesa, perché nessuno potesse danneggiare noi e le cose nostre, con questo comandamento supplementare volle, sopratutto, provvedere che non ci danneggiassimo con i nostri sfrenati desideri. Il che facilmente ci sarebbe accaduto se fosse stata libera e intera per noi la possibilità di bramare e desiderare ogni cosa. Col prescriverci, invece, questa legge su ciò che non dobbiamo desiderare, Dio provvide a che gli stimoli delle passioni, dalle quali possiamo più spesso esser incitati verso le cose a noi dannose, repressi in qualche modo dal vigore di questa legge, meno ci assillino. E cosi, liberati dalla molesta cura delle passioni, possiamo avere più tempo per compiere quei doveri di pietà e di religione, che, in gran numero e importantissimi, dobbiamo a Dio stesso.

Né questa norma c'insegna solo questo; ma ci ammonisce pure che la Legge di Dio è di tal fatta che bisogna osservarla non solo col compiere le obbligazioni esterne imposteci dal dovere, ma anche con l'intima adesione dell'animo. E questa è la differenza tra le leggi divine e le umane: queste si contentano dell'osservanza esterna; quelle invece, poiché Dio penetra nell'animo nostro, richiedono vera e sincera castità e integrità dell'animo stesso. La Legge divina è come uno specchio, in cui vediamo i vizi della nostra natura; percio l'Apostolo disse: Non avrei conosciuto la concupiscenza, se la Legge non dicesse: Non desiderare (Rm 7,7). Infatti, poiché la concupiscenza, cioè il fomite del peccato che ebbe origine dal peccato originale, perdura sempre in noi, veniamo a conoscere che siamo nati nel peccato; e percio, supplichevoli, ci rifugiamo presso Colui che, solo, può togliere le sozzure del peccato.

Le due parti del comandamento: proibizioni e prescrizioni.

354. Ognuno di questi due comandamenti ha questo in comune con gli altri: da una parte, vieta qualche cosa, dall'altra parte, impone dei doveri da compiere.

Per quanto riguarda la proibizione, perché nessuno creda che sia peccato la concupiscenza non viziosa, - come è quella dello spirito contro la carne (Ga 5,17), o quella che consiste nel chiedere a ogni momento le divine giustificazioni (Ps 118,20), ciò che David desiderava di ricordare, - il Parroco insegni quale sia la concupiscenza che viene colpita dalla prescrizione di questa legge.

Si ricordi che la concupiscenza è un turbamento e uno stimolo dell'animo, per opera del quale gli uomini desiderano le cose gradite che non possiedono; ed a quel modo che gli altri appetiti dell'animo non sempre sono cattivi, cosi questo stimolo della concupiscenza non sempre deve essere riposto tra i vizi. Infatti non è cosa cattiva il desiderare cibo o bevanda, bramare di riscaldarci quando abbiamo freddo, o di rinfrescarci quando abbiamo caldo; anzi questo retto stimolo della concupiscenza è insito nella nostra natura per opera di Dio. Ma per il peccato dei nostri progenitori, accadde che esso, passando i confini segnalati dalla natura, si depravo a tal segno, che spesso è incitato a desiderare le cose, che ripugnano allo spirito e alla ragione.

Questo stimolo, se moderato e racchiuso nei suoi limiti, spesso procura grandi vantaggi; perché, prima di tutto, fa in modo che noi preghiamo Dio con assiduita e chiediamo supplichevoli a lui quello che sopratutto desideriamo. L'orazione infatti è la manifestazione del desiderio; e, se mancasse questo retto stimolo della concupiscenza, non ci sarebbero tante preghiere nella Chiesa di Dio. Inoltre ci rende più cari i doni di Dio, perché quanto più fortemente ardiamo del desiderio di una cosa, tanto più cara e gradita ci diviene, quando l'abbiamo ottenuta. Lo stesso piacere, poi, che proviamo per la cosa desiderata, ci fa ringraziare Dio con maggiore devozione. Percio, se qualche volta è lecito desiderare, dobbiamo riconoscere che non è proibito ogni stimolo di concupiscenza; e, quantunque san Paolo abbia detto che la concupiscenza è peccato (Rm 7,20), bisogna intendere ciò nel senso in cui parlo Mosè (Ex 20,17), del quale riporta la testimonianza; e lo dichiara la parola dello stesso Apostolo, poiché nella Lettera ai Galati chiama questo difetto: concupiscenza della carne. Camminate, egli dice, nello spirito, e non soddisfate i desideri della carne (Ga 5,16).

Dunque lo stimolo del desiderio naturale e moderato, che non esce dai suoi limiti, non è proibito; e molto meno quella spirituale tendenza di una retta mente, da cui siamo stimolati a desiderare ciò che ripugna alla carne. Ad essa infatti ci esortano le sacre Scritture, dicendo: Desiderate i miei discorsi (Sg 6,12); Venite a me tutti voi che mi desiderate (Si 24,26).

Pertanto con questa proibizione non è vietato del tutto quel desiderio che può condurre tanto al bene che al male; ma la consuetudine della prava cupidigia, chiamata concupiscenza della carne e fomite di peccato, la quale porta con sé il consenso dell'animo, deve esser sempre annoverata tra i vizi. Dunque è vietata soltanto quella libidine di concupiscenza, che l'Apostolo chiama concupiscenza della carne (Ga 5,16 Ga 5,24), cioè quei moti di concupiscenza che non hanno alcun freno di ragione e non sono racchiusi nei limiti fissati da Dio.

Questa cupidigia è condannata, sia che desideri il male, come adulteri, ebrietà, omicidi e altre simili colpe nefande, di cui l'Apostolo dice: Non desideriamo ciò ch'è malvagio, come essi lo desiderarono (1Co 10,6); - sia che quanto desideriamo non sia lecito per noi, quantunque le cose desiderate per natura non siano cattive. A questo genere di cose appartiene ciò che Dio, o la Chiesa vietano di possedere; non è infatti lecito desiderare ciò che è in generale proibito di possedere, come lo erano nell'antica Legge, l'oro e l'argento che erano serviti per farne idoli; le quali cose il Signore nel Deuteronomio vieto di desiderare (7,25).

Inoltre questa viziosa bramosia è proibita perché le cose che si desiderano sono di altri, come la casa, il servo, l'ancella, il campo, la moglie, il bove, l'asino, e molte altre, che la Legge divina vieta di desiderare appunto perché di altri. Il desiderio di tali cose è cattivo e viene annoverato tra i più gravi peccati, quando l'animo da il suo consenso. Infatti si ha naturalmente il peccato, quando, dopo l'impulso di malvage passioni, l'animo si diletta di cose biasimevoli e consente o non ripugna ad esse. Cosi insegna san Giacomo, allorché mostra l'origine e il progredire del peccato, con queste parole: Ognuno è tentato, attratto e allettato dalla propria concupiscenza. Quando poi la concupiscenza ha concepito, produce il peccato; e il peccato quando è stato consumato, genera la morte (Jc 1,14).

Spiegazione del comandamento.

355. Giacché siamo cosi messi in guardia dalla Legge che dice: Non desiderare, queste parole si devono intendere nel senso che dobbiamo tener lontano il desiderio dalle cose altrui; che la sete di cupidigia per le cose degli altri è immensa e infinita, né mai si sazia. Sta scritto infatti: L'avaro non si sazierà di denaro (Si 5,9); e anche Isaia dice: Guai a voi che aggiungete casa a casa e unite campo con campo (Is 5,8). Ma dalla spiegazione delle singole parole più facilmente capiremo la turpitudine e la gravita di questo peccato.

Il Parroco insegni che col termine casa, non s'intende soltanto il luogo che abitiamo, ma tutti i beni ereditari, come si può ricavare dall'usanza e consuetudine degli scrittori sacri. Nell'Esodo sta scritto che alle levatrici furono edificate case da Dio (I,21); e la frase qui significa che le loro sostanze furono aumentate e accresciute da Dio. Da questa interpretazione conosciamo che questa parte del precetto vieta di desiderare avidamente le ricchezze, di invidiare le facoltà, la potenza, la nobiltà altrui, mentre ci è imposto di contentarci del nostro stato, qualunque esso sia, umile o eccelso. Dobbiamo poi intendere che è vietato anche il desiderio della gloria altrui, giacché anche questa ha relazione con la casa.

Quel che segue poi: Né il bove né l'asino, mostra che non dobbiamo desiderare non solo le cose importanti, come la casa, la nobiltà e la gloria, quando siano d'altri, ma nemmeno le piccole, comunque siano, animate o inanimate.

Segue ancora: Né il servo, né la serva; e ciò s'ha da intendere tanto degli schiavi presi in guerra, quanto di tutti i servi, che non dobbiamo desiderare, come ogni altro bene altrui. Quanto agli uomini liberi, che servono di loro volontà, per denaro, per amore e affetto, in nessun modo, né con parole, né con dar loro speranze, promesse, ricompense, si devono corrompere o indurre ad abbandonare coloro ai quali spontaneamente si sono vincolati; anzi, se prima del tempo pattuito per il loro servigio, se ne allontanassero, siano ammoniti, con l'autorità di questo comandamento, a farvi prontamente ritorno.

Quanto alla menzione che nel comandamento si fa del prossimo, essa mira a dimostrare la colpa di coloro che insistono a desiderare i campi vicini, le case contigue, o altra cosa siffatta, che sia a portata di mano. La vicinanza, infatti, che suoi considerarsi come un vincolo d'amicizia, talvolta cambia l'amore in odio, per colpa della cupidigia di possedere. Ma non offendono affatto questo comandamento quelli che desiderano comprare, o comprano a giusto prezzo dai vicini, quanto questi possono vendere. Essi infatti non solo non danneggiano il prossimo, ma lo aiutano grandemente, poiché il denaro gli sarà di maggior comodo e vantaggio di quelle cose che vende.

Al precetto che vieta di desiderare la roba d'altri, segue l'altro che vieta di desiderare la moglie degli altri; da quest'ultimo veniva proibito non soltanto quella libidine di concupiscenza con cui l'adultero desidera la moglie altrui, ma anche quella per la quale uno desidera sposare la moglie d'altri. Infatti, quand'era permesso il ricorso al libello del ripudio, poteva facilmente avvenire che la donna ripudiata da uno fosse accolta in moglie da un altro. Ma il Signore lo vieto, affinché né i mariti fossero stimolati a lasciare le mogli, né le mogli si mostrassero scontrose e capricciose coi mariti, e cosi s'imponesse loro quasi una certa necessità di ripudiarle.

Adesso dunque il peccato è più grave, perché un altro uomo non può sposare una donna ripudiata dal marito, se non dopo la morte di questo; e cosi chi desidera la moglie altrui, facilmente cadrà da un desiderio all'altro: bramerà infatti o che muoia il marito di lei, o di commettere un adulterio. Lo stesso si dica delle donne, promesse in matrimonio a un altro; anche queste non è lecito desiderarle, giacché chi cerca di rompere il fidanzamento, viola un santissimo vincolo religioso. A quel modo poi che è somma nefandezza desiderare la donna d'altri, cosi non si deve in nessun modo desiderare come moglie la donna, consacrata al culto e alla religione di Dio.

Se poi uno desiderasse di prendere in moglie una donna maritata, non credendola però tale, disposto però a non desiderarla, se la sapesse maritata a un altro - come accadde al Faraone e ad Abimelech, che desiderarono sposare Sara, credendola nubile e sorella, non già moglie di Abramo (Gn 12,11 Gn 20,2 segg.) -, colui che cosi pensa, non viola questo precetto.

Rimedi contro la concupiscenza.

356. Perché il Parroco possa indicare i rimedi adatti a togliere questa passione della cupidigia, deve spiegare l'altra parte del comandamento, che consiste in questo: se le ricchezze abbondano, non dobbiamo attaccarvi il cuore, ma essere invece sempre pronti a profonderle per pietà e per amore delle cose divine, volentieri erogandole nel sollevare le miserie dei poveri. Che se poi ci mancano i mezzi, dobbiamo sopportare la povertà con animo sereno e ilare. E cosi, se saremo liberali nel dare le cose nostre, estingueremo in noi il desiderio delle altrui. Quanto alle lodi della povertà e al disprezzo delle ricchezze, facilmente il Parroco potrà trovare molti argomenti nelle sacre Scritture e nei santi Padri, per esporli al popolo fedele.

Con questa legge ci viene pure comandato di desiderare con ardente passione e con tutta la forza dell'animo che si compia sopratutto non ciò che desideriamo, ma quel che Dio vuole, secondo le parole nell'Orazione domenicale. E la volontà di Dio è sopratutto questa: che noi in maniera speciale diventiamo santi, conserviamo l'animo sincero, integro e puro da ogni macchia, e ci esercitiamo in quei doveri della mente e dello spirito, che ripugnano ai sensi materiali; cosicché, domati i loro appetiti, teniamo nella vita la retta strada, sotto la guida della ragione e dello spirito, e infine freniamo sopratutto l'impeto violento di quei sensi che offrono materia alla nostra cupidigia e alla libidine.

Ma a estinguere questo ardore di desideri giova moltissimo il proporci dinanzi agli occhi i danni che ne derivano.

Primo danno è questo: se noi siamo schiavi di tali passioni, nell'anima nostra regna fortissimo il potere del peccato; perciò l'Apostolo ammonisce: Non regni il peccato nel vostro corpo mortale, in modo che dobbiate ubbidire alle sue concupiscenze (Rm 6,12). Poiché, come resistendo noi alle passioni, cadono a terra le forze del peccato, cosi, soccombendo ad esse, cacciamo il Signore dal suo regno, ed in suo luogo poniamo il peccato.

C'è poi il secondo danno: da questo impeto di concupiscenze, come da una fonte, emanano tutti i peccati, come insegna san Giacomo (Jc 1,14). E san Giovanni scrive: Tutto quello che è nel mondo, è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e superbia della vita (1Jn 2,16).

Il terzo danno consiste in questo: dalle passioni viene oscurato il retto giudizio dell'animo, perché gli uomini accecati dalle tenebre delle passioni, giudicano onesto e bellissimo quanto essi bramano. Infine l'impeto della concupiscenza soffoca la parola di Dio, posta nelle anime da quel grande agricoltore che è Dio. Cosi infatti sta scritto in san Marco: Gli altri (chicchi di grano) seminati tra le spine, sono coloro che ascoltano la parola; ma le cure del mondo, l'inganno delle ricchezze e le voglie delle altre cose s'insinuano a soffocare la parola: la quale resta cosi infruttuosa (Mc 4,18-19).

Chi soprattutto debba esser tenuto lontano dal vizio della concupiscenza.

357. Più di tutti gli altri, sono colpiti da questi vizi della concupiscenza e sono quindi più bisognosi di essere esortati dal Parroco a osservare più diligentemente questo comandamento, quanti si dilettano di giuochi disonesti, o abusano immoderatamente dei giuochi; cosi pure quei mercanti che desiderano penuria d'ogni cosa e carestia, o sopportano a malincuore che ci siano altri i quali riescono a vendere a più caro prezzo, o a comperare più a buon mercato di loro.

Peccano allo stesso modo quanti desiderano che gli altri siano nel bisogno, per potere nel commercio guadagnare di più. Cosi pure peccano quei soldati che bramano la guerra per cupidigia di saccheggio; i medici che desiderano le malattie; i giureconsulti che si augurano abbondanza di cause e di liti; gli artigiani, infine, che, avidi di guadagno, invocano penuria di quanto è necessario alla vita, per trame il maggior lucro possibile. Inoltre, in questo peccano gravemente quanti sono avidi e bramosi di acquistar lode e gloria, sia pure a prezzo di calunnia e danno alla fama altrui; sopra tutto se coloro che desiderano lode e gloria, sono uomini inetti e di nessun valore. Poiché la lode e la fama sono premi del valore e del lavoro, non già dell'ignavia e della nullità.







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PARTE QUARTA

L'ORAZIONE

Importanza della preghiera nella cura pastorale.

358. Tra i doveri e i compiti del Pastore è sommamente necessario, per la salvezza del popolo fedele, l'insegnamento della preghiera cristiana, il cui valore e le cui forme molti ignoreranno, se non vengono loro esposti dalla pia e fedele diligenza del Pastore. Percio tra le cure principali del Parroco deve esserci questa: che i suoi uditori comprendano l'oggetto e il modo della preghiera verso Dio.

Tutte le qualità indispensabili dell'orazione sono contenute in quella divina formula che Cristo nostro signore volle far nota agli apostoli, e per mezzo loro, ai loro successori, e a tutti quelli che professano la religione cristiana. Le sue parole ed espressioni occorre talmente imprimere nell'animo e nella memoria, da poterle avere sempre a portata di mano.

affinché i Parroci abbiano il modo d'ammaestrare i loro fedeli uditori intorno a questa maniera di pregare, qui esponiamo le norme che ci sembrarono più opportune, desunte da quegli scrittori di cui sono più lodate la dottrina e la ricchezza degli argomenti; il resto, se ce ne sarà bisogno, i Pastori potranno attingerlo alle medesime fonti.

Necessità dell'orazione.

359. Prima d'ogni cosa bisogna mostrare quanto sia necessaria l'orazione, il cui precetto non fu dato solo a titolo di consiglio, ma ha valore di obbligo, come fu detto da Cristo nostro Signore: Bisogna sempre pregare (Lc 18,1).

La Chiesa stessa ribadisce questa necessità del pregare con quelle parole poste quasi come proemio della Preghiera divina: Istruiti dal comando del Salvatore e formati al suo divino insegnamento, osiamo dire... - Pertanto, essendo necessaria per i Cristiani la preghiera, e avendo i discepoli chiesto al Figlio di Dio: Signore, insegnaci a pregare (Lc 11,1), egli stesso prescrisse la forma della preghiera, e diede loro speranza che avrebbe adempiuto quello che essi domandavano. Egli stesso fu di ammaestramento per l'obbligo della preghiera, perché non solo pregava assiduamente, ma passava anche la notte a pregare (Lc 6,12). Quindi gli apostoli non cessarono di tramandare, a chi entrava nella fede di Gesù Cristo, i precetti riguardanti quest'obbligo. Infatti san Pietro (1P 3,7) e san Giovanni (1Jn 3,22) ammoniscono con la massima cura i fedeli intorno alla preghiera, e l'Apostolo, memore della sua importanza, in più luoghi esorta i Cristiani al salutare obbligo del pregare.

Noi abbiamo bisogno di tanti benefici e vantaggi necessari alla salute dell'anima e del corpo, che dobbiamo ricorrere alla preghiera come a una interprete, migliore d'ogni altra, dei nostri bisogni, e a un mezzo per ottenere ciò di cui abbiamo bisogno.

Se Dio non deve nulla a nessuno, certamente non resta che chiedergli con preghiere quel che ci occorre; e queste preghiere Dio ce le diede come uno strumento necessario per ottenere ciò che desideriamo, sopratutto nel constatare che alcune cose non si possono ottenere senza il suo aiuto. Le preghiere hanno infatti una tale virtù che da esse specialmente vengono cacciati i demoni.

C'è infatti un genere di demoni che non si caccia se non col digiuno e con l'orazione (Mt 17,20). perciò si privano della possibilità di ottenere segnalati doni coloro che non hanno questa pratica abituale di pregare piamente e diligentemente. Per ottenere quel che desideri c'è bisogno infatti di una richiesta non solo conveniente ma anche assidua. Perché, come nota san Girolamo, sta scritto: Tutto si da a chi chiede; perciò se a te non si da nulla, è perché non chiedi: Chiedete dunque e otterrete (sul cap. 7 di san Mt).

Frutti dell'orazione.

360. Questo dovere necessario ha anche la gratissima utilità di produrre frutti copiosissimi, l'esposizione dei quali i Pastori prenderanno in abbondanza dai sacri autori quando avranno bisogno di farne parte al popolo dei fedeli; in quella grande abbondanza noi ne sceglieremo alcuni che oggi crediamo più adatti allo scopo.

Il primo vantaggio che ne ricaviamo è che, pregando, rendiamo onore a Dio, perché l'orazione è una forma di culto, paragonata nelle divine Scritture a un profumo: Si diriga, dice il Profeta, la mia orazione, come incenso, al tuo cospetto (Ps 140,2). Noi in questo modo ci dichiariamo soggetti a Dio, perché lo riconosciamo e proclamiamo autore di tutti i beni, e a lui soltanto ci rivolgiamo; egli è l'unico presidio e rifugio che ci assicura incolumità e salvezza. Di questo vantaggio siamo avvertiti anche dalle parole: Invocami nel momento della sofferenza: io ti liberero e tu mi darai onore (Ps 49,15).

Altro frutto grande e gioioso dell'orazione si ha quando le preghiere sono ascoltate da Dio; infatti, come insegna sant'Agostino, l'orazione è la chiave del cielo. Sale, egli dice, la preghiera, e discende la commiserazione di Dio; quantunque profonda sia la terra e alto il cielo, pure Dio ascolta la parola umana se proviene da una coscienza pura. Cosi grande è l'efficacia, cosi grande l'utilità di questo dovere di pregare, che con esso otteniamo la ricchezza dei doni celesti. Cosi otteniamo che Dio c'invii come guida e sostegno lo Spirito santo, e conseguiamo la conservazione della fede, l'incolumità, l'esenzione dalle pene, la protezione divina nelle tentazioni e la vittoria sul diavolo; ed è pure nella preghiera ^che troviamo un cumulo di gioie. perciò il Signore diceva: Chiedete e otterrete, affinché la vostra gioia sia piena (Jn 16,24).

Né c'è motivo di dubitare che la benignità di Dio aiuti la nostra richiesta e vi accondiscenda. ciò è provato da molte testimonianze della divina Scrittura, di cui citeremo, solo per esempio, le parole di Isaia: Allora, infatti, egli dice, invocherai e Dio ti esaudirà; griderai e Dio dirà: Ecco: ti soccorro (Is 58,9); e ancora: Prima che gridino, io li esaudiro; mentr'essi ancora parlano, io li ascoltero (Is 65,24). Omettiamo gli esempi di quanti con le preghiere ottennero qualcosa da Dio, essendo quasi infiniti e posti innanzi agli occhi di tutti.

Talvolta però accade che non otteniamo quel che chiediamo; e cosi è veramente. In tal caso, Dio ha di mira sopratutto la nostra utilità o perché ci impartisce beni maggiori e migliori, o perché non è necessario né utile quel che chiediamo; che anzi ci sarebbe forse superfluo e dannoso se ce lo desse. Infatti, dice sant'Agostino, Dio, quando ci è propizio, nega quello che, invece, ci concede se è sdegnato (Serm. 33 De Verbis Domini, tr. 73 in Jo.).

Qualche volta, poi, avviene che noi preghiamo cosi distratti e con tale negligenza che neppure badiamo a quel che diciamo. Essendo, infatti, l'orazione una elevazione della mente a Dio, se, nel pregare, l'animo che deve condursi a Dio, è distratto, e le parole della preghiera sono buttate giù alla rinfusa, senza attenzione e spirito di religione, in che modo potremo dire che il vano suono di questa orazione è vera preghiera cristiana? perciò non v'è da meravigliarsi se Dio non acconsente alla nostra volontà, quando mostriamo, con la negligenza e la noncuranza della preghiera, di non voler quel che chiediamo, o chiediamo ciò che ci sarebbe dannoso.

Invece, a coloro che chiedono scientemente e diligentemente, si da molto più di quel che abbiano chiesto a Dio, come testimonia l'Apostolo nella Lettera agli Efesini (Ep 3,20), e come è mostrato dalla famosa parabola del figliuol prodigo che pensava di esser trattato ottimamente anche se suo padre l'avesse considerato come un servo mercenario (Lc 15,2). Quando rettamente pensiamo e preghiamo, Dio non soltanto accumula la grazia su di noi con l'abbondanza dei doni, ma anche con la prontezza nell'esaudirci. Lo mostrano le sacre Scritture quando usano l'espressione:Il Signore esaudi il desiderio dei poveri (Ps 9,17); Dio infatti soccorre ai bisogni intimi e occulti dei poveri, senza nemmeno aspettare la loro preghiera.

Si aggiunge a questo un altro frutto: pregando esercitiamo e accresciamo le virtù dell'anima, sopratutto la fede. Infatti non possono pregare efficacemente coloro che non hanno fede in Dio. In che modo, dice l'Apostolo, potranno invocare Colui nel quale non credono? (Rm 10,14). Cosi i fedeli, con quanto più ardore pregano, tanto maggiore e più sicura fede hanno nella tutela e provvidenza divina, che richiede sopratutto questo: che rivolgendoci ad essa in ogni bisogno, le chiediamo tutte le cose necessarie. Dio potrebbe infatti, senza che noi lo chiedessimo o neppur lo pensassimo, elargirci in abbondanza ogni cosa, a quel modo che provvede a tutti i bisogni della vita degli animali privi di ragione; ma questo beneficentissimo Padre vuole essere invocato dai figliuoli; vuole che noi, chiedendo per dovere ogni giorno, domandiamo con maggior fiducia. E vuole che, ottenuto quanto chiediamo, di giorno in giorno sempre più testimoniamo ed esaltiamo la sua benignità verso di noi.

Si accresce cosi anche la carità, poiché, riconoscendo in Dio l'Autore di tutti i nostri beni e vantaggi, lo amiamo con quanto più ardore possiamo. E, come nelle persone che si amano, sempre più cresce l'affetto dopo ogni colloquio, cosi gli uomini pii, che nella preghiera quasi parlano con Dio, quanto più spesso lo pregano e ne implorano la benignità, tanto maggiormente sono presi da gaudio e più ardentemente sono incitati ad amarlo e adorarlo. perciò Dio vuole che ci serviamo di questo esercizio della preghiera, perché, ardendo dal desiderio di ottenere quel che chiediamo, tanto andiamo avanti nell'assiduita e nel desiderio da esser degni di ricevere quei benefici che prima l'animo nostro, fiacco e angusto, non poteva contenere.

Vuole inoltre che noi comprendiamo e teniamo presente che, se siamo abbandonati dall'aiuto della grazia celeste, come accade realmente, non possiamo con l'opera nostra ottenere nulla, e perciò è necessario che attendiamo con tutto l'animo a pregare. Valgono efficacemente queste armi dell'orazione contro i nemici più accaniti della nostra natura; dice infatti sant'Ilario: Contro il diavolo e le sue armi, bisogna combattere col suono delle nostre orazioni (In Ps 23).

Inoltre, per mezzo dell'orazione conseguiamo quest'ottimo risultato: essendo noi proclivi al male e ai vari appetiti della concupiscenza, innata in noi per la nostra debolezza, Dio ci permette di raggiungerlo col nostro pensiero, in modo che, mentre lo preghiamo e cerchiamo di meritarci i suoi doni, riceviamo da lui la volontà di custodire l'innocenza e ci purifichiamo da ogni macchia con la cancellazione di tutte le nostre colpe.

In ultimo, secondo il pensiero di san Girolamo, l'orazione può resistere all'ira divina. Infatti cosi disse Dio a Mosè: Lasciami (Ex 32,10), perché egli tentava d'impedire con le sue preghiere che Dio facesse scontare a quel popolo le colpe commesse. Non c'è nulla, infatti, che valga, meglio delle preghiere dei buoni, a mitigare l'ira di Dio, ritardare le punizioni che Egli è pronto ad applicare ai malvagi, e a placarne lo sdegno.

Le varie parti dell'orazione.

361. Esposta la necessità e l'utilità della preghiera cristiana, bisogna che il popolo fedele sappia anche distinguere quante e quali parti si riscontrino in essa. ciò riguarda il compimento di questo dovere, come attesta l'Apostolo, che scrivendo a Timoteo lo esorta a pregare piamente e santamente, enumerando diligentemente le parti dell'orazione. " Ti scongiuro ", egli dice, " di fare, prima d'ogni altra cosa, suppliche, orazioni, domande, ringraziamenti per tutti gli uomini " (1Tm 2,1). Ma, essendo alquanto sottile la differenza di queste parti, i Parroci, se crederanno che giovi ai loro uditori, le spieghino, consultando tra gli altri sant'Ilario e sant'Agostino.

Poiché sono due le parti principali dell'orazione: la domanda e il ringraziamento, da cui, come dal capo, derivano le altre, abbiamo creduto di non doverle tralasciare del tutto. Infatti noi ci accostiamo a Dio, dandogli onore e venerazione, o per chiedergli qualche cosa, o per ringraziarlo de' benefici, che continuamente ci largisce e accresce nella sua benignità. Che l'una parte e l'altra dell'orazione siano sopratutto necessarie, Dio lo disse per bocca di David, con le parole: Invocami nel tempo dell'afflizione; io ti liberero, e tu mi onorerai (Ps 49,15). Quanto noi abbiamo bisogno della liberalità e bontà divina, chi può ignorarlo, solo che consideri la somma povertà e miseria degli uomini?

Quanto poi la volontà di Dio sia propensa al genere umano, quanto sia sparsa tra noi la sua benignità, lo comprendono tutti quelli che hanno occhi e facoltà di pensare. Dovunque volgiamo lo sguardo o il pensiero, scorgiamo l'ammirabile luce della beneficenza e benignità di Dio. Cos'hanno, infatti, gli uomini, che non sia derivato dalla divina munificenza? E se ogni cosa è dono di lui e beneficio della sua bontà, quale ragione c'è perché non debbano tutti, secondo le loro forze, celebrare con lodi Iddio beneficentissimo e ricolmarlo di ringraziamenti?

Molte le categorie di coloro che pregano.

362. Sono varie le maniere di compiere questi due doveri: chiedere, cioè, qualcosa a Dio e ringraziarlo, maniere che sono una più alta e perfetta dell'altra. Perché, dunque, il popolo fedele non solo preghi, ma adempia anche nella maniera migliore all'obbligo dell'orazione, i Pastori esporranno la maniera di pregare più alta e perfetta, e l'esorteranno ad essa con quanta maggiore diligenza potranno.

Ma qual'è la forma di preghiera migliore e più alta di tutte? Certo quella degli uomini pii e giusti che, sorretti dalla fede più viva, per taluni gradi di santa orazione mentale, giungono al punto di contemplare l'infinita potenza di Dio, e la sua immensa benignità e sapienza. Qui raggiungono anche quella sicurissima speranza di ottenere tutto quello che chiedono nel presente e anche quella serie di ineffabili beni che Dio promise di largire a quelli che implorano piamente e con tutto l'animo l'aiuto divino.

L'anima, quasi come trasportata in cielo da queste due ali, con ardente desiderio giunge fino a Dio al quale tributa ringraziamenti e lodi senza fine, perché da lui ha avuto sommi benefici; quindi, con particolare amore e venerazione, espone, senza esitare, come figlio unico al carissimo padre, ciò di cui ha bisogno. Questa maniera di pregare e di manifestare con la parola i propri sentimenti è descritta dalle sacre Scritture. Dice infatti il Profeta: Effondo la mia orazione al tuo cospetto, e innanzi a te depongo la mia afflizione (Ps 141,3). Questa espressione significa che, chi viene a pregare, nulla tace, nulla nasconde, ma tutto svela, fiduciosamente rifugiandosi nel grembo di Dio, dilettissimo padre.

A ciò ci esorta la divina Scrittura con le parole: Aprite alla sua presenza il vostro cuore (Ps 41,9); Getta nel Signore il tuo affanno (Ps 54,23). A tale maniera di pregare allude sant'Agostino, allorché dice nel'Enchiridion, che, quanto la fede crede, la speranza e la carità lo trasformano in preghiera.

Altra categoria è di quelli che, oppressi da mortali peccati, si sforzano, tuttavia, con quella fede che si dice morta, di innalzarsi e salire a Dio; ma per le forze stremate e la gran debolezza della fede, non possono risollevarsi da terra. Tuttavia, riconoscendo i loro peccati, e tormentati da rimorso e dolore per averli commessi, umilmente e dimessamente, facendo penitenza, dall'abisso della loro abiezione implorano da Dio perdono delle colpe e pace. La preghiera di costoro non è rigettata da Dio, ma ascoltata ed accolta, perché Dio misericordioso invita tali uomini con la massima liberalità: Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi, egli dice, ed io vi ristorero (Mt 11,28). Del loro numero fu appunto quel pubblicano che, pur non osando alzare gli occhi al cielo, usci, tuttavia, dal tempio giustificato a differenza del fariseo (Lc 18,10).

5'è pure la categoria di quelli che non hanno ancora avuto la luce della fede, ma, avendo la divina benignità acceso il loro naturale lume intellettuale, sono ardentemente spinti allo studio e al desiderio della verità, e chiedono di essere in essa ammaestrati con fervidissime preghiere. Quanto a costoro, se rimangono nella loro intenzione, il loro desiderio non viene respinto dalla clemenza di Dio. E lo vediamo dall'esempio del centurione Cornelio (Ac 10,4 Ac 10,13). A nessuno, infatti, che chieda con animo sincero, sono chiuse le porte della divina benignità.

Ultima categoria è quella di coloro, che non solo non si pentono dei loro delitti e delle loro colpe, ma accumulano colpa su colpa; eppure non si vergognano di chiedere spesso a Dio perdono dei peccati nei quali vogliono perseverare. Quelli che si trovano in tale condizione non dovrebbero chiedere neppure agli uomini di essere perdonati. La loro orazione non è ascoltata da Dio, come sta scritto di Antioco: Pregava, questo malvagio, il Signore da cui non avrebbe ottenuto misericordia (2M 2M 9,13). perciò bisogna esortare grandemente chi si trova in questa misera condizione a rivolgersi veramente e sinceramente a Dio, deponendo la volontà di peccare.

Bisogna chiedere il bene sommo e guanto ad esso conduce.

363. Si dirà a suo luogo quel che si deve, o no, domandare nelle singole richieste; qui basterà ammonire i fedeli in generale a chiedere a Dio ciò che è giusto e onesto, perché non siano respinti, qualora domandino qualcosa di inopportuno, col noto rimprovero: Non sapete quel che chiedete (Mt 20,22). Si può chiedere tutto quello che si può rettamente desiderare, come attestano le ricchissime promesse del Signore: Chiedete quanto vorrete, e vi sarà concesso (Jn 15,7). Dio infatti promette di concedere tutto. perciò dovremo conformare la nostra prima aspirazione e il nostro primo desiderio a questa norma: che il sommo ardore e il sommo desiderio nostro si avvicinino a Dio, sommo Bene. Quindi dobbiamo desiderare ciò che più ci unisce a Dio; quanto, al contrario, ci allontana da lui o ci apporta motivo di separazione, deve esulare da ogni nostro desiderio e aspirazione.

Da qui è facile vedere in che modo, e in rapporto a quel Bene sommo e perfetto, si debbano desiderare e chiedere a Dio Padre tutti gli altri beni. Dal momento che questi cosiddetti beni esterni del corpo, come la salute, la forza, la bellezza, la ricchezza, le dignità, la gloria, danno spesso incentivo e materia al peccato (e per questo accade che spesso non si chiedano piamente e religiosamente), la loro richiesta deve essere ristretta in questi confini: che cioè i comodi della vita vengano chiesti solo in quanto necessari; e questa maniera di pregare arriva a Dio.

E lecito infatti chiedere con preghiere quel che chiesero Giacobbe e Salomone. Ecco la preghiera del primo: Se il Signore mi darà il pane per cibarmi e l'abito per coprirmi, sarà per me come unico Dio (Gn 28,20). E Salomone: Dammi soltanto quel che è necessario alla mia vita (Pr 30,8). Quando poi la benignità di Dio sopperisce al nostro vitto e mantenimento, è utile ricordarci dell'esortazione dell'Apostolo: Quelli che comprano siano come se non possedessero, e quelli che si servono di questo mondo siano come se non se ne servissero; passa infatti la vana figura di questo mondo (1Co 7,30). A detta del Salmista: Se vi abbondano ricchezze, non vi attaccate il cuore (Ps 59,11). Delle quali ricchezze solo il frutto e l'uso siano nostri in modo che il godimento sia in comune con gli altri, come ci insegna Dio stesso.

Se stiamo bene in salute, se abbondiamo degli altri beni esterni e corporali, ricordiamo che ci sono stati dati affinché siamo più pronti nel servire a Dio, e sovveniamo largamente al prossimo nelle sue necessità. I beni e le doti dell'ingegno, alla quale categoria appartengono anche le arti e le scienze, li possiamo chiedere, ma soltanto a condizione che ci giovino a maggior gloria di Dio e per la nostra salvezza eterna. Si deve invece desiderare, cercare e chiedere, in generale e senza limitazione, o condizione, la gloria divina e quanto ci permetta di congiungerci col Bene sommo, come la fede, il timore e l'amore di Dio. Di questo soggetto parleremo più a lungo nello spiegare le richieste da farsi nella preghiera.

Bisogna supplicare Dio espressamente per tutti.

364. Conosciuto quel che si deve chiedere, bisogna insegnare al popolo fedele per chi si deve pregare. Non si deve infatti dimenticare che l'orazione contiene una richiesta e un ringraziamento. Qui noi parleremo, prima, della richiesta.

Bisogna dunque pregare per tutti senza eccezione alcuna, dettata da inimicizie, o da differenza di stirpe e di religione; perché, chiunque sia nemico, estraneo o infedele, è pur sempre prossimo; e poiché dobbiamo amarlo per comando di Dio, ne consegue che bisogna anche pregare per lui, essendo questo un obbligo di amore. A questo mira appunto l'esortazione dell'Apostolo: Vi scongiuro di pregare per tutti gli uomini (1Tm 2,1). In questa orazione bisogna chiedere prima quel che riguarda la salute dell'anima, poi quel che concerne la salute del corpo.

Dobbiamo rendere questo tributo della preghiera prima d'ogni altro ai Pastori delle anime, come siamo ammoniti dall'Apostolo col suo esempio. Egli infatti scrive ai Colossesi di pregar per lui, perché Dio gli apra la porta della predicazione (Col 4,3); lo stesso ripete scrivendo ai Tessalonicesi (1Th 5,25). Negli Atti degli Apostoli si legge: Dalla Chiesa si faceva continua orazione a Dio per Pietro (Ac 12,5). Siamo ammoniti a compier questo dovere anche nel libro di san Basilio sui Costumi; egli dice, infatti, che bisogna pregare per quelli che somministrano la parola di verità.

Bisogna pregare in secondo luogo per i Governanti, secondo il comando del medesimo Apostolo (1Tm 2,2). Nessuno, infatti, ignora quanto pubblico bene derivi dall'avere governanti pii e giusti; pertanto bisogna pregare Dio che siano tali, quali devono essere, coloro che sono costituiti in dignità. Santi uomini mostrano col loro esempio che si deve pregare anche per le persone buone e pie. Anch'esse, infatti, hanno bisogno delle preghiere altrui; e questo per volere divino, affinché esse, vedendo che hanno bisogno dei suffragi degli inferiori, non insuperbiscano.

Inoltre il Signore comanda di pregare per quelli che ci perseguitano e ci calunniano (Mt 5,44).

Dalla testimonianza di sant'Agostino risulta che deriva dagli apostoli la consuetudine di fare preghiere e voti per quelli che sono lontani dalla Chiesa, affinché risplenda la fede agli infedeli, e gl'idolatri siano liberati dall'errore dell'empietà; perché gli Ebrei, vinta la caligine del loro animo, ricevano la luce della verità; perché gli eretici tornati alla salute, siano ammaestrati nei precetti della dottrina cattolica; e gli scismatici, stretti dal nodo della vera carità, si uniscano di nuovo in comunione con la santissima madre Chiesa da cui si separarono. Quanta efficacia abbiano le preghiere fatte con tutto l'animo per tali persone, si vede dai moltissimi esempi di uomini d'ogni genere che Dio ogni giorno strappa dal potere delle tenebre e porta nel regno del Figlio del suo amore, e di vasi d'ira fa vasi di misericordia. Che poi in ciò abbiano grandissimo valore le suppliche dei buoni, non ne può dubitare chiunque pensi rettamente.

Le preghiere che si fanno per i morti, affinché siano liberati dal fuoco del Purgatorio, derivarono dalla dottrina degli apostoli; di esse abbiamo detto abbastanza nel parlare del sacrificio della Messa.

A coloro, dei quali si dice che peccano fino alla morte, si può arrecare difficilmente vantaggio con preghiere e voti. Ma tuttavia è degno della pietà cristiana pregare per essi, cercando di rendere loro mite Iddio con le proprie lagrime.

Le maledizioni, che i santi rivolgono contro i peccatori, si sa che, secondo l'opinione dei Padri della Chiesa, sono predizioni di quel che loro avverrà, oppure maledizioni dirette contro il peccato, in modo che, salvi gli uomini, perisca il peccato.

Bisogna ringraziare Dio per tutti i suoi benefici.

365. Nell'altra parte della preghiera ringraziamo Dio, secondo le nostre possibilità, per i divini e inesauribili benefici che ogni giorno accumula sul genere umano. Sopratutto esercitiamo questo dovere di ringraziare Dio a causa di tutti i santi, nel cui Ufficio rendiamo speciali lodi a Dio per la vittoria e il trionfo che essi riportarono, per sua benignità, su tutti i nemici interni ed esterni.

Ha codesta funzione la prima parte della salutazione angelica, quando la usiamo come preghiera: Ave, o Maria, piena di grazia, il Signore è con te; tu sei benedetta fra le donne. Infatti, esaltiamo Dio con somme lodi e ringraziamenti, perché aduno sulla santissima Vergine ogni pregio di doni celesti, e ci congratuliamo con la stessa Vergine per quella sua singolare felicità.

Giustamente, poi, la santa Chiesa di Dio aggiunse a questo ringraziamento, anche la preghiera e l'implorazione alla santissima Madre di Dio; implorazione con cui ci rivolgiamo piamente e supplichevolmente ad essa, affinché con la sua intercessione renda benigno Dio a noi peccatori, e ci ottenga i beni necessari tanto per questa che per l'eterna vita. perciò noi, esuli figli di Eva che abitiamo in questa valle di lagrime, dobbiamo assiduamente invocare la Madre della misericordia e l'Avvocata del popolo fedele, perché preghi per noi peccatori. E dobbiamo implorare, con questa preghiera, soccorso e aiuto da colei, della quale nessuno, che non sia empiamente malvagio, può dubitare che siano eccelsi i meriti presso Dio e somma la volontà di giovare al genere umano.

Bisogna pregare Dio uno e trino.

366. Che si debba pregare Dio e invocare il suo nome ce lo dice la stessa luce naturale nella mente umana, e non soltanto la sacra Scrittura, in cui si può leggere il comando di Dio: Invocami nel giorno dell'afflizione (Ps 49,15). E qui il termine Dio vale per le tre divine Persone.

In secondo luogo, ricorriamo all'aiuto dei santi che stanno in cielo; e che anche a questi si debbano far preghiere è cosi certo nella Chiesa di Dio che nessun dubbio ne possono concepire i buoni; ma siccome questo argomento fu spiegato separatamente a suo luogo (n. 303 ) rimandiamo là i Parroci e tutti gli altri.

Per togliere di mezzo l'errore degli inesperti, è dovere insegnare al popolo dei fedeli la differenza tra l'una e l'altra maniera di invocare. Non imploriamo infatti nello stesso modo Dio e i santi; Dio lo preghiamo di darci egli stesso i beni che chiediamo, o di liberarci dai mali; ai santi, invece, poiché essi sono accetti a Dio, chiediamo di prendere la nostra difesa e di ottenerci da Dio quello di cui abbiamo bisogno. perciò usiamo due formule differenti di preghiera. A Dio diciamo giustamente: Abbi pietà di noi; Ascoltaci; al santo, invece: Prega per noi. Tuttavia è concesso chieder ai santi stessi di usarci misericordia in altro senso: essi sono infatti sommamente misericordiosi.

Pertanto, possiamo pregarli affinché, commossi dalla miseria della nostra condizione, ci aiutino col favore di cui godono presso di Dio e con la loro intercessione. Qui tutti devono guardarsi moltissimo dall'attribuire ad altri quello che è proprio di Dio; anzi, quando uno pronuncia l'orazione Domenicale dinanzi all'immagine di un santo, deve pensare che egli chiede al santo di pregare con lui e di chiedere per lui quel che è richiesto nell'orazione divina, facendosi suo interprete e avvocato alla presenza di Dio. Che i santi abbiano questo compito, l'ha insegnato san Giovanni apostolo nell'Apocalisse (Ap 8,3).

Preparazione all'orazione.

367. Sta scritto nelle divine Scritture: Prima dell'orazione prepara l'anima tua, e non esser come un uomo che tenta Dio (Si 18,23). Infatti tenta Dio chi agisce male pur pregando bene; o, quando parlando con Dio, tiene l'animo lontano dalla preghiera. Percio, essendo tanto importante la disposizione con la quale ognuno fa le sue preghiere a Dio, i Parroci mostrino ai pii uditori le vie della preghiera.

La prima preparazione sarà, dunque, avere un animo veramente umile e dimesso, nel riconoscimento delle proprie colpe. Dall'esame delle proprie colpe, chi s'avvicina a Dio deve comprendere che non solo non è degno di chiedergli qualcosa, ma neppure di venire a pregare al suo cospetto. Di questa preparazione spessissimo fanno menzione le sacre Scritture che dicono: Guarda all'orazione degli umili, e non disprezza la loro preghiera (Ps 101,18). L'orazione di chi si umilia, andrà oltre le nubi (Si 35,21).

Ma, ai Pastori colti verranno in mente innumerevoli passi consimili; e perciò ci risparmieremo di ricordarne inutilmente tanti altri. Soltanto non tralasceremo, neppure in questa parte, due notissimi esempi, che altre volte citammo, adatti a quanto diciamo. Notissimo è quello del pubblicano, che, stando da lungi, non osava alzar gli occhi da terra (Lc 18,13); v'è anche l'esempio della donna peccatrice che, commossa da grave dolore, bagno di lagrime i piedi di Cristo nostro signore (Lc 7,37). L'uno e l'altro mostrano quanto peso apporti all'orazione la cristiana umiltà.

Deve seguire un certo dolore al ricordo delle colpe, o, almeno, un certo dispiacere per non potersi dolere. Se il penitente non prova l'uno e l'altro, o almeno quest'ultimo dolore, non può ottenere perdono.

Certe colpe, pero, quali l'uccisione e gli atti di violenza, sono un ostacolo gravissimo per l'accoglimento delle nostre preghiere; perciò bisogna ritrarre le mani dalla crudeltà e dalla violenza. Di questo delitto cosi parla Dio per bocca di Isaia: Allorché stenderete le vostre mani, allontanero i miei occhi da voi; quando raddoppierete le orazioni, non le esaudiro; giacché le vostre mani sono piene di sangue (Is 1,15).

Si deve evitare l'ira e la discordia, che pure grandemente impediscono che siano esaudite le preghiere; dice infatti l'Apostolo: Voglio che gli uomini preghino in ogni luogo, alzando le mani pure, senza ira e discordia (1Tm 2,8). Si badi inoltre a non mostrarsi implacabili con nessuno nell'offesa; poiché, cosi turbati, non potremmo con le preghiere indurre Dio a perdonarci. Quando state pregando, dice egli stesso, se avete qualche cosa contro qualcuno, perdonate (Mc 11,25). Se non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà a voi le vostre colpe (Mt 6,15).

Dobbiamo guardarci anche dall'essere duri e disumani verso i bisognosi, poiché contro uomini siffatti è stato detto: Chi chiude il suo orecchio al grido del povero, quando anch'egli griderà, non sarà esaudito (Pr 21,13). E che dire della superbia? Quanto essa offenda Dio, lo attestano le parole: Dio resiste ai superbi, ma concede favore agli umili (Jc 4,6 1P 5,1). E che dire del disprezzo della divina parola? Contro di esso sta il detto di Salomone: Chi volge i suoi orecchi per non ascoltare la legge, la sua orazione sarà esecrata (Pr 28,9). Il che non proibisce tuttavia la deplorazione per l'ingiuria fatta, per l'uccisione, per la violenza e l'iracondia, per la mancata liberalità verso i poveri, per la superbia, per il disprezzo della parola divina, né infine per tutti gli altri delitti, qualora se ne chieda perdono.

Per questa preparazione alla preghiera è necessaria anche la fede dell'animo. Se essa manca, non si può aver cognizione né dell'onnipotenza del Padre, né della sua misericordia, da cui tuttavia deriva la fiducia di chi prega, a quel modo che insegno lo stesso Cristo nostro Signore: Quanto domanderete nell'orazione, credendo, l'otterrete (Mt 21,22). Di questa fede cosi scrive sant'Agostino:

Se manca la fede, l'orazione non ha valore (De Verbis Dom). La condizione essenziale per pregare convenientemente è dunque, come abbiamo detto, lo stare saldi nella fede, come mostra l'Apostolo con quella domanda: In qual modo invocheranno Colui al quale non credono? (Rm 10,14).

Pertanto è necessario credere perché possiamo pregare, e non venga meno la fede stessa, con la quale preghiamo fruttuosamente. E la fede, infatti, che ispira la preghiera, e la preghiera fa si che, eliminato ogni dubbio, la fede sia stabile e salda.

Con questi pensieri sant'Ignazio esortava coloro che vogliono avvicinarsi a Dio con la preghiera, dicendo: Non portare nell'orazione animo incerto. Oh felice chi non avrà dubitato! A ottenere quindi quel che vogliamo da Dio ci danno massimo affidamento la fede e la sicura speranza di essere esauditi, come ammonisce san Giacomo: Chieda nella sua fede, senza affatto esitare (Jc 1,6). Molte sono le cose in cui noi dobbiamo aver fiducia nel compiere questo dovere dell'orazione. La favorevole volontà di Dio e la sua benignità si possono vedere da questo, che Egli c'impone di chiamarlo Padre, perché comprendiamo che siamo suoi figli.

E poi quasi infinito il numero di coloro che per noi lo supplicano. Primo è Colui che sempre è pronto a intercedere per noi, Cristo nostro Signore, di cui è detto in san Giovanni: Se alcuno ha peccato, abbiamo come avvocato, presso il Padre, Gesù Cristo giusto; ed egli stesso è propiziazione per i nostri peccati (1Jn 2,1). Parimente l'apostolo Paolo dice: Gesù Cristo, che è morto ed è risorto, siede alla destra di Dio e intercede per noi (Rm 8,34). E cosi scrive a Timoteo: C'è un solo Dio, un solo mediatore fra Dio e gli uomini: l'uomo Cristo Gesù (1Tm 2,5); e agli Ebrei: Cristo dovette rendersi simile in tutto ai fratelli, per essere misericordioso e fedele sacerdote al cospetto di Dio (He 2,17).

Percio, anche se siamo indegni di ottenere, dobbiamo grandemente sperare e confidare che, per l'autorità del nostro ottimo mediatore e patrocinatore Gesù Cristo, Dio ci concederà quello che rettamente gli avremo chiesto per mezzo di lui.

Inoltre, ispiratore della nostra preghiera è lo Spirito santo, sotto la guida del quale le nostre preghiere necessariamente sono ascoltate. Abbiamo infatti ricevuto lo Spirito d'adozione dei figli di Dio, in virtù del quale gridiamo: Abbà (Padre) (Rm 8,15). Questo Spirito aiuta la nostra debolezza e la nostra inesperienza nel dovere dell'orazione; anzi, egli stesso chiede per noi con gemiti inenarrabili (Rm 8,26). Che se alcuni oscillano e non si credono abbastanza saldi nella fede, usino quella invocazione degli Apostoli: Signore, accresci in noi la fede (Lc 17,5), e l'altra di quel padre, nel Vangelo: Aiuta la mia incredulità (Mc 9,23).

Se saremo pieni di fede e di speranza, otterremo da Dio quel che desideriamo, sopratutto quando conformeremo alla sua legge la volontà e ogni nostra intenzione, azione e orazione: Se rimanete in me, egli dice, e rimangono in voi le mie parole, chiederete quanto vorrete e vi sarà concesso (Jn 15,7). Pero, per poter chiedere ogni cosa a Dio, è necessario far precedere, come già abbiamo detto, la dimenticanza delle offese, la benevolenza e l'aiuto benefico verso il prossimo.

L'orazione se non è fatta come si deve, non giova.

368. Sopratutto, importa il modo con cui diciamo le preghiere; poiché, sebbene la preghiera sia un mezzo di salvezza, tuttavia, se non è fatta convenientemente, non giova affatto. Spesso non otteniamo quel che chiediamo, come dice san Giacomo, perché chiediamo male (Jc 4,3). Dunque i Parroci insegnino al popolo fedele la maniera migliore per ben chiedere e ben pregare in pubblico e in privato; precetti questi, intorno all'orazione Cristiana, che ci furon trasmessi dall'insegnamento di Cristo nostro Signore.

Bisogna dunque pregare in spirito e verità; poiché il Padre celeste ricerca chi lo adori in spirito e verità (Jn 4,23). E prega in questo modo chi manifesta un intimo e ardente desiderio dell'animo. Da tale maniera di pregare, tutta spirituale, non escludiamo la preghiera vocale; ma crediamo che, giustamente, si debba dare la palma a quella che viene da un'anima ardente; essa è udita da Dio, cui sono aperti gli occulti pensieri dell'anima, anche se non sia proferita a parole. Ascolto cosi le interne preghiere di Anna, madre di Samuele, che, piangendo, pregava e moveva appena le labbra (1S 1,10 1S 1,13 1S 1,27). Prego in questa maniera David, là dove dice:Il mio cuore ti parla, il mio sguardo ti cerca (Ps 26,8). Simili esempi cadono a ogni passo, innanzi agli occhi di chi legge le sacre Scritture.

Anche l'orazione vocale ha la sua utilità e necessità, perché accende il desiderio dell'animo e infiamma la fede di chi prega. In proposito cosi scrisse sant'Agostino a Proba: Talvolta ci eccitiamo più efficacemente con parole e altre manifestazioni, atte ad accrescere il santo desiderio. Talvolta invece siamo costretti dall'ardente desiderio dell'animo e della pietà a manifestare con parole il nostro sentimento; perché, quando l'animo esulta di letizia, conviene che anche la lingua esulti. In realtà conviene che facciamo il duplice sacrificio, dell'anima e del corpo. E che questa fosse la maniera di pregare degli Apostoli lo rileviamo da molti passi degli Atti e di S. Paolo (Ac 11,5 Ac 16,25 1Co 14,15 Ep 5,19 Col 3,16).

Ma poiché esistono due forme di preghiera, cioè privata e pubblica, nell'orazione privata la parola può aiutare l'intimo ardore e l'interna pietà; nell'orazione pubblica, istituita per ravvivare la religiosità del popolo fedele in determinate circostanze, non si può in nessun modo fare a meno dell'ufficio della lingua.

Questa consuetudine di pregare in spirito, propria dei cristiani, non è affatto coltivata dagli infedeli, dei quali Cristo nostro Signore cosi dice: Pregando, non usate tante parole come i pagani, che pensano di esser esauditi col lungo parlare. Non fate come loro, perché il Padre vostro sa, prima che gliele domandiate, di quali cose avete bisogno (Mt 6,7).

Proibendo la loquacità, è però lontano dal condannare le lunghe preghiere che derivano da un veemente e continuo ardore dell'animo. Anche col suo esempio ci esorta a questo modo di pregare, giacché egli non solo passava le notti in orazione (Lc 6,12), ma ripetè anche tre volte la medesima preghiera (Mt 26,44). Si deve tener presente soltanto che non si prega Dio col vuoto suono delle parole.

Né pregano con l'animo gli ipocriti, dal vizio dei quali Cristo nostro Signore ci distoglie con queste parole: Allorché pregate, non fate come gl'ipocriti, i quali amano di stare a pregare nelle sinagoghe e agli angoli delle piazze per essere osservati dagli uomini. In verità vi dico, essi hanno già ricevuto la loro ricompensa. Ma tu, quando preghi, entra nella tua camera e, chiuso l'uscio, prega il tuo Padre in segreto, e il Padre tuo, che vede in segreto, te ne renderà la ricompensa (Mt 6,5). Per camera si può intendere anche il cuore umano, in cui non basta entrare, ma bisogna anche chiudervisi, perché dal di fuori non irrompa e influisca sull'anima qualcosa, da cui sia turbata la purezza della preghiera. Allora infatti il Padre celeste, che vede sopratutto le intenzioni e gli occulti pensieri di tutti, acconsente alla richiesta di chi prega.

L'orazione richiede anche assiduita: il suo valore ce lo mostra il Figlio di Dio con l'esempio di quel giudice, che, non temendo Dio, né avendo riguardo ad uomo, vinto dall'assiduita e insistenza della vedova, acconsenti alla sua richiesta (Lc 18,2). Bisogna far assidua preghiera a Dio, né si devono imitare quelli che, pregando una volta o due, se non ottengono quel che chiedono, smettono di pregare. Non ci sia rilassatezza nel compiere questo dovere, come insegna l'autorità di Cristo nostro Signore (Lc 18,1) e dell'Apostolo (1Th 5,17). E se talvolta viene meno la volontà, dobbiamo chiedere a Dio la forza di perseverare.

Bisogna pregare nel nome di Cristo.

369. Il Figlio di Dio vuole che la nostra orazione giunga al Padre in nome suo; cosi essa, per il merito e l'intercessione di tanto patrocinatore, acquista tale valore che è udita dal Padre celeste. E sua infatti l'espressione del Vangelo di san Giovanni: In verità, in verità vi dico: quanto domanderete al Padre in nome mio, Egli ve lo concederà. Finora non chiedeste niente in mio nome: chiedete e otterrete, affinché la vostra gioia sia piena (Jn 16,23-24); e di nuovo: Qualunque cosa domanderete al Padre in nome mio, io la faro (Jn 14,13).

Imitiamo l'ardente desiderio che i santi manifestavano nel pregare. Uniamo poi i ringraziamenti alle preghiere, seguendo l'esempio degli Apostoli che sempre conservanelle sacre Scritture Padre di tutti gli uomini, e non solo dei credenti, ma anche degli infedeli.

In secondo luogo, per il fatto che Dio provvede e dispone il tutto per il vantaggio degli uomini, egli, con la speciale manifestazione della sua provvidenza e della sua cura, ci rivela l'amore paterno. Ma, affinché dalla spiegazione di questo argomento, appaia più limpida la cura paterna che Dio ha degli uomini, sembra opportuno dire qualcosa sulla custodia degli Angeli, sotto la cui tutela si trovano gli uomini. Per divino volere è affidato agli Angeli il compito di custodire il genere umano, e di vegliare al fianco di ogni individuo, affinché non lo colpisca troppo grave danno.

Come i genitori scelgono delle guide e dei sorveglianti per i figliuoli che affrontano un viaggio per un sentiero pericoloso ed insidioso, cosi il Padre celeste, nella via che mena alla patria dei cieli, assegno a ciascuno di noi degli Angeli, perché noi fiancheggiati dal loro solerte appoggio, evitassimo i tranelli tesi dal nemico, respingessimo i suoi temibili attacchi sotto la loro guida, non smarrissimo la retta strada e nessun inganno tramato dall'avversario insidioso, ci spingesse lungi dal cammino che mena al paradiso.

Quanto sia preziosa questa singolare cura e provvidenza di Dio per gli uomini, affidata al ministero degli Angeli, la cui natura appare intermedia fra quella di Dio e quella degli uomini, emerge dai copiosi esempi delle divine Scritture. Esse attestano come, spesso, per benigno volere di Dio, gli Angeli compirono gesta mirabili al cospetto degli uomini. Tali esempi ci fanno persuasi che innumerevoli atti del medesimo genere sono compiuti dagli Angeli, tutori della nostra salvezza, utilmente e beneficamente, per quanto fuori della percezione dei nostri occhi.

L'angelo Raffaele, ad esempio, per volere divino unitosi quale compagno e guida nel viaggio a Tobia, lo condusse e ricondusse incolume (Tb 5,5). Lo salvo dalla voracità del pesce smisurato, mostrando poi tutte le virtù contenute nel fegato, nel fiele e nel cuore di esso (Tb 6,2). Caccio il demonio, e, vincolatane la forza, fece si che non nuocesse a Tobia (Tb 8,3). Fu l'angelo Raffaele che ammaestro Tobia sui doveri del matrimonio (Tb 8,4-16). Infine ridono la vista al padre di Tobia (Tb 11,8-15).

Similmente l'Angelo che libero il Principe degli Apostoli, offre bene il destro per istruire il pio gregge circa i mirabili frutti della vigilanza e della custodia angelica. Potranno i Parroci evocare la figura dell'Angelo che scende a illuminare le tenebre del carcere, che desta Pietro dal sonno toccandolo al fianco, scioglie le catene, spezza i vincoli, impone di seguirlo, dopo avergli fatto prendere i calzari e gli indumenti; e ricordare come, dopo aver fatto uscire libero Pietro dal carcere in mezzo alle sentinelle, aprendo la porta, lo condusse in luogo sicuro (Ac 12).

Numerosi sono gli esempi di questo genere, come abbiamo detto, che la Storia sacra registra. Da essi noi comprendiamo quanto inestimabile sia la copia dei benefici che Dio conferisce agli uomini servendosi degli Angeli come di intermediari e messaggeri, inviati non già in una determinata e speciale circostanza, ma preposti alla nostra sorveglianza dal primo nostro anelito, e incaricati di favorire la salvezza di ciascuno. La diligenza posta nella delucidazione di tale dottrina sortirà il benefico effetto di sollevare gli spiriti degli ascoltatori, stimolandoli al riconoscimento e alla venerazione della potenza e della provvidenziale cura di Dio per loro.

A questo proposito, il Parroco esalterà e rileverà le ricchezze della divina misericordia verso il genere umano. Fin dal tempo del progenitore della nostra schiatta e del suo peccato, noi non abbiamo mai cessato di offendere Dio con scelleratezze innumerevoli; ma Egli conserva tuttora il suo affetto per noi, né si stanca di esercitare assidua cura di noi. Chi ritenga Dio capace di dimenticare gli uomini, è un folle che lancia contro di lui una volgarissima ingiuria. Dio si sdegno con Israele che aveva bestemmiato d'essere stato abbandonato dal soccorso celeste. Sta scritto infatti nell'Esodo: Misero a prova il Signore, domandando: Abbiamo, o no, Dio con noi? (Ex 17,7). E in Ezechiele leggiamo che Dio si adiro col medesimo popolo, avendo questo mormorato: Dio non ci guarda più, il Signore lascio a sé stessa la terra (Ez 8,12). Col ricordo di queste testimonianze i fedeli saranno tenuti lontani dalla riprovevole supposizione che Dio possa dimenticarsi degli uomini.

Bisogna in proposito ricordare il lamento elevato contro Dio dal popolo d'Israele, presso Isaia, e la benevola similitudine con cui Dio ribatte la stolta recriminazione. Vi si legge infatti: Sion ha detto: Il Signore mi ha abbandonata, il Signore mi ha dimenticata (Is 49,14). Ma Dio risponde: può una donna dimenticare la sua creatura; non aver pietà del figlio del suo ventre? E se anche quella se ne dimenticasse, io però non mi dimentichero di te. Ecco, io ti porto scritta nelle mie mani (Is 49,15-16).

A persuadere profondamente il popolo fedele di questa verità, per quanto dai passi citati essa venga pienamente confermata, che cioè nessun tempo potrà mai sopraggiungere in cui Dio perda il ricordo degli uomini e cessi di impartire loro i benefici della sua paterna carità, i Parroci lo comproveranno col luminoso esempio dei progenitori. Tu sai che essi, per aver trascurato e violato il comando di Dio, furono acerbamente giudicati e condannati con la terribile sentenza: Maledetta sia la terra nel tuo lavoro; nelle fatiche di tutti i giorni della vita mangerai i prodotti di essa: Spine e triboli produrrà per te, e tu mangerai le erbe dei campi (Gn 3,17). Tu li vedi espulsi dal paradiso e, perché perdano ogni speranza di ritorno, leggi esservi stato posto un Cherubino alla porta, vibrante in mano una spada di fuoco (Gn 3,24). Allora comprendi che essi sono stati afflitti da mali interni ed esterni per volontà di Dio che si vendica dell'ingiuria fatta a lui, e crederesti che sia finita per l'uomo; e pensi forse che non solo egli sia privato dell'assistenza divina, ma che anche sia esposto a mali d'ogni genere. Eppure, in cosi grandi manifestazioni dell'ira divina, è apparsa agli uomini, nei segni del castigo, la luce della divina misericordia. Infatti, il Signore Iddio fece delle tuniche di pelle a Adamo ed alla sua moglie e li vesti (Gn 3,21); questa fu la grande prova che mai, in nessun tempo, l'aiuto di Dio sarebbe mancato agli uomini.

Tutta la forza di questa verità, che cioè l'amore di Dio non si esaurisce per qualsiasi offesa degli uomini, David la espresse con le parole: Ha forse Dio trattenuto gli atti della sua misericordia nell'ira? (Ps 76,10). E Abacuc espose lo stesso concetto, allorché disse a Dio: Quando tu sarai irato, ricordati di essere misericordioso (Ha 3,2). La stessa verità manifesto Michea dicendo: Quale Dio è simile a te, che perdoni all'iniquità, e passi sopra ai peccati dei resti della tua eredità? Egli non conserva a lungo la sua ira, poiché vuole essere misericordioso (Mi 7,18). Generalmente avviene che quanto più noi ci stimiamo perduti e privi del soccorso di Dio, tanto più Dio ha compassione di noi, per la sua bontà infinita, e ci assiste; trattiene nell'ira la spada della giustizia, e non cessa di spargere i tesori inesauribili della sua misericordia.

Molto efficacemente, dunque, la creazione e il governo del mondo provano la volontà di Dio di amare e di proteggere il genere umano. Tuttavia, tra le due opere sopraddette emerge talmente l'opera della redenzione degli uomini che, sopratutto, con questo beneficio, Dio, sommo benefattore e padre nostro, manifesta la sua benignità verso di noi.

Il Parroco, davanti ai suoi figli spirituali, insegni e richiami continuamente alla memoria questa primissima prova della carità di Dio verso noi, sicché capiscano come essi, essendo redenti, sono in modo ammirabile diventati figli di Dio. Cosi, infatti, scrive s. Giovanni: Diede loro la potestà di diventare figli di Dio, e da Dio sono nati (Jn 1,12). perciò il battesimo, primo pegno e segno della nostra redenzione, si chiama il sacramento della rigenerazione: per esso, noi nasciamo figli di Dio, come il Signore medesimo ha detto: Quel che è nato dallo spirito è spirito (Jn 3,6); ed ancora: E necessario che voi nasciate di nuovo (Jn 3,3). Cosi pure l'apostolo Pietro: Siete rinati non da seme corruttibile, ma incorruttibile, per la parola del Dio vivente (1P 1,23).

In virtù di questa redenzione, noi abbiamo ricevuto lo Spirito santo e ci siamo arricchiti della grazia di Dio. Per questo dono Dio ci ha adottati come suoi figli, secondo le parole dell'apostolo Paolo ai Romani: Voi non avete di nuovo ricevuto lo spirito di schiavitù, per vivere nel timore, ma lo spirito di adozione a figli, per il quale noi gridiamo: Abbà, Padre (Rm 8,15). Questa potente efficacia dell'adozione, san Giovanni la espone chiaramente in questo modo: Vedete quale prova d'amore diede a noi il Padre, tanto che noi ci chiamiamo e siamo figli di Dio (Jn 3,1).

A Dio Padre Creatore, Governatore, Redentore, sono dovuti amore, devozione, riverenza.

371. Esposte queste verità, si deve mostrare al popolo fedele che cosa in cambio egli debba a Dio, Padre amorosissimo, per far capire quale devoto amore e quanta reverente obbedienza bisogna nutrire verso il nostro Creatore, Governatore e Redentore, e con quanta fiduciosa speranza si debba invocare.

Sarà necessario togliere l'ignoranza e correggere la perversità di giudizio di coloro i quali pensano che soltanto la fortuna favorevole e il prospero corso della vita sono la prova che Dio ci conserva il suo amore, mentre, l'avversa fortuna e le calamità con le quali siamo da Dio provati, sarebbero segno di animo ostile e addirittura di allontanamento da noi dell'attenzione divina.

Dovremo allora dimostrare che, quando la mano del Signore ci percuote (Jb 19,21), non lo fa per inimicizia; percotendoci ci sana (Dt 32,39), ed è salutare la piaga che ci viene da Dio.

Egli, infatti, castiga quelli che peccano, perché l'esperienza li faccia diventare migliori e, col castigo presente, li redime dalla morte eterna. Con la verga visita le nostre iniquità, e i nostri peccati con le percosse, ma non ci toglie la sua misericordia (Ps 83,33). Si devono quindi ammonire i fedeli a riconoscere nel castigo il paterno amore di Dio, e ad avere sempre vivo, nel cuore e sulle labbra, il ricordo di quel detto del pazientissimo Giobbe: Egli ferisce e risana; e se percuote, le sue mani saneranno (Jb 5,18). Si devono incitare i fedeli a considerare come detto per essi ciò che scrisse Geremia del popolo Israelitico: Tu mi hai castigato, ed io sono stato ammaestrato, quasi giovenco indomito; convertimi, ed io saro convcrtito; poiché tu sei il Signore mio Dio (Jr 31,18).

Tengano sempre presente alla coscienza l'esempio di Tobia, il quale, nella piaga della cecità riconoscendo la paterna mano di Dio, esclamo: Benedico te, Signore Dio d'Israele, poiché tu mi hai castigato, e tu mi hai salvato (Tb 11,17). In modo speciale, si guardino i fedeli da qualsiasi contrarietà siano angustiati e da qualsivoglia calamità siano afflitti, dal credere che Dio non lo sappia. Egli stesso dice: Non un capello del vostro capo perirà (Lc 21,12). Anzi, attingano conforto dall'oracolo divino, espresso nell'Apocalisse: Coloro che amo, io li rimprovero e li castigo (Ap 3,23).

Trovino pace nell'esortazione dell'Apostolo agli Ebrei: Figlio, non trascurare l'insegnamento del Signore; non ti abbattere se sarai ripreso da lui; poiché Dio castiga colui che ama; flagella tutti i figli che accoglie. Che se voi vi terrete fuori della sua legge, sarete bastardi, non figli. Avemmo padri educatori della nostra carne, e li abbiamo rispettati; quanto più non ubbidiremo al Padre degli spiriti, e vivremo? (12,5).

Con la parola nostro si ricorda ai fedeli che essi sono tutti fratelli.

372. Nostro. Quando ognuno di noi anche privatamente invoca il Padre, chiamandolo nostro, viene avvertito che dal dono dell'adozione divina deriva per tutti i fedeli, necessariamente, la condizione di fratelli, e il dovere di amarsi fraternamente: Voi siete tutti fratelli: uno solo è il vostro Padre, che è nei cieli (Mt 23,8). Per cui anche gli Apostoli, nelle loro Lettere, chiamano fratelli tutti i fedeli. Da ciò l'altra necessaria conseguenza che, per l'adozione di Dio, non solo i fedeli sono stretti dal vincolo della fratellanza, ma anche, essendo uomo il Figlio unico di Dio, essi si chiamino e siano in realtà fratelli di Cristo. L'Apostolo ha scritto nell'Epistola agli Ebrei, parlando del Figlio di Dio: Non si vergogno di chiamarli fratelli, quando disse: Annunziero il tuo nome ai miei fratelli (He 2,11); parole che David, tanto tempo prima, aveva attribuito a Cristo Signore (Ps 21,23).

Cristo medesimo, secondo l'evangelista, dice alle donne: Andate, annunziate ai miei fratelli che vadano in Galilea; là mi vedranno (Mt 28,10). Ora, ciò egli disse quando già risorto dai morti, aveva conseguito l'immortalità; cosicché nessuno potrà pensare disciolta questa parentela, in seguito alla sua risurrezione e ascensione al cielo. Anzi, lungi dal toglierci per questa risurrezione la sua parentela e l'amore, sappiamo che quando egli dalla sede della sua maestà e della sua gloria, giudicherà tutti gli uomini di tutti i tempi, chiamerà col nome di fratelli anche gli infimi tra i fedeli (Mt 25,31). E come potrebbe avvenire che noi non siamo fratelli di Cristo, se con lui siamo coeredi? (Rm 8,17). Poiché egli è il Primogenito, costituito erede universale (He 1,2); ma noi, nati dopo di lui, siamo coeredi con lui, per l'abbondanza dei doni celesti, e nella misura della carità con la quale ci offriremo ministri e coadiutori dello Spirito santo (1Co 3,9).

Dallo Spirito santo siamo incitati alla virtù e alle opere buone; siamo spronati dalla sua grazia alla lotta coraggiosa per la nostra salvezza, in modo che, terminata la lotta con sapienza e costanza, al termine di questa vita riceviamo dal divin Padre il giusto premio della corona (Ap 2,10), assegnato a coloro che avranno seguito la medesima via. Dio, come dice l'Apostolo, non è ingiusto, né dimentica l'opera nostra e il nostro amore per lui (He 6,10). Ma noi dobbiamo proferire col cuore la parola nostro, come spiega san Jn Crisostomo, il quale dice che Dio ascolta volentieri il cristiano non solo quando questi prega per sé, ma anche quando prega per il prossimo. Pregare per sé, è naturale; ma è proprietà della grazia pregare per gli altri; la necessità costringe a pregare per sé; a pregare per il prossimo ci spinge la carità fraterna. Aggiunge che a Dio riesce più gradita quella preghiera che la carità fraterna gli innalza fiduciosa, che quella del fedele spinto dalla necessità.

Trattando dell'importantissimo argomento della preghiera salutifera, il Parroco ammonisca ed esorti tutti, di qualunque età, sesso e condizione, di ricordare la comune fraterna parentela, di agire sempre da buoni compagni, da fratelli, senza comportarsi con superbia verso gli altri. Nella Chiesa di Dio vi sono funzioni di grado diverso, ma la varietà dei gradi e degli uffici non toglie affatto l'unione e il dono della fraterna parentela, al modo stesso che nel corpo umano il vario uso e la diversa funzione delle membra non impediscono che questa o quella parte del corpo perda la sua qualità e il nome di membro.

Pensiamo a uno rivestito della dignità regale; se è fedele, non sarà forse fratello di tutti coloro che sono uniti nella comunione della fede Cristiana? Certamente; e perché? Perché i ricchi e i re non furono creati da un Dio, e i poveri e quelli che dipendono dai re, da un altro: Dio è uno, Padre e Signore di tutti. E unica dunque la nobiltà dell'origine spirituale per tutti, unica la dignità, unico lo splendore della stirpe, poiché tutti per lo stesso spirito, per il medesimo sacramento della fede, siamo nati figli di Dio, coeredi della medesima eredità. E come non hanno un Cristo i potenti e i ricchi, e un altro i più deboli e gli infimi, cosi tutti vengono iniziati non a sacramenti diversi, né possono sperare per loro diversa eredità nel regno dei cieli. Siamo tutti fratelli e membra, come dice l'Apostolo agli Efesini, del corpo di Cristo, fatti della sua carne e delle sue ossa (5,30). Cosi pure dice nell'Epistola ai Galati: Tutti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù; tutti voi, infatti, che siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non esiste Giudeo o Greco; non esiste servo o libero; maschio o femmina; poiché tutti siete un solo corpo in Cristo Gesù (3,26).

Questa verità i Pastori delle anime dovranno spiegare con cura, e dovranno appositamente indugiare su questo soggetto; poiché il passo citato è adatto a incoraggiare e sollevare i poveri e i miseri, non meno che a rintuzzare e reprimere l'arroganza dei ricchi e dei potenti. A questo scopo, appunto, l'Apostolo insisteva sulla fraterna carità, e la inculcava agli orecchi dei fedeli.

Disposizione d'animo nel recitare il Pater noster.

373. Quando farai questa preghiera, ricordati, o cristiano, che ti presenti a Dio come un figlio al padre; quando stai per cominciarla e dici: Padre nostro, pensa a quale onore la somma bontà divina ti ha inalzato, si che tu non abbia a presentarti davanti al Signore, forzatamente e pauroso, come uno schiavo. Invece, cerca rifugio in lui liberamente, senza apprensioni, come un figlio nel proprio padre. In questo ricordo e in questo pensiero, considera con quale sentimento e quale pietà tu debba pregare; adoperati ad essere meritevole della qualifica di figlio di Dio, in modo che la tua preghiera e le tue orazioni non siano indegne della stirpe divina alla quale Dio, nella sua infinita bontà, si degna di farti appartenere. A questo dovere esorta l'Apostolo quando dice: Siate dunque imitatori di Dio, come figli amantissimi (Ep 5,1); e si possa veramente dire di noi, ciò che l'Apostolo scrisse ai Tessalonicesi: Voi tutti siete figli della luce e figli del giorno (1Th 5,5).

Perché Dio, presente ovunque, è invocato nei ci eli.

374. Che sei nei cieli. Per tutti quelli che hanno di Dio una giusta idea, è certo che Dio si trova dovunque e tra tutte le genti; né ciò si deve intendere come se egli sia distribuito in parti, delle quali una sia presente e protegga un determinato luogo, l'altra un altro; Dio è spirito, e non comporta divisione. Chi oserà circoscrivere la presenza di Dio entro confini delimitati, ponendolo in un luogo determinato, quando egli stesso dice di sé: Non occupo forse io cielo e terra? (Jr 23,24). Queste parole si devono a loro volta interpretare nel senso che cielo, terra, e tutto quello che essi racchiudono, Dio abbraccia nella sua potenza e nella sua virtù, senza essere egli contenuto in nessun luogo. Dio è presente in tutte le cose, sia che le crei, sia che le conservi, mentre non è circoscritto in nessuna regione o limitato da spazio o da confini, quasi non vi fosse presente o non potesse affermare ovunque la sua natura e la sua potenza, come disse il santo re David: Se io saliro in cielo, tu sei là (Ps 138,8).

Eppure, sebbene Dio sia presente in tutti i luoghi e in tutte le cose, non circoscritto da nessun confine, la sacra Scrittura dice spesso che il suo soggiorno è in cielo. ciò si spiega col fatto che, essendo i cieli al disopra di noi, la parte del mondo nobilissima fra tutte, e rimanendo essi incorrotti, superiori anche come sono agli altri corpi in potenza, grandezza e bellezza, e dotati di movimenti regolari e costanti, per eccitare gli animi dei mortali alla contemplazione dell'infinita sua potenza e maestà, meravigliosamente risplendente nell'opera dei cieli, nelle divine Scritture Dio ci dice che egli abita nei cieli. Spesso però dichiara anche che non c'è parte del mondo che egli non abbracci con la sua potenza ovunque presente.

Con questo pensiero i fedeli abbiano avanti l'immagine non solo di Dio padre comune, ma anche di re dei cieli; e si ricordino, quando pregano, di inalzare la mente e l'animo al cielo. Quanta speranza e fiducia ispira loro il nome di padre, altrettanta umiltà e pietà deve infondere in loro la natura sublime e la divina maestà del Padre nostro che è nei cieli.

Codeste parole determinano anche quello che i fedeli devono chiedere a Dio. Ogni nostra richiesta, infatti, che riguardi le quotidiane necessità di questa vita, è vana e indegna di un cristiano se non è in relazione coi beni del cielo e ordinata a quel fine. perciò i Parroci insegnino ai pii ascoltatori questo modo di pregare, appoggiando il loro insegnamento all'autorità dell'Apostolo, il quale dice: Se siete risorti con Cristo, chiedete quei beni che sono lassù, dove Cristo siede alla destra di Dio: gustate i beni celesti, non quelli che sono sulla terra (Col 3,1).


Catechismo Tridentino 3900