GPII 1979 Insegnamenti - Recita dell'Angelus - Città del Vaticano (Roma)

Recita dell'Angelus - Città del Vaticano (Roma)

Titolo: Cristo autore della nostra fede

Testo:

1. "Auctor fidei nostrae...", "Autore della nostra fede..." (cfr. He 12,2): con queste parole, che provengono dalla Lettera agli Ebrei, ci rivolgiamo, all'inizio della settimana Santa, a Cristo. La Settimana Santa - settimana della Passione del Signore - ci conduce alle sorgenti stesse della nostra fede. Cristo stesso è questa sorgente. Egli è Colui che acquisto in modo assoluto la nostra salvezza proprio attraverso la Croce. Proprio per il fatto che ha accettato il testamento del Getsemani e del Calvario. Proprio per il fatto che fu legato, giudicato, flagellato, incoronato di spine. Proprio per il fatto che è stato condannato, che è caduto sotto il peso della Croce. E che dire del terribile tormento dell'agonia sulla Croce? Seguiamo le orme delle sue sofferenze, con la massima attenzione soffermiamoci ad ogni parola da lui pronunciata: nel cenacolo, del giardino di Getsemani, davanti al sinedrio, davanti a Pilato, sulla croce infine. Esiste in tutto ciò una stupefacente coesione: l'unità della testimonianza, della missione.

"Auctor fidei nostrae".

Parla a noi proprio questo abbassamento, questo svuotamento: la "kenosi". Conquista i nostri cuori per la verità che ha insegnato. Forse non li avrebbe conquistati se non l'avesse confermata con tale testimonianza. Crediamo che Egli è Figlio di Dio, proprio perché così, fino alla fine, ci si è rivelato come il Figlio dell'uomo.


2. Egli ci ha parlato di Dio, e forse con quell'unica frase della preghiera nel Getsemani, o con le sue sette parole pronunciate sulla croce, ci ha detto chi è Dio ancor più che non in tutto il Vangelo.

La rivelazione di Dio diventa penetrante proprio per il fatto che egli "pur essendo di natura divina... spoglio se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umilio se stesso, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce" (Ph 2,6-8).

La penetrante rivelazione della giustizia e, insieme, dell'amore, che è la misericordia. Giustizia, amore, misericordia sarebbero rimasti concetti senza un contenuto ultimo e definitivo, se non ci fosse stata questa Passione e questa Croce.

Occorreva la rivelazione di questa estrema "debolezza" di Dio, perché si potesse manifestare che cosa è la sua Potenza. Occorreva che nella storia dell'umanità avvenisse "la morte di Dio" perché egli potesse continuamente rimanere nelle nostre anime come fonte della Vita "che zampilla per la vita eterna" (Jn 4,14).


3. Questi sono i pensieri, con i quali oggi ci rivolgiamo a Cristo. chiamandolo "Autore della nostra fede".

Con questi pensieri iniziamo oggi, Domenica delle Palme, la Settimana Santa e desideriamo viverla durante tutti questi giorni e particolarmente durante il Triduo sacro. Si approfondisce ancor più, mediante tutto ciò, la nostra fede.

Diventi essa ancora più viva e vitale per l'amore.

Rinasciamo da questa morte sulla quale mediteremo in questa settimana.

Riviva in noi la speranza.


4. Si compie in questi giorni il trigesimo della scomparsa del compianto Cardinale Jean Villot, mio Segretario di Stato, come lo era stato dei miei venerati predecessori Paolo VI e Giovanni Paolo I. Lo raccomando alla vostra preghiera di fratelli, uniti tutti nel vincolo santo della carità, e desidero oggi ricordare e presentare ancora una volta all'ammirazione di tutti le sue specchiate virtù cristiane, sacerdotali, episcopali, tra le quali ha brillato, per tutta la sua vita, l'amore fedele alla Chiesa, Sposa di Cristo.

Data: 1979-04-08

Data estesa: Domenica 8 Aprile 1979.





A tutti i Vescovi della Chiesa - Città del Vaticano (Roma)

Titolo: Lettera per il Giovedì santo

Testo: Venerati Fratelli nell'Episcopato.

Si avvicina il grande giorno in cui noi, partecipando alla liturgia del Giovedì santo insieme ai nostri Fratelli nel sacerdozio, mediteremo l'inestimabile dono, del quale siamo divenuti partecipi in virtù della chiamata di Cristo, eterno Sacerdote. In quel giorno, prima di celebrare la liturgia "In Cena Domini", ci riuniremo nelle nostre Cattedrali, per rinnovare dinanzi a Colui che si è fatto per noi "obbediente fino alla morte" (Ph 2,8) in totale donazione alla Chiesa, sua sposa, la nostra donazione ad esclusivo servizio di Cristo nella stessa sua Chiesa.

La liturgia ci riporta, in tale giorno santo, dentro il Cenacolo dove, con animo riconoscente, ci poniamo in ascolto delle parole del divino Maestro, parole piene di sollecitudine per ogni generazione di Vescovi che sono chiamati, dopo gli Apostoli, ad assumere la cura della Chiesa, del gregge, della vocazione di tutto il Popolo di Dio, dell'annuncio della Parola di Dio, di tutto l'ordinamento sacramentale e morale della vita cristiana, delle vocazioni sacerdotali e religiose, dello spirito fraterno nella comunità. Cristo dice: "Non vi lascero orfani, ritornero a voi" (Jn 14,18). Proprio questo Triduo sacro della passione, morte e risurrezione del Signore ravviva in noi, in grado elevato, non soltanto la memoria della sua dipartita, ma anche la fede nel suo ritorno, nella sua continua venuta. Che cosa significano, infatti, le parole: "Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt 28,20)? Nello spirito di questa fede, che pervade l'intero Triduo, io desidero, venerati e cari Fratelli, che, nella nostra vocazione e nel nostro ministero episcopale, noi risentiamo in modo particolare quest'anno primo del mio pontificato quell'unità di cui furono partecipi i Dodici, quando insieme con nostro Signore si trovarono raccolti per l'ultima Cena. Fu proprio là che essi udirono le parole più onorifiche e insieme più impegnative: "Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi, e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga" (Jn 15,15-16).

Si può forse aggiungere qualcosa a queste parole? Non ci si deve, piuttosto, di fronte alla grandezza del mistero che stiamo per celebrare, soffermare, nell'umiltà e nella gratitudine, dinnanzi ad esse? Si radica allora ancor più profondamente in noi la conoscenza del dono, che abbiamo ricevuto dal Signore mediante la vocazione e l'Ordinazione episcopale. Infatti, il dono della pienezza sacramentale del sacerdozio è più grande di tutte le fatiche ed anche di tutte le sofferenze connesse col nostro ministero pastorale nell'Episcopato.

Il Concilio Vaticano II ci ha ricordato e chiaramente illustrato che questo ministero, anche se è un dovere personale di ciascuno, noi lo adempiamo, tuttavia, nella fraterna comunione di tutto il Collegio, o "corpo" episcopale della Chiesa. Se dunque ci rivolgiamo giustamente ad ogni uomo e, in modo speciale, ad ogni cristiano con la parola "fratello", questa parola, nei riguardi di noi Vescovi e delle nostre reciproche relazioni, assume un significato del tutto particolare: essa risale in un certo senso direttamente a quella fraternità che ha raccolto gli Apostoli intorno a Cristo, a quella amicizia di cui Cristo li ha onorati e per mezzo della quale li ha uniti tra loro, come attestano le citate parole del Vangelo di Giovanni.

Occorre dunque, venerati e cari fratelli, augurarci, oggi in modo particolare, che tutto ciò che il Concilio Vaticano II ha così meravigliosamente rinnovato nella nostra coscienza, assuma un sempre più maturo carattere di collegialità, tanto come principio della nostra collaborazione ("collegialitas effectiva"), quanto come carattere di cordiale vincolo fraterno ("collegialitas affectiva"), per edificare il Corpo mistico di Cristo e per approfondire l'unità di tutto il Popolo di Dio.

Incontrandovi nelle vostre Cattedrali con i Sacerdoti diocesani e religiosi che formano il "presbyterium" delle vostre Chiese particolari, delle singole diocesi, riceverete da essi - com'è previsto - la rinnovazione delle promesse deposte nelle vostre mani di Vescovi il giorno della loro Ordinazione sacerdotale. Tenendo presente questo, io indirizzo a parte una Lettera ai Sacerdoti, la quale - come spero - consentirà a voi ed a loro di vivere ancor più profondamente tale unità, cioè quel vincolo misterioso che ci lega nell'unico sacerdozio di Gesù Cristo, portato a compimento col sacrificio sulla croce, che a lui merito l'ingresso "nel santuario" (He 9,12). Spero venerati fratelli che questa mia parola rivolta ai Sacerdoti, all'inizio del mio ministero sulla cattedra di san Pietro, aiuti anche voi a rafforzare sempre più quella comunione ed unità di tutto il "presbyterium" (LG 20) che hanno la loro base nella nostra collegiale comunione ed unità nella Chiesa.

Si rinnovi anche il vostro amore verso i sacerdoti, che lo Spirito Santo vi ha dato ed affidato come i più stretti collaboratori del vostro ufficio pastorale. Abbiate cura di loro come di figli prediletti, di fratelli ed amici.

Ricordatevi di tutte le loro necessità. Abbiate particolare sollecitudine per il loro progresso spirituale, per la loro perseveranza nella grazia del sacramento del sacerdozio. Poiché nelle vostre mani essi emettono - ed ogni anno rinnovano - le loro promesse sacerdotali e, specialmente, l'impegno del celibato, fate tutto quello ch'è in vostro potere perché essi rimangano fedeli a queste promesse, così come esige la santa tradizione della Chiesa, tradizione nata dallo spirito stesso del Vangelo.

Questa sollecitudine per i nostri fratelli nel ministero sacerdotale si estenda anche ai seminari ecclesiastici, i quali costituiscono in tutta la Chiesa e in ogni sua parte una eloquente verifica della sua vitalità e fecondità spirituale, che si esprimono appunto nella prontezza a donarsi esclusivamente al servizio di Dio e delle anime. Bisogna oggi di nuovo fare ogni possibile sforzo per suscitare vocazioni, per formare nuove generazioni di candidati al sacerdozio, di futuri sacerdoti. Bisogna farlo con autentico spirito evangelico e, nello stesso tempo, "leggendo" nel modo giusto i segni dei tempi, ai quali il Concilio Vaticano II ha prestato una così acuta attenzione. La piena ricostituzione della vita dei seminari in tutta la Chiesa sarà la migliore verifica della realizzazione del rinnovamento, verso il quale il Concilio ha orientato la Chiesa.

Venerati e cari fratelli! Tutto ciò che scrivo a voi, preparandomi a vivere in profondità il Giovedì santo - la "festa" dei Sacerdoti - desidero collegarlo strettamente all'augurio che gli Apostoli udirono, quel giorno, dalla bocca del loro amatissimo Maestro: "perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga" (Jn 15,16). Possiamo portare questo frutto solo se rimarremo in lui: nella vite (cfr. Jn 15,1-8). Questo egli ci ha detto chiaramente nel suo discorso di congedo, il giorno antecedente la sua Pasqua: "Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla" (Jn 15,5). Che cosa di più potrei augurarvi, dilettissimi fratelli, e che cosa di più possiamo augurarci vicendevolmente, se non proprio questo: di rimanere in lui, Gesù Cristo, e di portare frutto, un frutto che rimane? Accettate questi auguri. Cerchiamo di approfondire sempre più la nostra unità, cerchiamo di vivere ancor più intensamente il Triduo sacro della Pasqua di nostro Signore Gesù Cristo.

Data: 1979-04-08

Data estesa: Domenica 8 Aprile 1979.

A tutti i Sacerdoti della Chiesa - Città del Vaticano (Roma)

Titolo: Lettera in occasione del Giovedì Santo

Testo: Per voi sono Vescovo, con voi sono Sacerdote

1. Cari Fratelli sacerdoti.

Agli inizi del mio nuovo ministero nella Chiesa, sento profondamente il bisogno di rivolgermi a voi, a voi tutti senza alcuna eccezione, Sacerdoti sia diocesani sia religiosi, che siete miei fratelli in virtù del sacramento dell'Ordine. Desidero fin da principio esprimere la mia fede nella vocazione, che vi unisce ai vostri Vescovi, in una particolare comunione di sacramento e di ministero, mediante la quale si edifica la Chiesa, corpo mistico di Cristo. A voi tutti quindi, che, in virtù di una grazia speciale e per una singolare donazione al nostro Salvatore, sopportate "il peso della giornata e il caldo" (cfr. Mt 20,12), tra le cure molteplici del servizio sacerdotale e pastorale, si son rivolti il mio pensiero e il mio cuore fin dal momento in cui Cristo mi ha chiamato a questa Cattedra, sulla quale un tempo san Pietro dovette, con la sua vita e la sua morte, rispondere fino alla fine alla domanda: "Mi vuoi bene? mi vuoi bene più di costoro...?" (cfr. Jn 21,15ss).

A voi penso incessantemente, per voi prego, con voi cerco le vie dell'unione spirituale e della collaborazione, perché, in virtù del sacramento dell'Ordine, che anch'io ricevetti dalle mani del mio Vescovo (il metropolita di Cracovia Cardinale Adamo Stefano Sapieha, di indimenticabile memoria), siete miei fratelli. Adattando, quindi, le note parole di sant'Agostino ("Vobis enim sum episcopus, vobiscum sum christianus": "Serm." 340,1: PL 38, 1483), desidero oggi dirvi: "Per voi sono Vescovo, con voi sono Sacerdote". Oggi, infatti, c'è una circostanza particolare che mi spinge a confidarvi alcuni pensieri, che racchiudo in questa Lettera: l'avvicinarsi del Giovedì santo. E', questa, la festa annuale del nostro sacerdozio, che riunisce l'intero Presbiterio di ciascuna diocesi intorno al proprio Vescovo nella comune celebrazione dell'Eucaristia. E' in questo giorno che tutti i sacerdoti sono invitati a rinnovare, dinanzi al proprio Vescovo ed insieme con lui, le promesse fatte nel momento dell'Ordinazione sacerdotale; e ciò consente a me, insieme con tutti i miei Confratelli nell'Episcopato, di ritrovarmi con voi associato in una speciale unità e, soprattutto, di ritrovami nel cuore stesso del mistero di Gesù Cristo, a cui tutti partecipiamo.

Il Concilio Vaticano II, che in modo tanto esplicito ha messo in rilievo la collegialità dell'Episcopato nella Chiesa, ha dato anche una nuova forma alla vita delle comunità sacerdotali, tra loro collegate da uno speciale vincolo di fratellanza ed unite al Vescovo di ciascuna Chiesa particolare. Tutta la vita e il ministero sacerdotale servono all'approfondimento e al rafforzamento di questo legame; una particolare responsabilità, invece, per i vari compiti riguardanti questa vita e il ministero assumono, fra l'altro, i Consigli Presbiterali, che, conformemente al pensiero del Concilio e del Motu proprio "Ecclesiae Sanctae" (I art. 15) di Paolo VI, debbono essere operanti in ogni diocesi. Tutto ciò tende a far si che ciascun Vescovo, in unità col suo Presbiterio, possa servire in modo più efficace la grande causa dell'evangelizzazione. Mediante questo servizio la Chiesa realizza la sua missione, anzi la sua propria natura. Quale importanza abbia qui l'unità dei Sacerdoti col proprio Vescovo, è confermato dalle parole di sant'Ignazio di Antiochia ("Ep. ad Magnesios", VI,1): "Abbiate premura di compiere tutte le cose nella concordia a Dio gradita, sotto la presidenza del Vescovo che rappresenta Dio, e con i Presbiteri che rappresentano il collegio apostolico, e con i Diaconi, a me carissimi, ai quali è stato affidato il servizio di Gesù Cristo".

Ci unisce l'amore di Cristo e della Chiesa


2. Non è mia intenzione racchiudere in questa Lettera tutto ciò che costituisce la ricchezza della vita e del ministero sacerdotale. Mi riferisco a questo proposito, all'intera tradizione del Magistero della Chiesa e, in modo particolare, alla dottrina del Concilio Vaticano II, contenuta nei suoi diversi documenti, soprattutto nella costituzione "Lumen Gentium" e nei Decreti "Presbyterorum Ordinis" e "Ad Gentes". Mi ricollego, altresi, all'Enciclica del mio predecessore Paolo VI "Sacerdotalis Caelibatus". Infine, intendo dare grande importanza al documento "De Sacerdotio ministeriali", che lo stesso Paolo VI approvo, quale frutto dei lavori del Sinodo dei Vescovi del 1971, poiché trovo in esso - sebbene quella sessione del Sinodo, che l'aveva elaborato, avesse carattere consultivo - una enunciazione di importanza essenziale per quanto riguarda l'aspetto specifico della vita e del ministero sacerdotale nel mondo contemporaneo.

Richiamandomi a tutte queste fonti, a voi note, desidero con la presente Lettera accennare soltanto ad alcuni punti, che mi sembrano di estrema importanza

in questo momento della storia della Chiesa e del mondo. Son parole, queste, a me dettate dall'amore per la Chiesa, la quale sarà in grado di adempiere la sua missione riguardo al mondo soltanto se - nonostante tutta la debolezza umana - manterrà la sua fedeltà a Cristo. So che mi rivolgo a coloro, ai quali soltanto l'amore di Cristo ha concesso, con una specifica vocazione, di donarsi al servizio della Chiesa e, nella Chiesa, al servizio dell'uomo, per la soluzione dei problemi più importanti, specialmente di quelli che riguardano la sua salvezza eterna.

Anche se all'inizio di queste mie considerazioni mi riferisco a molte fonti scritte e a documenti ufficiali, tuttavia intendo rifarmi soprattutto a quella sorgente viva ch'è il nostro comune amore verso Cristo e la sua Chiesa, amore che nasce dalla grazia della vocazione sacerdotale, amore che è il più grande dono dello Spirito Santo (cfr. Rm 5,5 1Co 12,31 1Co 13).

"Scelto fra gli uomini... costituito in favore degli uomini"


3. Il Concilio Vaticano II ha approfondito la concezione del sacerdozio, presentandolo, nell'insieme del suo magistero, come espressione delle forze interiori, di quei "dinamismi" per mezzo dei quali si configura la missione di tutto il Popolo di Dio nella Chiesa. Occorre qui riferirsi soprattutto alla costituzione "Lumen Gentium", rileggendo attentamente i relativi paragrafi. La missione del Popolo di Dio si attua mediante la partecipazione all'ufficio ed alla missione dello stesso Gesù Cristo, che - come è noto - ha una triplice dimensione: è missione e ufficio di Profeta, di Sacerdote e di Re. Analizzando con attenzione i testi conciliari, è chiaro che bisogna parlare di una triplice dimensione del servizio e della missione di Cristo, piuttosto che di tre funzioni diverse.

Difatti, queste sono fra di loro intimamente connesse, si spiegano reciprocamente, si condizionano reciprocamente e reciprocamente si illuminano. Di conseguenza, è da questa triplice unità che scaturisce la nostra partecipazione alla missione e all'ufficio di Cristo. Come cristiani, membri del Popolo di Dio e, successivamente, come Sacerdoti, partecipi dell'ordine gerarchico, prendiamo origine dall'insieme della missione e dell'ufficio del nostro Maestro che è Profeta, Sacerdote e Re, per rendergli una particolare testimonia nella Chiesa e dinanzi al mondo.

Il sacerdozio al quale partecipiamo mediante il sacramento dell'Ordine, che e stato per sempre "impresso" nelle nostre anime per mezzo di un segno particolare di Dio, cioè il "carattere", rimane in esplicita relazione col sacerdozio comune dei fedeli, cioè di tutti i battezzati e, in pari tempo, differisce da esso "essenzialmente, e non solo di grado" (LG 10). In tal modo, acquistano pieno significato le parole dell'autore della Lettera agli Ebrei sul sacerdote, il quale "scelto fra gli uomini, viene costituito in favore degli uomini" (He 5,11).

A questo punto, è meglio rileggere ancora una volta tutto questo classico testo conciliare, che esprime le verità fondamentali sul tema della nostra vocazione nella Chiesa: "Cristo Signore, Pontefice assunto di mezzo agli uomini (cfr. He 5,1-5), fece del nuovo popolo "un regno e sacerdoti per il Dio e Padre suo" (Ap 1,6 cfr. Ap 5,9-10). Infatti, per la rigenerazione e l'unzione dello Spirito Santo i battezzati vengono consacrati a formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo, per offrire, mediante tutte le opere del cristiano, spirituali sacrifici e far conoscere i prodigi di Colui, che dalle tenebre li chiamo all'ammirabile sua luce (cfr. 1P 2,4-10). Quindi, tutti i discepoli di Cristo, perseverando nella preghiera e lodando insieme Dio (cfr. Ac 2,42-47), offrano se stessi come vittima viva, santa, gradevole a Dio (cfr. Rm 12,1), rendano dappertutto testimonianza di Cristo e, a chi la richieda, rendano ragione della loro speranza della vita eterna (cfr. 1P 3,15). Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l'uno all'altro, poiché l'uno e l'altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell'unico sacerdozio di Cristo. Il sacerdote ministeriale, con la potestà sacra di cui è investito, forma e regge il popolo sacerdotale, compie il sacrificio eucaristico in persona di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo; i fedeli, in virtù del regale loro sacerdozio, concorrono all'oblazione dell'Eucaristia, e lo esercitano col ricevere i sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l'abnegazione e l'operosa carità" (LG 10).

Il sacerdote, dono di Cristo per la comunità


4. Dobbiamo considerare fino in fondo non soltanto il significato teorico, ma anche quello esistenziale della mutua "relazione", che sussiste fra sacerdozio gerarchico e sacerdozio comune dei fedeli, se essi differiscono fra loro non solo di grado ma di essenza, ciò è frutto di una particolare ricchezza dello stesso sacerdozio di Cristo, che è l'unico centro e l'unica fonte sia di quella partecipazione che è propria di tutti i battezzati, sia di quell'altra partecipazione, a cui si perviene per mezzo di un distinto sacramento, che è appunto il sacramento dell'Ordine. Questo sacramento, cari fratelli, per noi specifico, frutto della peculiare grazia della vocazione e base della nostra identità, in virtù della sua stessa natura e di tutto ciò che esso produce nella nostra vita e attività, serve a rendere consapevoli i fedeli del loro sacerdozio comune e ad attualizzarlo (cfr. Ep 4,11-12): esso ricorda loro che sono Popolo di Dio e li abilita all'"offerta di quei sacrifici spirituali" (cfr. 1P 2,5), mediante i quali Cristo stesso fa di noi eterno dono al Padre (cfr. 1P 3,18).

Questo avviene, innanzitutto, quando il sacerdote "con la potestà sacra, di cui è investito... compie il sacrificio eucaristico in persona di Cristo ("in persona Christi") e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo" (cfr. LG 10), come leggiamo nel menzionato testo conciliare.

Il nostro sacerdozio sacramentale, quindi, è sacerdozio "gerarchico" ed insieme "ministeriale". Costituisce un particolare "ministerium", cioè è "servizio" nei riguardi della comunità dei credenti. Non trae, pero, origine da questa comunità, come se fosse essa a "chiamare" o a "relegare". Esso è, invero, dono per questa comunità e proviene da Cristo stesso, dalla pienezza del suo sacerdozio. Tale pienezza trova la sua espressione nel fatto che Cristo, rendendo tutti idonei ad offrire il sacrificio spirituale, chiama alcuni e li abilita ad esser ministri del suo stesso sacrificio sacramentale, l'Eucaristia, alla cui oblazione concorrono tutti i fedeli e in cui vengono inseriti i sacrifici spirituali del Popolo di Dio.

Consapevoli di questa realtà, comprendiamo in che modo il nostro sacerdozio sia "gerarchico", cioè connesso con la potestà di formare e reggere il popolo sacerdotale (cfr. LG 10), e proprio per questo "ministeriale". Compiamo questo ufficio, mediante il quale Cristo stesso "serve" incessantemente il Padre nell'opera della nostra salvezza. Tutta la nostra esistenza sacerdotale è e deve essere profondamente pervasa da questo servizio, se vogliamo compiere adeguatamente il sacrificio eucaristico "in persona Christi".

Il sacerdozio richiede una particolare integrità di vita e di servizio, e appunto una tale integrità si addice sommamente alla nostra identità sacerdotale. In essa si esprime, in pari tempo, la grandezza della nostra dignità e la "disponibilità" ad essa proporzionata: si tratta dell'umile prontezza ad accettare i doni dello Spirito Santo e ad elargire agli altri i frutti dell'amore e della pace, a donare a loro quella certezza della fede, dalla quale derivano la profonda comprensione del senso dell'esistenza umana e la capacità di introdurre l'ordine morale nella vita degli individui e degli ambienti umani.

Poiché il sacerdozio è dato a noi per servire incessantemente gli altri, come faceva Cristo Signore, non si può ad esso rinunciare a causa delle difficoltà che incontriamo e dei sacrifici che ci sono richiesti. Allo stesso modo degli Apostoli, "noi abbiamo lasciato tutto per seguire Cristo" (cfr. Mt 19,27); dobbiamo, perciò, perseverare accanto a lui anche attraverso la croce.

A servizio del Buon Pastore

5. Mentre scrivo, si presentano davanti allo sguardo della mia anima i più estesi e svariati settori della vita degli uomini, a cui, cari fratelli, siete invitati come operai nella vigna del Signore (cfr. Mt 20,1-16). Ma per voi vale anche il paragone del gregge (cfr. Jn 10,1-16), dato che, grazie al carattere sacerdotale, partecipate al carisma pastorale, il che è segno di una peculiare relazione di somiglianza a Cristo, Buon Pastore. Voi siete precisamente insigniti di questa qualifica, in modo del tutto speciale. Benché la sollecitudine per la salvezza degli altri sia e debba essere compito di ciascun membro della grande comunità del Popolo di Dio, cioè anche di tutti i nostri fratelli e sorelle laici - come ha dichiarato così ampiamente il Concilio Vaticano II (LG 9-17) - tuttavia da voi Sacerdoti si attendono una sollecitudine ed un impegno ben maggiori e diversi da quelli di qualunque laico; e ciò perché la vostra partecipazione al sacerdozio di Gesù Cristo differisce dalla loro partecipazione "essenzialmente, e non solo di grado" (LG 10).

Difatti, il sacerdozio di Gesù Cristo è la prima sorgente e l'espressione di un'incessante e sempre efficace sollecitudine per la nostra salvezza, che ci permette di guardare a lui proprio come al Buon Pastore. Le parole "Il buon pastore offre la vita per le sue pecorelle" (Jn 10,11) non si riferiscono forse al sacrificio della croce, al definitivo atto del sacerdozio di Cristo? Non indicano forse a noi tutti, che Cristo Signore, mediante il sacramento dell'Ordine, ha reso partecipi del suo Sacerdozio, la via che anche noi dobbiamo percorrere? Queste parole non ci dicono forse che la nostra vocazione è una singolare sollecitudine per la salvezza del nostro prossimo? che questa sollecitudine è una particolare ragion d'essere della nostra vita sacerdotale? Che proprio essa le dà senso, e che solamente per mezzo di essa possiamo ritrovare il pieno significato della nostra propria vita, la nostra perfezione, la nostra santità? Questo tema viene ripreso, in vari luoghi, nel Decreto conciliare "Optatam Totius" (cfr. OT 8-11 OT 19ss).

Questo problema, tuttavia, diventa più comprensibile alla luce delle parole del nostro stesso Maestro, che dice: "Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà" (Mc 8,35). Sono, queste, parole misteriose, e sembrano un paradosso. Ma esse cessano di esser misteriose, se cerchiamo di metterle in pratica. Allora il paradosso scompare, e si rivela pienamente la profonda semplicità del loro significato. Sia concessa a noi tutti questa grazia nella nostra vita sacerdotale e nel nostro servizio pieno di zelo.

"Arte delle arti è la guida delle anime"

6. La particolare sollecitudine per la salvezza degli altri, per la verità, per l'amore e la santità di tutto il popolo di Dio, per l'unità spirituale della Chiesa, che ci è stata affidata da Cristo insieme alla potestà sacerdotale, si esplica in varie maniere. Diverse certamente sono le vie lungo le quali, cari fratelli, adempite la vostra vocazione sacerdotale. Gli uni nell'ordinaria pastorale parrocchiale; gli altri nelle terre di missione; altri, ancora, nel campo delle attività connesse con l'insegnamento, con l'istruzione e l'educazione della gioventù, lavorando nei vari ambienti e organizzazioni, e accompagnando lo sviluppo della vita sociale e culturale; altri, infine, accanto ai sofferenti, agli ammalati, agli abbandonati; alle volte, voi stessi, inchiodati a un letto di dolore. Diverse sono queste vie, ed è perfino impossibile nominarle tutte singolarmente. Necessariamente esse sono numerose e differenziate, perché varia è la struttura della vita umana, dei processi sociali, delle tradizioni storiche e del patrimonio delle diverse culture e civiltà. Nondimeno, in tutte queste differenziazioni, voi siete sempre e dappertutto portatori della vostra particolare vocazione: siete portatori della grazia di Cristo, eterno Sacerdote, e del carisma del buon Pastore. E questo non potete mai dimenticare; a questo non potete mai rinunciare; questo dovete in ogni tempo e in ogni luogo e in ogni modo attuare. In ciò consiste quell'"arte delle arti", alla quale Gesù Cristo vi ha chiamati. "Arte delle arti è la guida delle anime", scriveva San Gregorio Magno ("Regula pastoralis" I, 1: PL 77, 14).

Vi dico, dunque, rifacendomi il queste sue parole: sforzatevi di essere "artisti" della pastorale. Ce ne sono stati molti nella storia della Chiesa.

Occorre elencarli? A ciascuno di noi parlano, ad esempio, san Vincenzo de Paul, San Giovanni d'Avila, il santo Curato d'Ars, san Giovanni Bosco, il beato Massimiliano Kolbe, e tanti, tanti altri. Ognuno di loro era diverso dagli altri, era se stesso, era figlio dei suoi tempi ed era "aggiornato" rispetto ai suoi tempi. Ma questo "aggiornamento" di ciascuno era una risposta originale al Vangelo, una risposta necessaria proprio per quei tempi, era la risposta della santità e dello zelo. Non vi è altra regola al di fuori di questa per "aggiornarci", nella nostra vita e nell'attività sacerdotale, ai nostri tempi d all'attualità del mondo. Indubbiamente, non possono essere considerati come adeguato "aggiornamento" i vari tentativi e progetti di "laicizzazione" della vita sacerdotale.

Dispensatore e testimone

7. La vita sacerdotale è costruita sul fondamento del sacramento dell'Ordine, che imprime nella nostra anima il segno di un carattere indelebile. Questo segno, impresso nel profondo del nostro essere umano, ha la sua dinamica "personalistica". La personalità sacerdotale deve essere per gli altri un chiaro e limpido segno e un'indicazione. E', questa, la prima condizione del nostro servizio pastorale. Gli uomini, fra i quali siamo scelti e per i quali veniamo costituiti (cfr. He 5,1), vogliono soprattutto vedere in noi un tale segno e una tale indicazione, e ne hanno diritto. Può sembrarci talvolta che non lo vogliano, o che desiderino che siamo in tutto "come loro"; alle volte sembra addirittura che lo esigano da noi. E qui è proprio necessario un profondo "senso di fede" e "il dono del discernimento". Difatti, è molto facile lasciarsi guidare dalle apparenze e diventare vittime di una fondamentale illusione. Coloro che richiedono la laicizzazione della vita sacerdotale e che plaudono alle vane sue manifestazioni, ci abbandoneranno certamente, quando soccomberemo alla tentazione; ed allora cesseremo di essere necessari e popolari. La nostra epoca è caratterizzata da diverse forme di "manipolazione" e di "strumentalizzazione" dell'uomo, ma noi non possiamo cedere a nessuna di esse ("Non illudiamoci di servire il Vangelo se tentiamo di "diluire" il nostro carisma sacerdotale attraverso un esagerato interesse verso il vasto campo dei problemi temporali, se desideriamo "laicizzare" il nostro modo di vivere e di agire, se cancelliamo anche i segni esterni della nostra vocazione sacerdotale. Dobbiamo conservare il senso della nostra singolare vocazione, e tale "singolarità" deve esprimersi anche nella nostra veste esteriore. Non vergogniamocene! Si, siamo nel mondo! Ma non siamo del mondo!": Giovanni Paolo II, "Discorso al Clero di Roma", n. 3,9 novembre 1978). In definitiva, risulterà sempre necessario agli uomini soltanto il sacerdote ch'è consapevole del senso pieno del suo sacerdozio: il sacerdote che crede profondamente, che professa con coraggio la sua fede, che prega con fervore, che insegna con profonda convinzione, che serve, che attua nella sua vita il programma delle Beatitudini, che sa amare disinteressatamente, che è vicino a tutti e, in particolare, ai più bisognosi.

La nostra attività pastorale esige che stiamo vicini agli uomini e a tutti i loro problemi, sia quelli personali e familiari, che quelli sociali, ma esige pure che stiamo vicini a tutti questi problemi "da sacerdoti". Solo allora, nell'ambito di tutti quei problemi, rimaniamo noi stessi. Se quindi serviamo veramente quei problemi umani, alle volte molto difficili, allora conserviamo la nostra identità e siamo veramente fedeli alla nostra vocazione.

Dobbiamo cercare con grande perspicacia, insieme con tutti gli uomini, la verità e la giustizia, la cui vera e definitiva dimensione non possiamo trovare che nel Vangelo, anzi, in Cristo stesso. Il nostro compito è di servire la verità e la giustizia nelle dimensioni della "temporalità" umana, ma sempre in una prospettiva che sia quella della salvezza eterna. Questa tiene conto delle conquiste temporali dello spirito umano nell'ambito della conoscenza e della morale, come ha ricordato in modo mirabile il Concilio Vaticano II (cfr. GS 38-42), ma non si identifica con esse e, in realtà, le supera: "Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udi... queste ha preparato Dio per coloro che lo amano" (1Co 2,9). Gli uomini nostri fratelli nella fede e anche i non credenti attendono da noi che siamo sempre in grado di indicare loro questa prospettiva, che diventiamo testimoni autentici di essa, che siamo dispensatori della grazia, che siamo servitori della Parola di Dio. Attendono che siamo uomini di preghiera.

Ci sono in mezzo a noi anche coloro che hanno unito la loro vocazione sacerdotale, in modo speciale, con un'intensa vita di preghiera e di penitenza nella forma strettamente contemplativa dei rispettivi Ordini Religiosi. Ricordino essi che il loro ministero sacerdotale anche in questa forma è - in modo particolare - "ordinato" alla grande sollecitudine del buon Pastore, che è la sollecitudine per la salvezza di ogni uomo. E questo dobbiamo tutti ricordare: che a nessuno di noi è lecito meritare il nome di "mercenario", cioè di uno "al quale le pecore non appartengono", di uno "che vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; egli è un mercenario e non gli importa delle pecore" (Jn 10,12ss). La sollecitudine di ogni buon Pastore è che gli uomini "abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza" (Jn 10,10), affinché nessuno di loro vada perduto (cfr. Jn 17,12), ma abbia la vita eterna, facciamo si che questa sollecitudine penetri profondamente nelle nostre anime: cerchiamo di viverla. Che essa caratterizzi la nostra personalità, e stia alla base della nostra identità sacerdotale.


GPII 1979 Insegnamenti - Recita dell'Angelus - Città del Vaticano (Roma)