Evangelium vitae 47

"Quanti si attengono ad essa avranno la vita": dalla Legge del Sinai al dono dello Spirito

(Ba 4,1)
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48. La vita porta indelebilmente inscritta in sé una sua verità. L'uomo, accogliendo il dono di Dio, deve impegnarsi amantenere la vita in questa verità, che le è essenziale. Distaccarsene equivale a condannare se stessi all'insignificanza e all'infelicità, con la conseguenza di poter diventare anche una minaccia per l'esistenza altrui, essendo stati rotti gli argini che garantiscono il rispetto e la difesa della vita, in ogni situazione.

La verità della vita è rivelata dal comandamento di Dio. La parola del Signore indica concretamente quale indirizzo la vita debba seguire per poter rispettare la propria verità e salvaguardare la propria dignità. Non è soltanto lo specifico comandamento "non uccidere" (
Ex 20,13 Dt 5,17) ad assicurare la protezione della vita: tutta intera la Legge del Signore è a servizio di tale protezione, perché rivela quella verità nella quale la vita trova il suo pieno significato.

Non meraviglia, dunque, che l'Alleanza di Dio con il suo popolo sia così fortemente legata alla prospettiva della vita, anche nella sua dimensione corporea. Il comandamento è in essa offerto come via della vita: "Io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva e ti moltiplichi e il Signore tuo Dio ti benedica nel paese che tu stai per entrare a prendere in possesso" (Dt 30,15-16). E in questione non soltanto la terra di Canaan e l'esistenza del popolo di Israele, ma il mondo di oggi e del futuro e l'esistenza di tutta l'umanità. Infatti, non è assolutamente possibile che la vita resti autentica e piena distaccandosi dal bene; e il bene, a sua volta, è essenzialmente legato ai comandamenti del Signore, cioè alla "legge della vita" (Si 17,9). Il bene da compiere non si sovrappone alla vita come un peso che grava su di essa, perché la ragione stessa della vita è precisamente il bene e la vita è costruita solo mediante il compimento del bene.

E dunque il complesso della Legge a salvaguardare pienamente la vita dell'uomo. Ciò spiega come sia difficile mantenersi fedeli al "non uccidere" quando non vengono osservate le altre "parole di vita" (Ac 7,38), alle quali questo comandamento è connesso. Al di fuori di questo orizzonte, il comandamento finisce per diventare un semplice obbligo estrinseco, di cui ben presto si vorranno vedere i limiti e si cercheranno le attenuazioni o le eccezioni. Solo se ci si apre alla pienezza della verità su Dio, sull'uomo e sulla storia, la parola "non uccidere" torna a risplendere come bene per l'uomo in tutte le sue dimensioni e relazioni. In questa prospettiva possiamo cogliere la pienezza di verità contenuta nel passo del libro del Deuteronomio, ripreso da Gesù nella risposta alla prima tentazione: "L'uomo non vive soltanto di pane, ma... di quanto esce dalla bocca del Signore" (8, 3; Mt 4,4). E ascoltando la parola del Signore che l'uomo può vivere secondo dignità e giustizia; è osservando la Legge di Dio che l'uomo può portare frutti di vita e di felicità: "quanti si attengono ad essa avranno la vita, quanti l'abbandonano moriranno" (Ba 4,1).

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49. La storia di Israele mostra quanto sia difficile mantenere la fedeltà alla legge della vita, che Dio ha inscritto nel cuore degli uomini e ha consegnato sul Sinai al popolo dell'Alleanza. Di fronte alla ricerca di progetti di vita alternativi al piano di Dio, sono in particolare i Profeti a richiamare con forza che solo il Signore è l'autentica fonte della vita. così Geremia scrive: "Il mio popolo ha commesso due iniquità: essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate, che non tengono l'acqua" (
Jr 2,13). I Profeti puntano il dito accusatore su quanti disprezzano la vita e violano i diritti delle persone: "Calpestano come la polvere della terra la testa dei poveri" (Am 2,7); "Essi hanno riempito questo luogo di sangue innocente" (Ger 19, 4). E tra essi il profeta Ezechiele più volte stigmatizza la città di Gerusalemme, chiamandola "la città sanguinaria" (22, 2; 24, 6.9), la "città che sparge il sangue in mezzo a se stessa" (22, 3).

Ma mentre denunciano le offese alla vita, i Profeti si preoccupano soprattutto di suscitare l'attesa di un nuovo principio di vita, capace di fondare un rinnovato rapporto con Dio e con i fratelli, dischiudendo possibilità inedite e straordinarie per comprendere e attuare tutte le esigenze insite nel Vangelo della vita . Ciò sarà possibile unicamente grazie al dono di Dio, che purifica e rinnova: "Vi aspergero con acqua pura e sarete purificati; io vi purifichero da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi daro un cuore nuovo, mettero dentro di voi uno spirito nuovo" (Ez 36,25-26 cf. Jr 31,31-34). Grazie a questo "cuore nuovo" si può comprendere e realizzare il senso più vero e profondo della vita: quello di essere un dono che si compie nel donarsi. E il messaggio luminoso che sul valore della vita ci viene dalla figura del Servo del Signore: "Quan- do offrirà se stesso in espiazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo... Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce" (Is 53,10 Is 53,11).

E nella vicenda di Gesù di Nazaret che la Legge si compie e il cuore nuovo viene donato mediante il suo Spirito. Gesù, infatti, non rinnega la Legge, ma la porta a compimento (Mt 5,17): Legge e Profeti si riassumono nella regola d'oro dell'amore reciproco (Mt 7,12). In Lui la Legge diventa definitivamente "vangelo", buona notizia della signoria di Dio sul mondo, che riporta tutta l'esistenza alle sue radici e alle sue prospettive originarie. E la Legge Nuova, "la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù" (Rm 8,2), la cui espressione fondamentale, a imitazione del Signore che dà la vita per i propri amici (Jn 15,13), è il dono di sé nell'amore ai fratelli: "Noi sappiamo di essere passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli" (1Jn 3,14). E legge di libertà, di gioia e di beatitudine.

"Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto" (Jn 19,37): sull'albero della Croce si compie il Vangelo della vita

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50. Al termine di questo capitolo, nel quale abbiamo meditato il messaggio cristiano sulla vita, vorrei fermarmi con ciascuno di voi a contemplare Colui che hanno trafitto e che attira tutti a sé (
Jn 19,37 Jn 12,32). Guardando "lo spettacolo" della Croce (Lc 23,48), potremo scoprire in questo albero glorioso il compimento e la rivelazione piena di tutto il Vangelo della vita.

Nelle prime ore del pomeriggio del venerdi santo, "il sole si eclisso e si fece buio su tutta la terra... Il velo del tempio si squarcio nel mezzo" (Lc 23,44 Lc 23,45). E il simbolo di un grande sconvolgimento cosmico e di una immane lotta tra le forze del bene e le forze del male, tra la vita e la morte. Noi pure, oggi, ci troviamo nel mezzo di una lotta drammatica tra la "cultura della morte" e la "cultura della vita". Ma da questa oscurità lo splendore della Croce non viene sommerso; essa, anzi, si staglia ancora più nitida e luminosa e si rivela come il centro, il senso e il fine di tutta la storia e di ogni vita umana.

Gesù è inchiodato sulla Croce e viene innalzato da terra. Vive il momento della sua massima "impotenza" e la sua vita sembra totalmente consegnata agli scherni dei suoi avversari e alle mani dei suoi uccisori: viene beffeggiato, deriso, oltraggiato (Mc 15,24-36). Eppure, proprio di fronte a tutto ciò e "vistolo spirare in quel modo", il centurione romano esclama: "Veramente quest'uomo era Figlio di Dio!" (Mc 15,39). Si rivela così, nel momento della sua estrema debolezza, l'identità del Figlio di Dio: sulla Croce si manifesta la sua gloria!

Con la sua morte, Gesù illumina il senso della vita e della morte di ogni essere umano. Prima di morire, Gesù prega il Padre invocando il perdono per i suoi persecutori (Lc 23,34) e al malfattore, che gli chiede di ricordarsi di lui nel suo regno, risponde: "In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Dopo la sua morte "i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono" (Mt 27,52). La salvezza operata da Gesù è donazione di vita e di risurrezione. Lungo la sua esistenza, Gesù aveva donato salvezza anche sanando e beneficando tutti (cf. Ac 10,38). Ma i miracoli, le guarigioni e le stesse risuscitazioni erano segno di un'altra salvezza, consistente nel perdono dei peccati, ossia nella liberazione dell'uomo dalla malattia più profonda, e nella sua elevazione alla vita stessa di Dio.

Sulla Croce si rinnova e si realizza nella sua piena e definitiva perfezione il prodigio del serpente innalzato da Mosè nel deserto (Jn 3,14-15 Nb 21,8-9). Anche oggi, volgendo lo sguardo a Colui che è stato trafitto, ogni uomo minacciato nella sua esistenza incontra la sicura speranza di trovare liberazione e redenzione.

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51. Ma c'è ancora un altro avvenimento preciso che attira il mio sguardo e suscita la mia commossa meditazione: "Dopo aver ricevuto l'aceto, Gesù disse: 'Tutto è compiuto!'. E, chinato il capo, rese lo spirito" (
Jn 19,30). E il soldato romano "gli colpi il costato con la lancia e subito ne usci sangue e acqua" (Jn 19,34).

Tutto ormai è giunto al suo pieno compimento. Il "rendere lo spirito" descrive la morte di Gesù, simile a quella di ogni altro essere umano, ma sembra alludere anche al "dono dello Spirito", col quale Egli ci riscatta dalla morte e ci apre a una vita nuova.

E la vita stessa di Dio che viene partecipata all'uomo. E la vita che, mediante i sacramenti della Chiesa - di cui il sangue e l'acqua sgorgati dal fianco di Cristo sono simbolo - viene continuamente comunicata ai figli di Dio, costituiti così come popolo della Nuova Alleanza. Dalla Croce, fonte di vita, nasce e si diffonde il "popolo della vita".

La contemplazione della Croce ci porta così alle radici più profonde di quanto è accaduto. Gesù, che entrando nel mondo aveva detto: "Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà" (cf.Eb 10, 9), si rese in tutto obbediente al Padre e, avendo "amato i suoi che erano nel mondo, li amo sino alla fine" (Jn 13,1), donando tutto se stesso per loro.

Lui, che non era "venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti" (Mc 10,45), raggiunge sulla Croce il vertice dell'amore. "Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici" (Jn 15,13). Ed egli è morto per noi mentre eravamo ancora peccatori (Rm 5,8).

In tal modo egli proclama che la vita raggiunge il suo centro, il suo senso e la sua pienezza quando viene donata.

La meditazione a questo punto si fa lode e ringraziamento e, nello stesso tempo, ci sollecita a imitare Gesù e a seguirne le orme (1P 2,21).

Anche noi siamo chiamati a dare la nostra vita per i fratelli realizzando così in pienezza di verità il senso e il destino della nostra esistenza.

Lo potremo fare perché Tu, o Signore, ci hai donato l'esempio e ci hai comunicato la forza del tuo Spirito. Lo potremo fare se ogni giorno, con Te e come Te, saremo obbedienti al Padre e faremo la sua volontà.

Concedici, perciò, di ascoltare con cuore docile e generoso ogni parola che esce dalla bocca di Dio: impareremo così non solo a "non uccidere" la vita dell'uomo, ma a venerarla, amarla e promuoverla.


CAPITOLO III

NON UCCIDERE

LA LEGGE SANTA DI DIO

"Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti" (Mt 19,17): Vangelo e comandamento

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52. "Ed ecco un tale gli si avvicino e gli disse: "Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?""(
Mt 19,16). Gesù rispose: "Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti" (Mt 19,17). Il Maestro parla della vita eterna, ossia della partecipazione alla vita stessa di Dio. A questa vita si giunge attraverso l'osservanza dei comandamenti del Signore, compreso dunque il comandamento "non uccidere". Proprio questo è il primo precetto del Decalogo che Gesù ricorda al giovane che gli chiede quali comandamenti debba osservare: "Gesù rispose: "Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare...""(Mt 19,18).

Il comandamento di Dio non è mai separato dal suo amore: è sempre un dono per la crescita e la gioia dell'uomo. Come tale, costituisce un aspetto essenziale e un elemento irrinunciabile del Vangelo, anzi esso stesso si configura come "vangelo", ossia buona e lieta notizia. Anche il Vangelo della vita è un grande dono di Dio e insieme un compito impegnativo per l'uomo. Esso suscita stupore e gratitudine nella persona libera e chiede di essere accolto, custodito e valorizzato con vivo senso di responsabilità: donandogli la vita, Dio esige dall'uomo che la ami, la rispetti e la promuova. In tal modo il dono si fa comandamento, e il comandamento è esso stesso un dono.

L'uomo, immagine vivente di Dio, è voluto dal suo Creatore come re e signore. "Dio ha fatto l'uomo - scrive san Gregorio di Nissa - in modo tale che potesse svolgere la sua funzione di re della terra... L'uomo è stato creato a immagine di Colui che governa l'universo. Tutto dimostra che fin dal principio la sua natura è contrassegnata dalla regalità... Anche l'uomo è re. Creato per dominare il mondo, ha ricevuto la somiglianza col re universale, è l'immagine viva che partecipa con la sua dignità alla perfezione del divino modello".38 Chiamato ad essere fecondo e a moltiplicarsi, a soggiogare la terra e a dominare sugli esseri infraumani (Gn 1,28), l'uomo è re e signore non solo delle cose, ma anche ed anzitutto di se stesso 39 e, in un certo senso, della vita che gli è donata e che egli può trasmettere mediante l'opera generatrice compiuta nell'amore e nel rispetto del disegno di Dio. La sua, tuttavia, non è una signoria assoluta, ma ministeriale; è riflesso reale della signoria unica e infinita di Dio. Per questo l'uomo deve viverla con sapienza e amore, partecipando alla sapienza e all'amore incommensurabili di Dio. E ciò avviene con l'obbedienza alla sua Legge santa: un'obbedienza libera e gioiosa (cf. Sal 119/118), che nasce ed è nutrita dalla consapevolezza che i precetti del Signore sono dono di grazia affidati all'uomo sempre e solo per il suo bene, per la custodia della sua dignità personale e per il perseguimento della sua felicità.

Come già di fronte alle cose, ancor più di fronte alla vita, l'uomo non è padrone assoluto e arbitro insindacabile, ma - e in questo sta la sua impareggiabile grandezza - è "ministro del disegno di Dio".40

La vita viene affidata all'uomo come un tesoro da non disperdere, come un talento da trafficare. Di essa l'uomo deve rendere conto al suo Signore (Mt 25,14-30 Lc 19,12-27).

"Domandero conto della vita dell'uomo all'uomo": la vita umana è sacra e inviolabile

(Gn 9,5)

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53. "La vita umana è sacra perché, fin dal suo inizio, comporta "l'azione creatrice di Dio" e rimane per sempre in una relazione speciale con il Creatore, suo unico fine. Solo Dio è il Signore della vita dal suo inizio alla sua fine: nessuno, in nessuna circostanza, può rivendicare a sé il diritto di distruggere direttamente un essere umano innocente".41 Con queste parole l'Istruzione Donum vitae espone il contenuto centrale della rivelazione di Dio sulla sacralità e inviolabilità della vita umana.

La Sacra Scrittura, infatti, presenta all'uomo il precetto "non uccidere" come comandamento divino (
Ex 20,13 Dt 5,17). Esso - come ho già sottolineato - si trova nel Decalogo, al cuore dell'Alleanza che il Signore conclude con il popolo eletto; ma era già contenuto nell'originaria alleanza di Dio con l'umanità dopo il castigo purificatore del diluvio, provocato dal dilagare del peccato e della violenza (Gn 9,5-6).

Dio si proclama Signore assoluto della vita dell'uomo, plasmato a sua immagine e somiglianza (Gn 1,26-28). La vita umana presenta, pertanto, un carattere sacro ed inviolabile, in cui si rispecchia l'inviolabilità stessa del Creatore. Proprio per questo sarà Dio a farsi giudice severo di ogni violazione del comandamento "non uccidere", posto alle basi dell'intera convivenza sociale. Egli è il "goel", ossia il difensore dell'innocente (Gn 4,9-15 Is 41,14 Ger Is 50,34 Sal 19/18, Is 15). Anche in questo modo Dio dimostra di non godere della rovina dei viventi (Sg 1,13). Solo Satana ne può godere: per la sua invidia la morte è entrata nel mondo (Sg 2,24). Egli, che è "omicida fin da principio", è anche "menzognero e padre della menzogna" (Jn 8,44): ingannando l'uomo, lo conduce a traguardi di peccato e di morte, presentati come mete e frutti di vita.

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54. Esplicitamente, il precetto "non uccidere" ha un forte contenuto negativo: indica il confine estremo che non può mai essere valicato. Implicitamente, pero, esso spinge ad un atteggiamento positivo di rispetto assoluto per la vita portando a promuoverla e a progredire sulla via dell'amore che si dona, accoglie e serve. Anche il popolo dell'Alleanza, pur con lentezze e contraddizioni, ha conosciuto una maturazione progressiva secondo questo orientamento, preparandosi così al grande annuncio di Gesù: l'amore del prossimo è comandamento simile a quello dell'amore di Dio; "da questi due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti" (
Mt 22,36-40). "Il precetto... non uccidere... e qualsiasi altro comandamento - sottolinea san Paolo - si riassume in queste parole: "Amerai il prossimo tuo come te stesso""(Rm 13,9 Ga 5,14). Assunto e portato a compimento nella Legge Nuova, il precetto "non uccidere" rimane come condizione irrinunciabile per poter "entrare nella vita" (Mt 19,16-19). In questa stessa prospettiva, risuona perentoria anche la parola dell'apostolo Giovanni: "Chiun- que odia il proprio fratello è omicida e voi sapete che nessun omicida possiede in se stesso la vita eterna" (1Jn 3,15).

Sin dai suoi inizi, la Tradizione viva della Chiesa - come testimonia la Didachè, il più antico scritto cristiano non biblico - ha riproposto in modo categorico il comandamento "non uccidere": "Vi sono due vie, una della vita, e l'altra della morte; vi è una grande differenza fra di esse... Secondo precetto della dottrina: Non ucciderai... non farai perire il bambino con l'aborto né l'ucciderai dopo che è nato... La via della morte è questa: ... non hanno compassione per il povero, non soffrono con il sofferente, non riconoscono il loro Creatore, uccidono i loro figli e con l'aborto fanno perire creature di Dio; allontanano il bisognoso, opprimono il tribolato, sono avvocati dei ricchi e giudici ingiusti dei poveri; sono pieni di ogni peccato. Possiate star sempre lontani, o figli, da tutte queste colpe!".42

Procedendo nel tempo, la stessa Tradizione della Chiesa ha sempre unanimemente insegnato il valore assoluto e permanente del comandamento "non uccidere". E noto che, nei primi secoli, l'omicidio veniva posto fra i tre peccati più gravi - insieme all'apostasia e all'adulterio - e si esigeva una penitenza pubblica particolarmente onerosa e lunga prima che all'omicida pentito venissero concessi il perdono e la riammissione nella comunione ecclesiale.

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55. La cosa non deve stupire: uccidere l'essere umano, nel quale è presente l'immagine di Dio, è peccato di particolare gravità. Solo Dio è padrone della vita! Da sempre, tuttavia, di fronte ai molteplici e spesso drammatici casi che la vita individuale e sociale presenta, la riflessione dei credenti ha cercato di raggiungere un'intelligenza più completa e profonda di quanto il comandamento di Dio proibisca e prescriva.43 Vi sono, infatti, situazioni in cui i valori proposti dalla Legge di Dio appaiono sotto forma di un vero paradosso. E il caso, ad esempio, della legittima difesa, in cui il diritto a proteggere la propria vita e il dovere di non ledere quella dell'altro risultano in concreto difficilmente componibili. Indubbiamente, il valore intrinseco della vita e il dovere di portare amore a se stessi non meno che agli altri fondano un vero diritto alla propria difesa. Lo stesso esigente precetto dell'amore per gli altri, enunciato nell'Antico Testamento e confermato da Gesù, suppone l'amore per se stessi quale termine di confronto: "Amerai il prossimo tuo come te stesso" (
Mc 12,31). Al diritto di difendersi, dunque, nessuno potrebbe rinunciare per scarso amore alla vita o a se stesso, ma solo in forza di un amore eroico, che approfondisce e trasfigura lo stesso amore di sé, secondo lo spirito delle beatitudini evangeliche (Mt 5,38-48) nella radicalità oblativa di cui è esempio sublime lo stesso Signore Gesù.

D'altra parte, "la legittima difesa può essere non soltanto un diritto, ma un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri, del bene comune della famiglia o della comunità civile".44 Accade purtroppo che la necessità di porre l'aggressore in condizione di non nuocere comporti talvolta la sua soppressione. In tale ipotesi, l'esito mortale va attribuito allo stesso aggressore che vi si è esposto con la sua azione, anche nel caso in cui egli non fosse moralmente responsabile per mancanza dell'uso della ragione.45

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56. In questo orizzonte si colloca anche il problema della pena di morte, su cui si registra, nella Chiesa come nella società civile, una crescente tendenza che ne chiede un'applicazione assai limitata ed anzi una totale abolizione. Il problema va inquadrato nell'ottica di una giustizia penale che sia sempre più conforme alla dignità dell'uomo e pertanto, in ultima analisi, al disegno di Dio sull'uomo e sulla società. In effetti, la pena che la società infligge "ha come primo scopo di riparare al disordine introdotto dalla colpa".46 La pubblica autorità deve farsi vindice della violazione dei diritti personali e sociali mediante l'imposizione al reo di una adeguata espiazione del crimine, quale condizione per essere riammesso all'esercizio della propria libertà. In tal modo l'autorità ottiene anche lo scopo di difendere l'ordine pubblico e la sicurezza delle persone, non senza offrire allo stesso reo uno stimolo e un aiuto a correggersi e redimersi.47

E chiaro che, proprio per conseguire tutte queste finalità, la misura e la qualità della pena devono essere attentamente valutate e decise, e non devono giungere alla misura estrema della soppressione del reo se non in casi di assoluta necessità, quando cioè la difesa della società non fosse possibile altrimenti. Oggi, pero, a seguito dell'organizzazione sempre più adeguata dell'istituzione penale, questi casi sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti.

In ogni caso resta valido il principio indicato dal nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica, secondo cui "se i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere le vite umane dall'aggressore e per proteggere l'ordine pubblico e la sicurezza delle persone, l'autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana".48

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57. Se così grande attenzione va posta al rispetto di ogni vita, persino di quella del reo e dell'ingiusto aggressore, il comandamento "non uccidere" ha valore assoluto quando si riferisce alla persona innocente. E ciò tanto più se si tratta di un essere umano debole e indifeso, che solo nella forza assoluta del comandamento di Dio trova la sua radicale difesa rispetto all'arbitrio e alla prepotenza altrui.

In effetti, l'inviolabilità assoluta della vita umana innocente è una verità morale esplicitamente insegnata nella Sacra Scrittura, costantemente ritenuta nella Tradizione della Chiesa e unanimemente proposta dal suo Magistero. Tale unanimità è frutto evidente di quel "senso soprannaturale della fede" che, suscitato e sorretto dallo Spirito Santo, garantisce dall'errore il popolo di Dio, quando "esprime l'universale suo consenso in materia di fede e di costumi".49

Dinanzi al progressivo attenuarsi nelle coscienze e nella società della percezione dell'assoluta e grave illiceità morale della diretta soppressione di ogni vita umana innocente, specialmente al suo inizio e al suo termine, il Magistero della Chiesa ha intensificato i suoi interventi a difesa della sacralità e dell'inviolabilità della vita umana. Al Magistero pontificio, particolarmente insistente, s'è sempre unito quello episcopale, con numerosi e ampi documenti dottrinali e pastorali, sia di Conferenze Episcopali, sia di singoli Vescovi. Né è mancato, forte e incisivo nella sua brevità, l'intervento del Concilio Vaticano II.50

Pertanto, con l'autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi Successori, in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l'uccisione diretta e volontaria di un essere umano innocente è sempre gravemente immorale. Tale dottrina, fondata in quella legge non scritta che ogni uomo, alla luce della ragione, trova nel proprio cuore (
Rm 2,14-15), è riaffermata dalla Sacra Scrittura, trasmessa dalla Tradizione della Chiesa e insegnata dal Magistero ordinario e universale.51

La scelta deliberata di privare un essere umano innocente della sua vita è sempre cattiva dal punto di vista morale e non può mai essere lecita né come fine, né come mezzo per un fine buono. E, infatti, grave disobbedienza alla legge morale, anzi a Dio stesso, autore e garante di essa; contraddice le fondamentali virtù della giustizia e della carità. "Niente e nessuno può autorizzare l'uccisione di un essere umano innocente, feto o embrione che sia, bambino o adulto, vecchio, ammalato incurabile o agonizzante. Nessuno, inoltre, può richiedere questo gesto omicida per se stesso o per un altro affidato alla sua responsabilità, né può acconsentirvi esplicitamente o implicitamente. Nessuna autorità può legittimamente imporlo né permetterlo".52

Nel diritto alla vita, ogni essere umano innocente è assolutamente uguale a tutti gli altri. Tale uguaglianza è la base di ogni autentico rapporto sociale che, per essere veramente tale, non può non fondarsi sulla verità e sulla giustizia, riconoscendo e tutelando ogni uomo e ogni donna come persona e non come una cosa di cui si possa disporre. Di fronte alla norma morale che proibisce la soppressione diretta di un essere umano innocente "non ci sono privilegi né eccezioni per nessuno. Essere il padrone del mondo o l'ultimo miserabile sulla faccia della terra non fa alcuna differenza: davanti alle esigenze morali siamo tutti assolutamente uguali".53

"Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi": il delitto abominevole dell'aborto

(Ps 139,16/138)

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58. Fra tutti i delitti che l'uomo può compiere contro la vita, l'aborto procurato presenta caratteristiche che lo rendono particolarmente grave e deprecabile. Il Concilio Vaticano II lo definisce, insieme all'infanticidio, "delitto abominevole".54

Ma oggi, nella coscienza di molti, la percezione della sua gravità è andata progressivamente oscurandosi. L'accettazione dell'aborto nella mentalità, nel costume e nella stessa legge è segno eloquente di una pericolosissima crisi del senso morale, che diventa sempre più incapace di distinguere tra il bene e il male, persino quando è in gioco il diritto fondamentale alla vita. Di fronte a una così grave situazione, occorre più che mai il coraggio di guardare in faccia alla verità e di chiamare le cose con il loro nome, senza cedere a compromessi di comodo o alla tentazione di autoinganno. A tale proposito risuona categorico il rimprovero del Profeta: "Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre" (
Is 5,20). Proprio nel caso dell'aborto si registra la diffusione di una terminologia ambigua, come quella di "interruzione della gravidanza", che tende a nasconderne la vera natura e ad attenuarne la gravità nell'opinione pubblica. Forse questo fenomeno linguistico è esso stesso sintomo di un disagio delle coscienze. Ma nessuna parola vale a cambiare la realtà delle cose: l'aborto procurato è l'uccisione deliberata e diretta, comunque venga attuata, di un essere umano nella fase iniziale della sua esistenza, compresa tra il concepimento e la nascita.

La gravità morale dell'aborto procurato appare in tutta la sua verità se si riconosce che si tratta di un omicidio e, in particolare, se si considerano le circostanze specifiche che lo qualificano. Chi viene soppresso è un essere umano che si affaccia alla vita, ossia quanto di più innocente in assoluto si possa immaginare: mai potrebbe essere considerato un aggressore, meno che mai un ingiusto aggressore! E debole, inerme, al punto di essere privo anche di quella minima forma di difesa che è costituita dalla forza implorante dei gemiti e del pianto del neonato. E totalmente affidato alla protezione e alle cure di colei che lo porta in grembo. Eppure, talvolta, è proprio lei, la mamma, a deciderne e a chiederne la soppressione e persino a procurarla.

E vero che molte volte la scelta abortiva riveste per la madre carattere drammatico e doloroso, in quanto la decisione di disfarsi del frutto del concepimento non viene presa per ragioni puramente egoistiche e di comodo, ma perché si vorrebbero salvaguardare alcuni importanti beni, quali la propria salute o un livello dignitoso di vita per gli altri membri della famiglia. Talvolta si temono per il nascituro condizioni di esistenza tali da far pensare che per lui sarebbe meglio non nascere. Tuttavia, queste e altre simili ragioni, per quanto gravi e drammatiche, non possono mai giustificare la soppressione deliberata di un essere umano innocente.

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59. A decidere della morte del bambino non ancora nato, accanto alla madre, ci sono spesso altre persone. Anzitutto, può essere colpevole il padre del bambino, non solo quando espressamente spinge la donna all'aborto, ma anche quando indirettamente favorisce tale sua decisione perché la lascia sola di fronte ai problemi della gravidanza: 55 in tal modo la famiglia viene mortalmente ferita e profanata nella sua natura di comunità di amore e nella sua vocazione ad essere "santuario della vita". Né vanno taciute le sollecitazioni che a volte provengono dal più ampio contesto familiare e dagli amici. Non di rado la donna è sottoposta a pressioni talmente forti da sentirsi psicologicamente costretta a cedere all'aborto: non v'è dubbio che in questo caso la responsabilità morale grava particolarmente su quelli che direttamente o indirettamente l'hanno forzata ad abortire. Responsabili sono pure i medici e il personale sanitario, quando mettono a servizio della morte la competenza acquisita per promuovere la vita.

Ma la responsabilità coinvolge anche i legislatori, che hanno promosso e approvato leggi abortive e, nella misura in cui la cosa dipende da loro, gli amministratori delle strutture sanitarie utilizzate per praticare gli aborti. Una responsabilità generale non meno grave riguarda sia quanti hanno favorito il diffondersi di una mentalità di permissivismo sessuale e disistima della maternità, sia coloro che avrebbero dovuto assicurare - e non l'hanno fatto - valide politiche familiari e sociali a sostegno delle famiglie, specialmente di quelle numerose o con particolari difficoltà economiche ed educative. Non si può infine sottovalutare la rete di complicità che si allarga fino a comprendere istituzioni internazionali, fondazioni e associazioni che si battono sistematicamente per la legalizzazione e la diffusione dell'aborto nel mondo. In tal senso l'aborto va oltre la responsabilità delle singole persone e il danno loro arrecato, assumendo una dimensione fortemente sociale: è una ferita gravissima inferta alla società e alla sua cultura da quanti dovrebbero esserne i costruttori e i difensori. Come ho scritto nella mia Lettera alle Famiglie, "ci troviamo di fronte ad un'enorme minaccia contro la vita, non solo di singoli individui, ma anche dell'intera civiltà".56 Ci troviamo di fronte a quella che può definirsi una "struttura di peccato" contro la vita umana non ancora nata.

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60. Alcuni tentano di giustificare l'aborto sostenendo che il frutto del concepimento, almeno fin a un certo numero di giorni, non può essere ancora considerato una vita umana personale. In realtà, "dal momento in cui l'ovulo è fecondato, si inaugura una vita che non è quella del padre o della madre, ma di un nuovo essere umano che si sviluppa per proprio conto. Non sarà mai reso umano se non lo è stato fin da allora. A questa evidenza di sempre... la scienza genetica moderna fornisce preziose conferme. Essa ha mostrato come dal primo istante si trovi fissato il programma di ciò che sarà questo vivente: una persona, questa persona individua con le sue note caratteristiche già ben determinate. Fin dalla fecondazione è iniziata l'avventura di una vita umana, di cui ciascuna delle grandi capacità richiede tempo, per impostarsi e per trovarsi pronta ad agire".57 Anche se la presenza di un'anima spirituale non può essere rilevata dall'osservazione di nessun dato sperimentale, sono le stesse conclusioni della scienza sull'embrione umano a fornire "un'indicazione preziosa per discernere razionalmente una presenza personale fin da questo primo comparire di una vita umana: come un individuo umano non sarebbe una persona umana?".58

Del resto, tale è la posta in gioco che, sotto il profilo dell'obbligo morale, basterebbe la sola probabilità di trovarsi di fronte a una persona per giustificare la più netta proibizione di ogni intervento volto a sopprimere l'embrione umano. Proprio per questo, al di là dei dibattiti scientifici e delle stesse affermazioni filosofiche nelle quali il Magistero non si è espressamente impegnato, la Chiesa ha sempre insegnato, e tuttora insegna, che al frutto della generazione umana, dal primo momento della sua esistenza, va garantito il rispetto incondizionato che è moralmente dovuto all'essere umano nella sua totalità e unità corporale e spirituale: "L'essere umano va rispettato e trattato come una persona fin dal suo concepimento e, pertanto, da quello stesso momento gli si devono riconoscere i diritti della persona, tra i quali anzitutto il diritto inviolabile di ogni essere umano innocente alla vita".59

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61. I testi della Sacra Scrittura, che non parlano mai di aborto volontario e quindi non presentano condanne dirette e specifiche in proposito, mostrano una tale considerazione dell'essere umano nel grembo materno, da esigere come logica conseguenza che anche ad esso si estenda il comandamento di Dio: "non uccidere".

La vita umana è sacra e inviolabile in ogni momento della sua esistenza, anche in quello iniziale che precede la nascita. L'uomo, fin dal grembo materno, appartiene a Dio che tutto scruta e conosce, che lo forma e lo plasma con le sue mani, che lo vede mentre è ancora un piccolo embrione informe e che in lui intravede l'adulto di domani i cui giorni sono contati e la cui vocazione è già scritta nel "libro della vita" (cf. Sal 139/138, 1.13-16). Anche li, quando è ancora nel grembo materno, - come testimoniano numerosi testi biblici 60 - l'uomo è il termine personalissimo dell'amorosa e paterna provvidenza di Dio.

La Tradizione cristiana - come ben rileva la Dichiarazione emanata al riguardo dalla Congregazione per la Dottrina della Fede 61 - è chiara e unanime, dalle origini fino ai nostri giorni, nel qualificare l'aborto come disordine morale particolarmente grave. Fin dal suo primo confronto con il mondo greco-romano, nel quale erano ampiamente praticati l'aborto e l'infanticidio, la comunità cristiana si è radicalmente opposta, con la sua dottrina e con la sua prassi, ai costumi diffusi in quella società, come dimostra la già citata Didachè.62 Tra gli scrittori ecclesiastici di area greca, Atenagora ricorda che i cristiani considerano come omicide le donne che fanno ricorso a medicine abortive, perché i bambini, anche se ancora nel seno della madre, "sono già l'oggetto delle cure della Provvidenza divina".63 Tra i latini, Tertulliano afferma: "E un omicidio anticipato impedire di nascere; poco importa che si sopprima l'anima già nata o che la si faccia scomparire nel nascere. E già un uomo colui che lo sarà".64

Lungo la sua storia ormai bimillenaria, questa medesima dottrina è stata costantemente insegnata dai Padri della Chiesa, dai suoi Pastori e Dottori. Anche le discussioni di carattere scientifico e filosofico circa il momento preciso dell'infusione dell'anima spirituale non hanno mai comportato alcuna esitazione circa la condanna morale dell'aborto.

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62. Il più recente Magistero pontificio ha ribadito con grande vigore questa dottrina comune. In particolare Pio XI nell'Enciclica Casti connubii ha respinto le pretestuose giustificazioni dell'aborto; 65 Pio XII ha escluso ogni aborto diretto, cioè ogni atto che tende direttamente a distruggere la vita umana non ancora nata, "sia che tale distruzione venga intesa come fine o soltanto come mezzo al fine"; 66 Giovanni XXIII ha riaffermato che la vita umana è sacra, perché "fin dal suo affiorare impegna direttamente l'azione creatrice di Dio".67 Il Concilio Vaticano II, come già ricordato, ha condannato con grande severità l'aborto: "La vita, una volta concepita, deve essere protetta con la massima cura; e l'aborto come l'infanticidio sono abominevoli delitti".68

La disciplina canonica della Chiesa, fin dai primi secoli, ha colpito con sanzioni penali coloro che si macchiavano della colpa dell'aborto e tale prassi, con pene più o meno gravi, è stata confermata nei vari periodi storici. Il Codice di Diritto Canonico del 1917 comminava per l'aborto la pena della scomunica.69 Anche la rinnovata legislazione canonica si pone in questa linea quando sancisce che "chi procura l'aborto ottenendo l'effetto incorre nella scomunica latae sententiae",70 cioè automatica. La scomunica colpisce tutti coloro che commettono questo delitto conoscendo la pena, inclusi anche quei complici senza la cui opera esso non sarebbe stato realizzato: 71 con tale reiterata sanzione, la Chiesa addita questo delitto come uno dei più gravi e pericolosi, spingendo così chi lo commette a ritrovare sollecitamente la strada della conversione. Nella Chiesa, infatti, la pena della scomunica è finalizzata a rendere pienamente consapevoli della gravità di un certo peccato e a favorire quindi un'adeguata conversione e penitenza.

Di fronte a una simile unanimità nella tradizione dottrinale e disciplinare della Chiesa, Paolo VI ha potuto dichiarare che tale insegnamento non è mutato ed è immutabile.72 Pertanto, con l'autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi Successori, in comunione con i Vescovi - che a varie riprese hanno condannato l'aborto e che nella consultazione precedentemente citata, pur dispersi per il mondo, hanno unanimemente consentito circa questa dottrina - dichiaro che l'aborto diretto, cioè voluto come fine o come mezzo, costituisce sempre un disordine morale grave, in quanto uccisione deliberata di un essere umano innocente. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e universale.73

Nessuna circostanza, nessuna finalità, nessuna legge al mondo potrà mai rendere lecito un atto che è intrinsecamente illecito, perché contrario alla Legge di Dio, scritta nel cuore di ogni uomo, riconoscibile dalla ragione stessa, e proclamata dalla Chiesa.

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63. La valutazione morale dell'aborto è da applicare anche alle recenti forme di intervento sugli embrioni umani che, pur mirando a scopi in sé legittimi, ne comportano inevitabilmente l'uccisione. E il caso della sperimentazione sugli embrioni, in crescente espansione nel campo della ricerca biomedica e legalmente ammessa in alcuni Stati. Se "si devono ritenere leciti gli interventi sull'embrione umano a patto che rispettino la vita e l'integrità dell'embrione, non comportino per lui rischi sproporzionati, ma siano finalizzati alla sua guarigione, al miglioramento delle sue condizioni di salute o alla sua sopravvivenza individuale",74 si deve invece affermare che l'uso degli embrioni o dei feti umani come oggetto di sperimentazione costituisce un delitto nei riguardi della loro dignità di esseri umani, che hanno diritto al medesimo rispetto dovuto al bambino già nato e ad ogni persona.75

La stessa condanna morale riguarda anche il procedimento che sfrutta gli embrioni e i feti umani ancora vivi - talvolta "prodotti" appositamente per questo scopo mediante la fecondazione in vitro - sia come "materiale biologico" da utilizzare sia come fornitori di organi o di tessuti da trapiantare per la cura di alcune malattie. In realtà, l'uccisione di creature umane innocenti, seppure a vantaggio di altre, costituisce un atto assolutamente inaccettabile.

Una speciale attenzione deve essere riservata alla valutazione morale delle tecniche diagnostiche prenatali, che permettono di individuare precocemente eventuali anomalie del nascituro. Infatti, per la complessità di queste tecniche, tale valutazione deve farsi più accurata e articolata. Quando sono esenti da rischi sproporzionati per il bambino e per la madre e sono ordinate a rendere possibile una terapia precoce o anche a favorire una serena e consapevole accettazione del nascituro, queste tecniche sono moralmente lecite. Dal momento pero che le possibilità di cura prima della nascita sono oggi ancora ridotte, accade non poche volte che queste tecniche siano messe al servizio di una mentalità eugenetica, che accetta l'aborto selettivo, per impedire la nascita di bambini affetti da vari tipi di anomalie. Una simile mentalità è ignominiosa e quanto mai riprovevole, perché pretende di misurare il valore di una vita umana soltanto secondo parametri di "normali- tà" e di benessere fisico, aprendo così la strada alla legittimazione anche dell'infanticidio e dell'eutanasia.

In realtà, pero, proprio il coraggio e la serenità con cui tanti nostri fratelli, affetti da gravi menomazioni, conducono la loro esistenza quando sono da noi accettati ed amati, costituiscono una testimonianza particolarmente efficace dei valori autentici che qualificano la vita e che la rendono, anche in condizioni di difficoltà, preziosa per sé e per gli altri. La Chiesa è vicina a quei coniugi che, con grande ansia e sofferenza, accettano di accogliere i loro bambini gravemente colpiti da handicap, così come è grata a tutte quelle famiglie che, con l'adozione, accolgono quanti sono stati abbandonati dai loro genitori a motivo di menomazioni o malattie.



Evangelium vitae 47