GPII 1980 Insegnamenti - Saluto ai fedeli - Santuario della Consolata (Torino)


Agli ospiti del Cottolengo - Torino

Titolo: Nella croce Dio ha capovolto il significato della sofferenza

Carissimi fratelli e sorelle in Cristo Gesù! E' con animo profondamente commosso che prendo al parola in questo luogo, sacro alla sofferenza umana. Quale sofferenza non ha qui una sua presenza? Tra queste mura, sorte dal cuore grande di san Giuseppe Benedetto Cottolengo, il dolore umano nei suoi mille volti e l'amore cristiano nelle sue multiformi espressioni si sono dati convegno, e da questo incontro è scaturita quella che la sapienza popolare ha definito come la "cittadella del miracolo". Io saluto con effusione di cuore tutti i suoi abitanti.

1. Il "Cottolengo" è un nome che suona ormai, in Italia e dappertutto, col valore di un'altissima testimonianza: quella del Vangelo vivo e vissuto fino alle estreme conseguenze. La parola di Cristo: "Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me" (Mt 25,40) fu accolta dal fondatore della "Piccola Casa" come un programma concreto e provocatore, sul quale impegnare la vita. Ciò che soprattutto dovette colpire il Cottolengo nelle parole di Cristo fu quell'accenno ai "fratelli più piccoli", cioè ai rifiutati da tutti. Solo chi tiene conto delle parole di san Paolo, che il Cottolengo volle come motto distintivo della propria opera: "Caritas Christi urget nos", può arrivare ad intuire qualcosa dei prodigi d'amore, umanamente inspiegabili, che si sono compiuti ed ogni giorno si compiono nel nascondimento umile e riservato della "Piccola Casa".

L'amore è la spiegazione di tutto. Un amore che si apre all'altro nella sua individualità irrepetibile e gli dice la parola decisiva: "Voglio che tu ci sia". Se non si comincia da questa accettazione dell'altro, comunque egli si presenti, in lui riconoscendo un'immagine vera, anche se offuscata, di Cristo, non si può dire di amare veramente. Il Cottolengo lo capi. Lo capirono il Cafasso, don Bosco, il Murialdo. Su questa lezione fondamentale si sono formati tutti i santi nella Chiesa.

Ogni amore autentico ripropone in certa misura la valutazione primigenia di Dio, ripetendo col Creatore, nei confronti di ogni individuo umano concreto, che la sua esistenza è "cosa molto buona" (Gn 1,31). Come non ricordare a questo riguardo, l'insistenza con cui san Paolo ritorna sulla dimensione universale della carità? Egli afferma di essersi reso schiavo di tutti (cfr. 1Co 9,19), di essersi fatto "tutto a tutti" (1Co 9,22), di sforzarsi di "piacere a tutti in tutto" (1Co 10,33); ed esorta: "finché ne abbiamo occasione, operiamo il bene verso tutti" (Ga 6,10).

Nessuna discriminazione, dunque. La parabola del "buon samaritano" è significativa: e il Cottolengo l'ha commentata con la sua vita. Da buon "manovale della provvidenza", come egli amava qualificarsi, non fece piani precostituiti ma cerco di corrispondere volta a volta a ciò che le circostanze "per caso" (cfr. Lc 10,31) gli proponevano. Ed il risultato è questa opera grandiosa, nella quale il commento evangelico, da lui avviato, continua ad arricchirsi di nuovi sviluppi grazie alla dedizione generosa di tante anime, che al suo esempio si sono ispirate ed ancor oggi si ispirano.


2. Ma la disponibilità totale alle esigenze dell'amore verso le sofferenze dell'uomo, che il Cottolengo attuo nella sua vita, non fu il frutto di un sentimentalismo vago. Essa aveva alla base un atteggiamento di povertà radicale, di pieno distacco cioè da sé e dalle proprie cose, che rendeva possibile un'apertura senza riserve alle interpellazioni della grazia di Dio ed a quelle della miseria umana. Qui sta il segreto di tutto.

Tale segreto il Cottolengo, non diversamente del resto dagli altri vostri santi torinesi, aveva imparato alla scuola di Cristo. Non è stato Gesù, infatti, a darci per primo l'esempio di una spoliazione estrema, lui che "da ricco che era si è fatto povero per noi, perché noi diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà" (cfr. 2Co 8,9)? Cristo ha spinto il dono di sé fino al vertice del sacrificio sulla croce (cfr. Ph 2,5ss) e ciò ha fatto "mentre noi eravamo ancora peccatori" (Rm 5,6). Sul Calvario ci è offerta una testimonianza assoluta di che cosa significhi "essere per" gli altri, in obbedienza amorosa alla volontà di Dio.

La carità del cristiano ha il modello sul quale costantemente misurarsi; li ha pure la sorgente a cui attingere l'energia necessaria per esprimersi con slancio sempre rinnovato. Davanti a Cristo che "non cerco di piacere a se stesso" (Rm 15,3), ma "diede se stesso per i nostri peccati" (Ga 1,4), il cristiano impara a "non cercare il proprio interesse, ma quello degli altri" (Ph 2,4), impara a distogliere lo sguardo da sé per volgerlo sull'altro. E giunge così, forse per la prima volta, a prendere piena coscienza dell'esistenza dell'altro con i suoi problemi, con le sue necessità, con la sua solitudine.

E' questa povertà interiore che ci libera da noi stessi e ci rende disponibili agli appelli che il prossimo ci dirige in ogni momento. Ecco: bisogna scendere a questa profondità per cogliere l'anima dell'azione caritativa di un don Bosco, di un Murialdo ed in particolare di san Giuseppe Benedetto Cottolengo. Solo se ci si pone in quest'ottica, si può capire la "logica" di quel suo abbandono totale alla provvidenza, che è divenuto proverbiale. Colui che si è distaccato da tutto, ha rinunciato anche a far calcoli sulle cose che ha o che non ha, quando si tratta di venire incontro alle necessità del prossimo. E' perfettamente libero, perché è totalmente povero. Ed è proprio in una simile povertà, nella quale sono caduti i limiti posti dalla "prudenza della carne", che la potenza di Dio può manifestarsi anche nella libera gratuità del miracolo.


3. Si narrano numerosi episodi prodigiosi nella vita del Cottolengo. Ma il grande miracolo, che da oltre un secolo e mezzo continua a prodursi in questa "casa" nella normalità della vita di ogni giorno, è quello di tanti esseri umani che scelgono di mettersi al fianco di fratelli e sorelle, sui quali la malattia ha posto il suo sigillo, e di dividere con loro la propria esistenza.

La sofferenza umana è un continente di cui nessuno di noi può dire di aver raggiunto i confini: percorrendo, tuttavia, i padiglioni di questa "Piccola Casa", se ne fa un'esplorazione più che sufficiente per avere un'idea delle sue proporzioni impressionanti. E al cuore si ripresenta la domanda: perché? Ascoltiamo ancora una volta, in questo ambiente tanto singolare, la risposta della fede: la vita dell'uomo storico, inquinata dal peccato, si svolge di fatto sotto il segno della croce di Cristo. Nella croce, Dio ha capovolto il significato della sofferenza: questa, che era frutto e testimonianza del peccato, è diventata, ora, partecipazione all'espiazione redentrice operata da Cristo. Come tale, essa porta quindi in sé, già fin d'ora, il preannuncio della vittoria definitiva sul peccato e sulle sue conseguenze, mediante la partecipazione alla risurrezione gloriosa del salvatore.

Pochi giorni fa abbiamo rivissuto, condotti per mano dalla liturgia, i momenti drammatici della passione e morte del Signore, ed abbiamo riascoltato l'alleluia trionfale della risurrezione. Ecco, il mistero pasquale contiene la parola definitiva sulla sofferenza umana: Gesù assume il dolore di ciascuno nel mistero della sua passione e lo trasforma in forza rigeneratrice per colui che soffre e per l'intera umanità, nella prospettiva del trionfo ultimo della risurrezione, quando "anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui" (1Th 4,14).


4. Nella luce del Cristo risorto, io mi rivolgo, pertanto, agli ammalati ospiti di questa casa e, in essi, a tutti coloro che hanno sulle spalle la croce pesante della sofferenza. Carissimi fratelli e sorelle, fatevi animo! Voi avete un compito altissimo da svolgere: siete chiamati a completare nella vostra carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa" (cfr. Col 1,24). Col vostro dolore voi potete corroborare le anime vacillanti, richiamare al retto cammino quelle traviate, ridare serenità e fiducia a quelle dubbiose ed angosciate. Le vostre sofferenze, se generosamente accettate ed offerte in unione con quelle del Crocifisso, possono recare un contributo di primo piano nella lotta per la vittoria del bene sulle forze del male, che in tanti modi insidiano l'umanità contemporanea.

In voi Cristo prolunga la sua passione redentrice. Con Lui, se volete, voi potete salvare il mondo! Una parola particolare desidero riservare anche ai religiosi ed alle religiose che, sulle orme del Cottolengo, vivono la loro consacrazione a Cristo nel dono totale di sé agli ammalati, raccolti qui ed altrove. Restate fedeli al carisma del vostro fondatore. Fatevi guidare, come lui, da una fede illuminata e profonda, che vi mantenga in costante contatto con colui, che in ogni sofferente vi tende la sua mano implorante. Cercate nella preghiera la sorgente di una carità che "tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta" (1Co 13,7). Ricordate la massima del Cottolengo: "La preghiera è il primo e più importante nostro lavoro", perché "la preghiera fa vivere la Piccola Casa". Quel che voi svolgete è certamente un servizio reso alla società, alla comunità civile, all'uomo in una parola; ma è anche, ed essenzialmente, una testimonianza della perenne vitalità del Vangelo, e di quella "fede che opera per mezzo della carità" (Ga 5,6). Se al vostro impegno dovesse venir a mancare questa dimensione soprannaturale, il "Cottolengo" cesserebbe di esistere.

Una parola di stima e di apprezzamento desidero rivolgere, altresi, al personale medico ed infermieristico, che svolge il suo lavoro delicato, con competenza e senso di responsabilità, nei diversi reparti della casa: continuate a prestare la vostra opera con spirito di dedizione e di carità fraterna, nella consapevolezza di rendere un servizio, che trascende i limiti della semplice professione ed attinge la dignità di una vera e propria missione.

Porgo un saluto particolare e una parola di incoraggiamento ai giovani, che vengono a prestare il loro servizio gratuito nelle corsie della "Piccola Casa". Carissimi, in un mondo in cui molti vostri coetanei si abbandonano alle suggestioni del consumismo facile, o inseguono i miraggi ingannevoli della moda del momento, o si fanno travolgere dal fascino tenebroso della violenza, voi gridate con la testimonianza silenziosa del vostro esempio che la vita è bella ed ha un valore solo se spesa responsabilmente a servizio dei fratelli, in atteggiamento di rispetto, di fiducia, di amore. E' un messaggio fondamentale.

Continuate a proclamarlo con coraggio oggi, domani, sempre. Dio è con voi.

Una parola di giusto riconoscimento, infine, ai cittadini di Torino, della cui generosità la Provvidenza si serve ormai da molti anni per compiere prodigi di bontà nei confronti di tanti fratelli provati. La "Piccola Casa" è un segno, particolarmente eloquente, della presenza amorosa di Dio nel tessuto della nostra storia umana. Torino è città oggi percorsa da drammatiche tensioni sociali e sconvolta da troppo frequenti esplosioni di violenza. Il fatto che in essa perduri questo "segno" di fratellanza cristiana è motivo che induce a non disperare del futuro: nonostante le nubi minacciose dell'odio, che oscurano l'orizzonte, alla fine l'amore ricondurrà sulle strade dell'intesa e della collaborazione rispettosa e concorde.

Con questo auspicio, ed invocando la materna assistenza di Maria santissima. che l'evangelista ci presenta ritta accanto alla croce del figlio (cfr. Jn 19,25), coraggiosamente solidale con la sua sofferenza per noi, io imparto a tutti voi, con singolare intensità d'affetto, la mia apostolica benedizione, propiziatrice di spirituale conforto e pegno delle eterne ricompense del Signore.

Data: 1980-04-13 Data estesa: Domenica 13 Aprile 1980.


Ai sacerdoti - Torino

Titolo: Piena e lieta consapevolezza della propria identità

Carissimi presbiteri dell'arcidiocesi torinese! "Grazia a voi e pace da Dio padre nostro e dal Signore Gesù Cristo!" (1Co 1,3). Vi saluto tutti indistintamente di cuore, ed in particolare abbraccio il vostro Arcivescovo cardinale Anastasio Ballestrero, che con voi e per voi spende le sue migliori energie di pastore a favore di questa illustre arcidiocesi.

Accogliendo il suo invito sono oggi tra voi! Vi assicuro che il mio saluto è connotato da un particolare senso di affetto e di emozione, oltre che da grande gioia. L'affetto proviene sia dalla comune, e pur diversificata, responsabilità pastorale che esercitiamo nella Chiesa di Dio, sia da quel senso di paternità che è proprio del successore di Pietro e che mi fa ripetere con la sua stessa sollecitudine: "Pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza ma volentieri secondo Dio" (1P 5,2).

Ma il mio saluto è anche venato da una particolare emozione. So, infatti, di trovarmi di fronte agli eredi di una straordinaria tradizione pastorale propria del clero torinese, il quale ha il privilegio di annoverare tra i suoi ranghi le figure fulgidissime di san Giuseppe Benedetto Cottolengo e di san Giovanni Bosco, oltre che di san Giuseppe Cafasso e del beato Sebastiano Valfré; ad essi andrebbero aggiunti tanti altri nomi di primo piano, sia di Torino che dell'intero Piemonte, che di quei grandi furono un felice ed efficace riflesso.

Quelle figure, infatti, proprio come avviene per la corona delle Alpi che cinge la vostra regione, sono soltanto le vette più alte di tutta una catena di monti, robusti e splendenti. Sempre, la generosità, l'abnegazione, l'instancabile cura pastorale sono state la caratteristica di intere generazioni di preti, sapientemente stimolate e guidate dai loro Vescovi, soprattutto dopo gli sbandamenti del medioevo di ferro e del rinascimento. A questa altissima tradizione pastorale, che è di primaria importanza per la vita della Chiesa non solo torinese ma anche di quella italiana, anzi universale, io voglio oggi qui rendere pubblicamente omaggio, ringraziando Dio per avere suscitato tali "uomini che hanno votato la loro vita al nome del nostro Signore Gesù Cristo" (Ac 15,26).

E' una tradizione che ha fatto del prete l'uomo di un apostolato intelligente e fecondo in tutti i campi della vita umana: tra i malati, la gioventù, i lavoratori, gli studenti, i carcerati e i condannati a morte. Oggi, poi, non mancano nuove possibilità di destinazione delle proprie energie apostoliche: vi sono purtroppo le famiglie in crisi, i drogati, i violenti, gli sbandati della malavita. Ecco dove si può esplicare in pienezza tutto il dinamismo della propria missione presbiterale, nella piena e lieta consapevolezza della propria "identità": manifestando l'amorosa sollecitudine di Cristo per tutti i fratelli, ovunque essi vivono e soffrono, soprattutto per i più indigenti, poiché "non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati" (Lc 5,31). Tentate, perciò, sempre nuove vie di approccio agli uomini e alle loro condizioni di vita: nella fedeltà integrale a tutto ciò che è essenziale al vostro presbiterato e, nello stesso tempo, con una grande elasticità pastorale, che vi renda sensibili e aperti alle più urgenti necessità dell'ora che viviamo.

Mi piace, inoltre, ricordare la nobile tradizione di studio e di cultura, che vi è propria. E' noto che già il celebre umanista Erasmo da Rotterdam ricevette nella università di Torino la laurea in teologia, nell'anno 150 5. Ma sono informato che, più recentemente, dopo la soppressione delle facoltà teologiche, sono fiorite varie iniziative accademiche, culminate sia nella nuova facoltà di teologia, quale sezione staccata di quella dell'Italia settentrionale, sia in altre qualificate scuole teologiche presenti in città, compreso anche l'istituto di pastorale. Ai benemeriti responsabili e docenti di queste istituzioni va l'espressione della mia stima e del mio incoraggiamento, che amo estendere anche agli studenti di teologia ed ai seminaristi tutti. Ricordo, infine, a me e a voi che, pur esercitando mansioni diverse, ci sono alcune proprietà fondamentali, che accomunano tutti coloro i quali condividono nella Chiesa il sacerdozio ministeriale. La prima è la partecipazione all'unico sacerdote, sommo ed eterno, che è Gesù Cristo; infatti, noi tutti "siamo santificati per mezzo dell'offerta del suo corpo, fatta una volta per tutte" (He 10,10), anche se sempre porteremo in noi il senso di indegnità per questa singolare chiamata che ci fa dei "poveri servitori" (Lc 17,10).

La seconda consiste nella peculiare responsabilità pastorale, che distingue il presbitero da quanti sono pur insigniti del comune sacerdozio battesimale, e gli riserva un compito specifico nella predicazione della parola, nella celebrazione dei sacramenti e nella guida sicura della comunità (cfr. 1Tm 4,14 2Tm 1,6). Mi piace, qui, sottolineare il ministero tipico di san Giuseppe Cafasso: quello del sacramento della penitenza, che egli esercito assiduamente anche nei confronti di san Giovanni Bosco, nel suo ministero fedele al servizio del popolo e soprattutto nelle carceri a vantaggio di numerosi reclusi. Si tratta di una "diaconia" sempre attuale e feconda, poiché dispensa con abbondanza la misericordia del Signore, quale essa si rivela nel mistero pasquale che celebriamo proprio in questi giorni: "misericordias Domini in aeternum cantabo" (Ps 88,2).

Il sacerdote è colui che in modo particolare ha provato in se stesso il mistero di quella misericordia per distribuirla il più largamente possibile agli altri.

La terza caratteristica, strettamente connessa con le precedenti, riguarda la nostra particolare conformazione a Cristo, così che il suo sacrificio ed il suo amore diventino anche la nostra norma di vita; ciascun fedele dovrebbe poter dire di ciascuno di noi ciò che ogni cristiano, con san Paolo, confessa a proposito di Gesù: "Mi ha amato e ha dato se stesso per me" (Ga 2,20), come pure la Sacra Sindone, qui custodita, opportunamente ci ricorda.

E infine, va tenuta presente una irrinunciabile componente ecclesiale, per cui ogni presbitero sa di dover convogliare la propria dedizione non al fine di lacerare, bensi di costruire "il corpo di Cristo, ben compaginato e connesso" (Ep 4,16), anche mediante una schietta carità vicendevole, che sia feconda di crescita comunitaria nello Spirito (cfr. Ep 2,22). In particolare, vi invito a coltivare sempre una stretta comunione con i vostri Vescovi, secondo il classico insegnamento di sant'Ignazio di Antiochia: "Infatti il vostro venerabile presbiterio, degno di Dio, e armonicamente unito al Vescovo come le corde alla cetra; ed è così che, dalla perfetta armonia dei vostri sentimenti e dalla vostra carità, s'innalza un concerto di lodi a Gesù Cristo" (S.Ignatii Antiocheni "Ad Eph.", IV).

E siate certi che il Papa condivide con voi le singolari fatiche di questo nostro tempo, connesse con la vicendevole riconciliazione, con l'insuccesso di alcuni tentativi pastorali che in passato portavano frutti, e con la situazione "missionaria" che state vivendo.

Su queste basi, diventa naturale e quasi ovvia la mia esortazione alla gioia: sia essa come quella dei settantadue discepoli al ritorno presso Gesù dopo la loro missione (cfr. Lc 10,17-20); se poi si accompagnerà a patimenti sofferti in favore della Chiesa (cfr. Col 1,24 2Co 12,10) allora sarà tanto più radicata e feconda. Una tale gioia "nessuno ve la potrà togliere" (Jn 16,22), specialmente perché essa germina dal continuo contatto con Cristo, che fa di noi gli uomini consacrati a rinnovare il suo sacrificio redentore, gli uomini dell'eucaristia, che deve trovare nella nostra vita la sua calda e irradiante centralità.

L'apostolica benedizione che di gran cuore vi concedo, scenda su di voi in pegno della necessaria grazia divina, mentre insieme ci disponiamo a concelebrare questa solenne liturgia domenicale.

Data: 1980-04-13 Data estesa: Domenica 13 Aprile 1980.


Omelia sul sagrato del duomo - Torino

Titolo: Rendiamo testimonianza della risurrezione di Cristo

1. "La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei" (Jn 20,9).

Con queste parole incomincia oggi la lettura del Vangelo secondo Giovanni.

"Erano chiuse le porte... per timore".

Già il mattino, agli apostoli riuniti nel cenacolo, giunse la notizia che la tomba, in cui era stato deposto Cristo, era vuota. La pietra, sigillata dall'autorità romana su richiesta del sinedrio, era stata ribaltata. Le guardie, che per iniziativa e ordine dello stesso dovevano vigilare presso la tomba, erano assenti.

Le donne, che di "buon mattino" si erano recate al sepolcro di Gesù, poterono senza difficoltà entrare nella tomba. In seguito, poterono fare lo stesso anche Pietro, da esse informato, e Giovanni insieme con lui. Pietro entro nel sepolcro; vide le bende ed il sudario, posto a parte, con cui era stato avvolto il corpo del maestro. Ambedue costatarono che la tomba era vuota ed abbandonata.

Credettero nella veracità delle parole, con le quali erano venute a loro le donne, soprattutto Maria di Magdala; tuttavia... non avevano ancora compreso la Scrittura, secondo cui egli doveva risuscitare dai morti (cfr. Jn 20,1ss).

Ritornarono dunque al cenacolo, aspettando l'ulteriore sviluppo degli avvenimenti. Se l'evangelista Giovanni, che ha partecipato attivamente in tutto ciò, scrive che "si trovavano" (nel cenacolo) mentre erano chiuse le porte per timore dei giudei, questo vuol dire che il timore, nel corso di quel giorno, fu in loro più forte degli altri sentimenti. Piuttosto non si aspettavano niente di buono dal fatto che la tomba era rimasta vuota; si aspettavano piuttosto nuove molestie, vessazioni da parte dei rappresentanti delle autorità ebraiche. Questo fu un semplice timore umano, proveniente dalla minaccia immediata. Tuttavia, in fondo a questa immediata paura-timore per se stessi, c'era un timore più profondo, causato dagli avvenimenti degli ultimi giorni. Questo timore, iniziato nella notte del giovedi, aveva toccato il suo culmine nel corso del Venerdi Santo, e, dopo la deposizione di Gesù, perdurava ancora, paralizzando tutte le iniziative.

Era il timore nato dalla morte di Cristo.

Infatti, una volta, interrogati da lui: "La gente chi dice che sia il Figlio dell'uomo?" (Mt 16,13), avevano riportato diverse voci e opinioni su Cristo: e poi interrogati direttamente: "Voi chi dite che io sia?" (Mt 16,15) avevano udito ed accettato in silenzio, come proprie, le parole di Simon Pietro: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente"(Mt 16,16).

Sulla croce, quindi, è morto il Figlio del Dio vivente.

Il timore, dal quale furono presi i cuori degli apostoli, aveva le sue radici più profonde in questa morte: fu il timore nato, per così dire, dalla morte di Dio.


2. Il timore travaglia anche la generazione contemporanea degli uomini. Essi lo provano in modo accentuato. Forse più profondamente lo risentono coloro, che sono più consapevoli della intera situazione dell'uomo e che nello stesso tempo hanno accettato la morte di Dio nel mondo umano.

Questo timore non si trova sulla superficie della vita umana. Sulla superficie viene compensato mediante i diversi mezzi della civiltà e della tecnica moderna, che permettono all'uomo di liberarsi dalla sua profondità, e di vivere nella dimensione dell'"homo oeconomicus" dell'"homo technicus" dell'"homo politicus" e, in un certo grado, anche nella dimensione dell'"homo ludens".

Infatti, contemporaneamente permane e cresce con una sufficiente motivazione la coscienza di un progresso accelerato dell'uomo nella sfera del suo dominio sul mondo visibile e sulla natura.

L'uomo, nella sua dimensione planetaria, non fu mai tanto consapevole di tutte le forze, che è capace di utilizzare e di destinare al proprio servizio e mai si è servito di esse in tale misura. Da questo punto di vista ed in questa dimensione, la convinzione circa il progresso dell'umanità è pienamente giustificata.

Nei paesi e negli ambienti di più grande progresso tecnico e di più grande benessere materiale, di pari passo con questa convinzione cammina un atteggiamento che si è soliti chiamare "consumistico". Esso, tuttavia, testimonia che la convinzione sul progresso dell'uomo è soltanto in parte giustificata. Anzi, esso testimonia che tale orientamento del progresso può uccidere nell'uomo quel che è più profondamente e più essenzialmente umano.

Se fosse qui presente madre Teresa di Calcutta - una di quelle donne che non hanno paura di scendere, seguendo Cristo, a tutte le dimensioni dell'umanità, a tutte le situazioni dell'uomo nel mondo contemporaneo - essa ci direbbe che sulle vie di Calcutta e di altre città del mondo gli uomini muoiono di fame...

L'atteggiamento consumistico non prende in considerazione tutta la verità sull'uomo - né la verità storica, né quella sociale, né quella interiore e metafisica. Piuttosto, è una fuga da questa verità. Non prende in considerazione tutta la verità sull'uomo. L'uomo è creato per la felicità. Si! Ma la felicità dell'uomo non si identifica affatto con il godere! L'uomo orientato "consumisticamente" perde, in questo godimento, la dimensione piena della sua umanità, perde la coscienza del senso più profondo della vita. Tale orientamento del progresso uccide, quindi, nell'uomo ciò che è più profondamente e più essenzialmente umano.


3. Ma l'uomo rifugge dalla morte.

L'uomo ha paura della morte.

L'uomo si difende dalla morte.

E la società cerca di difenderlo dalla morte.

Il progresso, che con tanta difficoltà, con lo spreco di tante energie e con tante spese è stato costruito dalle generazioni umane, contiene tuttavia nella sua complessità un potente coefficiente di morte. Nasconde in sé addirittura un gigantesco potenziale di morte. E' necessario comprovare ciò nella società, che è consapevole di quali possibilità di distruzione si trovano nei contemporanei arsenali militari e nucleari? Quindi, l'uomo contemporaneo ha paura. Hanno paura le superpotenze che dispongono di quegli arsenali - ed hanno paura gli altri: i continenti, le nazioni, le città...

Questa paura è giustificata. Non solo esistono possibilità di distruzione e di uccisione prima sconosciute, ma già oggi gli uomini uccidono abbondantemente altri uomini! Uccidono nelle abitazioni, negli uffici, nelle università. Gli uomini armati delle moderne armi uccidono uomini indifesi e innocenti. Incidenti del genere succedevano sempre, ma oggi questo è diventato un sistema. Se gli uomini affermano che bisogna ammazzare altri uomini al fine di cambiare e migliorare l'uomo e la società, allora dobbiamo domandare se, insieme con questo gigantesco progresso materiale, a cui partecipa la nostra epoca, non siamo arrivati contemporaneamente a cancellare proprio l'uomo, un valore tanto fondamentale ed elementare! Non siamo arrivati già alla negazione di quel principio fondamentale ed elementare che l'antico pensatore cristiano ha espresso con la frase: "Bisogna che l'uomo viva"? (S.Irenaeus).

Così, dunque, un timore giustificato travaglia la generazione degli uomini contemporanei. Questo orientamento di un progresso gigantesco, che è diventato l'esponente della nostra civiltà, non diventerà l'inizio della morte gigantesca e programmata dell'uomo? Quei terribili campi della morte, di cui ancora portano le tracce sul proprio corpo alcuni dei nostri contemporanei, non sono, nel nostro secolo, anche un preannunzio e una anticipazione di ciò? 4. Gli apostoli riuniti nel cenacolo di Gerusalemme sono stati presi dalla paura: "Mentre erano chiuse le porte... per timore". Era morto sulla croce il Figlio di Dio.

Il timore, che travaglia gli uomini moderni, non è forse nato anch'esso, nella sua radice più profonda dalla "morte di Dio"? Non da quella sulla croce, che è diventata l'inizio della risurrezione e la fonte della glorificazione del Figlio di Dio e contemporaneamente il fondamento della speranza umana e il segno della salvezza, non da quella.

Ma dalla morte, con la quale l'uomo fa morire Dio in se stesso, e particolarmente nel corso delle ultime tappe della sua storia, nel suo pensiero nella sua coscienza, nel suo operare. Questo è come un denominatore comune di molte iniziative del pensiero e della volontà umana. L'uomo toglie a Dio se stesso e il mondo. E chiama ciò "liberazione dall'alienazione religiosa". L'uomo sottrae a Dio se stesso e il mondo pensando che soltanto in questo modo potrà entrare nel loro pieno possesso, diventando il padrone del mondo e del suo proprio essere.

Quindi, l'uomo "fa morire" Dio in se stesso e negli altri. A ciò servono interi sistemi filosofici, programmi sociali, economici e politici. Viviamo, perciò, nell'epoca di un gigantesco progresso materiale, che è anche l'epoca di una negazione di Dio prima sconosciuta.

Tale e l'immagine della nostra civiltà.

Ma perché l'uomo ha paura? Forse addirittura perché, in conseguenza di questa sua negazione, in ultima analisi, rimane solo: metafisicamente solo... interiormente solo.

O forse?... forse proprio perché l'uomo, che fa morire Dio, non troverà neanche un freno decisivo per non ammazzare l'uomo. Questo freno decisivo è in Dio. L'ultima ragione perché l'uomo viva, rispetti e protegga la vita dell'uomo, è in Dio. E l'ultimo fondamento del valore e della dignità dell'uomo, del senso della sua vita, è il fatto che egli è immagine e somiglianza di Dio! 5. La sera di quello stesso giorno, il giorno dopo il sabato, essendo gli apostoli dietro le porte chiuse "per timore dei giudei", venne a loro Gesù. Entro, si fermo in mezzo a loro e disse: "Pace a voi" (Jn 20,19).

Allora egli vive! La tomba vuota non significava niente altro, se non che egli era risorto, come aveva predetto. Vive, ed ecco viene a loro, nello stesso luogo che aveva lasciato insieme con loro la sera del giovedi dopo la cena pasquale. Vive, nel suo proprio corpo. Infatti, dopo averli salutati, "mostro loro le mani e il costato" (Jn 20,20) Perché? Certamente perché vi erano rimasti i segni della crocifissione. E' quindi lo stesso Cristo che fu crocifisso e mori sulla croce, e adesso vive. E' Cristo risorto. La mattina dello stesso giorno non si è lasciato trattenere da Maddalena; e adesso "mostra loro - agli apostoli - le mani e il costato".

"E i discepoli gioivano al vedere il Signore" (Jn 20,20). Gioivano! Questa parola è semplice e insieme profonda. Non parla direttamente della profondità e della potenza della gioia, di cui i testimoni del Risorto sono diventati partecipi - ma ci permette di intuire. Se il loro timore aveva le radici più profonde nel fatto della morte del Figlio di Dio, allora la gioia dell'incontro con il Risorto doveva essere sulla misura di quel timore. Doveva essere più grande del timore. Questa gioia era tanto più grande, in quanto, umanamente, era più difficile da accettare. E quanto fosse difficile, lo testimonia il comportamento successivo di Tommaso, il quale "non era con loro quando venne Gesù" (Jn 20,24).

E' arduo descrivere questa gioia. Ed è arduo misurarla col metro della psicologia umana. Essa è semplice, di tutta la semplicità del Vangelo, e, contemporaneamente, è profonda di tutta la sua profondità. E la profondità del Vangelo è tale che in esso si contiene completamente l'uomo intero. Si contiene in esso sovrabbondantemente: con tutta la sua volontà, con tutta l'aspirazione del suo spirito e con tutti i desideri del suo "cuore". Si contiene anche con tutta la profondità di quel suo timore, che nasce dalla "morte di Dio", e che nasce anche nella prospettiva della "morte dell'uomo".

Proprio questi tempi, in cui viviamo - tempi in cui si è operata la prospettiva della "morte dell'uomo" nata dalla "morte di Dio" nel pensare umano, nella umana coscienza, nell'agire umano - proprio questi tempi esigono, in modo particolare, la verità sulla risurrezione del Crocifisso. Esigono pure la testimonianza della risurrezione, che sia eloquente come non mai prima.

Non invano, il Vaticano II ha richiamato l'attenzione di tutta la Chiesa verso il "mysterium paschale".


6. Viviamo quindi, oggi, questo mistero con tutta la Chiesa che è qui a Torino.

Rendiamo testimonianza alla risurrezione di Cristo dinanzi a questa città e alla società. Tutta Torino diventi un cenacolo di quest'incontro con il Risorto, al quale ci conduce oggi la santa liturgia.

Ci sono di ciò ricche ragioni storiche, che risalgono a tempi antichi.

Ma, anzitutto, tali ragioni si trovano nella storia recente della nostra città e della vostra Chiesa! Il mistero pasquale ha trovato qui alcuni suoi splendidi testimoni e apostoli, in particolare tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo.

Non poteva, del resto, essere diversamente nella città che custodisce una reliquia insolita e misteriosa come la sacra Sindone, singolarissimo testimone - se accettiamo gli argomenti di tanti scienziati - della Pasqua: della passione, della morte e della risurrezione. Testimone muto, ma nello stesso tempo sorprendentemente eloquente! Di conseguenza, in tutti quegli uomini che hanno lasciato qui, a Torino, una traccia e una semente, così meravigliose della santità: don Bosco, il Cottolengo, il Cafasso, in questi uomini, ripeto, non ha forse operato qui Cristo Crocifisso e Risorto? Ma qualcuno dirà: questa è storia di ieri. L'oggi è differente, radicalmente differente. L'"oggi" calpesta "ieri". Non c'è più la Torino dei santi, ma la Torino della grande industria e della grande secolarizzazione, la Torino di una quotidiana lotta di classe e di un'incessante violenza. I santi appartengono al passato, non bastano per i tempi odierni, dirà qualcuno.

Ma Cristo c'è. Ed egli basta per ogni tempo: "Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre!" (He 13,8). Ancora di più. Ascoltiamo l'Apocalisse di Giovanni apostolo. Egli rende una particolare testimonianza a questo Cristo di ieri, di oggi e di domani: "Appena lo vidi caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la destra mi disse: "Non temere! Io sono il Primo e l'Ultimo e il Vivente. Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi"" (Ap 1,17-18).

Potere sopra la morte... Si. L'unica chiave contro la "morte dell'uomo" la possiede lui: il Figlio del Dio vivente. Lui, il testimone del Dio vivente: "Il Primo e l'Ultimo e il Vivente".

Questo è stato detto a noi uomini dell'epoca di un gigantesco progresso e dell'epoca di una paura che cresce insieme ai successi umani e alle sue minacce.

Questo è stato detto per noi.


7. E forse sono oggi più numerosi fra di noi i non credenti che i credenti? Forse è morta la fede ed è stata coperta da uno strato di quotidianità laica, o addirittura di negazione e di disprezzo...

Nell'odierno avvenimento evangelico e liturgico vi è anche un apostolo incredulo e ostinato nella sua non-fede: "Se non vedo... non credero" (Jn 20,25).

Cristo dice: "Guarda... verifica..., e non essere più incredulo..." (Jn 20,27). O forse sotto la non-fede vi è addirittura il peccato, il peccato inveterato che gli uomini evoluti non vogliono chiamare per nome, affinché l'uomo non lo chiami così e non ne cerchi la remissione. Cristo dice: "Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi" (Jn 20,22-23). L'uomo può chiamare il peccato per nome, non è costretto a falsificarlo in se stesso, perché la Chiesa ha ricevuto da Cristo il potere e la potenza sul peccato per il bene delle coscienze umane.

Anche questi sono particolari essenziali dell'odierno messaggio pasquale.

La Chiesa intera annunzia oggi a tutti gli uomini la gioia pasquale nella quale risuona la vittoria sul timore dell'uomo. Sul timore delle coscienze umane nato dal peccato. Sul timore di tutta l'esistenza, nato dalla "morte di Dio" nell'uomo, nella quale si aprono le prospettive di una molteplice "morte dell'uomo".

E' questa la gioia degli apostoli congregati nel cenacolo di Gerusalemme. E' la gioia pasquale della Chiesa, che in questo cenacolo ha il suo inizio. Essa ha il suo inizio nella tomba deserta sotto il Golgota e nei cuori di quegli uomini semplici, che "la sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato" vedono il Risorto e sentono dalla sua bocca il saluto: "Pace a voi!" Che questa gioia più potente di ogni timore dell'uomo venga partecipata da questa Chiesa e da questa città. "Augusta Taurinorum", verso la quale è stato dato di fare pellegrinaggio a me, indegno successore di Pietro.

Amen. Data: 1980-04-13 Data estesa: Domenica 13 Aprile 1980.



GPII 1980 Insegnamenti - Saluto ai fedeli - Santuario della Consolata (Torino)