Caritas in veritate IT 33


CAPITOLO TERZO

FRATERNITÀ, SVILUPPO ECONOMICO

E SOCIETÀ CIVILE



34 La carità nella verità pone l'uomo davanti alla stupefacente esperienza del dono. La gratuità è presente nella sua vita in molteplici forme, spesso non riconosciute a causa di una visione solo produttivistica e utilitaristica dell'esistenza. L'essere umano è fatto per il dono, che ne esprime ed attua la dimensione di trascendenza. Talvolta l'uomo moderno è erroneamente convinto di essere il solo autore di se stesso, della sua vita e della società. È questa una presunzione, conseguente alla chiusura egoistica in se stessi, che discende — per dirla in termini di fede — dal peccato delle origini. La sapienza della Chiesa ha sempre proposto di tenere presente il peccato originale anche nell'interpretazione dei fatti sociali e nella costruzione della società: « Ignorare che l'uomo ha una natura ferita, incline al male, è causa di gravi errori nel campo dell'educazione, della politica, dell'azione sociale e dei costumi » [85]. All'elenco dei campi in cui si manifestano gli effetti perniciosi del peccato, si è aggiunto ormai da molto tempo anche quello dell'economia. Ne abbiamo una prova evidente anche in questi periodi. La convinzione di essere autosufficiente e di riuscire a eliminare il male presente nella storia solo con la propria azione ha indotto l'uomo a far coincidere la felicità e la salvezza con forme immanenti di benessere materiale e di azione sociale. La convinzione poi della esigenza di autonomia dell'economia, che non deve accettare “influenze” di carattere morale, ha spinto l'uomo ad abusare dello strumento economico in modo persino distruttivo. A lungo andare, queste convinzioni hanno portato a sistemi economici, sociali e politici che hanno conculcato la libertà della persona e dei corpi sociali e che, proprio per questo, non sono stati in grado di assicurare la giustizia che promettevano. Come ho affermato nella mia Enciclica Spe salvi, in questo modo si toglie dalla storia la speranza cristiana [86], che è invece una potente risorsa sociale a servizio dello sviluppo umano integrale, cercato nella libertà e nella giustizia. La speranza incoraggia la ragione e le dà la forza di orientare la volontà [87]. È già presente nella fede, da cui anzi è suscitata. La carità nella verità se ne nutre e, nello stesso tempo, la manifesta. Essendo dono di Dio assolutamente gratuito, irrompe nella nostra vita come qualcosa di non dovuto, che trascende ogni legge di giustizia. Il dono per sua natura oltrepassa il merito, la sua regola è l'eccedenza. Esso ci precede nella nostra stessa anima quale segno della presenza di Dio in noi e della sua attesa nei nostri confronti. La verità, che al pari della carità è dono, è più grande di noi, come insegna sant'Agostino [88]. Anche la verità di noi stessi, della nostra coscienza personale, ci è prima di tutto “data”. In ogni processo conoscitivo, in effetti, la verità non è prodotta da noi, ma sempre trovata o, meglio, ricevuta. Essa, come l'amore, « non nasce dal pensare e dal volere ma in certo qual modo si impone all'essere umano » [89].

Perché dono ricevuto da tutti, la carità nella verità è una forza che costituisce la comunità, unifica gli uomini secondo modalità in cui non ci sono barriere né confini. La comunità degli uomini può essere costituita da noi stessi, ma non potrà mai con le sole sue forze essere una comunità pienamente fraterna né essere spinta oltre ogni confine, ossia diventare una comunità veramente universale: l'unità del genere umano, una comunione fraterna oltre ogni divisione, nasce dalla con-vocazione della parola di Dio-Amore. Nell'affrontare questa decisiva questione, dobbiamo precisare, da un lato, che la logica del dono non esclude la giustizia e non si giustappone ad essa in un secondo momento e dall'esterno e, dall'altro, che lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio di gratuità come espressione di fraternità.

[85] Catechismo della Chiesa Cattolica
CEC 407; cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus CA 25: l.c., 822-824.
[86] Cfr n. : AAS 99 (2007), 1000.
[87] Cfr ibid., : l.c., 1004-1005.
[88] Sant'Agostino espone in modo dettagliato questo insegnamento nel dialogo sul libero arbitrio (De libero arbitrio II 3,8 sgg.). Egli indica l'esistenza dentro l'anima umana di un « senso interno ». Questo senso consiste in un atto che si compie al di fuori delle normali funzioni della ragione, atto irriflesso e quasi istintivo, per cui la ragione, rendendosi conto della sua condizione transeunte e fallibile, ammette al di sopra di sé l'esistenza di qualcosa di eterno, assolutamente vero e certo. Il nome che sant'Agostino dà a questa verità interiore è talora quello di Dio (Confessioni X,24,35; XII,25,35; De libero arbitrio II 3,8), più spesso quello di Cristo (De magistro 11,38; Confessioni VII,18,24; XI,2,4).
[89] Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est : l.c., 219.

35 Il mercato, se c'è fiducia reciproca e generalizzata, è l'istituzione economica che permette l'incontro tra le persone, in quanto operatori economici che utilizzano il contratto come regola dei loro rapporti e che scambiano beni e servizi tra loro fungibili, per soddisfare i loro bisogni e desideri. Il mercato è soggetto ai principi della cosiddetta giustizia commutativa, che regola appunto i rapporti del dare e del ricevere tra soggetti paritetici. Ma la dottrina sociale della Chiesa non ha mai smesso di porre in evidenza l'importanza della giustizia distributiva e della giustizia sociale per la stessa economia di mercato, non solo perché inserita nelle maglie di un contesto sociale e politico più vasto, ma anche per la trama delle relazioni in cui si realizza. Infatti il mercato, lasciato al solo principio dell'equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare. Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare, e la perdita della fiducia è una perdita grave.

Opportunamente Paolo VI nella Populorum progressio sottolineava il fatto che lo stesso sistema economico avrebbe tratto vantaggio da pratiche generalizzate di giustizia, in quanto i primi a trarre beneficio dallo sviluppo dei Paesi poveri sarebbero stati quelli ricchi [90]. Non si trattava solo di correggere delle disfunzioni mediante l'assistenza. I poveri non sono da considerarsi un « fardello » [91], bensì una risorsa anche dal punto di vista strettamente economico. È tuttavia da ritenersi errata la visione di quanti pensano che l'economia di mercato abbia strutturalmente bisogno di una quota di povertà e di sottosviluppo per poter funzionare al meglio. È interesse del mercato promuovere emancipazione, ma per farlo veramente non può contare solo su se stesso, perché non è in grado di produrre da sé ciò che va oltre le sue possibilità. Esso deve attingere energie morali da altri soggetti, che sono capaci di generarle.

[90] Cfr n. PP 49: l.c., 281.
[91] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus
CA 28: l.c., 827-828.

36 L'attività economica non può risolvere tutti i problemi sociali mediante la semplice estensione della logica mercantile. Questa va finalizzata al perseguimento del bene comune, di cui deve farsi carico anche e soprattutto la comunità politica. Pertanto, va tenuto presente che è causa di gravi scompensi separare l'agire economico, a cui spetterebbe solo produrre ricchezza, da quello politico, a cui spetterebbe di perseguire la giustizia mediante la ridistribuzione.

La Chiesa ritiene da sempre che l'agire economico non sia da considerare antisociale. Il mercato non è, e non deve perciò diventare, di per sé il luogo della sopraffazione del forte sul debole. La società non deve proteggersi dal mercato, come se lo sviluppo di quest'ultimo comportasse ipso facto la morte dei rapporti autenticamente umani. È certamente vero che il mercato può essere orientato in modo negativo, non perché sia questa la sua natura, ma perché una certa ideologia lo può indirizzare in tal senso. Non va dimenticato che il mercato non esiste allo stato puro. Esso trae forma dalle configurazioni culturali che lo specificano e lo orientano. Infatti, l'economia e la finanza, in quanto strumenti, possono esser mal utilizzati quando chi li gestisce ha solo riferimenti egoistici. Così si può riuscire a trasformare strumenti di per sé buoni in strumenti dannosi. Ma è la ragione oscurata dell'uomo a produrre queste conseguenze, non lo strumento di per sé stesso. Perciò non è lo strumento a dover essere chiamato in causa ma l'uomo, la sua coscienza morale e la sua responsabilità personale e sociale.

La dottrina sociale della Chiesa ritiene che possano essere vissuti rapporti autenticamente umani, di amicizia e di socialità, di solidarietà e di reciprocità, anche all'interno dell'attività economica e non soltanto fuori di essa o « dopo » di essa. La sfera economica non è né eticamente neutrale né di sua natura disumana e antisociale. Essa appartiene all'attività dell'uomo e, proprio perché umana, deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente.

La grande sfida che abbiamo davanti a noi, fatta emergere dalle problematiche dello sviluppo in questo tempo di globalizzazione e resa ancor più esigente dalla crisi economico-finanziaria, è di mostrare, a livello sia di pensiero sia di comportamenti, che non solo i tradizionali principi dell'etica sociale, quali la trasparenza, l'onestà e la responsabilità non possono venire trascurati o attenuati, ma anche che nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica. Ciò è un'esigenza dell'uomo nel momento attuale, ma anche un'esigenza della stessa ragione economica. Si tratta di una esigenza ad un tempo della carità e della verità.


37 La dottrina sociale della Chiesa ha sempre sostenuto che la giustizia riguarda tutte le fasi dell'attività economica, perché questa ha sempre a che fare con l'uomo e con le sue esigenze. Il reperimento delle risorse, i finanziamenti, la produzione, il consumo e tutte le altre fasi del ciclo economico hanno ineluttabilmente implicazioni morali. Così ogni decisione economica ha una conseguenza di carattere morale. Tutto questo trova conferma anche nelle scienze sociali e nelle tendenze dell'economia contemporanea. Forse un tempo era pensabile affidare dapprima all'economia la produzione di ricchezza per assegnare poi alla politica il compito di distribuirla. Oggi tutto ciò risulta più difficile, dato che le attività economiche non sono costrette entro limiti territoriali, mentre l'autorità dei governi continua ad essere soprattutto locale. Per questo, i canoni della giustizia devono essere rispettati sin dall'inizio, mentre si svolge il processo economico, e non già dopo o lateralmente. Inoltre, occorre che nel mercato si aprano spazi per attività economiche realizzate da soggetti che liberamente scelgono di informare il proprio agire a principi diversi da quelli del puro profitto, senza per ciò stesso rinunciare a produrre valore economico. Le tante espressioni di economia che traggono origine da iniziative religiose e laicali dimostrano che ciò è concretamente possibile.

Nell'epoca della globalizzazione l'economia risente di modelli competitivi legati a culture tra loro molto diverse. I comportamenti economico-imprenditoriali che ne derivano trovano prevalentemente un punto d'incontro nel rispetto della giustizia commutativa. La vita economica ha senz'altro bisogno del contratto, per regolare i rapporti di scambio tra valori equivalenti. Ma ha altresì bisogno di leggi giuste e di forme di ridistribuzione guidate dalla politica, e inoltre di opere che rechino impresso lo spirito del dono.L'economia globalizzata sembra privilegiare la prima logica, quella dello scambio contrattuale, ma direttamente o indirettamente dimostra di aver bisogno anche delle altre due, la logica politica e la logica del dono senza contropartita.


38 Il mio predecessore Giovanni Paolo II aveva segnalato questa problematica, quando nella Centesimus annus aveva rilevato la necessità di un sistema a tre soggetti: il mercato, lo Stato e la società civile [92]. Egli aveva individuato nella società civile l'ambito più proprio di un'economia della gratuità e della fraternità, ma non aveva inteso negarla agli altri due ambiti. Oggi possiamo dire che la vita economica deve essere compresa come una realtà a più dimensioni: in tutte, in diversa misura e con modalità specifiche, deve essere presente l'aspetto della reciprocità fraterna. Nell'epoca della globalizzazione, l'attività economica non può prescindere dalla gratuità, che dissemina e alimenta la solidarietà e la responsabilità per la giustizia e il bene comune nei suoi vari soggetti e attori. Si tratta, in definitiva, di una forma concreta e profonda di democrazia economica. La solidarietà è anzitutto sentirsi tutti responsabili di tutti [93], quindi non può essere delegata solo allo Stato. Mentre ieri si poteva ritenere che prima bisognasse perseguire la giustizia e che la gratuità intervenisse dopo come un complemento, oggi bisogna dire che senza la gratuità non si riesce a realizzare nemmeno la giustizia. Serve, pertanto, un mercato nel quale possano liberamente operare, in condizioni di pari opportunità, imprese che perseguono fini istituzionali diversi. Accanto all'impresa privata orientata al profitto, e ai vari tipi di impresa pubblica, devono potersi radicare ed esprimere quelle organizzazioni produttive che perseguono fini mutualistici e sociali. È dal loro reciproco confronto sul mercato che ci si può attendere una sorta di ibridazione dei comportamenti d'impresa e dunque un'attenzione sensibile alla civilizzazione dell'economia. Carità nella verità, in questo caso, significa che bisogna dare forma e organizzazione a quelle iniziative economiche che, pur senza negare il profitto, intendono andare oltre la logica dello scambio degli equivalenti e del profitto fine a se stesso.

[92] Cfr n.
CA 35: l.c., 836-838.
[93] Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis SRS 38: l.c., 565-566.

39 Paolo VI nella Populorum progressio chiedeva di configurare un modello di economia di mercato capace di includere, almeno tendenzialmente, tutti i popoli e non solamente quelli adeguatamente attrezzati. Chiedeva che ci si impegnasse a promuovere un mondo più umano per tutti, un mondo nel quale tutti avessero « qualcosa da dare e da ricevere, senza che il progresso degli uni costituisca un ostacolo allo sviluppo degli altri » [94]. Egli in questo modo estendeva al piano universale le stesse richieste e aspirazioni contenute nella Rerum novarum, scritta quando per la prima volta, in conseguenza della rivoluzione industriale, si affermò l'idea — sicuramente avanzata per quel tempo — che l'ordine civile per reggersi aveva bisogno anche dell'intervento ridistributivo dello Stato. Oggi questa visione, oltre a essere posta in crisi dai processi di apertura dei mercati e delle società, mostra di essere incompleta per soddisfare le esigenze di un'economia pienamente umana. Quanto la dottrina sociale della Chiesa ha sempre sostenuto a partire dalla sua visione dell'uomo e della società oggi è richiesto anche dalle dinamiche caratteristiche della globalizzazione.

Quando la logica del mercato e quella dello Stato si accordano tra loro per continuare nel monopolio dei rispettivi ambiti di influenza, alla lunga vengono meno la solidarietà nelle relazioni tra i cittadini, la partecipazione e l'adesione, l'agire gratuito, che sono altra cosa rispetto al “dare per avere”, proprio della logica dello scambio, e al “dare per dovere”, proprio della logica dei comportamenti pubblici, imposti per legge dallo Stato. La vittoria sul sottosviluppo richiede di agire non solo sul miglioramento delle transazioni fondate sullo scambio, non solo sui trasferimenti delle strutture assistenziali di natura pubblica, ma soprattutto sulla progressiva apertura, in contesto mondiale, a forme di attività economica caratterizzate da quote di gratuità e di comunione. Il binomio esclusivo mercato-Stato corrode la socialità, mentre le forme economiche solidali, che trovano il loro terreno migliore nella società civile senza ridursi ad essa, creano socialità. Il mercato della gratuità non esiste e non si possono disporre per legge atteggiamenti gratuiti. Eppure sia il mercato sia la politica hanno bisogno di persone aperte al dono reciproco.

[94] N. PP 44: l.c., 279.


40 Le attuali dinamiche economiche internazionali, caratterizzate da gravi distorsioni e disfunzioni, richiedono profondi cambiamenti anche nel modo di intendere l'impresa. Vecchie modalità della vita imprenditoriale vengono meno, ma altre promettenti si profilano all'orizzonte. Uno dei rischi maggiori è senz'altro che l'impresa risponda quasi esclusivamente a chi in essa investe e finisca così per ridurre la sua valenza sociale. Sempre meno le imprese, grazie alla crescita di dimensione ed al bisogno di sempre maggiori capitali, fanno capo a un imprenditore stabile che si senta responsabile a lungo termine, e non solo a breve, della vita e dei risultati della sua impresa, e sempre meno dipendono da un unico territorio. Inoltre la cosiddetta delocalizzazione dell'attività produttiva può attenuare nell'imprenditore il senso di responsabilità nei confronti di portatori di interessi, quali i lavoratori, i fornitori, i consumatori, l'ambiente naturale e la più ampia società circostante, a vantaggio degli azionisti, che non sono legati a uno spazio specifico e godono quindi di una straordinaria mobilità. Il mercato internazionale dei capitali, infatti, offre oggi una grande libertà di azione. È però anche vero che si sta dilatando la consapevolezza circa la necessità di una più ampia “responsabilità sociale” dell'impresa. Anche se le impostazioni etiche che guidano oggi il dibattito sulla responsabilità sociale dell'impresa non sono tutte accettabili secondo la prospettiva della dottrina sociale della Chiesa, è un fatto che si va sempre più diffondendo il convincimento in base al quale la gestione dell'impresa non può tenere conto degli interessi dei soli proprietari della stessa, ma deve anche farsi carico di tutte le altre categorie di soggetti che contribuiscono alla vita dell'impresa: i lavoratori, i clienti, i fornitori dei vari fattori di produzione, la comunità di riferimento. Negli ultimi anni si è notata la crescita di una classe cosmopolita di manager, che spesso rispondono solo alle indicazioni degli azionisti di riferimento costituiti in genere da fondi anonimi che stabiliscono di fatto i loro compensi. Anche oggi tuttavia vi sono molti manager che con analisi lungimirante si rendono sempre più conto dei profondi legami che la loro impresa ha con il territorio, o con i territori, in cui opera. Paolo VI invitava a valutare seriamente il danno che il trasferimento all'estero di capitali a esclusivo vantaggio personale può produrre alla propria Nazione [95]. Giovanni Paolo II avvertiva che investire ha sempre un significato morale, oltre che economico [96]. Tutto questo — va ribadito — è valido anche oggi, nonostante che il mercato dei capitali sia stato fortemente liberalizzato e le moderne mentalità tecnologiche possano indurre a pensare che investire sia solo un fatto tecnico e non anche umano ed etico. Non c'è motivo per negare che un certo capitale possa fare del bene, se investito all'estero piuttosto che in patria. Devono però essere fatti salvi i vincoli di giustizia, tenendo anche conto di come quel capitale si è formato e dei danni alle persone che comporterà il suo mancato impiego nei luoghi in cui esso è stato generato [97]. Bisogna evitare che il motivo per l'impiego delle risorse finanziarie sia speculativo e ceda alla tentazione di ricercare solo profitto di breve termine, e non anche la sostenibilità dell'impresa a lungo termine, il suo puntuale servizio all'economia reale e l'attenzione alla promozione, in modo adeguato ed opportuno, di iniziative economiche anche nei Paesi bisognosi di sviluppo. Non c'è nemmeno motivo di negare che la delocalizzazione, quando comporta investimenti e formazione, possa fare del bene alle popolazioni del Paese che la ospita. Il lavoro e la conoscenza tecnica sono un bisogno universale. Non è però lecito delocalizzare solo per godere di particolari condizioni di favore, o peggio per sfruttamento, senza apportare alla società locale un vero contributo per la nascita di un robusto sistema produttivo e sociale, fattore imprescindibile di sviluppo stabile.

[95] Cfr Ibid., PP 24: l.c., 269.
[96] Cfr Lett. enc. Centesimus annus
CA 36: l.c., 838-840.
[97] Cfr Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio PP 24: l.c., 269.


41 Nel contesto di questo discorso è utile osservare che l'imprenditorialità ha e deve sempre più assumere un significato plurivalente. La perdurante prevalenza del binomio mercato-Stato ci ha abituati a pensare esclusivamente all'imprenditore privato di tipo capitalistico da un lato e al dirigente statale dall'altro. In realtà, l'imprenditorialità va intesa in modo articolato. Ciò risulta da una serie di motivazioni metaeconomiche. L'imprenditorialità, prima di avere un significato professionale, ne ha uno umano [98]. Essa è inscritta in ogni lavoro, visto come « actus personae » [99], per cui è bene che a ogni lavoratore sia offerta la possibilità di dare il proprio apporto in modo che egli stesso « sappia di lavorare “in proprio” » [100]. Non a caso Paolo VI insegnava che « ogni lavoratore è un creatore » [101]. Proprio per rispondere alle esigenze e alla dignità di chi lavora, e ai bisogni della società, esistono vari tipi di imprese, ben oltre la sola distinzione tra « privato » e « pubblico ». Ognuna richiede ed esprime una capacità imprenditoriale specifica. Al fine di realizzare un'economia che nel prossimo futuro sappia porsi al servizio del bene comune nazionale e mondiale, è opportuno tenere conto di questo significato esteso di imprenditorialità. Questa concezione più ampia favorisce lo scambio e la formazione reciproca tra le diverse tipologie di imprenditorialità, con travaso di competenze dal mondo non profit a quello profit e viceversa, da quello pubblico a quello proprio della società civile, da quello delle economie avanzate a quello dei Paesi in via di sviluppo.

Anche l'autorità politica ha un significato plurivalente, che non può essere dimenticato, mentre si procede alla realizzazione di un nuovo ordine economico-produttivo, socialmente responsabile e a misura d'uomo. Come si intende coltivare un'imprenditorialità differenziata sul piano mondiale, così si deve promuovere un'autorità politica distribuita e attivantesi su più piani. L'economia integrata dei giorni nostri non elimina il ruolo degli Stati, piuttosto ne impegna i Governi ad una più forte collaborazione reciproca. Ragioni di saggezza e di prudenza suggeriscono di non proclamare troppo affrettatamente la fine dello Stato. In relazione alla soluzione della crisi attuale, il suo ruolo sembra destinato a crescere, riacquistando molte delle sue competenze. Ci sono poi delle Nazioni in cui la costruzione o ricostruzione dello Stato continua ad essere un elemento chiave del loro sviluppo. L'aiuto internazionale proprio all'interno di un progetto solidaristico mirato alla soluzione degli attuali problemi economici dovrebbe piuttosto sostenere il consolidamento di sistemi costituzionali, giuridici, amministrativi nei Paesi che non godono ancora pienamente di questi beni. Accanto agli aiuti economici, devono esserci quelli volti a rafforzare le garanzie proprie dello Stato di diritto, un sistema di ordine pubblico e di carcerazione efficiente nel rispetto dei diritti umani, istituzioni veramente democratiche. Non è necessario che lo Stato abbia dappertutto le medesime caratteristiche: il sostegno ai sistemi costituzionali deboli affinché si rafforzino può benissimo accompagnarsi con lo sviluppo di altri soggetti politici, di natura culturale, sociale, territoriale o religiosa, accanto allo Stato. L'articolazione dell'autorità politica a livello locale, nazionale e internazionale è, tra l'altro, una delle vie maestre per arrivare ad essere in grado di orientare la globalizzazione economica. È anche il modo per evitare che essa mini di fatto i fondamenti della democrazia.

[98] Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus
CA 32): l.c., 832-833; Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, PP 25: l.c., 269-270.
[99] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Laborem exercens LE 24: l.c., 637-638.
[100] Ibid., LE 15: l.c., 616-618.
[101] Lett. enc. Populorum progressio PP 27: l.c., 271.

42 Talvolta nei riguardi della globalizzazione si notano atteggiamenti fatalistici, come se le dinamiche in atto fossero prodotte da anonime forze impersonali e da strutture indipendenti dalla volontà umana [102]. È bene ricordare a questo proposito che la globalizzazione va senz'altro intesa come un processo socio-economico, ma questa non è l'unica sua dimensione. Sotto il processo più visibile c'è la realtà di un'umanità che diviene sempre più interconnessa; essa è costituita da persone e da popoli a cui quel processo deve essere di utilità e di sviluppo [103], grazie all'assunzione da parte tanto dei singoli quanto della collettività delle rispettive responsabilità. Il superamento dei confini non è solo un fatto materiale, ma anche culturale nelle sue cause e nei suoi effetti. Se si legge deterministicamente la globalizzazione, si perdono i criteri per valutarla ed orientarla. Essa è una realtà umana e può avere a monte vari orientamenti culturali sui quali occorre esercitare il discernimento. La verità della globalizzazione come processo e il suo criterio etico fondamentale sono dati dall'unità della famiglia umana e dal suo sviluppo nel bene. Occorre quindi impegnarsi incessantemente per favorire un orientamento culturale personalista e comunitario, aperto alla trascendenza, del processo di integrazione planetaria.

Nonostante alcune sue dimensioni strutturali che non vanno negate ma nemmeno assolutizzate, « la globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone ne faranno » [104]. Non dobbiamo esserne vittime, ma protagonisti, procedendo con ragionevolezza, guidati dalla carità e dalla verità. Opporvisi ciecamente sarebbe un atteggiamento sbagliato, preconcetto, che finirebbe per ignorare un processo contrassegnato anche da aspetti positivi, con il rischio di perdere una grande occasione di inserirsi nelle molteplici opportunità di sviluppo da esso offerte. I processi di globalizzazione, adeguatamente concepiti e gestiti, offrono la possibilità di una grande ridistribuzione della ricchezza a livello planetario come in precedenza non era mai avvenuto; se mal gestiti, possono invece far crescere povertà e disuguaglianza, nonché contagiare con una crisi l'intero mondo. Bisogna correggerne le disfunzioni, anche gravi, che introducono nuove divisioni tra i popoli e dentro i popoli e fare in modo che la ridistribuzione della ricchezza non avvenga con una ridistribuzione della povertà o addirittura con una sua accentuazione, come una cattiva gestione della situazione attuale potrebbe farci temere. Per molto tempo si è pensato che i popoli poveri dovessero rimanere ancorati a un prefissato stadio di sviluppo e dovessero accontentarsi della filantropia dei popoli sviluppati. Contro questa mentalità ha preso posizione Paolo VI nella Populorum progressio. Oggi le forze materiali utilizzabili per far uscire quei popoli dalla miseria sono potenzialmente maggiori di un tempo, ma di esse hanno finito per avvalersi prevalentemente gli stessi popoli dei Paesi sviluppati, che hanno potuto sfruttare meglio il processo di liberalizzazione dei movimenti di capitali e del lavoro. La diffusione delle sfere di benessere a livello mondiale non va, dunque, frenata con progetti egoistici, protezionistici o dettati da interessi particolari. Infatti il coinvolgimento dei Paesi emergenti o in via di sviluppo, permette oggi di meglio gestire la crisi. La transizione insita nel processo di globalizzazione presenta grandi difficoltà e pericoli, che potranno essere superati solo se si saprà prendere coscienza di quell'anima antropologica ed etica, che dal profondo sospinge la globalizzazione stessa verso traguardi di umanizzazione solidale. Purtroppo tale anima è spesso soverchiata e compressa da prospettive etico-culturali di impostazione individualistica e utilitaristica. La globalizzazione è fenomeno multidimensionale e polivalente, che esige di essere colto nella diversità e nell'unità di tutte le sue dimensioni, compresa quella teologica. Ciò consentirà di vivere ed orientare la globalizzazione dell'umanità in termini di relazionalità, di comunione e di condivisione.

[102] Cfr Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione sulla libertà cristiana e la liberazione Libertatis conscientia (22 marzo 1987) 74: AAS 79 (1987), 587.
[103] Cfr Giovanni Paolo II, Intervista al quotidiano cattolico « La Croix », 20 agosto 1997.
[104] Giovanni Paolo II, Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali (27 aprile 2001): Insegnamenti XXIV, 1 (2001), 800.


CAPITOLO QUARTO

SVILUPPO DEI POPOLI,

DIRITTI E DOVERI, AMBIENTE



43 « La solidarietà universale, che è un fatto e per noi un beneficio, è altresì un dovere » [105]. Molte persone, oggi, tendono a coltivare la pretesa di non dover niente a nessuno, tranne che a se stesse. Ritengono di essere titolari solo di diritti e incontrano spesso forti ostacoli a maturare una responsabilità per il proprio e l'altrui sviluppo integrale. Per questo è importante sollecitare una nuova riflessione su come i diritti presuppongano doveri senza i quali si trasformano in arbitrio [106]. Si assiste oggi a una pesante contraddizione. Mentre, per un verso, si rivendicano presunti diritti, di carattere arbitrario e voluttuario, con la pretesa di vederli riconosciuti e promossi dalle strutture pubbliche, per l'altro verso, vi sono diritti elementari e fondamentali disconosciuti e violati nei confronti di tanta parte dell'umanità [107]. Si è spesso notata una relazione tra la rivendicazione del diritto al superfluo o addirittura alla trasgressione e al vizio, nelle società opulente, e la mancanza di cibo, di acqua potabile, di istruzione di base o di cure sanitarie elementari in certe regioni del mondo del sottosviluppo e anche nelle periferie di grandi metropoli. La relazione sta nel fatto che i diritti individuali, svincolati da un quadro di doveri che conferisca loro un senso compiuto, impazziscono e alimentano una spirale di richieste praticamente illimitata e priva di criteri. L'esasperazione dei diritti sfocia nella dimenticanza dei doveri. I doveri delimitano i diritti perché rimandano al quadro antropologico ed etico entro la cui verità anche questi ultimi si inseriscono e così non diventano arbitrio. Per questo motivo i doveri rafforzano i diritti e propongono la loro difesa e promozione come un impegno da assumere a servizio del bene. Se, invece, i diritti dell'uomo trovano il proprio fondamento solo nelle deliberazioni di un'assemblea di cittadini, essi possono essere cambiati in ogni momento e, quindi, il dovere di rispettarli e perseguirli si allenta nella coscienza comune. I Governi e gli Organismi internazionali possono allora dimenticare l'oggettività e l'« indisponibilità » dei diritti. Quando ciò avviene, il vero sviluppo dei popoli è messo in pericolo [108]. Comportamenti simili compromettono l'autorevolezza degli Organismi internazionali, soprattutto agli occhi dei Paesi maggiormente bisognosi di sviluppo. Questi, infatti, richiedono che la comunità internazionale assuma come un dovere l'aiutarli a essere « artefici del loro destino » [109], ossia ad assumersi a loro volta dei doveri. La condivisione dei doveri reciproci mobilita assai più della sola rivendicazione di diritti.

[105] Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio PP 17: l.c., 265-266.
[106] Cfr Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2003, 5: AAS 95 (2003), 343.
[107] Cfr ibid.
[108] Cfr Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2007, 13: l.c., 781-782.
[109] Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio PP 65: l.c., 289.

44 La concezione dei diritti e dei doveri nello sviluppo deve tener conto anche delle problematiche connesse con la crescita demografica. Si tratta di un aspetto molto importante del vero sviluppo, perché concerne i valori irrinunciabili della vita e della famiglia [110]. Considerare l'aumento della popolazione come causa prima del sottosviluppo è scorretto, anche dal punto di vista economico: basti pensare, da una parte, all'importante diminuzione della mortalità infantile e al prolungamento della vita media che si registrano nei Paesi economicamente sviluppati; dall'altra, ai segni di crisi rilevabili nelle società in cui si registra un preoccupante calo della natalità. Resta ovviamente doveroso prestare la debita attenzione ad una procreazione responsabile, che costituisce, tra l'altro, un fattivo contributo allo sviluppo umano integrale. La Chiesa, che ha a cuore il vero sviluppo dell'uomo, gli raccomanda il pieno rispetto dei valori umani anche nell'esercizio della sessualità: non la si può ridurre a mero fatto edonistico e ludico, così come l'educazione sessuale non si può ridurre a un'istruzione tecnica, con l'unica preoccupazione di difendere gli interessati da eventuali contagi o dal « rischio » procreativo. Ciò equivarrebbe ad impoverire e disattendere il significato profondo della sessualità, che deve invece essere riconosciuto ed assunto con responsabilità tanto dalla persona quanto dalla comunità. La responsabilità vieta infatti sia di considerare la sessualità una semplice fonte di piacere, sia di regolarla con politiche di forzata pianificazione delle nascite. In ambedue i casi si è in presenza di concezioni e di politiche materialistiche, nelle quali le persone finiscono per subire varie forme di violenza. A tutto ciò si deve opporre la competenza primaria delle famiglie in questo campo [111], rispetto allo Stato e alle sue politiche restrittive, nonché un'appropriata educazione dei genitori.

L'apertura moralmente responsabile alla vita è una ricchezza sociale ed economica.Grandi Nazioni hanno potuto uscire dalla miseria anche grazie al grande numero e alle capacità dei loro abitanti. Al contrario, Nazioni un tempo floride conoscono ora una fase di incertezza e in qualche caso di declino proprio a causa della denatalità, problema cruciale per le società di avanzato benessere. La diminuzione delle nascite, talvolta al di sotto del cosiddetto « indice di sostituzione », mette in crisi anche i sistemi di assistenza sociale, ne aumenta i costi, contrae l'accantonamento di risparmio e di conseguenza le risorse finanziarie necessarie agli investimenti, riduce la disponibilità di lavoratori qualificati, restringe il bacino dei « cervelli » a cui attingere per le necessità della Nazione. Inoltre, le famiglie di piccola, e talvolta piccolissima, dimensione corrono il rischio di impoverire le relazioni sociali, e di non garantire forme efficaci di solidarietà. Sono situazioni che presentano sintomi di scarsa fiducia nel futuro come pure di stanchezza morale. Diventa così una necessità sociale, e perfino economica, proporre ancora alle nuove generazioni la bellezza della famiglia e del matrimonio, la rispondenza di tali istituzioni alle esigenze più profonde del cuore e della dignità della persona. In questa prospettiva, gli Stati sono chiamati a varare politiche che promuovano la centralità e l'integrità della famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, prima e vitale cellula della società, [112] facendosi carico anche dei suoi problemi economici e fiscali, nel rispetto della sua natura relazionale.

[110] Cfr ibid., PP 36-37: l.c., 275-276.
[111] Cfr ibid., PP 37: l.c., 275-276.
[112] Cfr Conc. Ecum.Vat. II, Decreto sull'apostolato dei laici Apostolicam actuositatem
AA 11.

45 Rispondere alle esigenze morali più profonde della persona ha anche importanti e benefiche ricadute sul piano economico. L'economia infatti ha bisogno dell'etica per il suo corretto funzionamento; non di un'etica qualsiasi, bensì di un'etica amica della persona. Oggi si parla molto di etica in campo economico, finanziario, aziendale. Nascono Centri di studio e percorsi formativi di business ethics; si diffonde nel mondo sviluppato il sistema delle certificazioni etiche, sulla scia del movimento di idee nato intorno alla responsabilità sociale dell'impresa. Le banche propongono conti e fondi di investimento cosiddetti « etici ». Si sviluppa una « finanza etica », soprattutto mediante il microcredito e, più in generale, la microfinanza. Questi processi suscitano apprezzamento e meritano un ampio sostegno. I loro effetti positivi si fanno sentire anche nelle aree meno sviluppate della terra. È bene, tuttavia, elaborare anche un valido criterio di discernimento, in quanto si nota un certo abuso dell'aggettivo « etico » che, adoperato in modo generico, si presta a designare contenuti anche molto diversi, al punto da far passare sotto la sua copertura decisioni e scelte contrarie alla giustizia e al vero bene dell'uomo.

Molto, infatti, dipende dal sistema morale di riferimento. Su questo argomento la dottrina sociale della Chiesa ha un suo specifico apporto da dare, che si fonda sulla creazione dell'uomo “ad immagine di Dio” (
Gn 1,27), un dato da cui discende l'inviolabile dignità della persona umana, come anche il trascendente valore delle norme morali naturali. Un'etica economica che prescindesse da questi due pilastri rischierebbe inevitabilmente di perdere la propria connotazione e di prestarsi a strumentalizzazioni; più precisamente essa rischierebbe di diventare funzionale ai sistemi economico-finanziari esistenti, anziché correttiva delle loro disfunzioni. Tra l'altro, finirebbe anche per giustificare il finanziamento di progetti che etici non sono. Bisogna, poi, non ricorrere alla parola « etica » in modo ideologicamente discriminatorio, lasciando intendere che non sarebbero etiche le iniziative che non si fregiassero formalmente di questa qualifica. Occorre adoperarsi — l'osservazione è qui essenziale! — non solamente perché nascano settori o segmenti « etici » dell'economia o della finanza, ma perché l'intera economia e l'intera finanza siano etiche e lo siano non per un'etichettatura dall'esterno, ma per il rispetto di esigenze intrinseche alla loro stessa natura. Parla con chiarezza, a questo riguardo, la dottrina sociale della Chiesa, che ricorda come l'economia, con tutte le sue branche, sia un settore dell'attività umana [113].

[113] Cfr Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio PP 14: l.c., 264; Giovanni Paolo II Lett. enc. Centesimus annus CA 32, l.c., 832-833.


46 Considerando le tematiche relative al rapporto tra impresa ed etica, nonché l'evoluzione che il sistema produttivo sta compiendo, sembra che la distinzione finora invalsa tra imprese finalizzate al profitto (profit)e organizzazioni non finalizzate al profitto (non profit) non sia più in grado di dar conto completo della realtà, né di orientare efficacemente il futuro. In questi ultimi decenni è andata emergendo un'ampia area intermedia tra le due tipologie di imprese. Essa è costituita da imprese tradizionali, che però sottoscrivono dei patti di aiuto ai Paesi arretrati; da fondazioni che sono espressione di singole imprese; da gruppi di imprese aventi scopi di utilità sociale; dal variegato mondo dei soggetti della cosiddetta economia civile e di comunione. Non si tratta solo di un « terzo settore », ma di una nuova ampia realtà composita, che coinvolge il privato e il pubblico e che non esclude il profitto, ma lo considera strumento per realizzare finalità umane e sociali. Il fatto che queste imprese distribuiscano o meno gli utili oppure che assumano l'una o l'altra delle configurazioni previste dalle norme giuridiche diventa secondario rispetto alla loro disponibilità a concepire il profitto come uno strumento per raggiungere finalità di umanizzazione del mercato e della società. È auspicabile che queste nuove forme di impresa trovino in tutti i Paesi anche adeguata configurazione giuridica e fiscale. Esse, senza nulla togliere all'importanza e all'utilità economica e sociale delle forme tradizionali di impresa, fanno evolvere il sistema verso una più chiara e compiuta assunzione dei doveri da parte dei soggetti economici. Non solo. È la stessa pluralità delle forme istituzionali di impresa a generare un mercato più civile e al tempo stesso più competitivo.


47 Il potenziamento delle diverse tipologie di imprese e, in particolare, di quelle capaci di concepire il profitto come uno strumento per raggiungere finalità di umanizzazione del mercato e delle società, deve essere perseguito anche nei Paesi che soffrono di esclusione o di emarginazione dai circuiti dell'economia globale, dove è molto importante procedere con progetti di sussidiarietà opportunamente concepita e gestita che tendano a potenziare i diritti, prevedendo però sempre anche l'assunzione di corrispettive responsabilità. Negli interventi per lo sviluppo va fatto salvo il principio della centralità della persona umana, la quale è il soggetto che deve assumersi primariamente il dovere dello sviluppo. L'interesse principale è il miglioramento delle situazioni di vita delle persone concrete di una certa regione, affinché possano assolvere a quei doveri che attualmente l'indigenza non consente loro di onorare. La sollecitudine non può mai essere un atteggiamento astratto. I programmi di sviluppo, per poter essere adattati alle singole situazioni, devono avere caratteristiche di flessibilità; e le persone beneficiarie dovrebbero essere coinvolte direttamente nella loro progettazione e rese protagoniste della loro attuazione. È anche necessario applicare i criteri della progressione e dell'accompagnamento — compreso il monitoraggio dei risultati –, perché non ci sono ricette universalmente valide. Molto dipende dalla concreta gestione degli interventi. « Artefici del loro proprio sviluppo, i popoli ne sono i primi responsabili. Ma non potranno realizzarlo nell'isolamento » [114]. Oggi, con il consolidamento del processo di progressiva integrazione del pianeta, questo ammonimento di Paolo VI è ancor più valido. Le dinamiche di inclusione non hanno nulla di meccanico. Le soluzioni vanno calibrate sulla vita dei popoli e delle persone concrete, sulla base di una valutazione prudenziale di ogni situazione. Accanto ai macroprogetti servono i microprogetti e, soprattutto, serve la mobilitazione fattiva di tutti i soggetti della società civile, tanto delle persone giuridiche quanto delle persone fisiche.

La cooperazione internazionale ha bisogno di persone che condividano il processo di sviluppo economico e umano, mediante la solidarietà della presenza, dell'accompagnamento, della formazione e del rispetto. Da questo punto di vista, gli stessi Organismi internazionali dovrebbero interrogarsi sulla reale efficacia dei loro apparati burocratici e amministrativi, spesso troppo costosi. Capita talvolta che chi è destinatario degli aiuti diventi funzionale a chi lo aiuta e che i poveri servano a mantenere in vita dispendiose organizzazioni burocratiche che riservano per la propria conservazione percentuali troppo elevate di quelle risorse che invece dovrebbero essere destinate allo sviluppo. In questa prospettiva, sarebbe auspicabile che tutti gli Organismi internazionali e le Organizzazioni non governative si impegnassero ad una piena trasparenza, informando i donatori e l'opinione pubblica circa la percentuale dei fondi ricevuti destinata ai programmi di cooperazione, circa il vero contenuto di tali programmi, e infine circa la composizione delle spese dell'istituzione stessa.

[114] Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio PP 77: l.c., 295.


48 Il tema dello sviluppo è oggi fortemente collegato anche ai doveri che nascono dal rapporto dell'uomo con l'ambiente naturale. Questo è stato donato da Dio a tutti, e il suo uso rappresenta per noi una responsabilità verso i poveri, le generazioni future e l'umanità intera. Se la natura, e per primo l'essere umano, vengono considerati come frutto del caso o del determinismo evolutivo, la consapevolezza della responsabilità si attenua nelle coscienze. Nella natura il credente riconosce il meraviglioso risultato dell'intervento creativo di Dio, che l'uomo può responsabilmente utilizzare per soddisfare i suoi legittimi bisogni — materiali e immateriali — nel rispetto degli intrinseci equilibri del creato stesso. Se tale visione viene meno, l'uomo finisce o per considerare la natura un tabù intoccabile o, al contrario, per abusarne. Ambedue questi atteggiamenti non sono conformi alla visione cristiana della natura, frutto della creazione di Dio.

La natura è espressione di un disegno di amore e di verità. Essa ci precede e ci è donata da Dio come ambiente di vita. Ci parla del Creatore (cfr
Rm 1,20) e del suo amore per l'umanità. È destinata ad essere « ricapitolata » in Cristo alla fine dei tempi (cfr Ep 1,9-10 Col 1,19-20). Anch'essa, quindi, è una « vocazione » [115]. La natura è a nostra disposizione non come « un mucchio di rifiuti sparsi a caso » [116], bensì come un dono del Creatore che ne ha disegnato gli ordinamenti intrinseci, affinché l'uomo ne tragga gli orientamenti doverosi per “custodirla e coltivarla” (Gn 2,15). Ma bisogna anche sottolineare che è contrario al vero sviluppo considerare la natura più importante della stessa persona umana. Questa posizione induce ad atteggiamenti neopagani o di nuovo panteismo: dalla sola natura, intesa in senso puramente naturalistico, non può derivare la salvezza per l'uomo. Peraltro, bisogna anche rifiutare la posizione contraria, che mira alla sua completa tecnicizzazione, perché l'ambiente naturale non è solo materia di cui disporre a nostro piacimento, ma opera mirabile del Creatore, recante in sé una “grammatica” che indica finalità e criteri per un utilizzo sapiente, non strumentale e arbitrario. Oggi molti danni allo sviluppo provengono proprio da queste concezioni distorte. Ridurre completamente la natura ad un insieme di semplici dati di fatto finisce per essere fonte di violenza nei confronti dell'ambiente e addirittura per motivare azioni irrispettose verso la stessa natura dell'uomo. Questa, in quanto costituita non solo di materia ma anche di spirito e, come tale, essendo ricca di significati e di fini trascendenti da raggiungere, ha un carattere normativo anche per la cultura. L'uomo interpreta e modella l'ambiente naturale mediante la cultura, la quale a sua volta viene orientata mediante la libertà responsabile, attenta ai dettami della legge morale. I progetti per uno sviluppo umano integrale non possono pertanto ignorare le generazioni successive, ma devono essere improntati a solidarietà e a giustizia intergenerazionali, tenendo conto di molteplici ambiti: l'ecologico, il giuridico, l'economico, il politico, il culturale [117].

[115] Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1990, 6: AAS 82 (1990), 150.
[116] Eraclito di Efeso (Efeso 535 a.C. ca. – 475 a.C. ca.), Frammento 22B124, in H. Diels-W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Weidmann, Berlin 19526 .
[117] Cfr Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, nn. 451- 487.

49 Le questioni legate alla cura e alla salvaguardia dell'ambiente devono oggi tenere in debita considerazione le problematiche energetiche. L'accaparramento delle risorse energetiche non rinnovabili da parte di alcuni Stati, gruppi di potere e imprese costituisce, infatti, un grave impedimento per lo sviluppo dei Paesi poveri. Questi non hanno i mezzi economici né per accedere alle esistenti fonti energetiche non rinnovabili né per finanziare la ricerca di fonti nuove e alternative. L'incetta delle risorse naturali, che in molti casi si trovano proprio nei Paesi poveri, genera sfruttamento e frequenti conflitti tra le Nazioni e al loro interno. Tali conflitti si combattono spesso proprio sul suolo di quei Paesi, con pesanti bilanci in termini di morte, distruzione e ulteriore degrado. La comunità internazionale ha il compito imprescindibile di trovare le strade istituzionali per disciplinare lo sfruttamento delle risorse non rinnovabili, con la partecipazione anche dei Paesi poveri, in modo da pianificare insieme il futuro.

Anche su questo fronte vi è l'urgente necessità morale di una rinnovata solidarietà, specialmente nei rapporti tra i Paesi in via di sviluppo e i Paesi altamente industrializzati [118]. Le società tecnologicamente avanzate possono e devono diminuire il proprio fabbisogno energetico sia perché le attività manifatturiere evolvono, sia perché tra i loro cittadini si diffonde una sensibilità ecologica maggiore. Si deve inoltre aggiungere che oggi è realizzabile un miglioramento dell'efficienza energetica ed è al tempo stesso possibile far avanzare la ricerca di energie alternative. È però anche necessaria una ridistribuzione planetaria delle risorse energetiche, in modo che anche i Paesi che ne sono privi possano accedervi. Il loro destino non può essere lasciato nelle mani del primo arrivato o alla logica del più forte. Si tratta di problemi rilevanti che, per essere affrontati in modo adeguato, richiedono da parte di tutti la responsabile presa di coscienza delle conseguenze che si riverseranno sulle nuove generazioni, soprattutto sui moltissimi giovani presenti nei popoli poveri, i quali « reclamano la parte attiva che loro spetta nella costruzione d'un mondo migliore » [119].

[118] Cfr Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1990, 10: l.c., 152-153.
[119] Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio PP 65: l.c., 289.

50 Questa responsabilità è globale, perché non concerne solo l'energia, ma tutto il creato, che non dobbiamo lasciare alle nuove generazioni depauperato delle sue risorse. All'uomo è lecito esercitare un governo responsabile sulla natura per custodirla, metterla a profitto e coltivarla anche in forme nuove e con tecnologie avanzate in modo che essa possa degnamente accogliere e nutrire la popolazione che la abita. C'è spazio per tutti su questa nostra terra: su di essa l'intera famiglia umana deve trovare le risorse necessarie per vivere dignitosamente, con l'aiuto della natura stessa, dono di Dio ai suoi figli, e con l'impegno del proprio lavoro e della propria inventiva. Dobbiamo però avvertire come dovere gravissimo quello di consegnare la terra alle nuove generazioni in uno stato tale che anch'esse possano degnamente abitarla e ulteriormente coltivarla. Ciò implica l'impegno di decidere insieme, « dopo aver ponderato responsabilmente la strada da percorrere, con l'obiettivo di rafforzare quell'alleanza tra essere umano e ambiente che deve essere specchio dell'amore creatore di Dio, dal quale proveniamo e verso il quale siamo in cammino » [120]. È auspicabile che la comunità internazionale e i singoli governi sappiano contrastare in maniera efficace le modalità d'utilizzo dell'ambiente che risultino ad esso dannose. È altresì doveroso che vengano intrapresi, da parte delle autorità competenti, tutti gli sforzi necessari affinché i costi economici e sociali derivanti dall'uso delle risorse ambientali comuni siano riconosciuti in maniera trasparente e siano pienamente supportati da coloro che ne usufruiscono e non da altre popolazioni o dalle generazioni future: la protezione dell'ambiente, delle risorse e del clima richiede che tutti i responsabili internazionali agiscano congiuntamente e dimostrino prontezza ad operare in buona fede, nel rispetto della legge e della solidarietà nei confronti delle regioni più deboli del pianeta [121]. Uno dei maggiori compiti dell'economia è proprio il più efficiente uso delle risorse, non l'abuso, tenendo sempre presente che la nozione di efficienza non è assiologicamente neutrale.

[120] Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2008, 7: AAS 100 (2008), 41.
[121] Cfr Id., Discorso ai partecipanti all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite (18 aprile 2008): Insegnamenti IV, 1 (2008), 618- 626.

51 Le modalità con cui l'uomo tratta l'ambiente influiscono sulle modalità con cui tratta se stesso e, viceversa. Ciò richiama la società odierna a rivedere seriamente il suo stile di vita che, in molte parti del mondo, è incline all'edonismo e al consumismo, restando indifferente ai danni che ne derivano [122]. È necessario un effettivo cambiamento di mentalità che ci induca ad adottare nuovi stili di vita, “nei quali la ricerca del vero, del bello e del buono e la comunione con gli altri uomini per una crescita comune siano gli elementi che determinano le scelte dei consumi, dei risparmi e degli investimenti” [123]. Ogni lesione della solidarietà e dell'amicizia civica provoca danni ambientali, così come il degrado ambientale, a sua volta, provoca insoddisfazione nelle relazioni sociali. La natura, specialmente nella nostra epoca, è talmente integrata nelle dinamiche sociali e culturali da non costituire quasi più una variabile indipendente. La desertificazione e l'impoverimento produttivo di alcune aree agricole sono anche frutto dell'impoverimento delle popolazioni che le abitano e della loro arretratezza. Incentivando lo sviluppo economico e culturale di quelle popolazioni, si tutela anche la natura. Inoltre, quante risorse naturali sono devastate dalle guerre! La pace dei popoli e tra i popoli permetterebbe anche una maggiore salvaguardia della natura. L'accaparramento delle risorse, specialmente dell'acqua, può provocare gravi conflitti tra le popolazioni coinvolte. Un pacifico accordo sull'uso delle risorse può salvaguardare la natura e, contemporaneamente, il benessere delle società interessate.

La Chiesa ha una responsabilità per il creato e deve far valere questa responsabilità anche in pubblico. E facendolo deve difendere non solo la terra, l'acqua e l'aria come doni della creazione appartenenti a tutti. Deve proteggere soprattutto l'uomo contro la distruzione di se stesso. È necessario che ci sia qualcosa come un'ecologia dell'uomo, intesa in senso giusto. Il degrado della natura è infatti strettamente connesso alla cultura che modella la convivenza umana: quando l'« ecologia umana » [124] è rispettata dentro la società, anche l'ecologia ambientale ne trae beneficio. Come le virtù umane sono tra loro comunicanti, tanto che l'indebolimento di una espone a rischio anche le altre, così il sistema ecologico si regge sul rispetto di un progetto che riguarda sia la sana convivenza in società sia il buon rapporto con la natura.

Per salvaguardare la natura non è sufficiente intervenire con incentivi o disincentivi economici e nemmeno basta un'istruzione adeguata. Sono, questi, strumenti importanti, ma il problema decisivo è la complessiva tenuta morale della società. Se non si rispetta il diritto alla vita e alla morte naturale, se si rende artificiale il concepimento, la gestazione e la nascita dell'uomo, se si sacrificano embrioni umani alla ricerca, la coscienza comune finisce per perdere il concetto di ecologia umana e, con esso, quello di ecologia ambientale. È una contraddizione chiedere alle nuove generazioni il rispetto dell'ambiente naturale, quando l'educazione e le leggi non le aiutano a rispettare se stesse. Il libro della natura è uno e indivisibile, sul versante dell'ambiente come sul versante della vita, della sessualità, del matrimonio, della famiglia, delle relazioni sociali, in una parola dello sviluppo umano integrale. I doveri che abbiamo verso l'ambiente si collegano con i doveri che abbiamo verso la persona considerata in se stessa e in relazione con gli altri. Non si possono esigere gli uni e conculcare gli altri. Questa è una grave antinomia della mentalità e della prassi odierna, che avvilisce la persona, sconvolge l'ambiente e danneggia la società.

[122] Cfr Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1990, 13: l.c., 154-155.
[123] Id., Lett. enc. Centesimus annus
CA 36): l.c., 838-840.
[124] Ibid., CA 38: l.c., 840-841; cfr Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2007, 8: l.c., 779.

52 La verità e l'amore che essa dischiude non si possono produrre, si possono solo accogliere. La loro fonte ultima non è, né può essere, l'uomo, ma Dio, ossia Colui che è Verità e Amore. Questo principio è assai importante per la società e per lo sviluppo, in quanto né l'una né l'altro possono essere solo prodotti umani; la stessa vocazione allo sviluppo delle persone e dei popoli non si fonda su una semplice deliberazione umana, ma è inscritta in un piano che ci precede e che costituisce per tutti noi un dovere che deve essere liberamente accolto. Ciò che ci precede e che ci costituisce — l'Amore e la Verità sussistenti — ci indica che cosa sia il bene e in che cosa consista la nostra felicità. Ci indica quindi la strada verso il vero sviluppo.



Caritas in veritate IT 33